Il Sudest asiatico perde la strada per la democrazia
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Il Sudest asiatico perde la strada per la democrazia
Mondo Il Sole 24 Ore Martedì 26 Maggio 2015 - N. 143 La guerra all’Isis. Le milizie sciite preparano la controffensiva per Ramadi - Critiche anche alla strategia americana nell’area Gli Usa accusano i soldati iracheni Il capo del Pentagono: «Mancano della volontà di combattere» - La replica di Baghdad di Alberto Negri T ra polemiche roventi negli Stati Uniti e tra alleati, il Medio Oriente si disintegra insiemeaequilibristoricicheduravano dalla fine della seconda guerra mondiale, le cui celebrazioni per il 70° anniversario sono passate senza che nessuno si ricordasse né della Conferenza di Teheran del ’43, né del coinvolgimento di Iraq e Iran nellabattagliacontroilTerzoReich che portò gli americani, che volevano il ritiro delle truppe sovietiche dal territorio iraniano, all’annuncio della dottrina Truman e all’inzio della Guerra Fredda. Ma è non soltanto la memoria storica che fa difetto ai leader occidentali. Il tutto è accompagnato da pauroseamnesiesulpassatorecente, dall’incertezza dilagante sul da farsi in vista di una riunione del 2 giugnoaParigisuIraqeSiriacheper la sua vacuità rischia di far rimpiangere persino le disgraziate spartizioni coloniali degli anni Venti del secolo scorso, all'indomani del crollo dell’Impero Ottomano. Negli Stati Uniti si dimenticano persino quello che hanno fatto in Iraq con l’invasione del 2003. «L’esercito iracheno manca della volontà di combattere», ha accusato il ministro della Difesa americano Ash Carter; «è informato male», ha re- Tunisia Strage di un soldato in caserma: otto morti pMomenti di panico e di tensione ieri a Tunisi, scossa da una strage proprio a pochi passi dal Parlamento e dal museo del Bardo, in cui il 18 marzo scorso durante un attacco terroristico morirono venti turisti stranieri, di cui quattro italiani. Questa volta però non si tratta di un attentato ma di un gesto di follia dovuto - secondo quanto sostengono le autorità - a problemi psichici. Nella base militare di Bouchoucha un caporale in congedo, a cui non era consentito portare armi, ne ha sottratto una a un commilitone e ha aperto il fuoco sui soldati durante la cerimonia dell’alzabandiera. Il bilancio della sparatoria è di sette militari uccisi, tra cui un colonnello e dieci i feriti, uno di loro in condizioni gravissime. Mehdi Alijmei, 30 anni, questo il nome dell’autore della strage è stato poi ucciso da un tiro di risposta. La base militare Bouchoucha è sede della Brigata antiterrorismo e della direzione generale delle unità di pronto intervento. Non sono ancora chiare le cause che hanno portato il caporale, originario di Bir Zitoun (Tebourba) a compiere la strage anche se il portavoce del ministero della Difesa, Belhassen Oueslati sottolinea che l’uomo aveva problemi psichici. Parlando in una conferenza stampa, Oueslati ha rivelato che Alijmei aveva difficoltà familiari e per i suoi disturbi gli era stato sottratto il porto d’armi e trasferito in un posto “non sensibile”. I suoi commilitoni inoltre avevano mostrato segni psichici peggiorativi negli ultimi mesi. Si tratta di un caso isolato, ha assicurato il portavoce del ministero, aggiungendo che le autorità tunisine stanno facendo il possibile per approfondire le vere ragioni alla base del gesto compiuto dal militare. Oueslati ha ribadito di escludere la pista dell’attacco terroristico. Dopo l’attentato al Bardo del marzo scorso le forze di sicurezza della Tunisia sono in massima allerta. La settimana scorsa la polizia italiana ha arrestato un tunisino di 22 anni accusato dalle autorità di Tunisi di aver preso parte all’attacco. Il ragazzo, Abdel Majid Touil, si è sempre dichiarato innocente. © RIRODUZIONE RISERVATA plicato il premier iracheno Haider Abadi il quale ha assicurato che le forze di Baghdad riprenderanno presto Ramadi. Ma non si capisce come, se non le milizie sciite e i Pasdaran iraniani che con il generale QassemSoleimani,capodelleforze speciali Al Qods, si aggiunge al coro delle polemiche: «Qui c’è rimasto soltanto l’Iran a lottare sul terreno contro lo Stato Islamico», verità un IL PRECEDENTE Nel 2003 furono proprio gli Stati Uniti, dopo la caduta di Saddam, a sciogliere le forze armate irachene, unico simbolo di unità po’ parziale, che esclude i curdi e lascia ancora una volta ai margini i sunniti, ma che risponde alla realtà. Chi racconta adesso a Washington che nel 2003 furono proprio gli Stati Uniti, dopo la caduta del raìs, a sciogliere le forze armate irachene, l’unico simbolo rimasto di unità del Paese? L’Iraq fu lasciato in mano agli sciiti mentre la minoranza sunnita covava malcontento e sentimentidirevanchecheprimahaaffidato ad Al Qaeda e poi al Califfato. Forse ha ragione il repubblicano John McCain quando accusa Oba- ma di non avere una strategia, raccomandando di inviare truppe sul terreno. Ma qual è stata finora la strategia dei repubblicani? Ostacolare in ogni modo, fino all’esasperazione, un accordo tra Teheran e il presidente americano per cambiare la politica mediorientale e combattere efficacemente il Califfato. Cosa ci aspetta allora? Probabilmente non avremo mai più la stessa Siria, lo stesso Iraq, una penisola arabica e un Nordafrica come vengono ancora rappresentati su una carta geografica scaduta da un pezzo, ingiallita dalle guerre, dall’avanzata dello Stato Islamico in Mesopotamia, dai conflitti in Yemen e in Libia. Mentre da una parte l’Isis ha dimostrato in Iraq e in Siria di avere risorseecapacitàinatteseel’Arabia Saudita è sempre più coinvolta nel tentativodischiacciarelaribellione yemenitadegliHouthisciiti,dall’altra l’Iran scalpita per mettere le truppe a terra in Iraq. Questifatticidiconoduecose.La prima che nella grave destabilizzazione del Medio Oriente, Riad e Teheran occupano il ruolo dei protagonisti.Lasecondachequestidue Stati si fronteggiano, sia pure indirettamente, per fare prevalere la propria parte anche a costo di rompere definitivamente un equilibrio storico. Una sfida che vede la contrapposizione tra l’Islam sunnita e AFP Tikrit. Combattente iracheno appartenente alle milizie sciite. LA POLEMICA Le critiche americane Il segretario alla Difesa americano Ash Carter è stato molto critico nei confronti dell’esercito iracheno al quale, secondo lui, mancherebbe «la volontà di combattere». Negli ultimi giorni l’Isis ha messo a segno importanti avanzate sul territorio iracheno e anche in quello siriano e ora si appresta a muovere verso Damasco. Sotto accusa anche la strategia americana nell’area. l’Islamsciita:sesivuolequestaèuna semplificazione ma descrive a grandilineequellochestaaccadendo sullo scacchiere più ricco di conflitti e di petrolio del mondo. Ma petrolio e religione non spiegano tutto. Iran e Arabia Saudita non sono i soli da avere l’ambizione di rifare la mappa del Medio Oriente. Forse anche gli stessi strateghi americani si stanno arrendendo all’idea di costituire un nuovo stato sunnita in Mesopotamia con pezzi di Siria e Iraq per soddisfare il desiderio di rivincita di Riad, per placare i suoi timori rivolti al contentimento dell’Iran ma anche per venire incontro alle ambizioni della Turchia di Erdogan, bastione della Nato, che vorrebbe estendere la sua influenza sulla provincia industrialediAleppoesuicurdi.L’America di Obama, non troppo diversamente da quella dei repubblicani, non si vuole sbilanciare: non intende compromettere le vecchie alleanze con la dinastia degli Al Saud, potenza finanziaria e ricco mercato di export di armi, e allo stempo persegue un accordo con Teheran sul nucleare. È in questa incapacità disceglierecheilCaliffatosiconsolida: presto forse dovremo chiamarloconunaltronome,piùadatto ai sensibili palati delle democrazie occidentali. © RIPRODUZIONE RISERVATA 9 Promesse tradite. Golpe e dissidenti in carcere Il Sudest asiatico perde la strada per la democrazia di Gianluca Di Donfrancesco C olpi di Stato, dissidenti in carcere, Costituzioni cucite a misura delle oligarchie militari: i Paesi del Sudest asiatico stanno smarrendo la strada verso la democrazia. La stessa Indonesia, a volte indicata come un modello nella regione, un mese fa ha mostrato un volto impietoso, mandando a morte per fucilazioneottopersonepertrafficodistupefacenti. Un’involuzione alimentata da molteplici fattori, alcuni interni, altri esogeni, come la minore propensione degli Stati Uniti alle “ingerenze” e l’esempio offerto dalla Cina, dove autoritarismo e crescita economica vanno a braccetto. Eppure tra gli anni 90 del 900 e la prima decade del secolo in corso, il Sudest asiatico aveva avviato un processo di apertura così promettente da essere considerato una delle tappe più brillanti del cammino della democrazia. La fine della Guerra Fredda, l’integrazione di Paesi comunisti come Laos, Cambogia e Vietnam nell’Asean, la democratizzazione di Taiwan e Corea del Sud, erano elementi di una spinta che sarebbe arrivata a contagiare perfino il Myanmar, uno dei regimi più oppressivi del mondo, con la transizione avviata dalla giunta militare. Il presidente Thein Sein, l’ex generale che nel 2011 si è messo alla guida del cambiamento, sembrava aver tratto ispirazione proprio da vicini come Indonesia, Thailandia e Filippine, premiati da robusti tassi di crescita dopo aver adottato sistemi più liberali. Al domino non sembravano immuni nemmeno baluardi dell’autoritarismo quali Singapore e Malesia, come ricorda il direttore del Foreign Policy’s Democracy Lab, Christian Caryl. Nelle elezioni del 2011, il partito a lungo al potere a Singapore aveva incassato il peggior risultato in 50 anni, pur conservando il controllo del Parlamento. In Malesia, l’ascesa dell’opposizione guidata da Anwar Ibrahim sembrava preludere alla possibilità di un’alternanza di governo, a scapito della vecchia guardia in sella dall’indipendenza. La quale, però, nelle contestate elezioni del 2013 è riuscita a mantenere il controllo del Parlamento e da allora ha avallato una severa repressione del dissenso, con decine di arresti tra le fila delle opposizioni. Ne ha fatto le spese lo stesso Anwar, imprigionato per sodomia. E sua figlia , rea di aver denunciato il trattamento subito dal padre. Il governo si difende sottolineando che la Malesia è «un Paese libero e democratico e che le sue leggi, valgono per tutti, anche per il leader dell’opposizione». Più grave la situazione in Thailandia, alle prese con l’ennesimo capitolo della faida tra l’élite militare-monarchica e la famiglia Shinawatra. La giunta che ha preso il potere lo scorso anno non ha intenzione di andare a nuove elezioni prima di aver reso innocuo ogni possibile epigono del tycoonThaksinShinawatraedellasorella Yingluck, entrambi rovesciati da colpi di Stato e messi sotto processo. Nella Costituzione che il regime si prepara a varare (sarà la ventesima dal 1932), troverà posto un comitato etico che potrà far decadere i parlamentari «immorali». Lo scopo dichiarato dellaCartaèporrefinealla«ditta- Traffico di esseri umani tura parlamentare». Il riflusso lambisce ormai lo stesso Myanmar. In autunno, il Paese andrà al voto per la prima volta da quando la transizione è cominciata. Ma l’icona della lotta per la democrazia, Aung San Suu Kyi, non potrà correre per la presidenza perché i suoi figli non sono di nazionalità birmana, i militari si sono garantiti un quarto dei seggi in Parlamento e potere di veto su ogni modifica della Costituzione, le tensioni etniche tra la maggioranza buddhista e la minoranza musulmana rohingya hanno acceso rigurgiti nazionalisti cavalcati dall’esercito. «Il processo di democratizzazione - spiega Filippo Fasulo, ricercatore Ispi - si è bloccato negli ultimianni.Setrail1990eil2009il grado di libertà di questi Paesi era molto migliorato, ora c’è una marcia indietro». Venti anni fa, le Filippine spiccavano come unica nazione semilibera in una regio- SVOLTE AUTORITARIE La Thailandia prepara una Costituzione contro la «dittatura del Parlamento» Malesia: leader dell’opposizione in prigione per sodomia nediStatinonliberi,secondoFreedom House. Nel 2009, l’organizzazione riconosceva la patente di Paese libero all’Indonesia e semilibero a Thailandia, Malesia, Filippine e Singapore. Oggi, nessuno Stato supera a pieni voti l’esame e sono giudicati non liberi tutti i Paesi dell’area, eccetto Indonesia, Malesia e Filippine, semiliberi. «Uno dei problemi - aggiunge Fasulo - è stata la promessa mancata della democrazia. Partiti e leader emersi dalle autocrazie hanno ridotto il processo democratico a mero meccanismo di raccolta voti, promettendo un benessere per tutti che non è arrivato». Emblematica la parabola di Thaksin Shinawatra in Thailandia. Il tycoon ha raccolto consensi e governato nel segno del populismo e le opposizioni, costantemente sconfitte nelle elezioni, hanno reagito con proteste di piazza, fino a invocare a più ripreseilritornodeimilitari,unaferita al modello democratico che richiederà anni per rimarginarsi. In Indonesia, l’era post-Suharto scrive Kurlantzick - si è associata alla proliferazione della burocrazia e delle clientele. Pur restando una delle poche eccezioni all’ondata di riflusso, Jakarta rischia oggi di avvitarsi in una crisi politica che ha già eroso il consenso del neo-presidente Joko Widodo, un outsider rispetto all’establishment tradizionalista, spingendolo ad abbracciare posizioni populistiche e nazionalistiche, lontane dalle credenziali liberal che gli venivano riconosciute prima dell’elezione, meno di un anno fa. Su tutto questo, sottolinea Fasulo, si è innestato il comportamento dell’Occidente, Stati Uniti in testa, che ha continuato a fare affari anche con governi autoritari, legittimandoli. Dall’altro lato, la Cina è riuscita «a proporre come efficace il proprio sistema di governance». Un esempio rafforzato dall’esperienza del Vietnam, dove il Partito unico domina incontrastato. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA REUTERS Malesia, migranti in fosse comuni Le autorità della Malesia hanno trovato 139 tombe, alcune delle quali contengono più di un cadavere, in una trentina di campi usati per il traffico di esseri umani attraverso il confine con la Thailandia. Nella zona nelle ultime settimane si sono scoperte decine di fosse comuni con resti di migranti bengalesi e birmani. Nella foto un migrante dal Bangladesh.