Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale
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Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale
Luiss Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli CERADI Centro di ricerca per il diritto d’impresa Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale delle società Giuseppe Melis [maggio 2005] © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione (∗)SOMMARIO: 1. Oggetto dell’indagine. – 2. Questioni di diritto internazionale privato. – 3. Le exit taxes “societarie” nella UE: un’ipotesi di classificazione. – 4. Altri profili tecnicogiuridici rilevanti sul piano interno. – 5. Exit taxes e doppia imposizione internazionale. – 6. Convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito ed exit taxes. – 7. Exit taxes e diritto comunitario: profili generali. – 8. Segue: le cause di giustificazione. – 9. Conclusioni. 1. Oggetto dell’indagine. – Il “trasferimento” della residenza fiscale conseguente allo “spostamento” da parte di un soggetto, da uno Stato ad un altro, di uno (o più) criteri di collegamento di tipo “personale” (1) ha formato in questi ultimi anni oggetto di notevole attenzione da parte dei legislatori nazionali, al preciso scopo di evitare che tale trasferimento potesse risolversi nella definitiva sottrazione ad imposizione delle plusvalenze latenti sui beni appartenenti al soggetto trasferitosi. Le misure al riguardo adottate, note anche come exit taxes, pur essendosi in taluni casi rivolte anche alle persone fisiche – non esercenti attività di impresa – titolari di rilevanti partecipazioni in società, si sono essenzialmente concentrate sui soggetti esercenti attività di impresa, in forma individuale o collettiva. Una indagine sui sistemi positivi comunitari mostra in effetti che una disciplina delle exit taxes per soggetti non imprenditori è presente nelle sole legislazioni di Francia, Austria, Germania e Paesi Bassi (2), mentre le legislazioni di tutti gli Stati membri disciplinano gli effetti tributari del “trasferimento” della residenza in un altro Stato da parte di soggetti imprenditori. (∗) Il presente articolo è stato pubblicato in Diritto e pratica tributaria internazionale, 2004, p. 13 ss. (1) Come è noto, i principali criteri di collegamento personali che valgono ad integrare, nel diritto tributario internazionale, la nozione di “residenza fiscale” sono, per le persone fisiche, la dimora abituale, il luogo principale degli affari ed interessi e la cittadinanza; per le persone giuridiche il luogo di costituzione, la sede legale, la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale dell’impresa. E’ per tale ragione che non si è utilizzata, nel titolo, l’espressione trasferimento della “sede”, perché ciò che rileva è che vi sia il trasferimento della “residenza fiscale”, rispetto alla quale la sede assume valore di mero elemento costitutivo, di regola non esclusivo. (2) Sulle exit taxes applicate a persone fisiche, vedi L. DE BROE, General Report sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 36 ss. e le relazioni presentate per i vari Stati interessati. In Italia, un riferimento ai possibili effetti elusivi del trasferimento della residenza fiscale all’estero da parte di persone fisiche detentrici di partecipazioni societarie si rinviene nella Ris. Ag. Entrate 2 novembre 2001, n. 175/E/2001/134384, relativa ad uno scambio di azioni in società italiana contro azioni in una società lussemburghese da parte di un soggetto scambiante persona fisica non imprenditore. A tale riguardo l’Agenzia, ritenuto che il regime di neutralità applicabile non equivalga ad una rinuncia definitiva all’esazione dell’imposta da parte dello Stato, bensì al differimento della stessa al verificarsi di successivi atti dispositivi, osserva che “la circostanza che i soci partecipanti siano residenti in Italia rappresenta una garanzia per lo Stato italiano affinché esso non veda vulnerato il proprio interesse erariale, mantenendo la possibilità di tassare il profitto risultante dall’eventuale successivo atto di disposizione dei titoli ricevuti. Ovviamente, nel caso contrario di trasferimento all’estero della residenza da parte del soggetto partecipante, l’assenza di una specifica previsione normativa di immediato realizzo dei plusvalori latenti, analogamente a quanto disposto dall’art. 20-bis del TUIR per i soggetti che esercitano imprese commerciali, potrebbe impedire, di fatto, l’effettivo esercizio del potere impositivo dello Stato italiano (…). Ciò E’ su tali ultime misure, quelle rivolte agli imprenditori – e ancor più specificamente su quelle rivolte alle società commerciali – che il presente studio intende soffermarsi, al fine di delineare, nella triplice prospettiva interna, convenzionale e comunitaria, i principali problemi che esse sollevano, anche in vista della determinazione dei possibili contenuti di quella disciplina regolamentare che l’art. 20-bis t.u.i.r. (ora divenuto art. 166 t.u.i.r. (3)) ancora attende a distanza di quasi un decennio dalla sua emanazione. Il tema del trasferimento della residenza fiscale non si esaurisce tuttavia nella questione delle exit taxes. Esso presenta in verità numerosi profili problematici, che occorre – sia pur sinteticamente – richiamare al fine di delimitare con precisione atteso, l’operazione descritta può essere considerata legittima soltanto se resterà salvaguardato l’interesse dell’erario alla tassazione dell’imponibile e cioè soltanto se i soci scambianti, persone fisiche non imprenditori, non trasferiscano la propria residenza fiscale all’estero prima di cedere le partecipazioni al fine di sottrarre, così, all’imposizione domestica le plusvalenze sui titoli scambiati. In quest’ultimo caso, infatti, le operazioni poste in essere – che singolarmente appaiono legittime – si intenderebbero nel loro complesso preordinate al fine ultimo di evitare la tassazione dei plusvalori insiti nelle riferite partecipazioni e, pertanto, sarebbero disconosciute ai sensi e per gli effetti dell’art. 37-bis del d.p.r. n. 600/73” (corsivo nostro). (3) Per comodità del lettore, se ne riporta in nota il testo: “Art. 20-bis. 1. Il trasferimento all’estero della residenza o della sede dei soggetti che esercitano imprese commerciali, che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi, costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale, salvo che non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato. La stessa disposizione si applica se successivamente i componenti confluiti nella stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato ne vengano distolti. Si considerano in ogni caso realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero. Per le imprese individuali si applica l’art. 16, comma 1, lettera g). 2. I fondi in sospensione d’imposta, inclusi quelli tassabili in caso di distribuzione, iscritti nell’ultimo bilancio prima del trasferimento della residenza o della sede, sono assoggettati a tassazione nella misura in cui non siano stati ricostituiti nel patrimonio contabile della predetta stabile organizzazione”. Con il nuovo art. 166 la disposizione è rimasta invariata, salvo che per il primo periodo, così formulato: “Il trasferimento all’estero della residenza dei soggetti di cui all’art. 2 ed all’art. 72 [leggi: 73], comma 1, lett. a) e b), che comporti la perdita della residenza ai fini delle imposte sui redditi (…)”. L’incipit non brilla per eleganza ed efficacia: posto infatti che ciò che conta è la perdita della residenza fiscale e che tale perdita è riferibile sia alle persone fisiche esercenti attività di impresa che ai soggetti Ires, il riferimento al trasferimento all’estero della “residenza” o è fatto a quella “fiscale” – ma in tal caso il successivo riferimento alla relativa perdita è “pleonastico” (non potendosi pensare ad un trasferimento della residenza fiscale all’estero senza una sua “perdita”!) – oppure è fatto agli elementi costitutivi della residenza fiscale, ma in tal caso sarebbe ampiamente incompleto perché la residenza (civilistica) è concetto come noto valevole per le sole persone fisiche. L’espunzione nella nuova norma del riferimento alla “sede” e lo svuotamento di qualsiasi significato nel caso di soggetti Ires che altrimenti ne deriverebbe, rendono ovvio l’accoglimento della prima ipotesi. Peraltro, con riferimento alla precedente formulazione, vi era chi aveva ritenuto che l’espresso riferimento al trasferimento della “sede” non consentisse di comprendere nell’applicazione dell’art. 20-bis l’ipotesi di trasferimento all’estero dell’oggetto principale di una società non avente nel territorio italiano né la sede legale, né la sede dell’amministrazione (G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, in AA. VV. (a cura di C. SACCHETTO e L. ALEMANNO), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, p. 210). E’ infine interessante notare che il rinvio all’art. 72 lett. a) e b) esclude ora gli enti non commerciali, così superando il dubbio – sorto con riferimento all’art. 20-bis – se una tale disciplina dovesse applicarsi anche gli enti non commerciali svolgenti un’attività commerciale: sul punto, S. MAYR, Effetti del trasferimento della sede all’estero, in Corr. trib., 1995, p. 2707 e M. LEO – F. MONACCHI – M. SCHIAVO, Le imposte sui redditi nel testo unico, t. 1, Milano, 1999, p. 388. Ritiene tale esclusione dovuta ad un difetto di coordinamento testuale, N. SACCARDO, Le proposte di modifica al regime del trasferimento all’estero della residenza, in Riv. dir. trib., 2003, IV, p. 172, il quale evidenzia altresì la lacuna formatasi con riferimento alle società di persone. l’oggetto del presente lavoro e fornire un inquadramento sistematico del tema che ci occupa. In primo luogo, il trasferimento della residenza fiscale può trovare, sempre sul piano normativo, ostacoli diversi dalle exit taxes. Ciò si manifesta sotto un triplice profilo. Sotto un primo profilo, può invero capitare di confrontarsi con nozioni unilaterali assai ampie di “residenza fiscale”, le quali difficilmente consentono di accompagnare all’acquisizione della residenza fiscale nello Stato di destinazione la perdita della stessa nello Stato di partenza. Si pensi alla normativa italiana relativa ai soggetti Ires, dove il criterio di collegamento dell’“oggetto principale” rende necessario delocalizzare all’estero anche l’attività prevalente dell’impresa (4), non essendo sufficiente a tal fine lo spostamento della sede legale e della sede dell’amministrazione (5). Sotto un secondo profilo, ostacoli possono porsi sul piano probatorio, riconnettendo talvolta il legislatore al trasferimento della residenza in Stati a fiscalità privilegiata l’effetto di inversione dell’onere della prova, sì da costringere il contribuente a fornire la prova di avere effettivamente prima acquisito, e poi mantenuto, la residenza nell’altro Stato. Ciò è quanto ad esempio accade in Italia con il noto art. 2, co. 2-bis t.u.i.r., ma altrettanto avviene in Svezia, anche se limitatamente ad un quinquennio dal giorno del trasferimento. Sotto un terzo profilo, gli effetti fiscali del trasferimento di residenza possono essere sin anche esclusi. Ciò può avvenire sia in virtù di circostanze fisiologiche, come la non definitività dello spostamento nell’altro Stato, tipica dei transfrontalieri e degli agenti diplomatici; sia sulla base di considerazioni di carattere antielusivo, laddove si stabilisca una presunzione assoluta di mantenimento della residenza in caso di suo trasferimento in (4) Il che peraltro non è sempre possibile. Si pensi ad esempio ad una società avente quale unico oggetto la gestione di un immobile sito nel territorio italiano, dove ben si potrebbe argomentare la permanenza dell’oggetto principale in Italia anche a seguito del trasferimento della sede legale ed amministrativa all’estero. Sul punto vedi C. SACCHETTO, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, IV, Padova, 1994, p. 92 e G. MARINO, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, p. 141. Vedi anche H. TAVEIRA TORRES, Pluritributação internacional sobre as rendas de empresas, San Paolo, 1997, p. 101 ss. Il discorso potrebbe estendersi alle partecipazioni in società residenti in Italia, con la differenza tuttavia che queste ultime potrebbero a loro volta deliberare il trasferimento della residenza all’estero, trovandosi così la società non residente a detenere una partecipazione in un soggetto anch’esso non residente. Per alcune problematiche relative al mutamento di status dei soggetti partecipati, vedi M. NUSSI, Trasferimento della sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, in Rass. trib., 1996, p. 1354 ss. (5) Ne deriverebbero allora situazioni di doppia residenza fiscale, da risolvere esclusivamente su base bilaterale avvalendosi dell’art. 4 par. 1 (“filtrando” tra i criteri interni quelli rilevanti ai fini convenzionali), 2 e 3 (applicando le “tie breaker rules”) delle convenzioni stipulate sulla base del Modello OCSE. Il problema non è peraltro esclusivo del diritto tributario, ben potendo verificarsi anche nel diritto societario la “personificazione” di una organizzazione imprenditoriale collettiva da parte di più di un ordinamento a motivo dei diversi criteri di collegamento (e/o di giurisdizione) adottati nei vari Stati: sul punto vedi M.V. BENEDETTELLI, Libertà comunitarie di circolazione e diritto internazionale privato delle società, in Riv. dir. int. priv. proc., 2001, p. 606. un paradiso fiscale (6); sia, infine, semplicemente a motivo del criterio di collegamento adottato che, se consistente nella “cittadinanza” delle persone fisiche o nel luogo di costituzione delle società, priva alla radice di qualsiasi rilievo tributario – fatte salve le convenzioni internazionali – gli “spostamenti” del contribuente (7). In secondo luogo, superati (ove possibile) gli ostacoli appena riferiti, si pone il problema di individuare il preciso momento nel quale la perdita di residenza fiscale possa dirsi avvenuta, al fine ad esempio di delimitare l’efficacia temporale della potestà impositiva oppure di individuare la decorrenza delle norme che stabiliscono inversioni dell’onere della prova o presunzioni assolute di residenza limitate nel tempo. Si tratta anche qui di un problema di non agevole soluzione, sia in quanto il trasferimento può avvenire in modo non “istantaneo”, sia in quanto la residenza fiscale è sovente ancorata a più presupposti, la cui perdita potrà essere integrata in momenti successivi (8). In terzo luogo, verificatasi la perdita di residenza fiscale e determinato il momento esatto nel quale essa è avvenuta, può aversi concorrenza di potestà tributarie illimitate sui redditi prodotti nel medesimo periodo di imposta. Ciò accade quando gli Stati interessati dal trasferimento ancorino la tassazione dei soggetti residenti ai redditi (6) Così ad esempio stabilisce la legislazione spagnola per i propri cittadini per un periodo di quattro anni dalla data del trasferimento, decorsi i quali rimarrà comunque a carico del contribuente l’onere della prova della effettiva residenza nel paradiso fiscale; oppure quella francese per i propri cittadini che si trasferiscono a Montecarlo. Per la Spagna, vedi J.J. BAYONA GIMENEZ, Report per la Spagna sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 483 ss. (7) Si determina dunque anche in questo caso una situazione di doppia residenza fiscale, da risolvere anch’essa esclusivamente su base bilaterale avvalendosi dell’art. 4, parr. 1, 2 e 3 del Modello OCSE. Va peraltro ricordato che l’attribuzione di residenza ad un altro Stato in applicazione delle “tie breaker rules” contenute nelle convenzioni contro le doppie imposizioni non significa il venir meno della residenza interna ai fini dell’applicazione di convenzioni internazionali con Stati terzi (con l’eccezione del Regno Unito). (8) Ad esempio, nei Paesi Bassi si è stabilito, con decreto del Segretario di Stato alle Finanze del 22 gennaio 1996, che il momento del trasferimento della sede effettiva da parte di una società olandese deve individuarsi in quello in cui sono stati posti in essere tutti gli atti preparatori per far sì che l’amministrazione di fatto non si svolga più nei Paesi Bassi. E’ evidente che gli atti da compiere sono al riguardo numerosi: si pensi all’adozione delle delibere societarie, all’apertura dei nuovi uffici, all’assunzione del personale, all’apertura dei conti correnti, ecc. A ciò si aggiungono i problemi derivanti dal fatto che lo status di residente fiscale viene riferito ad un periodo di imposta, potendosi così determinare sfasamenti tra trasferimento degli elementi costitutivi e perdita della residenza fiscale: ad esempio gli elementi costitutivi della residenza fiscale potrebbero essere trasferiti il 1° ottobre dell’anno “x”, senza che ciò comporti, per la legislazione italiana, l’immediata perdita di residenza fiscale, che avverrà soltanto nel periodo di imposta “x+1”. Su tale problematica vedi M. NUSSI, Trasferimento della sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, cit., p. 1344 e G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, cit., p. 210. Un ulteriore problema, sempre riguardante il periodo di imposta, riguarda la relativa determinazione: ad esempio, nella Convenzione tra Regno Unito e Francia si prevede (art. 3 par. 3) che il periodo di imposta avrà durata annuale dal giorno in cui si sia perfezionato il trasferimento. Per alcuni problemi riguardanti l’esercizio sociale di una società trasferitasi dall’estero in Italia vedi F. GALLIO – G. TERRIN, Alcune problematiche di carattere contabile e fiscale che potrebbero sorgere a seguito del trasferimento in Italia della sede di una società, in Il Fisco, 2003, 1, p. 10767. ovunque prodotti nel periodo di imposta, non riconoscendo al trasferimento medesimo alcun effetto “interruttivo” sul piano temporale. Avviene allora che il reddito ovunque prodotto in tale arco temporale sia doppiamente tassato, dando luogo alla più grave tra le forme di doppia imposizione conosciute poiché coinvolgente l’intero reddito prodotto dal contribuente. Tale problema trova talvolta una soluzione a livello unilaterale, come per il Regno Unito, dove la sect. 12 (3) (d) del Finance Act 1988 prevede la chiusura del periodo di imposta alla data di cessazione dello status di residente da parte della società che si trasferisce all’estero; e talvolta a livello internazionale, come nelle Convenzioni tra Francia e Danimarca (art. 19, par. 1), Francia e Svizzera (art. 4 par. 4) e Germania e Italia (Punto 3 del Protocollo). In quarto luogo, il trasferimento della residenza fiscale può sollevare il problema della sorte delle eventuali ritenute alla fonte operate nel paese di provenienza quando il soggetto era ancora ivi “residente”, oppure nel paese di destinazione quando esso era ivi ancora “non residente”, dovendosi stabilire se tali ritenute mantengano inalterata la loro natura “istantanea” oppure se quest’ultima debba essere apprezzata alla luce dello status finale del contribuente – residente o non residente – nel periodo di imposta interessato. Trattandosi di forme di imposizione sostitutiva, il problema riguarderà di regola le persone fisiche non svolgenti attività di impresa. Infine, dal trasferimento della residenza possono nascere problemi sul piano dei principi regolanti l’imputazione a periodo dei redditi. Si pensi ad esempio a redditi tassabili secondo il principio di cassa, “maturati” nel periodo di imposta nel quale il contribuente era residente, ma corrisposti solo successivamente al trasferimento di residenza. Alcuni Stati prevedono al riguardo norme ad hoc. In Francia, ad esempio, l’art. 167 CGI stabilisce che il soggetto che trasferisce la propria residenza (domicile fiscal) all’estero è tenuto a presentare una dichiarazione nella quale deve indicare i redditi maturati e pagati sino al momento del trasferimento, i redditi di impresa conseguiti dalla chiusura del periodo di imposta precedente e tutti i redditi maturati, ma non ancora percepiti (ad esempio i redditi di lavoro dipendente, in deroga al principio di cassa che ne informa la tassazione). Questa dichiarazione deve essere presentata, a titolo provvisorio, nei trenta giorni che precedono il trasferimento e deve essere seguita, nei 60 giorni successivi al trasferimento, da una dichiarazione a titolo definitivo. L’Amministrazione finanziaria liquiderà l’imposta e invierà al contribuente l’avis de mise en recouvrement, a seguito del quale egli dovrà provvedere al pagamento delle imposte dovute oppure apprestare garanzie tali da consentire all’Amministrazione finanziaria di disporre il “differimento” di tale pagamento. Ebbene, a tale ultimo aspetto – lo sfasamento tra momento lato sensu di “maturazione” e momento di imputazione a periodo del reddito – si ricollegano appunto le exit taxes, nelle quali il trasferimento della residenza fiscale viene in rilievo quale momento di emersione a tassazione delle plusvalenze latenti sulle partecipazioni detenute da persone fisiche o sugli assets relativi ad imprese, individuali o collettive (9). Plusvalenze che verranno effettivamente (ed eventualmente) realizzate solo in un momento successivo a quello del trasferimento della residenza. Ciò premesso, è sulla tassazione degli assets appartenenti a società in caso di trasferimento della residenza che la nostra indagine intende concentrarsi, onde verificare come alcuni Stati comunitari “chiudano i conti” con i soggetti societari che si trasferiscono in un altro Stato (10). Ovviamente, in considerazione dell’ampiezza dell’ambito territoriale oggetto del presente lavoro, le caratteristiche delle normative dei singoli Stati interessati saranno richiamate solo nei tratti rilevanti per una ricostruzione sistematica dell’istituto e per un suo esame sotto il profilo convenzionale e comunitario. 2. Questioni di diritto internazionale privato. – La notevole complessità dell’indagine sui profili giuridico-tributari del trasferimento della residenza delle società si compendia efficacemente nell’espressione utilizzata dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee nel noto caso Daily Mail: “diversamente dalle persone fisiche, le società sono enti creati da un ordinamento giuridico e, allo stato attuale del diritto comunitario, da un ordinamento giuridico nazionale. Esse esistono solo in forza delle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano costituzione e funzionamento” (11). I problemi giuridici che derivano al riguardo dall’essere la società un soggetto non naturale non attengono tanto alla legittimità sul piano civilistico dell’istituto del trasferimento “di sede” in sé considerato, la cui possibilità è generalmente riconosciuta (12). (9) Nell’ambito delle “exit taxes” si fanno peraltro rientrare anche le ipotesi di c.d. “extended tax liabilities”, consistenti nell’estendere il presupposto soggettivo tramite le presunzioni di residenza già richiamate (c.d. “unlimited extended tax liability”) oppure quello territoriale, ampliando i criteri di localizzazione dei redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti che si trasferiscono all’estero (c.d. “limited extended tax liability”). Si tratta tuttavia di misure soprattutto rivolte alla tassazione dei redditi futuri, mentre nel caso delle exit taxes in senso stretto si tratta di una “anticipazione” della tassazione di plusvalenze maturate, ma non ancora realizzate. Esiste infine un’ultima misura, consistente o nel far venire meno le ipotesi di sospensione d’imposta in corso oppure nel recuperare a tassazione deduzioni concesse in precedenti esercizi (c.d. “clawback of tax deductions”). Così accade ad esempio nei Paesi Bassi per i premi di assicurazione sulla vita detratti nei periodi di imposta anteriori al trasferimento della residenza. Per questa classificazione, vedi R. BETTEN, Income Tax Aspects of Emigration and Immigration of Individuals, IBFD, 1998, p. 11 ss. (10) Formerà oggetto di indagine la legislazione di Italia, Francia, Germania, Austria, Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito. (11) Corte di giustizia, 27 settembre 1988, C-81/98, Daily Mail, in Raccolta, 1988, p. 5483 ss. (12) Fa eccezione la legislazione olandese, che ammette il trasferimento della sede sociale – a pena di nullità della delibera adottata – solo in circostanze eccezionali (guerra, ecc.), pur riconoscendo la possibilità di trasferire la sede del management and control in un altro Stato, con le conseguenze tributarie che esamineremo successivamente. Per quanto riguarda l’Italia, pur non essendo nel sistema codicistico italiano contenuta alcuna norma espressa sul trasferimento di sede all’estero (neanche a seguito del d. lgs. n. 6/2003), è noto come la relativa ammissibilità sia da sempre stata riconosciuta sulla base degli artt. Essi si ricollegano, piuttosto, agli effetti conseguenti all’operatività, congiunta o disgiunta, della teoria della c.d. “incorporazione” (“incorporation theory”, “Gründungstheorie”) – per la quale la lex societatis deve rinvenirsi nella legge dello Stato in cui si è perfezionato il procedimento costitutivo dell’ente – e della teoria della c.d. “sede reale” (“real seat theory”, “Sitztheorie”, “siège réel”) – che rimette alla legge del luogo di localizzazione di fatto dell’amministrazione la disciplina delle società commerciali – ciascuna peraltro riferibile, in ognuno degli Stati interessati dal trasferimento, ai presupposti della “nazionalità” (13) del soggetto che si trasferisce (14) e/o della sua residenza fiscale (15). 2369, co. 4 (ora co. 5) e 2437 cod. civ., aventi rispettivamente ad oggetto la previsione della maggioranza necessaria per procedere al trasferimento di sede all’estero e il diritto di recesso in capo al socio dissenziente per tale trasferimento (sul punto, G. MARINO, Brevi note sul trasferimento di sede all’estero, in Dir. prat. trib., 1993, p. 1029 e ID., La residenza nel diritto tributario, cit., p. 224 ss. e l’ampia bibliografia e giurisprudenza ivi richiamata). Ad essi va aggiunto l’art. 25, co. 3, L. n. 218/95 che, riconoscendo che “I trasferimenti della sede statutaria in un altro Stato (…) hanno efficacia soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati”, prende nuovamente atto dell’operatività di tale istituto nel nostro ordinamento, alle condizioni che successivamente esamineremo. (13) Potrà capitare, nel corso del lavoro, di usare indifferentemente i concetti di “nazionalità” e di “statuto personale societario” (o lex societatis). Tuttavia, tra detti concetti non v’è coincidenza. Come rileva T. BALLARINO, Diritto internazionale privato e processuale, Padova, 1999, p. 144, mentre lo “statuto personale” significa la ricerca di una legge regolatrice che è anteriore rispetto alla stessa qualificazione della nazionalità, quest’ultima esprime essenzialmente un dato rilevante per le norme del foro che distinguono tra cittadini e stranieri (es. per l’ammissione a determinate attività). La loro caratterizzazione sarebbe più complessa quando società italiane vengano prese in considerazione dal punto di vista del nostro ordinamento giuridico, poiché accertarne il carattere straniero significherebbe soltanto che non sono regolate dalla legge italiana (e, come conseguenza, che non sono ammesse alle attività riservate ai nazionali), senza peraltro dire quale questa legge sia. Essa emergerebbe invece con chiarezza quando si debba valutare un atto giuridico compiuto all’estero (ad es., un contratto) da un ente giuridico non italiano, essendo il problema da risolvere quello della legge regolatrice della società (es. per stabilire la capacità di concludere quel contratto). Sul rapporto tra “nazionalità” e “legge applicabile”, vedi anche M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, Ed. Montchrestien, Paris, 2001, p. 33 ss. (14) Ai fini internazional-privatistici, in ambito comunitario il criterio dell’incorporazione è tipico degli ordinamenti anglosassoni come Inghilterra e Irlanda, ma si ritrova anche nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Svezia e in Italia. Il criterio della sede reale si ritrova invece in Francia, Germania, Austria e Belgio. Per ulteriori riferimenti, vedi G. PETRELLI, Lo stabilimento delle società comunitarie in Italia, in AA.VV. (a cura del Consiglio nazionale del notariato), Il notaio tra regole nazionali ed europee, Relazioni al XL Congresso nazionale del notariato, Bari, 26-29 ottobre 2003, Milano, 2003, p. 96 ss. e AA.VV., Consecuencias fiscales de los cambios de la residencia de las empresas, in Revista de la economia social y de la empresa, 2003, n. 41, p. 94 ss., in esito alle ricerche svolte durante il Wintercourse 2003 presso la Stockholm School of Economics (con la partecipazione, tra le altre, dell’Università Luiss-Guido Carli di Roma) dal gruppo di ricerca sul “Transfer of corporate seat”, coordinato da E. Kemmeren e dal sottoscritto. (15) Ai fini tributari, sempre in ambito comunitario il criterio dell’incorporazione si ritrova nei Paesi Bassi (per le società ivi costituite: c.d. “deemed residency”), nel Regno Unito (per le società ivi costituite) e in Svezia (allo stato puro); il criterio della sede reale è adottato in Germania (insieme, alternativamente, alla sede legale), in Austria (insieme, alternativamente, alla sede legale), in Belgio (insieme, alternativamente, alla sede legale e all’oggetto principale), nei Paesi Bassi (per le società non ivi costituite), nel Regno Unito (per le società non ivi costituite) e in Italia (insieme, alternativamente, alla sede legale e all’oggetto principale). In Francia vige invece un principio territoriale per la tassazione dei redditi di impresa, sicché la residenza fiscale finisce per assumere rilevanza ai soli fini dell’applicazione delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, venendo all’uopo identificata con la sede Non è questa certamente la sede per esaminare funditus caratteristiche strutturali, ragioni di fondo ed effetti di ciascuna delle due tesi che compongono la richiamata dicotomia, questioni che danno ancora oggi luogo ad accesi dibattiti nella dottrina internazional-privatistica (16). Alcune indicazioni di massima devono tuttavia essere qui fornite, siccome strumentali all’analisi tributaria che si intende condurre, analizzando a tal fine separatamente la posizione della società trasferenda nello Stato di partenza e in quello di destinazione. Muovendo dal primo corno del dilemma, in particolare dalla prospettiva dello Stato di partenza, potremmo innanzitutto immaginare che detto Stato adotti il principio della “incorporazione” non soltanto quale rattachement rilevante per l’assoggettamento alla lex societatis, ma anche quale criterio di collegamento ai fini della soggezione alla potestà tributaria illimitata. In una simile evenienza duplici sarebbero le conseguenze. Da un lato, l’adozione di un siffatto criterio di collegamento rilevante per l’applicabilità dello statuto personale societario, pur ininfluente ai fini della disciplina tributaria del trasferimento all’estero stante la normale autonomia tra sistemi di localizzazione ai fini civilistici ed ai fini tributari, escluderebbe la perdita della qualità di “soggetto giuridico” (e della eventuale “personalità giuridica” ad esso conferita) in quanto creato (da) e destinatario della lex societatis dello Stato di partenza (17). Dall’altro, il principio della “incorporation” adottato ai fini tributari farebbe sì che in caso di trasferimento della sede all’estero, una società costituita in un determinato Stato non potrebbe mai perdere – salva l’applicabilità delle c.d. tie-breaker rules contenute nelle convenzioni internazionali – lo status di società fiscalmente residente e il conseguente assoggettamento a tassazione illimitata, rimanendo quale unica statutaria (purché non fittizia). Sul punto, vedi H. LEHÉRISSEL, The Tax Residence of Companies, in European Taxation, 1999, p. 157 ss. (16) Per richiami dottrinali su tale dibattito vedi M.V. BENEDETTELLI, Libertà comunitarie di circolazione e diritto internazionale privato delle società, cit., p. 570 ss., in particolare nota 4, e S. MECHELLI, Libertà di stabilimento per le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea, in Riv. dir. comm., 2000, II, p. 85, nota 10. Emblematica del conflitto è la vicenda legislativa dell’art. 25 L. n. 218/95, il cui disegno di legge governativo sottoponeva le società e gli altri enti “alla legge dello Stato nel quale si trova la loro amministrazione”; criterio, questo, che fu abbandonato a seguito di un emendamento e sostituito con quello, contrario, dell’incorporazione! Vedi F. MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale. Parte speciale, Torino, 1997, p. 30. (17) Eventualmente mantenendo la sede legale nel Paese di origine: sul punto, vedi F. FERRARI, Corporate tax law ed i progetti di direttiva sul trasferimento di sede di società da un paese membro ad un altro, in Dir. comm. int., 1999, p. 400, nota 3, che richiama il Companies Act 1985 del Regno Unito. Vedi anche M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 48: “De l’impossibilité de modifier le rattachement législatif, les droits adoptant l’incorporation en déduisent l’incapacité pour une société de changer de domicile par sa propre volonté. Le seul changement admis sans réserve, dans tous les systèmes nationaux, consiste à dissoudre la société pour la reconstituer dans un nouvel État” e p. 283: “En effet, dans le système d’incorporation, la localisation du domicile (…) dans l’État de constitution représente une des conditions de régularité de l’enregistrement des sociétés. Ainsi, dès lors qu’il s’accompagne d’une modification des statuts, le trasfert du siège social conduit au changement de lex societatis, directement, dans les systèmes le considérant comme facteur de rattachement et, indirectement, dans les systèmes d’incorporation”. alternativa la liquidazione e la costituzione ex novo (c.d. “re-establishment”) nell’altro Stato. I risultati si capovolgono, sempre nella prospettiva dello Stato di partenza, in caso di applicazione del principio della “sede dell’amministrazione” ai fini sia internazional-privatistici che tributari. In questo caso, infatti, ben sarebbe possibile perdere lo status di soggetto fiscalmente residente sostituendosi, a seguito del trasferimento di residenza, al criterio di collegamento di tipo personale quel sistema di “sourcing rules” proprio della tassazione su base territoriale dei soggetti non residenti. Il problema si sposta tuttavia sul piano internazional-privatistico, in quanto la perdita del criterio di collegamento rilevante ai fini della applicazione della lex societatis potrebbe ricostruirsi in termini di sostanziale “scioglimento” del soggetto stesso, conseguendone a ciò, in via di presupposizione, l’applicabilità delle norme tributarie previste, lato sensu, per la cessazione dell’impresa. Gli effetti da ultimo evidenziati non sono tuttavia pacifici. Ad esempio, mentre in Germania e Francia, Stati che ricorrono in via generale al criterio della sede reale, il trasferimento della sede comporta la perdita della nazionalità e lo scioglimento della società (18) – limitandosi così il legislatore, come si vedrà, a rinviare in punto di effetti tributari sic et simpliciter alle norme previste in caso di liquidazione di società – in Belgio, dove pur vige il principio della sede reale, dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che il trasferimento della sede dell’amministrazione non comporti lo scioglimento della società laddove questo non sia implicato dalla legge dello Stato di destinazione (19). Anche in Italia la giurisprudenza aveva inizialmente considerato il trasferimento della sede all’estero come assimilabile alla messa in liquidazione della persona giuridica, (18) Sugli effetti di scioglimento a titolo di liquidazione del trasferimento nel Regno Unito della sede (statutaria e amministrativa) di una società di diritto tedesco, vedi Corte di Appello della provincia bavarese, III camera civile, 7 maggio 1992, n. 3Z BR 14/92, in Dir. prat. trib., 1994, II, p. 301 ss., con nota di G. MARINO, Ancora sul trasferimento di sede all’estero e in Le Società, 1993, p. 139 ss. con nota di A. DE VITA, Ritenuto inammissibile il trasferimento di società all’estero. Dalla motivazione della sentenza si evince che tali conseguenze non sono previste a livello normativo, bensì sono frutto delle ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali intorno al concetto di “change of personal law applicable to the company”, dalle quali la Corte bavarese non ha inteso discostarsi. Sempre per quanto riguarda la Germania, qualche dubbio sussiste invece con riferimento al trasferimento in uno Stato che adotta il principio dell’incorporazione mantenendo la sede statutaria in Germania, posto che in tal caso il “renvoi” allo Stato di incorporazione potrebbe, secondo parte della dottrina tedesca, non far venire meno la nazionalità tedesca. Questa soluzione è peraltro adottata a livello internazionale in trattati ad hoc stipulati dalla Germania con gli Stati Uniti e con la Spagna, che basano la capacità delle società sulla legislazione dello Stato in cui la società è stata originariamente costituita. Per quanto riguarda l’Austria, si ricostruisce la vicenda in termini di “liquidazione” solo se il trasferimento della sede reale avviene in uno Stato che adotta il criterio della sede reale; altrimenti, si ritiene che il trasferimento in uno Stato che adotta il principio dell’incorporazione finisca pur sempre per rendere applicabile la legge societaria austriaca, purché la sede statutaria rimanga in Austria. (19) In giurisprudenza, vedi Cons. Stato, 29 giugno 1987, T.R.W. 1988, p. 110, nel caso Vanneste International Transport. con conseguente estinzione della stessa ed eventuale nuova costituzione all’estero (20). Ciò nonostante il contrario avviso della dottrina, che sosteneva l’inesistenza di un conseguente pregiudizio per l’esistenza della fattispecie societaria, purché ciò fosse consentito dalla legislazione degli Stati interessati (21). Questa ultima tesi, che ha finito per far breccia anche in giurisprudenza riconoscendosi ivi la possibilità da parte delle società italiane di trasferirsi all’estero mantenendo il loro carattere italiano (22), appare ulteriormente avvalorata, sul piano internazional-privatistico, dal già richiamato art. 25, co. 3, L. n. 218/1995 che, ricorrendo le situazioni ivi indicate, non fa venire meno la continuità del soggetto giuridico “società” (23) nonché, sul piano tributario, (20) Sul trasferimento di sede all’estero quale causa di scioglimento dell’organismo societario, il cui riconoscimento giuridico sarebbe strettamente legato ad uno specifico ordinamento, vedi App. Torino, 17 giugno 1958, in Riv. dir. int., 1958, p. 597 ss., con nota di F. CAPOTORTI. Vedi anche Ordine dei dottori commercialisti di Milano e Lodi, Commissione per i rapporti internazionali, Il trasferimento della sede sociale all’estero e all’estero, Milano, 1988, p. 21. (21) In dottrina, vedi F. CAPOTORTI, Il trasferimento di sede di una società da uno Stato all’altro, in Foro it., 1958, c. 209 ss.; ID., Sulla continuità delle società di “persone” che trasferiscono la sede in un altro Stato, in Riv. dir. internaz., 1958, p. 615 (“si avrà, allora, una successione di leggi regolatrici dell’esistenza di un dato soggetto, ancorché il soggetto stesso non abbia dovuto estinguersi per l’una e rinascere per l’altra; ipotesi, questa, che chiunque riterrebbe assurda rispetto a un individuo che avesse mutato cittadinanza, e che non è meno assurda rispetto a un ente collettivo, dal momento che non v’è dubbio sulla unicità formale della veste di persona, di fronte al diritto”); P. GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano, Torino, 1959, p. 499 ss.; A. SANTA MARIA, Le società nel diritto internazionale privato, Milano, 1970, p. 143; E. SIMONETTO, Società costituite all’estero od operanti all’estero (artt. 2498-2510), in Commentario del codice civile (a cura di A. Scialoja e G. Branca), Bologna-Roma, 1976, p. 370; T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. COLOMBO e G. PORTALE, Torino, IX, 1994, p. 66 e 106 ss. Vedi anche lo Studio della Commissione Studi civilistici del Consiglio Nazionale del Notariato, n. 3310 del 2 maggio 2001, relativo al “Trasferimento all’estero della sede sociale”. Contra, R. MONACO, L’efficacia della legge nello spazio, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, Torino, 1954, p. 116, che ritiene che la delibera di trasferimento di sede all’estero debba considerarsi illegale e priva di effetto; F. CARUSO, Le società nella Comunità Economica Europea, Napoli, 1969, p. 298 ss., che ritiene che la perdita di tutti i criteri di collegamento con l’ordinamento italiano determini lo scioglimento della società e la sua ricostituzione nel paese di destinazione. (22) Vedi App. Milano, 7 maggio 1974, in Giur. comm., 1975, II, p. 832 ss.; Trib. Torino, 16 dicembre 1991, in Giust. civ., 1992, p. 811 ss.; Trib. Verona, 5 novembre 1996, in Le società, 1997, con nota di F. FIMMANO’, per la quale nel caso di trasferimento nel Regno Unito di una s.r.l. italiana presso la sede della casa madre “il principio cosiddetto dell’incorporazione vigente nei paesi di tradizione anglosassone, non comporta, in via di principio, la perdita automatica della nazionalità di provenienza in capo alla società incorporata, che viene accolta nell’ordinamento senza imporre quegli oneri e formalità di tipo civilistico, che caratterizzano invece l’ordinamento italiano, continuando la società a vivere secondo la legge dello Stato di provenienza”; Trib. Udine, 12 gennaio 1998, che ha ritenuto legittimo il trasferimento di sede di una società per azioni italiana all’estero, sia pure subordinatamente al mantenimento della dizione “spa” nella nuova denominazione sociale e alla nomina di un legale rappresentante nel territorio. Vedi però Trib. Udine, 17 agosto 1998, che ha invece negato il trasferimento della sede all’estero nell’ipotesi in cui la società costituita in Italia rescinda tutti i rapporti con l’ordinamento italiano, assistendosi in tal caso all’estinzione della società in Italia e alla sua ricostituzione nello Stato di destinazione; e App. Trieste, 9 ottobre 1999, in Riv. not., 2000, p. 167, secondo cui la delibera di trasferimento della sede sociale all’estero che comporti la perdita della nazionalità si configura quale vera e propria estinzione della società. (23) Vedi R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), in Dig. disc. priv. sez. comm., Torino, XIV, 1997, p. 150. Sul non venir meno, ricorrendo le condizioni indicate nell’art. 25 dall’introduzione dell’art. 20-bis t.u.i.r., che prevede una disciplina autonoma degli effetti tributari del trasferimento di sede, senza cioè rinviare a quella prevista per la liquidazione di società. Passando ora al secondo corno del dilemma, e dunque sul versante dello Stato di destinazione, alla dialettica tra principio del “place of incorporation” e principio del “seat of management” si ricollega anche il problema del riconoscimento in detto Stato del soggetto che si trasferisce. E’ infatti possibile che lo Stato di destinazione non riconosca la “personalità giuridica” (o, al limite, neanche la “soggettività”) attribuita dallo Stato di partenza e in questo mantenuta nonostante il trasferimento della sede, né che esso proceda all’attribuzione di una propria “soggettività” (o, in aggiunta, di “personalità giuridica”) alla società straniera indipendentemente da una nuova costituzione ai sensi delle proprie leggi, determinandosi così conseguenze quali l’incapacità a contrattare, l’incapacità processuale, la responsabilità illimitata dei soci e via dicendo. Mentre per quanto riguarda gli Stati che adottano il principio dell’incorporazione vi è una tendenza a “riconoscere” il soggetto estero se, e proprio in quanto, validamente costituito ai sensi della legislazione di un altro Stato – prevedendosi a suo carico il mero obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (24) – una tendenza contraria si registra per quanto attiene agli Stati che adottano il criterio della “sede reale” (25). In Austria, ad esempio, il trasferimento della sede legale e della sede dell’amministrazione obbliga la società straniera al c.d. “re-establishment”; altrettanto co. 3, della continuità del soggetto giuridico società, vedi F. MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale. Parte speciale, cit., p. 34. Sottolinea come la nuova norma non apporti sostanziali novità, se non nel fatto che il trasferimento deve riguardare la sede statutaria (potendosi prima ritenere che fosse sufficiente quella amministrativa), T. BALLARINO, Diritto internazionale privato e processuale, cit., p. 161. Sul fatto che il trasferimento debba riguardare la sede statutaria, senza che rimangano in Italia né la sede dell’amministrazione, né l’oggetto principale dell’impresa, vedi A. SANTA MARIA, Spunti di riflessione sulla nuova norma di diritto internazionale privato in materia di società ed altri enti, in Riv. soc., 1996, p. 1102. (24) Lo Stato che adotta il principio della incorporazione, dunque, da un lato ritiene di imporre le proprie norme alle società che ivi si sono costituite, ovunque queste esercitino la loro attività e ovunque sia situata la sede amministrativa, ma dall’altro accetta il rischio di “importare” il diritto di un altro Stato per le società che esercitino in esso la propria attività, ma si siano costituite altrove. Si richiede, tuttavia, che le società mantengano un qualche legame con il proprio Stato di origine e che non si tratti pertanto di mere “pseudo foreign corporations”: si pensi ad esempio alla prassi danese dichiarata incompatibile con il principio di libertà di stabilimento nel caso Centros che tra breve esamineremo. In Italia, una difesa contro le “pseudo foreign corporations” si rinviene in quelle tesi che affermano che le società che sono state sì validamente costituite in un altro paese, ma che in esso non hanno mai operato, sicché sin dall’inizio si sarebbero dovute costituire secondo l’ordinamento italiano, dovrebbero essere considerate italiane a tutti gli effetti e non riconosciute in quanto invalidamente costituite. Esprime dubbi sulla compatibilità di tale soluzione con i principi espressi nella sentenza Centros, F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, in Giur. comm., 2000, II, p. 573. (25) Sul punto, vedi T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 23, il quale evidenza che la competenza della “sede” fa sostanzialmente dipendere l’insediamento delle società commerciali da una specie di concessione dell’autorità locale, così impedendo alle società costituite all’estero di stabilire nel paese il centro di direzione dell’impresa. accade in Francia, dove la mancanza di una regolamentazione ad hoc sulle società che ivi si trasferiscono è stata interpretata come impossibilità di un loro riconoscimento, con conseguente necessità di doversi procedere ad una “ricostituzione” in Francia del soggetto straniero (26); in Germania, infine, la società costituita altrove che sposti la sede in Germania viene talvolta considerata come priva di soggettività (“nicht existierende Person”), altre volte riqualificata come “società di persone di fatto”, negandosi dunque la sola “personalità giuridica” (27). In Belgio, al contrario, la Corte di cassazione ha ritenuto nel caso Lamot (28) che al trasferimento in Belgio della sede reale del soggetto estero non consegua la sua liquidazione laddove lo Stato di partenza riconosca anch’esso la continuità del soggetto stesso. In Italia, dove il criterio-base adottato dall’art. 25 L. n. 218/95 è quello dell’incorporazione “temperata”, si riconosce invece la possibilità che un ente incorporato all’estero possa trasferire in un momento successivo la propria sede in Italia e mantenere il suo carattere straniero, purché il paese di origine consenta una simile eventualità, ossia non imponga lo scioglimento della società in questione (29), nel qual caso non sarebbe infatti più possibile parlare di un soggetto “straniero”. Una siffatta impostazione, come è stato rilevato (30), sembra infatti potersi desumere da un (26) Rép. Min. 19 febbraio 1972 (in JOAN, mai 1972, p. 1701), Rép. Min. 26 gennaio 1987 (in JOAN, 6 aprile 1987, p. 2000). Vedi M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 34. (27) Sul punto, vedi F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, cit., p. 564, nota 20. In giurisprudenza, vedi Corte di Appello della Baviera, 18 luglio 1985, richiamata da T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 23, che ha rifiutato di riconoscere capacità giuridica ad una società costituita a Londra in una forma associativa inglese, ma avente la propria sede in Germania. (28) Cass., 12 novembre 1965, R.W. 1965-1966, p. 911, che ha accolto la “reality theory” e respinto la “fiction theory”. In particolare, in base alla “fiction theory” la “personalità giuridica” della società si considera una finzione, con l’effetto che il distacco dall’ordinamento che a tale finzione ha dato luogo si risolve nello scioglimento di tale società; in base alla “reality theory”, invece, la persona giuridica si considera una entità “reale”, con la conseguenza che la continuità del soggetto che si trasferisce non può venire in tal caso meno. Sul punto, ampiamente, M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 284 ss. e K. DEBRIER, Tax Treatment of Migration of Companies to Belgium, in Bulletin of IBFD, 1998, p. 77 ss. Problema diverso è quello delle eventuali modifiche statutarie che il soggetto estero, così riconosciuto, è tenuto a porre in essere, eventualmente al fine di adeguarsi alle norme imperative dello Stato di destinazione. (29) Vedi R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 150. (30) Vedi R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 150 ss. Sulle diverse soluzioni adottate anteriormente alla L. n. 218/95, vedi M.V. BENEDETTELLI, La legge regolatrice delle persone giuridiche dopo la riforma del diritto internazionale privato, in Riv. soc., 1997, p. 40 ss. e T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 34 ss. In giurisprudenza, vedi Trib. Pordenone, 28 settembre 1990, in Foro pad., 1991, I, p. 187, che si è pronunziato in favore di un trasferimento di sede legale dall’estero (Lussemburgo) in Italia (con assunzione della forma di spa e adozione di uno statuto conforme alla legislazione vigente in Italia) riconoscendo all’ente la sua origine straniera (“non trattandosi della costituzione ex novo di una società, ma solo del trasferimento e trasformazione di un soggetto già esistente anche per l’ordinamento italiano (…) non è necessario il versamento di tre decimi di capitale…”). lato dal riferimento contenuto nell’art. 25 co. 1 L. n. 218/95 alla legge del luogo di incorporazione – presupponendo esso appunto il riconoscimento del soggetto straniero e la non necessità di una nuova costituzione – e dall’altro dalla precisazione contenuta nel successivo comma 3, che riconosce efficacia ai trasferimenti della sede statutaria in un altro Stato “soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati”, ponendo in evidenza la relazione tra continuità del soggetto e legge (anche) dello Stato di partenza, con la conseguenza che il riconoscimento della continuità del soggetto sarà condizionato all’ammissibilità del trasferimento (anche) in tale ultimo Stato (31). Solo dunque in presenza di condizioni di ammissibilità in ambedue gli ordinamenti sarà possibile parlare correttamente di “trasferimento” di sede, risolvendosi in tal caso il tutto in una mera modificazione statutaria da operare in base alla legge richiamata dall’art. 25 co. 1 (32). Le questioni sin qui esaminate hanno formato oggetto di attenzione in ambito sia internazionale, sia comunitario, senza tuttavia mai approdare a risultati concreti. Da un lato, infatti, né la Convenzione dell’Aia del 1° giugno 1956 sul riconoscimento delle società straniere, né la Convenzione di Bruxelles del 29 febbraio 1968 attinente al reciproco riconoscimento delle società e persone giuridiche, sono mai entrate in vigore (33). Dall’altro, l’attenzione dedicata nel Trattato di Roma a tale questione, tramite la previsione contenuta nell’art. 293 sull’avvio da parte degli Stati membri di negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini, il reciproco riconoscimento delle società, il mantenimento della personalità giuridica in caso di trasferimento della sede da un paese ad un altro e la possibilità di fusione di società (31) Dunque, se i due ordinamenti in rilievo (o anche uno solo di essi) non consentono il trasferimento della sede sociale, l’operazione, ove posta in essere, potrà dar luogo alternativamente: a) allo scioglimento dell’ente originario e all’incorporazione di una nuova fattispecie societaria nel paese ospitante; b) all’esistenza di due enti distinti nel caso in cui non venga imposta l’estinzione della società preesistente nell’ordinamento di partenza, ma si richieda una costituzione ex novo nel paese di destinazione: sul punto, R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 154. Vedi anche G. PETRELLI, Lo stabilimento delle società comunitarie in Italia, cit., p. 122 ss., per il quale il trasferimento della sede in Italia è disciplinato dalla legge regolatrice della società straniera, che potrebbe anche non ammettere tale trasferimento. (32) Sul fatto che di trasferimento di sede abbia senso parlare soltanto allorché la società prosegua la propria vita nel passaggio da uno Stato ad un altro, vedi T. BALLARINO, Diritto internazionale privato, II ed., Padova, 1996, p. 357. (33) La Convenzione di Bruxelles (in Boll. C.E., Suppl., n. 2/1969, p. 2 ss.) non è mai entrata in vigore a causa della mancata ratifica da parte dei Paesi Bassi. Infatti, il progetto accoglieva sì in linea di principio la teoria dell’incorporazione, ma conteneva altresì una clausola di riserva che consentiva a ciascuno Stato di applicare alle società di altri paesi membri con sede sul suo territorio le proprie norme, vale a dire tanto la disciplina imperativa quanto quella dispositiva. Per tale motivo i Paesi Bassi, fautori di un’applicazione estrema della teoria dell’incorporazione al fine di attirare investimenti esteri, non hanno ritenuto di ratificare la Convenzione. soggette a legislazioni nazionali diverse, non si è mai concretizzata in provvedimenti ad hoc (34). In tempi recenti è tuttavia emerso un rinnovato interesse per le questioni relative ai problemi giuridici connessi alla mobilità delle società in ambito comunitario, espressosi ora in ambito giurisprudenziale (nei casi Centros e Überseering), ora in ambito legislativo. Nel caso Centros una società costituita nel Regno Unito aveva chiesto di aprire una branch in Danimarca (35). L’autorità danese aveva tuttavia rifiutato la registrazione di tale branch, ritenendo che la società, non svolgendo alcuna attività nel Regno Unito, fosse stata costituita dai due soci danesi al solo fine di eludere la legislazione danese sul capitale minimo e beneficiare del più favorevole diritto inglese che tale dotazione minima di capitale non prevedeva. La Corte di Giustizia ha ritenuto che la fattispecie rientrasse nella tutela della libertà di stabilimento secondaria – in quanto relativa alla creazione di una succursale (36) – assicurata dal Trattato alle società aventi scopo di lucro “costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della comunità”, e che la ricerca di un diritto societario più favorevole non costituisse un abuso del Trattato medesimo. Si sancisce dunque il diritto di un cittadino di uno Stato membro ad incardinare giuridicamente una società in un determinato ordinamento, in quanto ritenuto più vantaggioso sotto il profilo della lex societatis, e di esercitare la proprie attività, anche in via esclusiva, in un diverso ordinamento. La sentenza appena richiamato ha dato vita ad un ampio dibattito se con essa la Corte abbia voluto affermare la sostanziale incompatibilità fra libertà di stabilimento e (34) Esistono peraltro taluni accordi bilaterali che prevedono il mutuo riconoscimento: sul punto, vedi T. BALLARINO, La società per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, cit., p. 92 ss.; M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 67 ss. (35) Corte di giustizia, 9 marzo 1999, C-212/97, Centros Ltd. C. Ehrvers-og Selskabsstyrelsen, in Racc., 1999, I, p. 1459 ss. Spunti di questo orientamento si rinvengono anche nella meno nota Corte di giustizia, 10 luglio 1986, C-79/85, Segers c. Bedriifsfereinigung, in Racc., 1985, I, p. 2375, relativa alla incompatibilità con l’art. 43 del rifiuto all’amministratore di una società di fruire di un regime nazionale di assicurazione per la malattia per il solo fatto che la società è stata costituita secondo le leggi di un altro Stato membro nel quale essa ha del pari la sede sociale, anche se non vi svolge attività commerciale. Per un commento alla sentenza Centros vedi F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, cit., p. 559 ss.; S. MECHELLI, Libertà di stabilimento per le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea, cit., p. 83 ss.; A. PERRONE, Dalla libertà di stabilimento alla competizione fra gli ordinamenti? Riflessioni sul “caso Centros”, in Riv. soc., 2001, p. 1298 ss.; M. GESTRI, Mutuo riconoscimento delle società comunitarie, norme di conflitto nazionali e frode alla legge: il caso Centros, in Riv. dir. int., 2000, p. 76 ss. (36) Anche se, a ben guardare, di sede secondaria vi era ben poco, stante l’inesistenza di una attività principale nel Regno Unito. Vedi ad riguardo le osservazioni dell’Avvocato generale nel caso Überseering BV, punto 36 e quelle della – al riguardo unanime – dottrina che si è occupata della sentenza Centros. il criterio internazional-privatistico della “sede reale” (37). La discussione non si è posta tuttavia tanto nella prospettiva dello Stato di partenza, dove permane il problema degli eventuali effetti “liquidatori” conseguenti allo spostamento della sede reale da uno Stato che tale criterio adotta ai fini dell’assoggettamento alla lex societatis, quanto piuttosto nella prospettiva dello Stato di destinazione, avendo di mira il problema se lo spostamento in uno Stato nel quale vige il criterio della sede reale (dunque, diversamente dalla Danimarca) possa legittimare l’assoggettamento della società alla legge nazionale, comprese le disposizioni sul capitale minimo (38). In altri termini, il problema sollevato è soprattutto quello della legittimità della eventuale pretesa dello Stato del foro di disconoscere il carattere straniero di un ente così da assoggettarlo alla legge vigente nel suo ambito territoriale, in luogo della legge dello Stato di origine. In questa ottica il problema non deve essere sopravvalutato ai nostri fini, perché il problema dell’applicabilità delle leggi tributarie è come noto svincolato dalla natura “nazionale” oppure “straniera” del soggetto di imposta (39). Più interessante è il caso Überseering BV (40), dove viene affrontato il problema della continuità del soggetto nel passaggio da uno Stato retto dal principio della “incorporation” ad uno Stato retto dal principio del “real seat”. Su di esso occorre brevemente soffermarsi in quanto, come si vedrà, nella sentenza Daily Mail – con la (37) Vedi A. PERRONE, Dalla libertà di stabilimento alla competizione fra gli ordinamenti? Riflessioni sul “caso Centros”, cit., p. 1298, il quale ritiene che pur non contenendo la sentenza in esame riferimenti espliciti al problema – impediti dalle caratteristiche della fattispecie concreta per l’impiego prevalente da parte della norma di conflitto danese del diverso criterio del luogo di incorporazione (come già rilevato da M. GESTRI, Mutuo riconoscimento delle società comunitarie, norme di conflitto nazionali e frode alla legge: il caso Centros, cit., p. 76) – essa si ponga ciò non di meno in rotta di collisione con il criterio della sede reale. Un ulteriore problema che si è sollevato è se l’art. 48 del Trattato contenga una norma di conflitto “occulta”: sul punto, vedi F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, cit., p. 565 ss. (38) Si pensi alle norme che tutelano i creditori o a quelle che prevedono la Mitbestimmung. Vedi M. GESTRI, Mutuo riconoscimento delle società comunitarie, norme di conflitto nazionali e frode alla legge: il caso Centros, cit., p. 76. (39) Evidenzia tuttavia F.M. MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento comunitaria e concorrenza tra ordinamenti societari, cit., p. 566 ss., che la Sitztheorie potrebbe risultare incompatibile con la libertà di stabilimento sotto due aspetti. In primo luogo, essa potrebbe violare il principio di non discriminazione, poiché solamente le società costituite sul territorio potrebbero impiantarvi la sede amministrativa principale, avvenendo così una discriminazione tra queste e le società costituite altrove (si tratta, dunque, del problema del mancato riconoscimento del soggetto estero). In secondo luogo, il sostanziale divieto di impiantare la sede amministrativa in un altro Paese sarebbe una restrizione dell’ambito di applicazione dell’art. 48, non giustificata dalla necessità di proteggere alcun interesse preminente (si tratta, dunque, del problema degli effetti “liquidatori” connessi al trasferimento di residenza dallo Stato che adotta il principio della sede reale). Ad avviso di P. BEHRENS, Das internationale Gesellschaftsrecht nach dem Centros-Urteil des EuGH, richiamato da F.M. MUCCIARELLI, op. ult. cit., p. 567, la sentenza Centros dovrebbe essere letta anche nel senso dell’obbligo per lo Stato che adotta il principio della “sede reale” di riconoscere una società validamente costituita in un altro Stato della UE. Si veda infra, par. 7, quando si discuteranno contenuti ed effetti della sentenza Daily Mail. (40) CGCE, 5 novembre 2002, C-208/00, in Racc., 2002, p. 9919 ss. quale la Corte ha ritenuto legittima la normativa inglese che subordinava il trasferimento della sede amministrativa (ergo, della residenza fiscale) in un altro Stato alla preventiva autorizzazione del governo inglese – l’argomento principale utilizzato dalla Corte per riconoscere la legittimità di tale normativa ha consistito proprio nella non omogeneità delle norme interne di diritto internazional-privatistico e commerciale e dunque della non censurabilità delle conseguenze (anche tributarie) di tale disomogeneità sino al momento dell’attuazione di quanto previsto dal già menzionato art. 293 del Trattato. Nel caso di specie, la Überseering BV – società di diritto olandese le cui quote erano state acquistate da due soggetti tedeschi, con ciò ritenendosi da parte della legislazione tedesca aver essa stabilito il proprio “place of management” in Germania (41) – aveva convenuto dinanzi ad un tribunale tedesco la società NCC, a motivo di opere difettose da essa realizzate in Germania per suo conto. La sua azione era stata tuttavia dichiarata improcedibile in quanto, dovendo la capacità processuale essere determinata in base alla legge del luogo della sede dell’amministrazione dell’attore, la legge tedesca, nella specie applicabile, riconosceva capacità processuale alle sole società costituite in Germania. La Corte ha questa volta respinto l’argomento avanzato dal governo tedesco sulla necessità di una previa attuazione dell’art. 293 del Trattato, ritenendo l’esercizio della libertà di stabilimento indipendente dall’adozione di convenzioni sul mutuo riconoscimento. Essa ha invero affermato l’inapplicabilità delle conclusioni raggiunte nel caso Daily Mail, poiché mentre in tal caso venivano in rilievo i rapporti tra società e Stato di partenza – intendendo la società trasferire la sede dell’amministrazione in un altro Stato senza perdere la qualità di società “nazionale” – nel caso Überseering BV emergeva una diversa prospettiva, quella in particolare dello Stato di destinazione, che non può ignorare – a pena di violazione della libertà di stabilimento – la “personalità” conferita dall’ordinamento di provenienza e da questi mai messa in discussione. In altri termini, un conto è ritenere che gli ordinamenti interni possano determinare – in assenza di norme ad hoc – la perdita di “nazionalità” del soggetto che si trasferisce (42), altro è ammettere che lo Stato di destinazione possa disconoscere la “capacità” riconosciuta da un altro ordinamento comunitario ed obbligare la società ad un “reestablishment” (43). (41) La società olandese non aveva infatti trasferito la sede reale in Germania, essendo questa rimasta nei Paesi Bassi. Tuttavia, poiché la società era stata acquistata da due azionisti tedeschi, la legislazione tedesca riteneva tale circostanza sufficiente per rinvenire in Germania la sede reale della società olandese. (42) Il che peraltro, come si vedrà successivamente, non accadeva neanche nel caso Daily Mail. (43) Né la Corte ha ritenuto esistere una giustificazione al riguardo poiché gli interessi di ordine generale (interessi dei creditori, degli azionisti, dei dipendenti, delle autorità fiscali) non potrebbero giustificare in alcun caso il diniego della capacità giuridica del soggetto estero. Appare in tale modo possibile rinvenire una soluzione ad uno dei numerosi aspetti in cui si concretizza il problema della continuità “giuridica” del soggetto che si trasferisce, restandone tuttavia irrisolti altri, in primis quello del trasferimento da uno Stato che adotta il criterio della “sede reale” e degli effetti di “scioglimento” che esso può recare con sé. Una soluzione di carattere generale è stata peraltro recentemente individuata a livello comunitario con il Regolamento 8 ottobre 2001, n. 2157 sulla Società Europea (SE), tra i cui principali obiettivi risiede proprio quello di consentire finalmente alcune operazioni assai difficili per le società nazionali, tra cui il trasferimento di sede all’estero (44). L’art. 8 del Regolamento prevede in particolare che la sede sociale della SE possa essere trasferita – sia pure in esito ad un articolato procedimento – in un altro Stato membro senza che con ciò si realizzi lo scioglimento o la costituzione di una nuova persona giuridica. E’ peraltro interessante notare che l’art. 7 del regolamento prevede, a pena di gravi sanzioni (45), la necessaria coincidenza tra stato della sede sociale e stato della amministrazione centrale, sicché ogni trasferimento della sede sociale dovrà essere necessariamente accompagnato da un trasferimento della sede amministrativa. La disciplina del trasferimento di sede contenuta nel regolamento, nel sancire la continuità del soggetto che si trasferisce, potrebbe dunque rivelarsi decisiva proprio nell’ipotesi del trasferimento da uno Stato che adotta il criterio della “sede reale”. Sennonché, l’art. 14 co. 8 del regolamento consente agli Stati membri di prevedere, per le società europee in esso registrate, l’inefficacia del trasferimento di sede comportante un cambiamento della legge applicabile nel caso di opposizione spiegata per motivi di “interesse pubblico” da un’autorità competente del suddetto Stato, con il rischio di far (44) Sul punto, vedi A. MALATESTA, Prime osservazioni sul regolamento CE n. 2157/2001 sulla società europea, in GUCE., 10.11.2001. Ad esso si aggiunge il progetto della Commissione di XIV direttiva in materia societaria (in Dir. comm. int., 1999, p. 415 ss.). Si tratta in particolare del “Projet de directive concernant le transfert du siège réel d’un état membre dans un autre état membre sans dissolution (la société restant soumise au droit de l’état de constitution)” e del “Projet de directive concernant le transfert du siège social d’un état membre dans un autre état membre sans dissolution (avec changement de la loi applicable)”. In base al primo progetto, si prevede tra l’altro che “chaque Etat membre prévoit, pour les sociétés relevant de son droit national, des règles conformes à la présente directive, organisant le transfert du siège réel vers ou dehors dudit Etat, sans dissolution” (art. 3 par. 1) e che “Un Etat membre ne peut considérer qu’une société a été radiée ou dissoute du simple fait que elle a transféré son siège réel dans un Etat membre autre que l’Etat de constitution” (art. 3 par. 5); in base al secondo progetto, “Chaque Etat membre définit, conformément à la présente directive, pour les sociétés relevant de son droit national, les règles régissant le transfert du siège social à l’interieur ou à l’exterieur dudit Etat, sans dissolution ” (art. 4 par. 1). (45) In particolare, l’art. 64 co. 2 del regolamento stabilisce che in caso di omessa regolarizzazione – mediante il ripristino della propria amministrazione centrale nello Stato membro della sede sociale oppure procedendo al trasferimento della sede sociale mediante la procedura di cui all’art. 8 – di una situazione non conforme all’art. 7 (coincidenza tra sede sociale e sede dell’amministrazione centrale), lo Stato della sede sociale adotti le misure necessarie a garantire che la stessa sia liquidata. rientrare “dalla finestra” quegli ostacoli di natura fiscale, sui quali ora ci soffermeremo, che sembravano usciti dalla porta (46). 3. Le exit taxes “societarie” nella UE: un’ipotesi di classificazione. – Chiarite le possibili interrelazioni tra diritto internazionale privato delle società e diritto tributario nella disciplina del trasferimento della “sede”, possiamo ora consapevolmente passare all’esame delle discipline delle exit taxes presenti negli Stati comunitari, il quale ne mette in evidenza la notevole eterogeneità di contenuti. Ai fini classificatori occorre in particolare distinguere tra ordinamenti che adottano il principio della sede reale e ordinamenti che adottano il principio dell’incorporazione. Per quanto riguarda i primi, emergono tre diverse ipotesi. In una prima ipotesi, gli effetti del trasferimento di residenza vengono assimilati dal punto di vista tributario, per espressa disposizione normativa e come necessaria conseguenza della perdita di “nazionalità”, alla liquidazione di società. Ciò accade, in particolare, in Germania e in Francia. Nell’ordinamento tedesco quanto sopra è disposto dal § 12 KStG, che disciplina gli effetti della perdita della soggettività tributaria illimitata per effetto del trasferimento della sede dell’amministrazione e della sede legale all’estero mediante mero rinvio al § 11 KStG, il quale regolamenta appunto gli effetti tributari della liquidazione, con la precisazione dell’adozione del criterio del “fair value” in luogo del criterio dell’avanzo di liquidazione (47). Quanto alla Francia, l’art. 221-2 CGI richiama anch’esso la perdita di nazionalità e la cessazione dell’impresa (cessation d’activité), determinando l’applicazione di tutte le regole previste per la “cessazione” d’impresa tout court, in particolare l’imposizione delle plusvalenze latenti (al netto delle minusvalenze latenti), l’immediata imponibilità degli utili relativi al periodo di imposta precedente (se non ancora tassati) e a quello in corso, nonché il venir meno delle eventuali sospensioni di imposta concesse in precedenza. In una seconda ipotesi, pur non determinando – nonostante l’adozione del criterio della “sede reale” – il trasferimento all’estero degli elementi costitutivi della residenza fiscale lo scioglimento della società, ciò nondimeno il legislatore tributario sancisce sic et simpliciter l’applicazione del regime fiscale della liquidazione. Ciò accade in particolare in Belgio, dove l’art. 210 § 1 4° dell’Income Tax Code 1992 prevede che il trasferimento della sede sociale, del c.d. “most important establishment” e della sede (46) Sottolinea peraltro M. MENJUCQ, Droit international et européen des sociétés, cit., p. 135, che sul piano del diritto tributario francese la disposizione si rivela di notevole importanza, in quanto l’applicazione dell’art. 221 CGI (del quale si dirà tra breve) non ha luogo in presenza di convenzioni che assicurino il mantenimento della personalità giuridica in caso di trasferimento di sede. (47) “Verlegt eine unbeschränkt steuerpflichtige Körperschaft (...) ihre Geschäftsleistung und ihren Sitz oder eines von beiden ins Ausland und scheidet sie dadurch aus der unbeschränkten Steuerpflicht aus, so ist § 11 entsprechend anzuwenden“. dell’amministrazione – presupposti per l’acquisizione della residenza fiscale in Belgio – determina ai fini tributari l’applicazione della disciplina della liquidazione, prevista agli artt. 208 e 209 dell’I.T.C. 1992, con riferimento al valore normale degli assets societari ovunque situati (salve al riguardo eventuali convenzioni contro la doppia imposizione). In una terza ed ultima ipotesi, nonostante l’adozione del principio della “sede reale” né si rinvia alla disciplina della liquidazione, né si prevede una disciplina specifica delle exit taxes. Così ad esempio accade in Austria, dove la mancata riproduzione da parte del KStG 1988 del § 20 KStG 1966 – che regolava le conseguenze della perdita di residenza stabilendo che ove una società avesse spostato la sua sede dell’amministrazione o la sua sede legale in un altro Stato, perdendo la sua qualità di soggetto tassabile per i redditi ovunque prodotti, avrebbe trovato applicazione il §18 KStG 1966 disciplinante gli effetti tributari della liquidazione di società e l’emersione delle plusvalenze latenti in base al criterio del valore normale – ha dato origine ad una serie di variegate posizioni interpretative in ordine alla rilevanza ai fini impositivi del trasferimento di residenza fiscale, ora affermandosene la riconducibilità alla disciplina della liquidazione, con conseguente applicabilità del § 19 KStG, ora ritenendolo disciplinato dal §6(6) EStG 1988, riguardante il trasferimento all’estero di elementi dell’attivo dell’impresa o di complessi aziendali avente come destinatario un soggetto collegato (o una stabile organizzazione appartenente) al soggetto che pone in essere il trasferimento (48). Venendo ora agli ordinamenti che adottano il principio dell’incorporazione, si assiste qui alla previsione in ciascuno di essi di una specifica disciplina di tassazione delle plusvalenze latenti diversa da quella propria della liquidazione, quale corollario della normale non determinazione da parte del trasferimento della sede all’estero di effetti qualificabili in termini di scioglimento della società. Così avviene nei Paesi Bassi, il cui art. 15C CITA rende imponibili le plusvalenze latenti, le riserve in sospensione d’imposta e l’avviamento delle imprese, anche in forma societaria, che trasferiscono la propria residenza fiscale in un altro Stato (49); nel Regno Unito, dove le sect. 185 e 187 del TCGA 1992 (Taxation of Capital Gains Act) stabiliscono che laddove una società cessi di essere residente nel Regno Unito, gli elementi dell’attivo si presumono realizzati al loro valore normale; infine in (48) In ogni caso, tale disciplina si riferirebbe al solo trasferimento all’estero del “place of management”, stante l’assimilazione, ai sensi del § 29 BAO, del “place of management” alla “stabile organizzazione”. (49) Sul punto, vedi M.A. DE LOUW, Netherlands. Lower Courts decides on Taxation on Hidden Reserves upon the Emigration of a Dutch Company, in European Taxation, 1999, p. 488 ss. Svezia, dove la cessazione della soggettività tributaria illimitata dà luogo alla tassazione delle plusvalenze latenti in base ad una disciplina ad hoc (50). E’ interessante osservare che l’applicazione del criterio del place of incorporation si estende in tali Stati anche alla residenza fiscale, la quale può essere dunque perduta nel solo caso di trasferimento in uno Stato con il quale sia stata stipulata una convenzione contro le doppie imposizioni, in particolare per effetto dell’applicazione della c.d. tiebreaker rule ivi prevista. La “perdita” di residenza si esplica peraltro nei soli confronti dello Stato convenzionato, sicché il soggetto resterà residente nello Stato di partenza, sia ai fini interni, sia ai fini dell’applicazione di convenzioni internazionali con Stati terzi. Per quanto riguarda l’Italia, essa si pone in una posizione intermedia. Se infatti il criterio base adottato a seguito della riforma del diritto internazionale privato è quello della “incorporazione”, abbiamo anche visto come esso non rifugga dal riferimento alla sede reale. Si è peraltro visto come il dubbio se il trasferimento di sede comporti o meno la liquidazione della società sia ormai stato risolto in senso negativo, anche in virtù dell’adozione da parte del legislatore fiscale di una disciplina fiscale ad hoc quale è l’art. 20-bis (ora 166) t.u.i.r. che chiaramente prescinde dalle vicende operanti sul piano internazional-privatistico (51). E’ peraltro interessante notare che alle discipline sostanziali appena richiamate si accompagnano talvolta discipline procedimentali ad hoc. Così accade ad esempio nel Regno Unito, ove è previsto un obbligo di comunicazione (“advance warning”) all’autorità fiscale della data del trasferimento, degli importi dovuti a titolo di imposte e delle garanzie offerte per il pagamento di dette imposte (52). 4. Altri profili tecnico-giuridici rilevanti sul piano interno. – I limiti che caratterizzano questo studio non consentono, come già rilevato, di approfondire tutti gli aspetti tecnico-giuridici che caratterizzano la disciplina delle exit taxes negli Stati interessati. (50) Vedi P. BRANDT, Sweden. Fundamental freedoms for citizens, fundamental restrictions on national tax law, in European Taxation, 2000, p. 77 ss. (51) E’ peraltro interessante notare che anteriormente all’introduzione dell’art. 20-bis, i possibili effetti di tassazione delle plusvalenze latenti venivano anche ricondotti a vicende diverse da quelle operanti sul piano internazional-privatistico. Intendiamo in particolare riferirci a quelle tesi che rinvenivano un appiglio nella norma sull’imponibilità delle plusvalenze dei beni destinati a “finalità estranee all’esercizio dell’impresa” di cui all’art. 54 t.u.i.r., ritenuta norma di “chiusura” atta a ricomprendere qualunque ipotesi di oggettiva sottrazione del bene all’impresa e al suo regime. Sul punto, vedi R. LUPI, Primi appunti in tema di fusioni, scissioni e conferimenti “transnazionali”, in Boll. trib., 1992, p. 1299 (nota 5); ID., Profili tributari della fusione di società, Padova, 1988, p. 60 ss.; M. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, Milano, 1993, p. 160 ss.; A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito CEE, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1996, p. 452 e 487. Contra, M. NUSSI, Trasferimento della sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti in tema di stabile organizzazione e regime dei beni di impresa, cit., p. 1359, che sostiene l’inesistenza della necessità logica che i beni assoggettati al regime dei beni di impresa possano uscirne solo comportando l’emersione di plusvalenze o minusvalenze. (52) Finance Act 1998, sect. 130. Non è invece più richiesto il consenso del Tesoro. Alcuni di essi meritano tuttavia di essere segnalati. Innanzitutto, con particolare riferimento a quegli Stati nei quali vige il sistema del credito di imposta, il legislatore disciplina talvolta l’ulteriore questione dell’integrazione tra l’imposta pagata dalla società in sede di exit tax e quella dovuta dagli azionisti. In Francia, ad esempio, l’avanzo “da liquidazione” viene attribuito ai soci, cui spetta tuttavia un credito d’imposta (avoir fiscal) sulla parte di esso che eccede i conferimenti e il prezzo di acquisto della partecipazione. In Italia, invece, l’art. 166 tuir regola, nel caso di società di capitali, esclusivamente ciò che accade a livello societario, senza curarsi dei successivi effetti sui soci i quali, se residenti, percepiranno in futuro dividendi provenienti da soggetti non residenti. Tale circostanza, fortemente penalizzante nel regime dei dividendi vigente sino al 31.12.2003 per la mancata spettanza del credito di imposta sui dividendi provenienti da soggetti non residenti (che in effetti avevano scontato l’Irpeg anteriormente al trasferimento di residenza), risulta ora non più rilevante per effetto dell’abrogazione del meccanismo del credito di imposta nei rapporti tra società ed azionisti residenti in Italia e la sostanziale equiparazione nella tassazione tra dividendi interni e dividendi esteri. In secondo luogo, non sempre il mantenimento dei beni in capo ad una stabile organizzazione dello Stato che si lascia consente di evitare la tassazione a valore normale dei beni relativi alla impresa o società che si trasferisce (53). Mentre nel (53) Problema ulteriore è se possano “confluire” nella stabile organizzazione italiana anche beni non direttamente connessi con l’attività svolta dalla stabile organizzazione (ad esempio, immobili situati sul territorio dello Stato o partecipazioni di minoranza non riconducibili all’attività svolta mediante la stabile organizzazione): sul punto, con riferimento all’art. 20-bis t.u.i.r., F. VARAZI, Reddito d’impresa e trasferimento di sede all’estero, in Rass. trib., 1995, p. 692, che risolve il problema affermativamente sulla base del criterio della c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione, e G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, cit., p. 212, che precisa come la “confluenza” nella stabile organizzazione sia generalmente intesa come semplice aggregazione contabile, dovendosi considerare “confluiti” nella stabile organizzazione tutti i cespiti che risultano iscritti nella sua contabilità, ancorché meramente patrimoniali ovvero situati all’estero. Tale lettura troverebbe conferma in quella parte del co. 1 dell’art. 20-bis nella quale si assegna alla vicenda considerata la capacità di provocare in ogni caso il realizzo, a valore normale, delle plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero; regola ritenuta inutile ove i beni all’estero dovessero comunque sottostare al prelievo in caso di trasferimento della residenza. Ritiene invece A. LOVISOLO, Profili fiscali della fusione transfrontaliera di società, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, II, p. 789 che mentre per i beni detenuti per finalità di investimento situati in Italia la “effettiva connessione” ben potrebbe intendersi quale correlazione contabile al bilancio fiscale della stabile organizzazione, nel caso di beni situati all’estero e non costituenti stabile organizzazione sarebbe necessaria l’esistenza di un collegamento con il funzionamento della stabile organizzazione (una “relazione operativa”), non essendo sufficiente la semplice esposizione dei beni nel bilancio della stessa. Ora, l’alternativa interpretativa tra “mero collegamento contabile” e “criteri di effettiva connessione economica” sconta la diversa impostazione data al problema, la prima tesi essendo sostanzialmente riconducibile alla ratio di ammettere in modo selettivo l’applicazione del principio di neutralità fiscale, la seconda tesi risentendo invece maggiormente del carattere “produttivo” della stabile organizzazione e quindi della necessità di un collegamento “strumentale” del bene con la stabile organizzazione medesima. A ciò si aggiunge il profilo della “forza di attrazione” della stabile organizzazione, come possibilità di attribuire alla stabile organizzazione anche redditi che non trovano la propria fonte effettiva nella stabile organizzazione. In tale ultima prospettiva si colloca, ad esempio, l’art. 151 co. 2 t.u.i.r., che localizza in Italia anche le plusvalenze o minusvalenze “dei beni destinati o comunque relativi alle attività commerciali esercitate nel territorio dello Stato, ancorché non conseguite attraverso le stabili organizzazioni, nonché gli utili distribuiti da società ed enti di cui alle lettere a) e b) dell’art. 73”. Si tratta di una previsione che ha Regno Unito, in Italia, nei Paesi Bassi e in Svezia, ad esempio, la tassazione delle plusvalenze latenti sui beni relativi alla società che si trasferisce non si verifica laddove detti beni confluiscano in una stabile organizzazione nel territorio dello Stato che si lascia (sect. 185, sub 4 TCGA; art. 166 t.u.i.r.; art. 15C CITA; sect. 22(1b) KL)) – venendone sostanzialmente a costituire il c.d. “fondo di dotazione” – in Germania dal mero riferimento alla perdita della soggettività tributaria illimitata contenuto nella legislazione interna, e quale necessaria conseguenza dell’applicazione della disciplina della liquidazione societaria, si deduce la tassazione anche degli elementi dell’attivo mantenuti nell’ambito di una stabile organizzazione tedesca (54). Altri aspetti importanti emergono con riferimento alla determinazione della base imponibile. formato oggetto di discordanti vedute, ora ritenendosi che essa intenda riferirsi a plusvalenze o minusvalenze di beni pertinenti ad altre attività commerciali esercitate senza stabile organizzazione nel territorio dello stato da parte di un soggetto che svolga, sempre, in Italia una diversa attività commerciale mediante una stabile organizzazione (C. GARBARINO, Forza di attrazione della stabile organizzazione e trattamento isolato dei redditi, in Rass. trib., 1990, p. 438; G. ZIZZO, Reddito delle persone giuridiche (imposta sul), in Riv. dir. trib., 1994, p. 664; S. MAYR, Le società commerciali non residenti con o senza stabile organizzazione in Italia, in Boll. trib., 2003, p. 1221, che evidenzia che l’effetto di tale tesi sarebbe quello di attribuire alla norma non solo una funzione di “localizzazione” bensì anche di “attrazione” delle plus- e minusvalenze in capo alla stabile organizzazione, il che non sarebbe del tutto compatibile con il tenore letterale della norma); ora invece sostenendosi che essa attribuirebbe rilevanza alla plusvalenze o minusvalenze di beni che, pur non appartenenti alla stabile organizzazione ma direttamente al soggetto non residente, siano tuttavia “correlati” all’attività commerciale esercitata nel territorio dello Stato mediante la stabile organizzazione (L. PERRONE, L’imposizione sul reddito delle società ed enti non residenti, in Rass. trib., 1989, p. 497 ss.; ID., Problemi vecchi e nuovi in materia di imposizione sul reddito delle società e degli enti non residenti, in Rass. trib., 2001, p. 1227). Non intendiamo prendere posizione su tale controversia, ma solo limitarci a due osservazioni. Da un lato, la seconda tesi appare preferibile in un’ottica di effettività, essendo difficilmente ipotizzabile lo svolgimento in Italia di attività commerciali con beni strumentali plus- o minusvalenti (anch’essi in Italia) senza che ciò dia luogo ad una stabile organizzazione: l’ipotesi di utilizzo di installazioni materiali per lo svolgimento di attività “preparatorie” o “ausiliarie” difficilmente può infatti dar luogo allo svolgimento in Italia di attività “d’impresa”. Dall’altro, la seconda tesi mette in evidenza la possibilità di un collegamento “funzionale” tra stabile organizzazione e beni “non strumentali” che è interessante ai nostri fini. A tale riguardo deve infatti osservarsi che le ipotesi applicative derivanti dall’accoglimento della seconda tesi sono state individuate sia con riferimento a beni “plusvalenti” situati nel territorio dello Stato (ad esempio, l’edificio ad uso abitativo destinato ad accogliere le maestranze dello stabilimento italiano, le cui plusvalenze da cessione verrebbero ad essere qualificate come redditi d’impresa anziché come redditi diversi), sia in relazione a beni “plusvalenti” situati all’estero (ad esempio, un locale destinato a magazzino per merci vendute in Italia). Potrebbe peraltro essere anche ipotizzato il caso di collegamento con beni non strumentali, anche se ciò non appare di rilievo ai fini dell’applicazione della norma sul trasferimento di residenza: si pensi ad un “magazzino” prodotti finiti situato in un altro Stato che venga fatto rientrare in Italia per servire il mercato locale: sul punto, A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito CEE, cit., p. 453. Conclusivamente, il criterio della “connessione effettiva” rischia di apparire eccessivamente complesso: il criterio della iscrizione in bilancio (rectius, nella situazione patrimoniale) della stabile organizzazione – che peraltro già caratterizza la lettura della norma interna, ritenendosi che ai fini dell’applicazione dell’art. 151 co. 2 debba comunque trattarsi di beni iscritti nel bilancio della casa-madre, poiché ove iscritti nel bilancio della stabile organizzazione una tale norma non sarebbe necessaria (vedi L. PERRONE, L’imposizione sul reddito delle società ed enti non residenti, cit., p. 498, che attribuisce rilevanza a tal fine alla contabilità della stabile organizzazione, da una parte, e dell’ente non residente, dall’altra) – appare dunque probabilmente quello più equilibrato sotto il profilo operativo. (54) Vedi KNOBBE-KEUK, Der Wechsel von der beschränkten Körperschaftsteuerpflicht und vice versa, in Steuer und Wirtschaft, 1990, p. 378 ss. zur unbeschränkten Non è sempre chiaro, innanzitutto, se l’emersione delle plusvalenze latenti comporti anche la tassazione dell’avviamento. In Germania, ad esempio, dal riferimento al regime della “liquidazione” la dottrina ne deduce la non tassabilità, sia in base all’argomento che la liquidazione comporta “per definizione” la perdita dell’avviamento, sia sulla pretesa disparità di trattamento che si verificherebbe rispetto ad una vera e propria “messa in liquidazione”; l’amministrazione finanziaria e altra parte della dottrina ne sostengono al contrario la tassabilità, ritenendo che la ratio del § 12 KStG sia quella di far emergere l’intero valore dell’azienda relativa alla società trasferita, come se questa dovesse essere ceduta e proseguita all’estero da un nuovo soggetto, a nulla rilevando la pretesa disparità di trattamento con la liquidazione vera e propria, poiché con essa viene meno qualsiasi possibilità di generare un futuro reddito. Lo stesso accade per la disciplina italiana, dove non sussistono certezze né sulla tassabilità dell’avviamento, né sull’attrazione a tassazione dei beni non facenti parte di un complesso aziendale, come un immobile o una partecipazione societaria (55). Situazione, questa, che appare ancor più sorprendente se si pensa che il decreto del (55) Con riferimento all’avviamento, vedi S. MAYR, Effetti del trasferimento della sede all’estero, cit., p. 2708, per il quale il realizzo a valore normale dovrebbe riguardare esclusivamente i beni iscritti nella contabilità dell’impresa individuale, con l’esclusione, quindi, del realizzo di un eventuale avviamento. Ciò sia in virtù del tenore letterale della norma, sia a motivo dell’inesistenza di un’operazione tipicamente connessa al realizzo dell’avviamento, sia infine per l’impossibilità di iscrizione di un tale bene nel bilancio della stabile organizzazione al fine di non determinarne l’immediata imponibilità. Contrario alla tassabilità dell’avviamento è anche S. FIORENTINI, Effetti del trasferimento all’estero della sede sociale, in Corr. trib., 1995, p. 1669, mentre sottolineano le possibili contrastanti chiavi di lettura relative alla sua tassabilità G. BERNONI – M. COLACICCO, Il trasferimento all’estero della sede di una società di capitali, in Il Fisco, 1996, p. 10068 ss. Per quanto riguarda i beni non inquadrabili nel concetto di azienda (in assenza di stabile organizzazione in Italia: altrimenti vedi supra a nota 53), si esprimono a favore della loro rilevanza ai fini impositivi, a motivo delle “finalità della norma”, M. LEO – F. MONACCHI – M. SCHIAVO, Le imposte sui redditi nel testo unico, cit., p. 389, mentre di contrario avviso sono S. MAYR, Effetti del trasferimento della sede all’estero, cit., p. 2711 e G. BERNONI – M. COLACICCO, Il trasferimento all’estero della sede di una società di capitali, cit., p. 10071, i quali sottolineano tuttavia il rischio di una riconducibilità di tale ipotesi alla “destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa” di cui all’art. 54, co. 1 lett. d) t.u.i.r. Ci sembra tuttavia da un lato che tale ultimo rischio sia ormai superato, in quanto l’emanazione dell’art. 20-bis può essere ora letta come confermativa dell’inapplicabilità alla fattispecie del trasferimento della residenza all’estero della norma sulla destinazione “a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”; dall’altro, che l’argomentazione basata sulle presunte finalità della norma appaia piuttosto debole al cospetto del puntuale riferimento operato ai “componenti dell’azienda o del complesso aziendale” e non già ai beni “relativi all’impresa”. Non v’è tuttavia dubbio alcuno che si tratti di una lacuna meritevole di essere colmata, essendo indubbia per i beni “isolati” la potenzialità elusiva del trasferimento di residenza all’estero, posto che il decorso il quinquennio previsto dall’ex art. 81 t.u.i.r. farebbe legittimamente sfuggire le plusvalenze dall’imposizione. I problemi appena richiamati riguardano ovviamente anche la tassazione dei beni “isolati” situati all’estero e delle stabili organizzazioni estere. Ci si potrebbe peraltro chiedere se i beni “esteri” possano “confluire” in una stabile organizzazione italiana al fine di evitare la tassazione (dubbia per i beni “isolati”; certa per le stabili organizzazioni estere) delle plusvalenze latenti: l’utilizzo della locuzione “in ogni caso” per le plusvalenze relative a stabili organizzazioni estere, nel contrapporsi alla previsione della non tassabilità in caso di confluenza dei beni in una stabile organizzazione nazionale, sembrerebbe escludere tale possibilità per i beni relativi alla stabile organizzazione estera (osserva peraltro A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito CEE, cit., p. 487, che i beni facenti parte di una stabile organizzazione estera non possano di per sé confluire, dopo l’operazione, in una stabile organizzazione italiana del soggetto non residente). Ministro delle finanze che avrebbe dovuto – ai sensi dell’art. 30, comma 2 d.l. 23 febbraio 1995, n. 41 – prevedere le modalità di attuazione dell’art. 20-bis mediante l’approvazione di appositi modelli ed allegati indicanti i beni e gli altri elementi reddituali relativi all’impresa e quelli relativi alla stabile organizzazione, non è stato ad oggi ancora emanato. Sempre in tema di base imponibile, altro aspetto di notevole importanza riguarda il destino delle “minusvalenze” latenti. Al riguardo, l’art. 166 t.u.i.r. ancora una volta non brilla per chiarezza: se è infatti vero che la norma fa genericamente riferimento al “realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale”, utilizzando una espressione astrattamente idonea a comprendere plusvalenze e minusvalenze, essa precisa successivamente che “si considerano in ogni caso realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero”. Tale elemento di ambiguità semantica può tuttavia superarsi in base alla constatazione della inesistenza di una “plusvalenza normale”, venendo così necessariamente in rilievo la differenza tra valore normale della stabile organizzazione estera nel suo complesso e il suo costo fiscalmente riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi italiane (56). E’ interessante peraltro notare che numerosi Stati europei consentono la compensazione tra plusvalenze e minusvalenze “latenti” in occasione del prelievo della exit tax. Un ultimo aspetto interessante – anch’esso non chiarito dalla disposizione italiana – è se le exit taxes trovino applicazione anche nell’ipotesi in cui la società mantenga nello Stato di partenza uno o più dei criteri costitutivi della residenza fiscale, perdendo tuttavia la residenza fiscale nei rapporti con un altro Stato a motivo dell’applicazione di una convenzione internazionale contro la doppia imposizione con esso stipulata (57). Tale problema viene ovviamente risolto affermativamente negli Stati che adottano il principio della “incorporazione” ai fini della determinazione della residenza fiscale, posto che solo in presenza di una convenzione contro la doppia imposizione è possibile perdere la residenza fiscale (58) (59). (56) Vedi A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito CEE, cit., p. 488. (57) Vedi G. ZIZZO, Il trasferimento della sede all’estero, cit., p. 210, che ritiene rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 20-bis anche la perdita di residenza per effetto dell’applicazione delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. Vedi anche L. MONTECAMOZZO, Trasferimento della residenza all’estero: la manovra Dini risolve i dubbi in merito alla sua rilevanza fiscale, in Boll. trib., 1994, p. 337. (58) Così, ad esempio, accade in Svezia: vedi P. BRANDT, Sweden. Fundamental freedoms for citizens, fundamental restrictions on national tax law, cit., p. 80. (59) Di notevole importanza è infine il trattamento fiscale delle riserve di bilancio. Per alcuni profili relativi alla tassazione delle riserve in caso di società che trasferiscono la sede in Belgio, vedi K. DEBRIER, Tax Treatment of Migration of Companies to Belgium, cit., p. 78 ss. 5. Exit taxes e doppia imposizione internazionale. – La presenza di exit taxes può dare luogo a rilevanti fenomeni di doppia imposizione. Può infatti accadere che in caso di realizzo effettivo nello Stato B delle plusvalenze su beni già tassati con le exit taxes nello Stato A, il valore “di carico” dei beni nello Stato B non incorpori anche quella parte di plusvalenze già tassate al momento dell’applicazione delle exit taxes e che, inoltre, le exit taxes pagate nello Stato A non vengano riconosciute “a credito” dalle imposte dovute nello Stato B sulle plusvalenze realizzate. Infatti, se vi è coincidenza tra valore “di carico” dei beni nello Stato B e valore in “uscita” dallo Stato A assunto ai fini della determinazione della base imponibile delle exit taxes, nulla quaestio. Se invece il primo valore è inferiore al secondo, si ha una sovrapposizione di basi imponibili che può condurre a fenomeni di doppia imposizione se lo Stato B non riconosce un credito per l’imposta già pagata su tali plusvalenze nello Stato A (60). Gli Stati hanno diverse opzioni per risolvere il problema della doppia imposizione determinato dalle exit taxes. Innanzitutto, essi possono risolverlo attraverso il c.d. “step-up-value”, nel senso che la tassazione delle plusvalenze latenti è accompagnata da un adeguato sistema di valorizzazione dei beni cui tali plusvalenze si riferiscono, al fine di evitare che la futura tassazione delle plusvalenze finisca per colpire anche quelle plusvalenze maturate sui beni quando il relativo possessore era non residente. Esso consiste alternativamente nel valorizzare i beni secondo il criterio del “valore normale” o altro analogo oppure nell’assumere direttamente il valore “in uscita” come valore “in ingresso”. Misure di questo tipo si trovano sia a livello unilaterale che bilaterale, talvolta per le partecipazioni appartenenti a soggetti non imprenditori, altre volte per gli assets appartenenti a soggetti imprenditori. Per quanto riguarda le partecipazioni appartenenti a soggetti non imprenditori, misure unilaterali si ritrovano sia in Austria che in Olanda, dove viene assunto come valore iniziale il valore di mercato al momento del mutamento dello status del possessore della partecipazione (61); in altri ordinamenti, come quello tedesco, è invece espressamente previsto che il valore di ingresso è rappresentato dal costo (60) Di converso, la mancata presenza di exit taxes può dar luogo a fenomeni di “salti di imposta”, laddove lo Stato di destinazione accolga quale valore “di ingresso” dei beni il rispettivo valore normale, con la conseguenza che la differenza tra valore fiscalmente riconosciuto e valore normale non formerà mai oggetto di tassazione. Peraltro, un “salto di imposta” si verificherebbe anche nell’ipotesi in cui lo Stato di destinazione accolga “valori di bilancio”, ma questi non siano espressione di valori fiscalmente riconosciuti, ad esempio per la presenza di plusvalenze iscritte non tassate. (61) Per l’Austria, vedi G. TOIFL, Report per l’Austria sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 166 ss. Per i Paesi Bassi, vedi R. BETTEN, Report per l’Austria sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 419. storico del bene, tranne che agli effetti della futura exit tax, nel qual caso sarà concesso lo “step-up”. A livello bilaterale, si può ricordare l’art. 13, par. 5 del trattato tra Germania e Svizzera del 11 agosto 1971, in base al quale in caso di alienazione di partecipazioni sulle quali sia stata prelevata una exit tax lo Stato di destinazione assumerà come valore di partenza per la determinazione della plusvalenza tassabile il valore attribuito alla partecipazione al momento dell’uscita dall’altro Stato; oppure l’art. 13 della convenzione tra Germania ed Austria, per la quale in caso di tassazione da parte di uno Stato delle plusvalenze su partecipazioni maturate sino al momento del trasferimento, l’altro Stato sarà obbligato ad attribuire alla partecipazione un valore in entrata pari a quello in uscita (confermando a livello convenzionale il criterio dello “step-up-value” già previsto dalla legislazione austriaca, ma non da quella tedesca, subordinandone tuttavia l’applicazione all’effettivo assoggettamento ad exit tax nell’altro Stato con l’effetto di ovviare ad eventuali problemi di doppia non imposizione); infine, il punto 12 del Protocollo alla Convenzione tra Italia e Germania, che stabilisce che il costo di acquisto in caso di ulteriore cessione della partecipazione già sottoposta ad exit tax sarà pari “all’ammontare che il primo Stato avrà concordato come valore teorico della partecipazione al momento della partenza della persona fisica” (62). Per quanto riguarda le exit taxes prelevate in capo a soggetti imprenditori, uno “step-up” a livello unilaterale si rinviene in Austria – dove il §6(6) EStG 1988 lo prevede anche se per i soli per i beni materiali fisicamente trasferiti in Austria e per i beni immateriali – nonché nei Paesi Bassi, sia pure in via di elaborazione giurisprudenziale (63); nel Regno Unito, invece, viene negato lo “step up” nel caso di trasferimento verso tali Stati (64). Mancano disposizioni bilaterali in tal senso per le exit taxes prelevate in capo a soggetti imprenditori. Un secondo criterio per tenere conto della doppia imposizione consiste nel concedere un credito d’imposta nello Stato di destinazione. Il valore di carico nello Stato (62) Per una rassegna delle clausole contenute nelle convenzioni stipulate dall’Italia, vedi G. MARINO, Report per l’Italia sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, Congresso IFA 2002, Vol. LXXXVIIb, Rotterdam, 2002, p. 364 ss. (63) Corte cass., 21 novembre 1990 (in BNB, 1991/90). (64) Per quanto riguarda l’Italia, il problema della valutazione dei beni che entrano nel regime del reddito d’impresa a seguito del trasferimento di residenza ha formato oggetto di valutazioni contrastanti in dottrina, da taluno ritenendosi che l’assenza di aspetti traslativi giustifichi il mantenimento del costo originario conformemente alla soluzione adottata, per i beni strumentali dell’imprenditore individuale, dall’art. 77 co. 3-bis (D. STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, p. 97, in particolare, nota 118); da altri invece ritenendosi fondatamente sostenibile la presa in carico dei beni al loro “valore normale”, non potendo ragioni di cautela fiscale spingersi sino al punto di scaricare sul reddito d’impresa plusvalori formatisi prima dell’inserimento del bene nel relativo regime o di precludere congrui ammortamenti (M. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, cit., p. 151 ss.; A. FIORELLI – A. SANTI, L’individuazione del valore fiscalmente riconosciuto per il patrimonio estero dell’impresa trasferito in Italia, in Rass. trib., 1997, p. 668 ss.). Vedi, per ulteriori richiami, G. PETRELLI, Lo stabilimento delle società comunitarie in Italia, cit., p. 125. di destinazione coincide con il costo di acquisto sostenuto nello Stato di partenza, sicché il correttivo agisce non più a livello di base imponibile, bensì di imposta. Esempi – sia a livello unilaterale che bilaterale – si ritrovano tuttavia solo per soggetti non imprenditori. Nel Regno Unito è ad esempio riconosciuto un foreign tax credit per le imposte estere (comprese eventuali exit taxes) da scomputare dalle imposte dovute in relazione alle plusvalenze sulle partecipazioni cedute in caso di riacquisto della residenza entro cinque anni dal trasferimento, nel caso in cui il contribuente provenga da uno Stato nel quale sia in vigore una exit tax. In Francia, invece, l’Amministrazione finanziaria ha espressamente escluso che il credito d’imposta possa avere ad oggetto le exit taxes pagate nello Stato di provenienza. A livello bilaterale va ricordato il trattato tra Germania e Svezia del 14 luglio 1992, che prevede che i contribuenti trasferitisi dalla Germania in Svezia hanno diritto ad un credito per la exit tax tedesca laddove la plusvalenza venga realizzata entro dieci anni dal trasferimento della residenza. Una terza misura contro le doppie imposizioni consiste infine nell’accordare nello Stato di partenza un credito per l’imposta che verrà prelevata nello Stato di destinazione, per la parte ovviamente riferibile alla plusvalenza maturata anteriormente al trasferimento. A livello unilaterale un simile sistema si trova nei Paesi Bassi, mentre a livello convenzionale occorre ricordare la Convenzione tra Paesi Bassi e Danimarca del 1° luglio 1996, in virtù della quale la Danimarca concede un credito per le imposte pagate nei Paesi Bassi sulla cessione delle partecipazioni da parte di un ex residente danese da scomputare dalla propria exit tax. 6. Convenzioni internazionali in materia di imposte sul reddito ed exit taxes. – Dobbiamo ora esaminare se l’istituzione o la permanenza di exit taxes “societarie” sia compatibile con le convenzioni contro le doppie imposizioni, sia per quanto riguarda la tassazione degli assets situati nello Stato di partenza non confluiti in una stabile organizzazione, sia in relazione alle stabili organizzazioni estere, situate ora nello Stato di destinazione ora in uno Stato terzo rispetto a quello di destinazione. Occorre preliminarmente osservare che nessun dubbio sussiste relativamente alla possibilità di comprendere le exit taxes nell’ambito oggettivo delle convenzioni. La definizione convenzionale delle “imposte sul reddito” quali imposte “prelevate sul reddito complessivo (…) o su elementi del reddito o del patrimonio, comprese le imposte sugli utili derivanti dall’alienazione di beni mobili o immobili” (65), rende infatti tale inclusione evidente, operando la exit tax sul mero momento di emersione a tassazione delle plusvalenze latenti. Ciò posto, le disposizioni che vengono in rilievo sono due. (65) Non si tratta, è bene precisarlo, di un’imposta sul patrimonio, sicché non troverà certamente applicazione l’art. 22 del Modello riguardante l’imposizione del patrimonio. Da un lato, l’art. 7, che sancisce come noto la tassabilità dei redditi di impresa nel solo Stato di residenza della casa-madre, a meno che questa non disponga nello Stato della fonte di una stabile organizzazione, nel qual caso gli utili attribuibili alla stabile organizzazione saranno tassabili in tale ultimo Stato. Dall’altro, l’art. 13, rubricato agli “utili di capitale”, che assegna il diritto di tassare le plusvalenze derivanti dalla alienazione di beni immobili allo Stato in cui questi sono situati (par. 1), il diritto di tassare le plusvalenze derivanti dall’alienazione di beni mobili facenti parte dell’attivo di una stabile organizzazione (comprese le plusvalenze derivanti dall’alienazione di detta stabile organizzazione, da sola od in uno con l’intera impresa) allo Stato in cui è situata la stabile organizzazione (par. 2) e, infine, il diritto di tassare le residue plusvalenze allo Stato in cui l’alienante è residente (par. 4). Nei casi previsti dall’art. 7 par. 1 (in presenza di stabile organizzazione) e dall’art. 13 par. 1 e par. 2, la tassazione sarà di tipo concorrente; nei casi previsti dall’art. 7 par. 1 (in assenza di stabile organizzazione) e dall’art. 13 par. 4, essa sarà invece di tipo esclusivo (nello Stato di residenza). Ora, per gli assets situati nello Stato di partenza e non confluiti in una stabile organizzazione, nulla quaestio. Il prelievo avviene prima del trasferimento della residenza e quindi quando il diritto di tassazione ancora non è passato al nuovo Stato di residenza. I beni tassati sono appartenenti ad una società residente nello Stato di partenza e non ad una società non residente senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Per gli assets della stabile organizzazione estera, l’art. 13 si riferisce, quale momento di emersione delle plusvalenze, alla alienazione, e non ne prevede ulteriori. Nel caso delle exit taxes, come visto, il presupposto è anticipato, venendo in rilievo la mera “fuoriuscita” del soggetto (e conseguentemente dei beni ad esso relativi) dal regime della tassazione illimitata, indipendentemente dal realizzo effettivo delle plusvalenze latenti. Appare allora difficile poter rinvenire nell’art. 13 un limite alla potestà impositiva che si esercita per mezzo delle exit taxes. Esse sono invero espressione di un principio diverso, venendo meno quel criterio di collegamento (la residenza) necessario per poterne consentire la tassazione al momento dell’effettivo realizzo; tassazione, peraltro, che la convenzione internazionale comunque non vieta allo Stato di (ex) residenza, stabilendo soltanto un diritto “concorrente” con conseguente eliminazione della doppia imposizione nello Stato della residenza. Vi è quindi un presupposto diverso da quello considerato nell’art. 13, il quale, nel rispetto della tradizionale funzione di ripartizione della potestà impositiva tipica delle convenzioni contro le doppie imposizioni, non si rivela idoneo a rendere giuridicamente irrilevante il presupposto previsto nella norma interna, ma solo a ripartire la materia imponibile tra gli Stati una volta verificatosi il presupposto medesimo. Posto dunque che le convenzioni contro le doppie imposizioni non sono in grado di risolvere il problema al momento del trasferimento della residenza, il problema si sposta al momento successivo dell’effettiva alienazione dei beni, in cui la potestà impositiva spetterà al nuovo Stato di residenza (sia per i beni già appartenenti alla stabile organizzazione ivi situata, sia per gli altri beni non confluiti in una stabile organizzazione situata nello Stato di ex residenza, sia per i beni appartenenti a stabili organizzazioni situate in uno Stato terzo). In questo caso ci si dovrà chiedere se la potestà impositiva del nuovo Stato di residenza possa estendersi, per quanto riguarda i beni diversi da quelli già appartenenti alla stabile organizzazione ivi situata, anche alle plusvalenze maturate anteriormente al trasferimento della residenza e, in caso affermativo, se possa rinvenirsi un obbligo per il nuovo Stato di residenza di concedere un credito per le imposte pagate nell’ex Stato di residenza. Per quanto riguarda il primo problema – che si pone ovviamente se il nuovo Stato di residenza non abbia adeguato il valore di ingresso a quello in uscita con le modalità prima descritte – il Modello OCSE si rivela ancora una volta carente. Limitandosi a ripartire la potestà impositiva sulle plusvalenze, esso potrebbe esplicare la propria efficacia solo in relazione a quella parte di plusvalenze maturate successivamente al trasferimento di residenza sulle quali lo Stato di ex-residenza dovesse ancora pretendere in via unilaterale il pagamento delle imposte ordinarie, ad esempio trattandosi di partecipazioni relative a società ivi residenti. La tesi che fa derivare dal trattato comunque una limitazione, nei confronti del nuovo Stato di residenza, a non tassare le plusvalenze maturate anteriormente al trasferimento (66) appare invece debole, in quanto argomentata su un “principio” di incerta ricostruzione. Per la quota maturata anteriormente e oggetto di tassazione per mezzo della exit tax, si pone del resto l’ulteriore ostacolo della “non identità” tra i periodi di imposta nei quali avviene la doppia imposizione. Si determina invero un problema di “timing” a motivo della non coincidenza tra i periodi di imposta nei quali si esplica la concorrenza impositiva (67), che solleva certamente dubbi circa la conformità di tale doppia imposizione all’art. 23 che tale doppia imposizione ha il fine di eliminare. Alcune convenzioni risolvono direttamente la questione, anche qui tuttavia solo per le partecipazioni detenute da soggetti non imprenditori. Si possono ricordare, ad esempio, l’art. 13 par. 5 della Convenzione tra Austria e Regno Unito, che prevede che le plusvalenze su partecipazioni possono essere tassate nel precedente Stato di residenza se tra il trasferimento della residenza e la cessione della partecipazione è decorso meno di un triennio e se nello Stato di destinazione non è prevista la tassazione di queste plusvalenze; l’art. 13 par. 6 della Convenzione tra Austria e (66) Questa tesi è stata proposta da B. KNOBBE-KEUK, Bilanz- und Unternehmensteuerrecht, Köln, 1993, p. 925, ma è stata rigettata dal BFH, con sentenza del 19 marzo 1996, VIII R 15/94. (67) Sul punto, vedi J. M. ULMER, Treaty issues, in AA. VV., Cross-border Effects of Restructuring Including Change of Legal Form, IFA Congress 2000, Vol. 25d, 2001, p. 100 ss. Canada, che prevede che l’ex Stato di residenza mantiene il diritto di tassare le plusvalenze se il cedente ne è cittadino o ne è stato residente per almeno dieci anni e se nel quinquennio precedente la cessione è stato residente di tale Stato (anche per un solo giorno); l’art. 13 della nuova convenzione tra Germania ed Austria, che stabilisce che se un soggetto che è stato residente di uno dei due Stati per almeno cinque anni trasferisce la residenza nell’altro Stato, il primo Stato ha il diritto di tassare le plusvalenze su partecipazioni maturate sino al momento del trasferimento (68); la convenzione tra Svezia e i Paesi Bassi, che riserva alla Svezia il diritto di tassare le plusvalenze su partecipazioni realizzate entro un periodo di cinque anni dalla data del trasferimento. Nella convenzione tra Italia e Svezia il diritto in oggetto è peraltro concesso soltanto a condizione che si tratti di un cittadino di uno Stato contraente che sia stato residente in quel medesimo Stato nel quinquennio precedente il trasferimento e che si tratti di una partecipazione in una società i cui beni sono costituiti da beni immobili situati in quello stesso Stato e nella quale il contribuente, anche insieme ad un familiare, eserciti una “influenza dominante”. Conclusivamente, in mancanza di clausole espresse, nessun ostacolo deriva dalle convenzioni internazionali né al diritto dello Stato di ex residenza a prelevare le exit taxes sulle plusvalenze maturate, né alla possibilità di esigere queste imposte immediatamente; al tempo stesso, nessun diritto deriva da esse al contribuente a vedersi riconosciuto un valore di ingresso pari al valore di uscita o, in alternativa, ad ottenere un credito per le imposte pagate nello Stato di uscita (69). Con specifico riferimento alle stabili organizzazioni estere, ci si potrebbe infine chiedere se a conclusioni diverse possa pervenirsi in caso di introduzione di una “exit tax” successivamente alla conclusione di una convenzione internazionale contro la doppia imposizione. In particolare, se si possa ritenere che, proprio a motivo dell’introduzione di un diverso presupposto impositivo delle plusvalenze situate in capo alla stabile organizzazione estera, l’introduzione di una exit tax finisca sostanzialmente per modificare ex post i criteri di localizzazione previsti dagli artt. 7 e 13. Sul piano formale, se è vero che il principale soggetto legittimato a sollevare il problema di “treaty overriding”, vale a dire lo Stato di destinazione, non ha interesse in tal senso, in quanto non risulta in effetti danneggiato dalla modifica normativa, rimanendo pur (68) Abbiamo visto in precedenza che il periodo minimo di residenza per la norma interna tedesca è pari a dieci anni, mentre nessun requisito temporale è richiesto dalla normativa austriaca. Così, se un soggetto trasferisse la propria residenza dall’Austria in Germania prima dei cinque anni previsti dalla norma convenzionale, e poi dalla Germania in uno Stato terzo prima del maturarsi dei dieci anni previsti dalla norma interna, sfuggirebbe ad imposizione in ambedue gli Stati. (69) Osserva A. VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is Compatible with the Freedom of Establishment, in European Taxation, 2002, p. 197, che proprio per questo motivo gli Stati preferiscono ricorrere a exit taxes anziché a forme di ampliamento dei criteri di localizzazione dei redditi prodotti nel territorio dello Stato da soggetti che si trasferiscono all’estero (c.d. “limited extended tax liability”). Queste ultime, infatti, rischiano di entrare in collisione frontale con le norme di localizzazione contenute nelle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. sempre la stabile organizzazione nel suo territorio, è anche vero che una violazione del trattato potrebbe essere avanzata dal contribuente e fatta valere sulla base del principio della specialità “sui generis” che regola il rapporto tra diritto interno e diritto internazionale, facendo valere in tal senso la mancanza di una espressa volontà di derogare al trattato. Sul piano sostanziale, se è vero che potrebbe sostenersi che lo Stato di partenza si limita ad anticipare il presupposto per la tassazione delle plusvalenze senza incidere sulla ripartizione convenzionale del reddito, appare tuttavia rilevante la circostanza che una tale anticipazione finisce sostanzialmente per vanificare la convenzione internazionale, il cui fine è proprio quello di determinare, attraverso una ripartizione della base imponibile, la debenza di una sola imposta da parte del contribuente; finalità, questa, che viene come visto frustrata dall’anticipazione del presupposto, il cui mismatching temporale finisce per determinare un “doppio d’imposta”. In altri termini, ci pare che le norme che ripartiscano il reddito tra Stati, obbligando uno tra essi a rinunziare (parzialmente o interamente) alla propria tassazione, non possano essere applicate disgiuntamente da quelle norme che prevedono espressamente le modalità con le quali eliminare la doppia imposizione (70). In tale prospettiva, una soluzione normativa a livello convenzionale finalizzata alla eliminazione della doppia imposizione dovrebbe ispirarsi a quanto disposto dal d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 544 che, nello stabilire che “si considerano in ogni caso realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alla stabile organizzazione all’estero”, prevede un credito d’imposta fittizio se la stabile organizzazione è situata in un altro Stato UE. Credito d’imposta che, invece, manca in tutte le exit taxes interne, prevedendosi la tassazione delle plusvalenze latenti senza possibilità di accredito dell’imposta estera. Dall’imposta relativa alle plusvalenze dovrebbe pertanto essere scomputabile, sino al suo totale assorbimento, l’imposta che lo Stato della stabile organizzazione avrebbe prelevato sui plusvalori latenti dei beni appartenenti alla stabile organizzazione ivi situata, al fine di scongiurare la doppia imposizione che altrimenti si determinerebbe. (70) Ritiene assai dubbia la compatibilità della introduzione di exit taxes in presenza di convenzioni già stipulate, L. DE BROE, General Report sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, cit., p. 65 ss. Osserva peraltro De Broe che se è vero che l’emigrazione in un altro Stato al solo fine di localizzare la plusvalenza in detto altro Stato può costituire un abuso del trattato, è anche vero che queste misure interne sono introdotte senza curarsi dell’effettivo prelievo estero. Inoltre, si tende ad affermare che l’applicazione delle disposizioni interne antielusive dovrebbe essere consentita espressamente dal Trattato tramite una specifica norma di salvaguardia, mentre solo poche convenzioni internazionali fanno salve le exit taxes (in particolare, circa quindici convenzioni stipulate dalla Danimarca tre convenzioni stipulate dalla Germania). Sul punto, vedi F. GALLO – G. MELIS, L’elusione fiscale internazionale nei processi di integrazione tra Stati: l’esperienza della Comunità Europea, in Justica Tributaria, Atti del 1° Congresso Internazionale di Diritto Tributario, Max Limonad, San Paolo del Brasile, 1998, p. 184 ss. 7. Exit taxes e diritto comunitario: profili generali. – L’ultimo profilo che intendiamo esaminare attiene alla compatibilità delle exit taxes con il diritto comunitario. Si tratta di un argomento di grande attualità, avendo formato oggetto di una recentissima sentenza della Corte di giustizia CE la questione relativa alla “compatibilità” con il principio di libertà di stabilimento (71) della exit tax francese prelevata sulle partecipazioni detenute da soggetti non imprenditori (72). Un primo aspetto che va indagato è se il problema debba essere affrontato dal punto di vista del principio di libertà di stabilimento o del principio di “non discriminazione”. E’ infatti noto che il collegamento esistente tra i due richiamati principi non è biunivoco. Se infatti la Corte di Giustizia ha ricondotto il principio di non discriminazione a quello di libertà di stabilimento – affermando ad esempio, nel caso avoir fiscal, che la società che gode in forza dell’art. 48 del Trattato CE del diritto di stabilimento nel territorio di un altro Stato membro può accedervi, ai sensi dell’art. 43, in forma di agenzia, di succursale o di filiale, sicché discriminando la stabile organizzazione appartenente a una società situata in altro Stato membro nella concessione del credito di imposta si disincentiva la localizzazione in Francia tramite una stabile organizzazione, obbligando le società straniere a costituirvi società figlie e svuotando così di contenuto l’art. 43 del Trattato – altre volte essa ha sottolineato la posizione autonoma che il principio di libertà di stabilimento assume rispetto al principio di non discriminazione. E’ il caso ad esempio della vicenda ICI (73) – avente ad oggetto la compatibilità con l’art. 43 della disposizione contenuta nella legislazione inglese che subordinava il beneficio della tassazione di gruppo, con il conseguente consolidamento delle perdite, alla condizione che l’attività della holding consistesse esclusivamente o principalmente nel detenere partecipazioni in società aventi sede nel Regno Unito – in cui la Corte ha ritenuto che la normativa inglese costituisse un ostacolo alla libertà della ICI di costituire proprie consociate in altri Stati membri, poiché in tale ipotesi essa avrebbe perso il beneficio della tassazione consolidata accordato dalla (71) Si tratta, come noto, non già di un giudizio di “compatibilità”, bensì di “interpretazione pregiudiziale” delle norme comunitarie. Il fine sostanziale in questo caso è tuttavia quello di appurare la “compatibilità” con il Trattato della norma interna. Sul punto, vedi R. MICELI – G. MELIS, Le sentenze interpretative della Corte di giustizia delle Comunità europee nel diritto tributario: spunti dalla giurisprudenza relativa alle direttive sulla “imposta sui conferimenti” e sull’Iva, in Riv. dir. trib., 2003, p. 111 ss. (72) Si tratta della sentenza 11 marzo 2004, C-09/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant c. Ministère de l’Economie, des Finances et de l’Industrie, che ha dichiarato il regime francese incompatibile con il principio di libertà di stabilimento. Si vedano anche le interessanti conclusioni dell’Avvocato generale Jean Mischo depositate in data 13.3.2003. Vedi A. VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is Compatible with the Freedom of Establishment, cit., p. 195 ss. (73) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, in Rass. trib., 1999, p. 1805 ss., con nota di E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali. Anche in Dir. prat. trib., 1999, II, p. 313 ss., con nota di G. BIZIOLI, Il rapporto tra libertà di stabilimento e principio di non discriminazione in materia fiscale: una applicazione nel recente caso Imperial Chemical Industries. legislazione interna. Il principio di libertà di stabilimento non ha dunque la sola conseguenza dell’illegittimità delle disposizioni interne che discriminano, direttamente o indirettamente, tra cittadini e stranieri, ma anche quella di vietare quelle disposizioni di uno Stato membro che abbiano l’effetto di ostacolare l’esercizio del diritto di stabilimento in un altro Stato membro. In questo senso la non discriminazione costituisce species rispetto al genus libertà di stabilimento, rappresenta cioè una forma di quelle restrizioni cui l’art. 43 opera riferimento (74). Ora, nel caso delle exit taxes è difficile rinvenire una forma di discriminazione. Non si ha innanzitutto una forma di discriminazione diretta (“overt discrimination”), poiché nel caso delle exit taxes le norme nazionali non stabiliscono un trattamento discriminatorio basato direttamente sull’elemento che la norma che vieta la discriminazione assume a proprio oggetto di tutela, rappresentato per le persone fisiche dalla nazionalità o cittadinanza di uno Stato membro e per le persone giuridiche dalla “sede” (75); né si ha discriminazione “a rovescio” (“reversed discrimination”), la cui caratteristica fondamentale è che la controversia viene instaurata nei confronti dello Stato membro del quale il ricorrente è cittadino, talché la norma che si assume discriminatoria è quella che, ovviamente, non distingue già tra cittadini e stranieri, bensì tra residenti e non residenti (76). Nel caso delle exit taxes, tuttavia, la disposizione che la prevede appartiene allo Stato della residenza del soggetto che si trasferisce, sia esso o meno cittadino, sicché il problema non si pone. Più delicato è verificare se si abbia una forma di discriminazione indiretta. Come è noto, si ha discriminazione indiretta (“covert discrimination”), quando le disposizioni interne disciplinano in modo discriminatorio due situazioni sulla base di un elemento diverso da quello oggetto di tutela diretta. Ciò nonostante, la discriminazione basata su tale diverso elemento si risolve indirettamente in una discriminazione basata sull’elemento direttamente tutelato. La rilevanza di tale forma di discriminazione è stata affermata dalla Corte in una risalente sentenza (77), nella quale essa ha chiarito che il principio della parità di trattamento vieta non solo le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, o in base alla sede per quanto riguarda le società, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di distinzione, pervenga in effetti al medesimo risultato. (74) E. NUZZO, Libertà di stabilimento e perdite fiscali, cit., p. 1826. (75) Vedi però per una ipotesi di applicazione della exit tax ai soli cittadini olandesi in forza della convenzione tra Paesi Bassi e Belgio, R. BETTEN, Taxation of Capital Gains after Emigration to Belgium Only from Netherlands Nationals Not Discriminatory, in European Taxation, 1997, p. 142 ss. (76) Il contribuente è dunque cittadino dello Stato che discrimina, ma residente in un altro Stato membro. (77) Corte di giustizia, 12 febbraio 1974, C-152/73, Sotgiu, in Raccolta, 1974, p. 153, punto 11. Tale diverso elemento, in ambito fiscale, è di regola rappresentato dalla residenza, essendo vero che i non residenti sono il più delle volte cittadini “non nazionali”, ma il trattamento discriminatorio può in realtà avere ad oggetto qualsiasi disposizione che, secondo l’id quod plerumque accidit, si presti di fatto a discriminare i cittadini di un altro Stato membro. Con specifico riferimento alla residenza, che è l’elemento portante delle exit taxes, è interessante richiamare il caso Biehl (78), dove la Corte ha ravvisato l’illegittimità di una disposizione della legislazione lussemburghese che non consentiva il rimborso delle ritenute alla fonte versate in eccesso rispetto all’imposta dovuta nel caso di trasferimento della residenza dal Lussemburgo, ravvisando in essa una norma soprattutto applicabile ai contribuenti cittadini di altri Stati, in quanto saranno spesso questi ultimi a lasciare il paese. Nel caso delle exit taxes si potrebbe allora sostenere che la tassazione delle plusvalenze latenti applicata ai soggetti residenti che si trasferiscono in un altro Stato si risolva indirettamente in una violazione basata sulla cittadinanza, atteso che saranno di regola i cittadini di un altro Stato a dover nuovamente fissare la residenza in tale ultimo Stato. Si potrebbero tuttavia muovere alcune considerazioni in senso contrario. Innanzitutto, va ricordato con riferimento alla discriminazione indiretta basata sulla residenza che il binomio “residente - non residente” non costituisce di per sé, almeno per le persone fisiche, una situazione immediatamente comparabile in termini di discriminazione. Tra residenti e non residenti sussistono infatti situazioni obiettive di regola differenti, prima tra tutte la personalità dell’imposizione che caratterizza i residenti che, a fronte dell’imponibilità dei redditi prodotti su base mondiale, consente la deduzione di determinati oneri. In questo caso, si potrebbe allora osservare che la tassazione delle plusvalenze latenti serve per ricostruire la “capacità contributiva complessiva” del soggetto. In secondo luogo, le discipline delle exit taxes richiedono in molti casi (soprattutto quelle applicate nei confronti delle persone fisiche) una permanenza da molti anni nello Stato che le applica, con la conseguenza di attenuare il collegamento in termini di id quod plerumque accidit tra la cittadinanza del soggetto che si trasferisce e lo Stato nel quale esso si trasferisce. Infine, resterebbero comunque fuori le società, per le quali sarebbe impensabile ipotizzare una discriminazione indiretta basata sulla residenza utilizzando la ragionevole presunzione del “fisiologico” ritorno nel proprio ordinamento giuridico invocata dalla Corte per le persone fisiche. Tanto precisato, il problema va dunque affrontato dal punto di vista della libertà di stabilimento. Il primo aspetto problematico che tale punto di vista solleva attiene all’estensione della libertà di stabilimento. Se infatti essa si estende certamente alla costituzione di agenzie, di succursali o di affiliate da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti nel territorio di un altro Stato membro (libertà di stabilimento c.d. “secondaria”), la (78) Corte di giustizia, 8 maggio 1990, C-175/88, Biehl, in Raccolta, 1990, p. 1779 ss. Corte ne ha tuttavia negato l’applicabilità nel caso di trasferimento della sede di direzione effettiva o amministrativa di un società in un altro Stato membro conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione essa è stata costituita (libertà di stabilimento c.d. “primaria”) (79). Il caso cui ci si riferisce è il Daily Mail. Nel caso di specie, la Daily Mail contestava la legittimità della disposizione della legge britannica del 1970 sull’imposta sul reddito e sulle società che subordinava il trasferimento della residenza fiscale in un altro Stato alla autorizzazione del Tesoro. La Daily Mail intendeva infatti trasferire la propria sede di direzione effettiva nei Paesi Bassi – e dunque la propria residenza fiscale – mantenendovi tuttavia la propria sede legale, così conservando personalità giuridica e qualità di società di diritto britannico. Ciò al fine di cedere una quota importante dei titoli detenuti in portafoglio e riscattare, grazie al ricavato di tale vendita, parte delle proprie azioni senza dover pagare le imposte cui dette operazioni sarebbero state soggette in forza della legislazione fiscale britannica. Il Tesoro subordinava invece l’autorizzazione al trasferimento al pagamento delle plusvalenze latenti sui titoli in portafoglio alla Daily Mail. Non si trattava dunque di una exit tax in senso sostanziale, ma di una exit tax per così dire “procedurale”, con effetto tuttavia sostanzialmente analogo (80). La Corte di Giustizia viene dunque investita della questione pregiudiziale se gli artt. 43 e 48 del Trattato “precludano ad uno Stato membro di proibire ad una persona giuridica con direzione e controllo centrali in tale Stato membro di trasferire senza previo consenso o approvazione tale direzione e controllo centrali in un altro Stato membro in presenza di una o di entrambe le seguenti circostanze, e cioè ove: a) possa essere evitato il pagamento di imposte sui profitti o sugli utili già realizzati; b) mediante il trasferimento della direzione e del controllo centrali della società, sia evitata un’imposta che sarebbe stata a suo carico se la società stessa avesse mantenuto la direzione e controllo centrali in tale Stato membro”. La Corte di Giustizia, dopo aver ricordato a) che “come regola generale, una società esercita il diritto di stabilimento aprendo agenzie o succursali o costituendo affiliate, come espressamente previsto dall’art. 52, 1° comma, secondo periodo”, b) che la legislazione britannica “non pone alcuna restrizione ad operazioni come quelle sopra descritte”, c) che “diversamente dalle persone fisiche, le società sono enti creati da un ordinamento giuridico nazionale” e che pertanto esse “esistono solo in forza delle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano costituzione e funzionamento”, d) che “le legislazioni degli Stati membri presentano notevoli differenze relative sia al criterio di collegamento al territorio nazionale richiesto per la costituzione di una (79) Corte di giustizia, 27 settembre 1988, C-81/98, Daily Mail, cit. (80) Come osserva J. VAN HOORN JR., Il trasferimento di sede di società alla luce del diritto comunitario, in Dir. prat. trib., 1989, II, p. 383. società, sia alla facoltà di una società costituita secondo tale legislazione di modificare in seguito detto criterio di collegamento”, conclude affermando che “la diversità delle legislazioni nazionali sul criterio di collegamento previsto per le loro società nonché sulla facoltà, ed eventualmente le modalità, di un trasferimento della sede, legale o reale, di una società di diritto nazionale da uno Stato membro all’altro, costituisce un problema la cui soluzione non si trova nelle norme sul diritto di stabilimento, dovendo invece essere affidata ad iniziative legislative o pattizie, tuttavia non ancora realizzatesi”. Per la Corte “dall’interpretazione degli artt. 52 e 58 del Trattato non può dunque evincersi l’attribuzione alle società di diritto nazionale di un diritto a trasferire la direzione e l’amministrazione centrale in altro Stato membro pur conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione sono state costituite” (81). La pronunzia non è peraltro priva di ambiguità. Invero, essa sembra arrendersi dinanzi alle difformità esistenti relativamente alle norme di conflitto, laddove afferma che “talune legislazioni esigono che non solo la sede legale ma anche la sede reale, cioè l’amministrazione centrale della società, siano ubicate sul loro territorio, ragion per cui lo spostamento dell’amministrazione centrale da tale territorio presuppone lo scioglimento della società con tutte le conseguenze che ne discendono sotto il profilo del diritto delle società e del diritto fiscale (82). Altre legislazioni riconoscono alle società il diritto di trasferire all’estero la loro amministrazione centrale, ma alcune, come nel Regno Unito, sottopongono detto diritto ad alcuni limiti e gli effetti giuridici del trasferimento variano da uno Stato membro all’altro, in special modo sul piano fiscale”. Inoltre, essa ribadisce tale concetto sostenendo che “l’art. 220 (ora 293) del trattato ha previsto, ove necessaria, la conclusione di convenzioni fra gli Stati membri, (81) Il problema se a diverse conclusioni possa pervenirsi a seguito del caso Centros è affrontato da S. MECHELLI, Libertà di stabilimento per le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea, cit., p. 109 ss., il quale ritiene che la possibile conciliazione delle due pronunzie non possa giocarsi sul piano delle diverse prospettive assunte – nel caso Daily Mail quello dello Stato di partenza, nel caso Centros quello dello Stato di destinazione – stante l’inscindibile connessione tra il diritto ad essere accolti da uno Stato membro e quello ad essere autorizzati a lasciare il proprio Stato membro di origine che è implicita nello stesso riconoscimento della libertà di stabilimento. Ad avviso dell’autore, la sentenza Daily Mail dovrebbe pertanto limitarsi esclusivamente alle restrizioni di natura fiscale. Ci pare tuttavia che una simile conclusione, sia pure condivisibile sotto il profilo sistematico, non sia ancora giustificabile alla luce delle affermazioni della Corte di giustizia nel caso Centros, stante la mancanza di un sia pur minimo richiamo alla sentenza Daily Mail e alle nette affermazioni ivi contenute sul problema degli effetti “liquidatori” derivanti dalla normative internazional-privatistiche interne. Del resto, la chiara distinzione che di tale diversa prospettiva viene fatta nel caso Uberseering BV ci pare avvalorare ulteriormente la nostra ipotesi ricostruttiva. Nella linea interpretativa da noi prospettata si colloca anche D. WEBER, Exit Taxes on the Transfer of Seat and the Applicability of the Freedom of Establishment after Uberseering, in European Taxation, 2003, p. 352.. (82) Corsivo nostro. Vedi al riguardo anche le conclusioni dell’Avvocato generale, che afferma che “Difatti, è generalmente riconosciuto che lo scioglimento imposto dai diritti nazionali come condizione preliminare per l’emigrazione della società, non è contrario al diritto comunitario” (punto 13). in particolare per garantire la conservazione della personalità giuridica in caso di trasferimento della sede da un paese all’altro. Ebbene, si deve constatare che nessuna convenzione in materia è sinora entrata in vigore”. Viene dunque rimessa la questione agli ordinamenti interessati dal trasferimento, con una soluzione che sembrerebbe essere quella accolta dall’art. 25 co. 3 L. n. 218/95 (83). Sennonché, un conto è che gli effetti fiscali sfavorevoli discendano dal diritto internazionale privato e societario, che diventano mero presupposto per l’operatività delle norme fiscali previste per la liquidazione, altro è che essi siano autonomi da esso. Nel primo caso soltanto si potrebbe infatti fare leva su fattori esterni al diritto tributario per giustificare le restrizioni, mentre nel secondo caso si tratterebbe di misure svincolate dagli esiti internazional-privatistici sull’esistenza della società che si trasferisce. Ebbene, nel caso della legislazione inglese, nulla ostava dal punto di vista societario al trasferimento della sede effettiva (84), sicché l’autorizzazione si risolveva in una restrizione avente la sua causa esclusiva nel sistema tributario. Pertanto, se così stanno le cose, l’affermazione sulla esistenza di divergenti sistemi nazionali si rivela del tutto inconferente nel caso di specie, se non per giustificare, in modo assai vago, la presunta volontà dei redattori del trattato di non tutelare ancora la libertà di stabilimento primario, con tutti gli effetti pregiudizievoli di una tale opinione sul piano extra-fiscale. Fatto sta che in base ai principi enunciati nella esaminata sentenza, la ricostruzione in termini di “liquidazione” del trasferimento di sede in applicazione delle norme internazional-privatististiche, costituirebbe legittima conseguenza della non armonizzazione delle norme di diritto internazionale privato. Non sfuggirà tuttavia la chiara contraddizione che con ciò si determina. Se la società che trasferisce la propria residenza fiscale appartiene ad uno Stato nel quale vige il principio del “real seat”, non c’è infatti “restrizione” ai sensi dell’art. 43 del Trattato, in quanto di regola in presenza di una “liquidazione” del soggetto che si trasferisce. Ciò, peraltro, con l’eccezione di Belgio ed Austria, le quali ammettono, come visto, la continuità del soggetto che si trasferisce in uno Stato che adotta il principio del “place of incorporation”. Se invece la società che trasferisce la propria residenza fiscale appartiene ad uno Stato nel quale vige il principio del “place of (83) R. LUZZATTO – C. AZZOLINI, Società (nazionalità e legge regolatrice), cit., p. 154. (84) Vedi anche F. CAPELLI, Trasferimento della sede amministrativa di società nella CEE: diritto di stabilimento e problematiche fiscali, in Dir. comm. sc. int., 1990, p. 50, che riconosce la confusione operata dalla Corte di giustizia tra norme internazional-privatistiche e norme fiscali, con l’effetto di pregiudicare l’applicazione per il futuro del principio di libertà di stabilimento per far salva una pretesa impositiva del Regno Unito che avrebbe potuto probabilmente trovare una semplice giustificazione da parte della Corte sul piano degli interessi erariali da salvaguardare. incorporation”, non c’è di regola perdita di soggettività, sicché sarà in tal caso possibile rinvenire una “restrizione” ai sensi dell’art. 43 del Trattato (85). Naturalmente, resta ferma l’applicabilità della libertà di stabilimento primaria per le persone fisiche esercenti una attività di impresa. Da questo ultimo punto di vista, le exit taxes sono dunque suscettibili di violare tale principio in quanto idonee a “dissuadere” un cittadino di uno Stato membro dal far uso di tale libertà (86), sia che si concretizzino nella richiesta immediata dell’imposta sulle plusvalenze, sia che prevedano l’apprestamento da parte del soggetto che si trasferisce di un sistema di garanzie destinate ad operare al momento del successivo realizzo delle plusvalenze (87). Non dobbiamo infine dimenticare quanto affermato nella sentenza Bosman in ordine alla configurabilità di un diritto di circolazione soltanto nel caso in cui un individuo intenda trasferirsi nell’altro Stato per svolgere ivi un’attività economica (88). (85) Questa contraddizione è colta anche dall’Avvocato generale nelle conclusioni della sentenza Daily Mail, anche se però per farne derivare effetti opposti a quelli da noi auspicati. In particolare, si legge (punto 13) che “sarebbe paradossale che uno Stato che non esige lo scioglimento sia posto dal diritto comunitario in una situazione fiscale di disfavore, proprio quando la sua legislazione in materia di società è più vicina agli obiettivi comunitari in materia di libertà di stabilimento (….). Per le ragioni sopraindicate, allo stato attuale del diritto comunitario, non ritengo che detta circostanza (il fatto di non esigere lo scioglimento, n.d.a.) possa escludere il diritto delle autorità nazionali a farne conseguire sul piano fiscale effetti analoghi a quelli altrove prodotti da uno scioglimento”. (86) Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, in Raccolta, 2000, p. 2787. (87) Vedi le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punti 24 ss., dove si precisa che le disposizioni francesi in tema di exit taxes procurano al contribuente che intenda lasciare il territorio “svantaggi notevoli” rispetto ai soggetti che mantengono la loro residenza in Francia, prevedendosi al riguardo oneri particolarmente gravosi (presentazione di dichiarazione relativa alle plusvalenze latenti, anticipazione del presupposto di tassazione di tali plusvalenze, condizioni particolarmente gravose per l’ottenimento del differimento dell’imposizione – domanda specifica di rinvio, nomina di un rappresentante fiscale, rendiconto annuale delle plusvalenze anche se non ancora realizzate, costituzione di una garanzia idonea – il tutto peraltro a pena di decadenza dal beneficio del rinvio), a nulla rilevando il fatto che, decorsi cinque anni, al contribuente che non abbia alienato le partecipazioni spetti uno sgravio di imposta e il rimborso dei costi sopportati per l’apprestamento delle garanzie. La Corte di giustizia, nella sentenza 11 marzo 2004, cit., rileva che “il contribuente desideroso di trasferire il domicilio fuori dal territorio francese (…) è soggetto ad un trattamento sfavorevole rispetto ad una persona che conserva la sua residenza in Francia”, sicché “tale disparità di trattamento (…) è di natura tale da scoraggiare un contribuente ad effettuare un trasferimento di questo tipo”. La Corte rileva inoltre che anche la costituzione di garanzie per beneficiare di un rinvio del pagamento costituisce una misura restrittiva, in quanto dette garanzie “privano il contribuente della disponibilità del patrimonio dato in garanzia” (punti 45-46-47). (88) Corte di giustizia, 15 dicembre 1995, Bosman, in Raccolta, 1995, p. 4921 ss. Nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant il problema è stato sollevato dai governi tedesco e olandese, ritenendosi non precisato dall’ordinanza di rinvio se il ricorrente nella causa principale avesse traslocato per motivi privati o professionali. L’avvocato generale, nelle sue conclusioni, prende tuttavia atto che nelle deduzioni depositate presso la Corte, non contraddette in sentenza, l’attore aveva dichiarato di aver trasferito il proprio domicilio in Belgio per svolgere in tale paese la propria attività professionale. Al riguardo, la Corte si limita a rilevare che “nella fattispecie, il giudice del rinvio sembra aver concluso per l’applicabilità dell’art. 52 del Trattato alla controversia principale” (punto 41). Vedi anche A. VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is Compatible with the Freedom of Establishment, cit., p. 8. Segue: le cause di giustificazione. – Ciò precisato, occorre ora esaminare le possibili giustificazioni che lo Stato che applica la exit tax potrebbe offrire per affermarne la compatibilità con il diritto comunitario, anche alla luce della c.d. “rule of reason” affermata nei casi Kraus (89) e Gebhard (90). Occorre dunque chiedersi, nell’ordine: a) se le misure siano di per sé discriminatorie; b) se siano giustificate da ragioni imperative di interesse generale; c) e d) se siano “adeguate” e “proporzionate” allo scopo stabilito. Sul primo punto – se le misure siano di per sé discriminatorie – ci siamo soffermati in precedenza, sicché possiamo immediatamente passare al profilo della loro possibile giustificazione in chiave di “ragioni imperative di interesse generale”. Ora, a tale riguardo, pare che strade diverse possano essere percorse a seconda che si qualifichino le exit taxes come misure “strutturali” oppure come misure “antielusive” (91). Se infatti si qualifica la norma che la prevede come “strutturale”, viene in rilievo l’argomento della coerenza dei regimi fiscali interni quale possibile giustificazione al trattamento discriminatorio o alla restrizione alla libertà di stabilimento, potendo gli Stati sostenere che la exit tax trovi una propria giustificazione nel fatto che la tassazione di un reddito comunque maturato consente di assicurare la coerenza del sistema garantendo la eguaglianza tra contribuenti e la “personalità” dell’imposizione; oppure – ovviamente per le sole exit taxes rivolte ai soggetti svolgenti attività di impresa – la trovi nell’esistenza di un principio generale del sistema del reddito di 198, il quale osserva che le libertà fondamentali del Trattato “have always been construed by the ECJ as economic freedoms and never as general public freedoms”. (89) Corte di giustizia, 31 marzo 1993, C-19/92, Kraus, in Raccolta, 1993, p. 1663, punto 32. (90) Corte di giustizia, 30 novembre 1995, C-55/94, Gebhard, in Raccolta, 1995, p. 4165, punto 37. (91) Una qualificazione in tal senso non appare in verità agevole, emergendo talvolta elementi a favore della relativa qualificazione in termini di norma “strutturale”, altre volte a favore della relativa natura “antielusiva”. A questo ultimo riguardo, è sufficiente pensare: a) alle vicende normative sul piano interno: ad esempio, la disciplina dell’art. 20-bis era contenuta della sezione IV del d.l. 23.02.1995, n. 41, rubricato alle norme “antielusive”; b) alle prospettazioni dei governi nella causa Hughes de Lasteyrie du Saillant, dove le eccezioni ora riguardano la natura “antielusiva” della norma, ora la sua natura “strutturale” (coinvolgendo dunque la “coerenza” del sistema fiscale); c) agli indizi derivanti dalla relativa disciplina: ad esempio, il fatto di rinunziare all’imposizione – in via unilaterale oppure in virtù di convenzioni internazionali – all’imposizione decorso un certo periodo, fa propendere a favore di una qualificazione in termini “anti-elusivi” della norma; d) alla necessità di ricostruire i principi del diritto tributario interno, al fine di comprendere l’esatta collocazione di una tale disciplina: basta pensare alle opposte tesi di chi anteriormente all’introduzione dell’art. 20-bis rinveniva un appiglio nella norma sull’imponibilità delle plusvalenze nei beni destinati a “finalità estranee all’esercizio dell’impresa” quale espressione di un principio generale di imponibilità dei beni fuoriusciti dal regime di impresa e di chi ha sostenuto, al contrario, l’inesistenza della necessità logica che i beni assoggettati al regime dei beni di impresa possano uscirne solo comportando l’emersione di plusvalenze o minusvalenze. impresa che impone la tassazione dei plusvalori maturati nel caso in cui i beni fuoriescono dal regime di impresa (92). La giurisprudenza della Corte di giustizia è tuttavia orientata in senso piuttosto restrittivo sul principio di “coerenza”. Invero, in un primo momento e con riferimento al caso Bachmann (93), la giustificazione alla deduzione limitata ai contributi corrisposti a imprese belghe era stata ravvisata dalla Corte nel legame tra la deducibilità dei contributi e l’imponibilità delle somme dovute dagli assicuratori in esecuzione di contratti d’assicurazione contro la vecchiaia e la morte. La perdita di gettito fiscale dovuta alla deduzione dei contributi d’assicurazione dal reddito totale veniva quindi ad essere compensata dall’imposta applicata sulle pensioni, rendite e capitali dovuti dagli assicuratori. Analoga era stata la giustificazione adottata dalla Corte ai fini della violazione della libera prestazione di servizi, costituendo la coerenza fiscale quell’obiettivo d’interesse generale per il cui perseguimento la disposizione belga rappresentava condizione indispensabile. Tale impostazione è stata tuttavia superata nel caso Wielockx (94). Dinanzi al richiamo difensivo al principio di coerenza enunciato nel caso Bachmann operato dal governo olandese e volto ad affermare la mancata correlazione tra le somme dedotte dalla base imponibile e quelle soggette ad imposta – atteso che la costituzione di una riserva di vecchiaia nei Paesi Bassi non avrebbe consentito la successiva tassazione della pensione, essendo tale reddito tassabile in Belgio in virtù della convenzione in vigore tra i due Stati – la Corte ha rivisto la propria posizione, inquadrando tale principio nell’ambito degli accordi internazionali, la cui reciprocità consente di superare l’argomentazione fondata sulla specifica correlazione tra deduzione e tassazione per guardare al fenomeno complessivamente considerato: l’esistenza della convenzione bilaterale consente quindi di assicurare quella coerenza fiscale altrimenti pregiudicata da una visione operata da una prospettiva meramente interna (95). L’argomento della coerenza fiscale risulta anche invocato nei casi SvenssonGustavvson (96), Asscher (97), ICI (98), Baars (99), Verkooijnen (100) e Metallgesellschaft (92) Su tale principio, vedi M. MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, cit., p. 158 ss., per il quale il reddito ascrivibile all’impresa è tutto ciò che concorre ad aumentarne il patrimonio iniziale, ivi compresi i mutamenti di valore delle sue componenti; sicché al più tardi in concomitanza della loro uscita da tale sfera questi (mutamenti) devono essere indefettibilmente inseriti nel circuito imponibile. Si pensi anche all’Entstrickungsprinzip dei Paesi di lingua tedesca. (93) Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90, Bachmann, in Raccolta, 1992, p. 281 ss. (94) Corte di giustizia, 11 agosto 1995, C-80/94, Wielockx, in Raccolta, 1995, p. 2493 ss. (95) Sull’importanza di una considerazione della coerenza anche sulla base dei trattati contro la doppia imposizione stipulati dallo Stato cui appartiene la norma controversa, vedi anche Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, in Raccolta, 2002, p. 10829 ss. (punti 53-56). (96) Corte di giustizia, 14 novembre 1995, C-484/93, Svensson-Gustavsson, in Raccolta, 1995, p. 3955 ss. (101). In tutti i casi citati, tuttavia, la Corte ha respinto tale argomento, ravvisando la mancanza di un collegamento rispettivamente tra: 1) il rimborso al contribuente degli interessi pagati ad istituzioni creditizie lussemburghesi e la tassazione degli utili in capo a tali istituzioni; 2) l’applicazione di un’aliquota d’imposta maggiorata al reddito di taluni non residenti che percepiscono meno nel 90% del loro reddito globale nei Paesi Bassi e la mancata riscossione di contributi sociali di cui beneficia la parte del reddito di questi non residenti prodotta nei Paesi Bassi; 3) il consolidamento delle perdite delle consociate estere da un lato e la tassazione degli utili realizzati da queste ultime dall’altro; 4) l’esenzione da imposizione patrimoniale delle partecipazioni e la doppia imposizione economica dei redditi delle società partecipate; 5) la concessione agli azionisti residenti nei Paesi Bassi di un’esenzione in materia di imposta sul reddito per i dividendi riscossi e l’assoggettamento ad imposta degli utili delle società aventi sede in altri Stati membri; 6) l’esenzione dall’imposta sulle società di cui gode la società capogruppo sui dividendi ricevuti dalla sua controllata e l’assoggettamento all’ACT di tale controllata al momento del versamento degli stessi dividendi. Anche nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant è stato invocato l’argomento della “coerenza”, affermando che la contropartita risiederebbe nel fatto che la exit tax compenserebbe l’esonero temporaneo da imposta “dell’accrescimento del patrimonio costituito dalle plusvalenze” (102). Una tale tesi implica tuttavia almeno due corollari. Innanzitutto, che la normativa interna preveda la tassazione delle plusvalenze quale misura generale, e questa non sia dunque applicata soltanto in caso di trasferimento all’estero. Si pensi, ad esempio, al caso in cui lo Stato che applica la exit tax preveda quale regola generale la tassazione su base territoriale dei redditi di impresa, mentre proceda alla tassazione delle plusvalenze latenti relative a stabili organizzazioni estere nel solo caso di trasferimento della residenza fiscale all’estero. In secondo luogo, essa implica che la tassazione con una exit tax non sia subordinata alla permanenza per un certo periodo di tempo nell’altro Stato senza che si sia proceduto alla cessione dei beni cui essa si riferisce. Se infatti la tassazione venisse meno decorso un congruo periodo di tempo dal trasferimento, verrebbe minata alla radice la giustificazione in termini di (97) Corte di giustizia, 27 giugno 1996, C-107/94, Asscher, in Raccolta, 1996, p. 3091 ss. (98) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, cit. (99) Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, cit. (100) Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijnen, in Raccolta, 2000, p. 4071 ss. (101) Corte di giustizia, 8 marzo 2001, C-397/98 e 410/98, Metallgesellschaft, in Impresa, 2001, p. 805 ss. (102) Così il governo olandese: vedi le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 72. “coerenza”, poiché la tassazione dipenderebbe da un fattore – la durata del soggiorno all’estero – inidoneo ad assicurare di per sé la coerenza del sistema (103). Peraltro, anche laddove la tassazione delle plusvalenze fosse principio generale dell’ordinamento dello Stato di partenza e le exit taxes fossero concepite quali misure “strutturali” e non già anti-elusive, si potrebbe ulteriormente eccepire come la “coerenza” del sistema non venga necessariamente compromessa. Ad esempio, la exit tax potrebbe applicarsi anche a beni che comunque permarrebbero nella sfera impositiva dello Stato di partenza, come nel caso della tassazione degli elementi dell’attivo confluiti in una stabile organizzazione in esso situato (si pensi alla Germania, che ritiene di assoggettare a tassazione anche queste plusvalenze (104)) oppure nel caso in cui gli assets consistano esclusivamente in beni immobili situati nel territorio dello Stato che si abbandona, il cui diritto di imposizione rimarrebbe in capo allo Stato di ex-residenza in base alle convenzioni contro la doppia imposizione. Sembra tuttavia che nel caso delle società si possa addurre a sostegno della “coerenza” delle exit taxes un argomento assai forte, in quanto dotato di rango “comunitario”. Si può infatti osservare che le exit taxes societarie si modellano, per molti versi, proprio sulla direttiva n. 434/90, che prevede la neutralità fiscale delle operazioni di fusione transnazionale – cui il trasferimento di sede è certamente assimilabile – a condizione che gli assets rimangano, appunto, in una stabile organizzazione, proprio per preservare gli interessi finanziari dello Stato che si è astenuto dall’imposizione (105). Se la “coerenza” della tassazione degli assets interni non confluiti in una stabile organizzazione trova un importante argomento proprio nel diritto comunitario, non altrettanto può dirsi tuttavia per quanto riguarda le stabili organizzazioni estere, alla cui tassazione – conseguenza della perdita della potestà impositiva – la direttiva n. 434/90 accompagna la concessione di un credito di imposta “fittizio” di regola assente nelle discipline delle exit taxes (106). (103) Vedi le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 75, che afferma che poiché il contribuente che lascia il territorio per più di cinque anni senza procedere alla alienazione della partecipazione non è comunque più assoggettabile ad imposta, non si potrebbe ritenere che egli sia stato oggetto di un semplice “anticipo” dell’imposizione. Respinge l’argomento della “coerenza” anche la Corte (punti da 61 a 67). (104) Ritiene tale ipotesi contraria al principio di libertà di stabilimento, B. KNOBBE KEUK, Wegzug und Einbringung von Unternehmen zwischen Niederlassungsfreiheit, Fusionsrichtlinien und nationalem Steuerrecht, in Der Betrieb, 1991, p. 300. Osserva peraltro L. DE BROE, General Report sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, cit., p. 76, che tutti gli Stati (con l’eccezione dell’Austria) applicano le exit taxes individuali indipendentemente dalla circostanza che il loro potere impositivo venga effettivamente meno. (105) Evidenzia i punti di contatto tra la disciplina contenuta nell’art. 20-bis e la direttiva n. 434/90, G. MARINO, Report per l’Italia sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, cit., p. 368. (106) Sul punto, vedi A. SILVESTRI, Il regime tributario delle operazioni di riorganizzazione transnazionale in ambito CEE, cit., p. 487. Veniamo ora alla prospettiva della giustificazione della misura in chiave “antielusiva”. Lo Stato della residenza potrebbe infatti affermare che la exit tax si giustificherebbe per la sua finalità di evitare che un soggetto residente possa trasferire la propria residenza in uno Stato al solo fine di alienare i beni appartenenti all’impresa, avvalendosi eventualmente delle norme di ripartizione contenute nelle convenzioni contro le doppie imposizioni (107). In questo senso la norma sarebbe antielusiva in quanto destinata ad impedire lo sfruttamento di una “asimmetria” esistente nell’ordinamento tra “maturazione” del reddito e sua tassazione in caso di realizzo effettivo, che consentirebbe, tramite il semplice spostamento della residenza, di realizzare le plusvalenze in qualità di residente di uno Stato che, per la non idoneità – anche per effetto di una convenzione contro la doppia imposizione – dei criteri di collegamento previsti dall’ex Stato di residenza a conservare il diritto di tassare tali redditi anche in quanto prodotti da un soggetto non residente, divenga titolare del potere impositivo su tali plusvalenze (108). Sino ad ora, tuttavia, finalità antielusive o comunque dettate da esigenze di controlli fiscali della normativa interna, pur essendo astrattamente riconosciute come ragioni imperative idonee a giustificare una restrizione (109), non hanno mai prevalso sulla libertà di stabilimento nella giurisprudenza della Corte. Talvolta infatti tali giustificazioni non sono state accolte in quanto, in relazione al generale principio di proporzionalità, la misura prevista è stata ritenuta eccessiva rispetto allo scopo che si proponeva di raggiungere: questo è quanto ad esempio accaduto nel (107) Questo ad esempio ha costituito uno degli argomenti invocati dalla Francia nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant per giustificare la propria exit tax, che sarebbe appunto volta ad evitare che un contribuente trasferisca temporaneamente il proprio domicilio fiscale al di fuori della Francia prima di cedere titoli mobiliari, al solo scopo di eludere il pagamento dell’imposta sulle plusvalenze dovuta in Francia. E’ interessante notare che la qualificazione in termini “antielusivi” delle exit taxes aprirebbe a sua volta nuovi problemi. Ad esempio, con riferimento all’ordinamento italiano, si potrebbe discutere se essa possa rientrare nell’art. 37-bis co. 8 d.p.r. n. 600/73, che consente la disapplicazione di talune norme tributarie “che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse nell’ordinamento tributario” laddove il contribuente dimostri “che nella particolare fattispecie tali effetti non potevano verificarsi”. In realtà, la norma, così come è formulata, escluderebbe dal proprio ambito di applicazione l’art. 20-bis, in quanto in questo non si limitano posizioni soggettive, bensì si ampliano fattispecie impositive. Sull’ambito di applicazione dell’art. 37-bis co. 8, sia consentito rinviare a G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, p. 557 ss. (108) E, ovviamente, tassi tali plusvalenze in modo assai lieve o non le tassi affatto. (109) Si veda, per i controlli fiscali, la sentenza Corte di giustizia, 15 maggio 1997, C-250/95, Futura Participations SA – Singer, in Raccolta, 1997, p. 2492 ss. (punto 31) e in Riv. dir. trib., 1998, II, p. 15 ss., con nota di chi scrive (Stabili organizzazioni, obblighi contabili e riporto delle perdite: un’occasione perduta). Per l’evasione fiscale, Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst, in Il Fisco, 2003, 1, p. 911 (punto 37). Si noti che la Corte di giustizia raramente utilizza l’espressione “elusione fiscale”, avvalendosi quasi esclusivamente di quella di “evasione fiscale” o di “abuso del diritto”. Si tratta tuttavia in ambedue i casi di espressioni inadatte alle fattispecie che è stata chiamata ad esaminare, le quali configurano tipici casi di “elusione fiscale”. Sul punto, sia consentito rinviare a G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., p. 219 ss. caso Futura e Singer, dove si è ritenuto che l’ammontare effettivo delle perdite subite avrebbe potuto essere dimostrato anche mediante mezzi diversi da quella regolare contabilità alla cui tenuta la legislazione lussemburghese subordinava il riporto; oppure quanto accaduto nel caso Leur-Bloem, in cui la norma nazionale è stata censurata per aver di fatto determinato una “presunzione inconfutabile di frode fiscale”, dovendosi invece valutare i comportamenti “abusivi” del contribuente “caso per caso” (110). Altre volte, le eccezioni sollevate dai Governi chiamati in causa e argomentate sulla presunta finalità antielusiva delle disposizioni incriminate, non sono state ritenute fondate a motivo della relativa inidoneità a perseguire detta finalità. Nel caso ICI, ad esempio, il rischio di elusione insito in una normativa che avesse accordato il consolidamento delle perdite delle consociate estere anche ove residenti al di fuori del Regno Unito, non avrebbe potuto essere escluso neanche dalla vigente formulazione legislativa la quale, richiedendo soltanto che la maggioranza (e non la totalità) delle controllate fosse residente nel Regno Unito, non escludeva comunque il rischio paventato dal Fisco inglese (111). Ebbene, nel caso delle exit taxes la loro proporzionalità appare certamente dubbia ove inquadrate quali norme “antielusive”. Innanzitutto, il pagamento immediato delle exit taxes non tiene conto delle effettive finalità del trasferimento della residenza, ben potendo mancare nel caso concreto finalità “elusive”. Un conto è infatti che il soggetto si trasferisca in uno Stato nel quale le plusvalenze non sono tassate, sfuggendo – eventualmente avvalendosi di una convenzione internazionale – alla normativa dello Stato di partenza che prevede la tassazione delle plusvalenze su partecipazioni o sui beni di impresa al momento del loro realizzo effettivo, altro è che lo Stato di trasferimento preveda una imposizione ragionevole sui capital gains o sulle plusvalenze d’impresa. Il ragionamento andrebbe dunque invertito, consentendo all’amministrazione finanziaria di provare, caso per caso, le finalità elusive (112). In secondo luogo, le exit taxes non tengono conto della durata della eventuale (110) Corte di giustizia, 17 luglio 1997, C-28/95, Leur-Bloem, in Raccolta, 1997, p. 4161 ss. Vedi anche Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit. (punti 42 e 62); Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-324/00, Lankhorst-Hohorst, cit., p. 911 (punto 37) dove si legge che “la normativa controversa non ha l’obiettivo specifico di escludere da un vantaggio fiscale le costruzioni puramente artificiose il cui scopo sia quello di eludere la normativa fiscale tedesca, ma ricomprende, in via generale, qualunque situazione in cui (…). Ora, tale situazione non comporta, di per sé, un rischio di evasione fiscale (…)”. In questo senso, l’inclusione dell’art. 20-bis tra le fattispecie suscettibili di disapplicazione ex art. 37-bis co. 8 potrebbe servire a rendere la misura più “proporzionale”. V’è tuttavia da dire che la sostanziale discrezionalità che tale norma lascia all’amministrazione finanziaria, e le caratteristiche del provvedimento da questa adottato, che sembrerebbero precludere un successivo intervento giurisdizionale sull’eventuale pronunzia sfavorevole, difficilmente consentirebbero di reggere ad un esame di compatibilità comunitaria. (111) Corte di giustizia, 16 luglio 1998, C-264/96, ICI, cit., p. 1812, punto 27. (112) Vedi anche le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 60, e la sentenza della Corte, punti 51, 52 e 53. permanenza del contribuente nello Stato di destinazione, che ben potrebbe dimostrare che il trasferimento della residenza non era finalizzato alla cessione della quota (che potrebbe peraltro ben essere nel frattempo avvenuta) o al realizzo delle plusvalenze sui beni di impresa, bensì (anche) ad una effettiva permanenza in tale altro Stato (113). Inoltre, potrebbero esistere misure meno restrittive, quali ad esempio la tassazione del soggetto trasferitosi al momento del suo “rientro”, avvenuto per ipotesi poco dopo la vendita dei beni durante un breve soggiorno in un altro Stato membro (114). Peraltro, l’anticipazione dell’imposizione indipendentemente dal realizzo effettivo della plusvalenza determina seri problemi di liquidità in capo al contribuente. Nel caso di trasferimento in ambito comunitario, la Corte potrebbe allora invocare ancora una volta la Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1977, n. 77/799, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte dirette (115), anche se sulla effettività di funzionamento di questo strumento potrebbero essere sollevati non pochi dubbi e perplessità, e stabilire che quest’ultima, al limite accompagnata da un adeguato sistema di garanzie, possa essere sufficiente per rinviare la tassazione al momento dell’effettiva alienazione della partecipazione o dei beni aziendali. Del resto, in alcuni paesi è già concessa la possibilità di un “postponement” della tassazione, sia pure non generalizzato, destinato a far venire meno la exit tax decorso un certo periodo dal trasferimento (116); mentre in altri viene addirittura previsto un sistema “misto” che, nell’ammettere esplicitamente a livello legislativo la possibilità di una tassazione differita e talvolta solo eventuale, non fa che alimentare ulteriormente i dubbi sulla effettiva necessità di procedere ad una tassazione immediata: nei Paesi Bassi, ad esempio, vi è un final assessment per le (113) Vedi anche le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 61, che osserva che la cessione dopo breve tempo della partecipazione potrebbe ad esempio essere dovuta alla necessità di procurarsi entrate per le spese da sostenere nel nuovo Stato di destinazione. Conseguentemente, più che guardare alla rapidità della cessione delle partecipazioni occorrerebbe guardare alla rapidità del ritorno nello Stato di partenza. (114) Corte di giustizia, 11 marzo 2004, C-09/02, cit., punto 54. (115) Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90, Bachmann, cit., p. 281, punto 18 (informazioni sull’avvenuto pagamento dei premi assicurativi nell’altro Stato); Corte di giustizia, 12 aprile 1994, C-1/93, Halliburton, p. 1157, punto 22 (informazioni riguardanti le caratteristiche delle forme societarie degli altri Stati membri); Corte di giustizia, 7 agosto 1999, C-254/97, Baxter, punto 17 (informazioni riguardanti le spese di ricerca sostenute all’estero); Corte di giustizia, 14 febbraio 1995, C279/93, Schumacher, in Raccolta, 1995, p. 262, punto 45 (informazioni sulla situazione personale e familiare del contribuente). Solleva seri dubbi circa l’effettività dell’assistenza in materia di imposte dirette, A. VALAT, Preliminary Ruling Requested from the ECJ as to whether the French Exit Tax is Compatible with the Freedom of Establishment, cit., p. 197. (116) Così la sect. 187 del Finance Act 1988 nel Regno Unito, che prevede un periodo di sei anni dalla data del trasferimento decorso il quale non si renderà dovuta più alcuna exit tax laddove i beni “trasferiti” non abbiano formato oggetto di atti di disposizione. plusvalenze latenti d’impresa e un preserving assessment per le plusvalenze su partecipazioni detenute da persone fisiche (117). Sennonché, anche la previsione di un sistema di “garanzie” presenta qualche dubbio. Ad esempio, la Corte ne ha riconosciuto nel caso X e Y (118) la legittimità proprio in quanto misura “meno restrittiva” per assicurare il pagamento dell’imposta in una ipotesi di sostanziale elusione della exit tax svedese mediante cessione “sottoprezzo” delle azioni detenute in una società svedese ad una società straniera in qualche modo ricollegabile al cedente e successivo trasferimento definitivo del cedente all’estero. Nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, l’Avvocato generale ha invece ritenuto che le affermazioni della Corte nel caso X e Y fossero state rese in un contesto diverso, nel quale non si discuteva della necessità di prevedere una misura proporzionata all’ipotesi di un breve soggiorno di un contribuente in un altro Stato membro e del suo rientro (119). (117) Sul punto, vedi R. BETTEN, Report per l’Austria sul tema The Tax Treatment of Transfer of Residence by Individuals, cit., p. 413 ss. Conclusivamente, questo potrebbe essere un possibile testo della norma italiana relativa al trasferimento della residenza fiscale all’estero. “Art. 166. 1. Il trasferimento all’estero di uno o più elementi costitutivi della residenza ai fini delle imposte sui redditi dei soggetti che esercitano imprese commerciali, che comporti, anche per effetto dell’applicazione di una convenzione contro la doppia imposizione, la perdita di detta residenza fiscale, costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale, compreso il valore di avviamento, salvo che non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato. La disposizione si applica anche nei confronti di beni non riconducibili all’azienda o al complesso aziendale, salvo che il soggetto che si trasferisce abbia fatto confluire detti beni nella stabile organizzazione mantenuta nel territorio dello Stato. La stessa disposizione si applica se successivamente i componenti o beni confluiti nella stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato ne vengano distolti. Si considerano in ogni caso realizzate, al valore normale, le plusvalenze relative alle stabili organizzazioni all’estero. Per le imprese individuali si applica l’art. 17, comma 1, lettera g). 2. I fondi in sospensione d’imposta, inclusi quelli tassabili in caso di distribuzione, iscritti nell’ultimo bilancio prima del trasferimento della residenza o della sede, sono assoggettati a tassazione nella misura in cui non siano stati ricostituiti nel patrimonio contabile della predetta stabile organizzazione. 3. In caso di trasferimento della residenza fiscale verso l’Italia, ai soli fini dell’eventuale successiva applicazione del comma 1, il valore iniziale dei beni trasferiti è determinato in base al loro valore normale al momento del trasferimento della residenza fiscale in Italia”. Per quanto riguarda i rapporti con Stati CE potrebbe valutarsi alternativamente: a) la non applicazione tout court della norma nei confronti dei trasferimenti di residenza fiscale in Paesi comunitari, almeno nei riguardi di persone fisiche svolgenti attività di impresa; b) la possibile “disapplicazione” dell’art. 166 – case by case – per i trasferimenti in Paesi comunitari, laddove il contribuente dimostri l’impossibilità che si verifichino effetti elusivi; c) il differimento della tassazione sino al momento dell’effettivo realizzo dei beni subordinato all’apprestamento di idonee garanzie e, eventualmente, il venir meno di qualsiasi imposizione decorso un congruo numero di anni senza che i beni abbiano formato oggetto di atti di disposizione (con il rimborso da parte dell’amministrazione finanziaria dei costi sopportati per le garanzie fornite). Per quanto riguarda, infine, le stabili organizzazioni estere, si potrebbe direttamente prevedere l’applicazione del meccanismo di cui all’art. 10 della direttiva n. 434/90. (118) Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit. (119) Conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant, punto 65. Ricordiamo infatti che per l’Avvocato generale la norma francese sulle exit taxes dovrebbe incentrarsi sull’immediato ritorno del contribuente in Francia a seguito della cessione delle azioni e non anche sulla circostanza, giudicata irrilevante, della cessione delle azioni subito dopo il trasferimento, dal momento che il contribuente ben potrebbe successivamente permanere nell’altro Stato, così dimostrando anche (o solo) finalità diverse da quelle elusive. Ci pare, tuttavia, che la situazione delle exit taxes societarie sia Per mera completezza, occorre infine ricordare che a nulla varrebbero generiche giustificazioni di impedire la riduzione delle entrate fiscali dello Stato membro interessato, evitando che i contribuenti traggano vantaggio dalle disparità esistenti tra i regimi fiscali dei vari Stati membri. A tale proposito la Corte di giustizia ha infatti ripetutamente affermato che non costituiscono motivo di giustificazione ai sensi dell’art. 46 del Trattato le perdite di gettito fiscale che si determinerebbero a seguito dell’eliminazione della clausola discriminatoria o della “restrizione”, trattandosi di obiettivi di natura meramente economica (120). 9. Conclusioni. – Dalle considerazioni che precedono appare evidente che una soluzione ai numerosi problemi derivanti dall’adozione delle exit taxes debba necessariamente ricercarsi in una prospettiva comunitaria. Dal punto di vista dello strumento da utilizzare, l’adozione di una direttiva appare certamente quello più idoneo, bastando al riguardo osservare che le operazioni societarie e i flussi di reddito transnazionali costituiscono la materia privilegiata delle Direttive sinora adottate in materia di imposte dirette (regime tributario dei dividendi, interessi e royalties, operazioni societarie intracomunitarie). Anzi, non solo l’adozione di queste Direttive conferma la validità dello strumento che si potrebbe adottare, ma la mancanza di una disciplina del trasferimento di sede appare alla luce di esse ancor più sorprendente, sol che si pensi che la fusione transnazionale produce effetti sostanzialmente equivalenti a quelli del trasferimento della sede (121). Dal punto di vista del contenuto, il punto di riferimento è ovviamente dato dalla Direttiva n. 434/90, la quale potrebbe essere estesa – e questo è l’indirizzo che la Commissione ha manifestato con la recente proposta COM (2003) 613, sia pure soltanto per la “società europea” e la “società cooperativa europea” (122) – al trasferimento di sede, prevedendo la continuità nei valori fiscali e il congelamento delle plusvalenze ove le stesse confluiscano in una stabile organizzazione situata nello Stato della società che trasferisce la propria sede – come peraltro già indicato nello maggiormente assimilabile alla fattispecie esaminata nel caso X e Y, dal momento che il “ritrasferimento” di una persona fisica è cosa ben diversa dal “ritrasferimento” di una società. (120) Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijnen, cit., punto 59; Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, X e Y, cit., punto 50; Corte di giustizia, 21 settembre 1999, C-307/97, Saint Gobain, in Il Fisco, 1999, p. 13004, punto 50, sulla quale vedi C. ROMANO, La stabile organizzazione si avvicina ai soggetti residenti nel diritto tributario internazionale di origine convenzionale: il caso Saint-Gobain, in Boll. trib., 2000, p. 328 ss. Vedi anche le conclusioni dell’Avvocato generale nel caso Hughes de Lasteyrie du Saillant. (121) Come evidenzia G. MARINO, Brevi note sul trasferimento di sede all’estero, cit., p. 1037. (122) E’ la Proposta di “Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva n. 90/434/CEE, del 23 luglio 1990, relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d’attivo ed agli scambi d’azioni concernenti società di Stati membri diversi”, presentata dalla Commissione in data 17 ottobre 2003. La proposta inserisce un titolo “IV bis” rubricato alle “Norme applicabili al trasferimento della sede sociale”, composto dagli articoli 10-bis, ter e quater. studio della Commissione Europea (doc. n. XV/B/220/91) riguardante la proposta modificata di regolamento del Consiglio relativo allo Statuto della “società europea” – nonché la concessione del credito fittizio per le stabili organizzazioni estere. In alternativa, si potrebbe ricorrere allo strumento della Convenzione multilaterale, già adottato per la procedura arbitrale in materia di prezzi di trasferimento, che consentirebbe agli Stati membri di non vincolarsi definitivamente e di “testare” il funzionamento della disciplina nel periodo di vigenza della convenzione, oppure “agganciarsi” – inserendovi una “postilla fiscale” per la regolamentazione dei profili tributari del trasferimento di sede all’estero – al Regolamento sulla c.d. “società europea”, riservato alle grandi imprese, o al già richiamato Progetto della 14a Direttiva, applicabile invece ad ogni tipo di società, i quali consentono entrambi, come visto, il trasferimento della sede senza subire le drastiche conseguenze dello scioglimento e della costituzione di una nuova persona giuridica. Sennonché ci sembra che la natura della materia da un lato – in particolare riguardante un fenomeno, quello dello status delle società trasferite e dei relativi beni ad essi appartenenti, destinato a perdurare nel tempo – che mal si attaglia alla natura tipicamente “provvisoria” della Convenzione multilaterale comunitaria, e la duplice circostanza della già avvenuta emanazione del Regolamento e dello “stallo” in cui è caduta la 14° Direttiva dall’altro, giustifichino la via intrapresa a Bruxelles di ricorrere allo strumento della modifica della direttiva n. 434/90. E’ tuttavia un vero peccato che l’estensione della Direttiva n. 434/90 al trasferimento della sede sociale all’estero sia stata prevista soltanto per la “società europea” e per la “società cooperativa europea”, eludendo ancora una volta i veri problemi di fondo del trasferimento della residenza fiscale delle società. GIUSEPPE MELIS Professore Associato di Diritto Tributario nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Molise