1 Classificato - Comune di Lagosanto

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1 Classificato - Comune di Lagosanto
CHE POTEVO FARE?
Di Angela Incutto da Montalto Uffugo (Cosenza)
Forse a vent’anni la vita è ancora un germoglio che sta pian piano crescendo. Forse a vent’anni la
vita ti sembra scontata. Forse a vent’anni la vita la prendi come viene, senza pensare a quel che
sarà. La tua vita è fatta di serate con gli amici e giochi che ti fanno sentire grande. A vent’anni non
lo capisci fino in fondo che significa vivere. Ché tutto ti è dovuto, tutto è normale. Finché una notte
ti trovi sull’asfalto gelido di una strada di città. Con gli occhi chiusi, il respiro affannoso, il battito
del cuore che si fa sempre più lento. E forse nemmeno allora capisci davvero. Forse tutto ti sembra
come un sogno dal quale ti sveglierai al mattino al suono insistente di una sveglia sgangherata che
non lo sa quanto possa essere fastidiosa quando interrompe un bel sogno.
Come lei, lì a pochi passi da me. Vorrebbe sentirlo, sì, quel suono della sveglia. Ché significherebbe
l’alba di un nuovo giorno. Un giorno che inizia. Un altro. Uno in più. E vorrebbe tanto averlo un
giorno in più da vivere. E forse lo sa che non lo avrà. Forse lo sa che la vita non avrebbe dovuto mai
darla per scontata. Forse lo sa adesso.
Io ho imparato a conoscerla bene. So chi è davvero, Roberta. So cosa fa al mattino appena sveglia.
Ho imparato a conoscere il suo sguardo di disappunto ogni volta che in tv sente un congiuntivo
sbagliato. Ho imparato a capire dal suo sguardo quando è felice, quando è arrabbiata, quando è
delusa. E so perché è lì che giace al centro della strada, accanto alla sua auto che non ha più una
forma, tanto forte è stato l’impatto. È in fin di vita, adesso. L’ambulanza sta per arrivare, ma è
troppo tardi, Roberta non ce la farà.
Arrivano due ambulanze. Una porta via quel ragazzo. Anche lui avrà più o meno vent’anni, ha
sbattuto la testa nell’impatto, ma sta bene. Dovrei esserne contento. In realtà non lo sono fino in
fondo. Vedo i suoi occhi, sono un po’ spaventati. Poi sento quel che chiede all’agente di Polizia, e
capisco. Capisco la natura della sua paura. Ha paura della reazione di suo padre quando scoprirà che
ha rovinato l’auto. Vedo l’agente allontanarsi. Avrà trent’anni, mica poi tanti in più di quel ragazzo
e di Roberta. Ma vedo la rabbia nei suoi occhi. Sento l’incredulità in quel gesto di disprezzo che
rappresenta allontanarsi in quel momento. Poi si calma e torna indietro. Ma non sa trattenerle quelle
parole che gli escono dalla pancia, non dalla gola. Non riesce a tacere di fronte all’indifferenza. E
glielo dice. Glielo dice che a pochi metri c’è una ragazza che sta morendo. Glielo dice con gli occhi
rossi, non so se di commozione o di rabbia. Ma lui non capisce. Non capisce davvero quello che
significa. E gli risponde con parole che trafiggono come lame. “Lo sarò anch’io quando papà lo
scoprirà”. Se potessi provare emozioni penso che la rabbia mi avrebbe divorato in quel momento. E
mi chiedo come abbia fatto quell’agente a fermare in aria la mano, pronta a sferrare uno schiaffo sul
viso di quel ragazzo. Si è fermata lì, a mezz’aria. Poi si è abbassata. No, non serve e non si può.
Credo abbia pensato questo mentre scrollava la testa, quell’agente di trent’anni che non riusciva a
capire il significato di tanto disprezzo per la vita degli altri. E si diceva dentro di sé che non era così
lui qualche anno fa. E si chiedeva se non fosse il mondo a rendere le persone sempre più aride,
egoiste, indifferenti.
“Tu sei vivo però”, gli risponde fra i denti. E se ne va. Questa volta non torna indietro. L’ambulanza
porta via il ragazzo. Starà bene, dicono i medici. Già, lui sì, ma lei no. Roberta non starà bene. Il
suo respiro sta per fermarsi. Poi è tutta una corsa verso l’ospedale, verso la speranza. La speranza
svanirà in quella corsa disperata. Io lo so, si spegnerà nel tentativo dei medici di farla restare
attaccata alla vita. Si spegnerà con gli occhi pieni di paura e di domande. Una su tutte, perché.
Perché lei, perché così. Perché.
Sento la gente che parla, che immagina, che giudica. E io che so avrei tanta voglia di mettere fine a
quelle parole che non hanno alcun senso. Non posso, è contro le regole. Sento una donna piena di
arroganza che pronuncia sentenze e parole prive di senso. “Così imparano a bere”. “Ecco cosa
succede quando corrono con l’auto”. Ma perché la gente è così? Non sa e giudica. Si arroga il diritto
di esprimere pareri, di dire la propria ad ogni costo ed in ogni occasione. E spesso è solo un’idea
mendace che ci si costruisce in mente. Quella gente sembra quasi dire che se lo sia meritato. E
pensare che lei era così fiera di non aver bevuto alcolici. Si era ricordata quello che i suoi genitori le
avevano detto: non bere se devi guidare. E lei sapeva che avrebbe dovuto guidare e ha preferito
ascoltare i suoi genitori piuttosto che tutti gli amici che erano con lei alla festa. Ha fatto una scelta
della quale era orgogliosa. Quando la festa è finita, tutti hanno preso l’auto senza essere in
condizione di guidare. Non lei, lei è salita in macchina con la certezza di essere sobria. Non sapeva,
non poteva sapere. Io sì e ho provato in ogni modo a fermarla, anche se era contro le regole. Non ci
sono riuscito. E quando ha visto le luci di quell’auto che le veniva addosso, io ero sul sedile accanto
a lei. C’ero anche quando era stesa sull’asfalto. Sentivo i suoi pensieri, mentre ascoltava l’agente
più anziano che diceva “Il ragazzo che ha causato l’incidente era ubriaco”. Già, era ubriaco, ma
aveva solo qualche ammaccatura sul corpo. E sull’auto, certo. L’auto della quale si preoccupava
tanto. Lei invece era lì, stesa sull’asfalto freddo di quella strada e sapeva che non ce l’avrebbe fatta.
Pensava che il ragazzo alla guida dell’altra macchina di sicuro non immaginava tutto quello, quando
andava a tutta velocità. Pensava che lui aveva deciso di bere e alla fine lei stava morendo. E non
sapeva. Non sapeva che lui, il suo assassino, non se ne curava affatto. Era lì, nell’ambulanza che
correva verso l’ospedale, come la sua, e non pensava a lei. Non pensava a quella ragazza di
vent’anni che stava perdendo tutto. Non pensava a tutte le vite distrutte da un dolore così grande.
No, pensava solo alla rabbia del padre e alla sua auto ammaccata. Lei no. Lei pensava a lui. Era
arrabbiata, sì. Furiosa. Pensava a sua madre, a suo padre. Qualcuno avrebbe dovuto dire a quel
ragazzo che non si deve bere e guidare. Pensava che se i suoi glielo avessero detto, forse lei non
sarebbe stata in fin di vita in quel momento. Io non so se sia proprio così, ma mi piacerebbe
crederlo. Mi piacerebbe pensarlo.
Arrivano in ospedale quelle due ambulanze. E lì, ad aspettarle ci sono due famiglie. Due madri, due
padri. La prima madre e il primo padre piangono. E fra le lacrime sorridono e abbracciano quel
figlio che hanno avuto paura di perdere. Lo stringono forte e non le sentono neanche le parole dei
medici che li rassicurano sul suo stato di salute. E quel padre non è arrabbiato, solo terribilmente
spaventato. E lui nemmeno allora lo capisce. “Papà, la macchina…” prova a dire. “Non importa
della macchina”, gli risponde lui. E io allora ci spero. Spero che quel ragazzo pensi a lei, alla dolce
Roberta che non ce l’ha fatta, anche se lui non lo sa ancora. Non lo fa nemmeno allora. La sua
mente è vuota in quel momento. Può la mente essere davvero vuota? Solo un sospiro di sollievo e
un pensiero veloce prima del vuoto, ancora… “Meno male che papà l’ha presa bene!”. Quando
quell’abbraccio si scioglie, lo sguardo va più in là, a quell’altra famiglia. A quella madre che si
getta sul corpo senza vita della figlia e piange in silenzio. In religioso silenzio. A quel padre che ha
visto la sua paura diventare realtà e trasformarsi, quella sì, in rabbia.
Tutto questo la gente non lo sa. Non lo sa che lei non ha colpe. Non lo sa che lei era orgogliosa di
non aver bevuto. Non sa neanche che mentre lei aveva paura, io me ne stavo lì, con la voglia di fare
qualcosa, ma impotente. Che potevo fare? In fondo sono solo un angelo. Il suo angelo custode che
non ha potuto salvarla.
Scrittore Eraldo Baldini e Angela Incutto