Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Capolavoro o film sbagliato? La critica si divide sull’ultima pellicola di Paul Thomas Anderson, regista giovane e
già illustre di film ‘grandi’ come Magnolia e Il petroliere e ‘piccoli’, come l’ottima commedia Ubriaco d’amore.
Ancora una volta il suo è uno sguardo acuto che penetra abilmente nelle magagne della cultura e della società
occidentale attraverso il ritratto psicologico di individui e relazioni.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
costumi:
musica:
distribuzione:
137 MINUTI
USA
2012
PAUL THOMAS ANDERSON
PAUL THOMAS ANDERSON
PAUL THOMAS ANDERSON
MIHAI MALAIMARE JR
LESLIE JONES, PETER MCNULTY
JACK FISK, DAVID CRANK
MARK BRIDGES
JONNY GREENWOOD
LUCKY RED
interpreti:
JOAQUIN PHOENIX (Freddie Quell), PHILIP SEYMOUR HOFFMAN (Lancaster
Dodd), AMY ADAMS (Peggy Dodd), LAURA DERN (Helen Sullivan), AMBYR CHILDERS (Elizabeth Dodd), JESSE
PLEMONS (Val Dodd), MADISEN BEATY (Doris Solstad), RAMI MALEK (Clark).
premi:
Venezia Mostra Int. d'Arte Cinematografica 2012:
Leone d'argento per la regia a Paul Thomas Anderson
Coppa Volpi migliore interpretazione maschile a Joaquin Phoenix e a Philip
Seymour Hoffman
Paul Thomas Anderson
Nato a Los Angeles nel 1970 e cresciuto nell’area urbanizzata di San Fernando Valley, là dove in Magnolia
piovono le rane, Paul Thomas Anderson è figlio di un attore che lo incoraggia a lavorare nel cinema. Anderson vi
si dedica fin da giovane utilizzando il super8, il 16mm e il video. Il suo primo vero film è un “mockumentary” di
30’, autoprodotto e girato in video, dal titolo The Dirk Diggler Story (1988), che racconta la storia di una stella del
cinema porno: un tema che riprenderà più tardi nel film Boogie Nights. Dopo aver abbandonato gli studi di
cinema all’università, si mette a lavorare in televisione, giocare d’azzardo e chiedere prestiti per finanziare quello
che definì il suo “film-saggio” il corto di 20’ del 1993 Cigarettes & Coffee, nel quale molte storie sono collegate da
una banconota da venti dollari. Il film si fa notare al Sundance: di conseguenza Anderson viene invitato al
Sundance filmmakers' lab, dove ha l’occasione di sperimentarsi con l’aiuto di veri professionisti. Ben presto trova
una casa di produzione disposta a finanziargli il suo primo lungometraggio, Sydney (Hard eight, 1996), presentato
nella sezione Un Certain Regard alla 49ª edizione del Festival di Cannes.
Il suo secondo film, Boogie Nights, gli procura il primo vero successo e mostra come punti di riferimento l'Altman
delle storie collettive oltre a Martin Scorsese. Il terzo film, Magnolia (1999), è fino a questo momento il più
celebrato tra i suoi lavori. Los Angeles fa da sfondo a una serie di storie intrecciate nelle quali prevale l’amarezza,
resa però in modo brillante e visionario, di una società il cui perno, la famiglia, è tendenzialmente marcio: un
affresco d’America che è anche una sintesi degli stili del suo cinema. Il film, musicato da Aimee Mann, ricevette
tre nomination agli Oscar e l’Orso d’oro al Festival di Berlino.
Nel successivo Ubriaco d'amore (premio per la regia a Cannes 2002), dirige Adam Sandler e Emily Watson in una
commedia che mette in luce le qualità inaspettate di Sandler, solitamente relegato a parti molto stereotipate.
Dopo una lunga pausa, nel 2007 torna a dirigere un film più ambizioso, Il petroliere, con Daniel Day-Lewis, storia
di uno spietato mercante di oro nero del Texas d’inizio Novecento.
La sua attenzione a personaggi carismatici ma provvisti di un’etica difficilmente condivisibile si ripresenta nel
dramma The Master, in parte ispirato alla figura di L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology.
La parola ai protagonisti
Dalle note di produzione
L’America uscita dalla fine della Seconda Guerra era un Paese inquieto. In un’epoca segnata da grandi ambizioni e
da una crescita senza precedenti, ma anche da un profondo sradicamento e da ansie latenti, l’esplosiva
combinazione di questi elementi contrastanti diede origine a quella cultura della ricerca di sé e della
valorizzazione delle aspirazioni ancora presente nel XXI° secolo. I ragazzi che fecero ritorno a casa, riemersi dalle
irrazionali tenebre della guerra, forgiarono un nuovo, scintillante mondo in cui trionfavano consumismo ed
ottimismo. Ma per molti tutto questo non era sufficiente, presi com’erano dal desiderio di scoprire di più della
vita, di afferrare qualcosa di più grande di loro, qualcosa che mettesse fine all’ansia, alla confusione e alla ferocia
del mondo moderno.
The Master racconta una vicenda profondamente umana che si colloca all’interno di quell’atmosfera densa di
aspirazioni spirituali propria dell’inizio degli anni ‘50. Il film narra le alterne fortune di Freddie, interpretato da
Joaquin Phoenix, un instabile ex ufficiale di Marina incapace di riabituarsi alla banalità della vita quotidiana, e
dell’imprevedibile percorso che intraprende dopo essersi imbattuto in un nascente movimento noto come la
Causa. Avvicinatosi alla Causa da outsider e da vagabondo, Freddie finirà col diventare l’erede designato del suo
carismatico leader, Lancaster Dodd, interpretato da Philip Seymour Hoffman. Ma, per quanto la Causa si fondi
sulla capacità dell’uomo di dominare le proprie emozioni, il cameratismo tra Freddie e Dodd comincia a
trasformarsi lentamente, fino a diventare un appassionato e violento scontro tra due volontà.
Primo lungometraggio, dopo alcuni decenni, ad essere girato utilizzando una pellicola 65mm, The Master è il
sesto film di Paul Thomas Anderson. Il suo primo film, Hard Eight (Sidney), racconta la storia di un testardo
giocatore professionista di Las Vegas che decide di prendere sotto la sua ala protettrice un perdente perseguitato
dalla sfortuna, andando incontro ad esiti imprevedibili. Il successivo Boogie Nights è incentrato su un gruppo di
persone che lavorano nell’industria del cinema porno e che danno vita ad una sorta di ‘famiglia’ poco
convenzionale; Magnolia è strutturato invece come una serie di racconti intrecciati tra loro su alcuni personaggi
alle prese con crisi personali, magicamente uniti da notte speciale nella San Fernando Valley; e Ubriaco d’amore è
un’incantevole commedia romantica su un solitario uomo d’affari e sul suo sconvolgente incontro con l’amore e
con la paura. Il suo film più recente, Il Petroliere, ambientato nella California dell’inizio del secolo scorso, è l’epico
ritratto di un cercatore che, per la sua brama di petrolio, trasforma se stesso e un’intera città. Con The Master
Anderson dimostra di essere affascinato dalla nascita di un nuovo genere di famiglia americana, nato dallo
sconvolgimento provocato dalla Seconda Guerra mondiale: quello dei gruppi spirituali alternativi e delle nuove
religioni. Dall’ascetismo orientale a Dianetics, i primi anni ‘50 sono stati l’epoca in cui molti hanno cominciato a
dar vita a comunità di base impegnate a realizzare grandiose visioni basate sulle riscoperte potenzialità
dell’uomo.
“Era un terreno fertile su cui impiantare una storia drammatica e coinvolgente” – dice Anderson a proposito della
sua fascinazione per quell’epoca di sconvolgimenti culturali e di avventure spirituali. “Tornare all’origine delle
cose ti permette di vedere quali fossero le buone intenzioni dalle quali erano nate; e quale sia stata la scintilla
che ha innescato nella gente il desiderio di cambiare se stessa e il mondo circostante. Il periodo dopo la fine della
Seconda Guerra mondiale è stato quello in cui le persone hanno cominciato a guardare avanti con grande
ottimismo, proprio mentre elaboravano dolore, morte e perdite, ancora presenti e visibili nello specchietto
retrovisore”. Prosegue: “Mio padre è uscito dalla Seconda Guerra mondiale come un uomo rimasto poi inquieto
per tutta la vita. Si dice che ogni momento sia quello buono per la nascita di un movimento spirituale o di una
religione, ma un momento particolarmente propizio è proprio quello successivo ad una guerra. Dopo tanta morte
e tanta distruzione la gente si chiede ‘perché?’ e ‘dove vanno a finire i morti?’. Due domande molto importanti”.
Da quel “perché?” ha avuto origine il personaggio Freddie, un uomo alla deriva, che gira in tondo e galleggia in
un malsano e confortante oblio quando incontra per la prima volta Lancaster Dodd, anche lui uomo della Marina,
che crede di aver scoperto alcune inconfutabili verità su come il genere umano possa riuscire a sconfiggere i
propri istinti animali più abietti.
Con Freddie al centro della storia, la narrazione diventa estremamente intima, tracciando il suo percorso
contorto e contradditorio verso la Causa, un percorso instabile e appassionato, fatto di ribellioni e lealtà,
speranze e distruttività, e denso di sogni e di fantasie che trapelano un po’ alla volta dal realismo delle immagini.
La produttrice Joanne Sellar, che ha collaborato alla realizzazione di tutti i film di Paul Thomas Anderson a partire
da Boogie Nights, ha assistito all’evoluzione creativa del progetto. “Paul era molto interessato alla questione di
cosa può farti la guerra, e di come nel 1950 ci fossero tutti quegli uomini che tornavano a casa e che avrebbero
dovuto ricominciare a trovare una collocazione nel mondo. Era un’epoca piena di anime perse in cerca di
risposte, e il modo in cui si sono formati tutti quei nuovi gruppi spirituali, Dianetics tra gli altri, affascinava molto
Paul. Ovviamente Paul non aveva alcuna intenzione di realizzare un film che non fosse di finzione, non sarebbe
nel suo stile. L’ideazione della Causa può aver tratto ispirazione dalle sue ricerche, ma la storia lo ha poi portato
in tutt’altra direzione”. “È diventata la storia di Freddie” prosegue la Sellar. “In un certo senso Freddie è il classico
outsider che entra in una comunità, e la trasforma. E quello che ne viene fuori è una specie di tragica love story
tra Freddie e il Maestro. Freddie aspira a far parte di qualcosa di più grande di lui, eppure non riesce a legarsi
completamente a qualcosa. E il Maestro vede Freddie come il figlio che non ha mai avuto, ma non riesce a far
funzionare le cose”. Anderson dice di aver letto molti libri dell’epoca, da Steinbeck a L. Ron Hubbard, ma osserva
che “a meno che tu non stia girando un documentario o una biografia, è auspicabile che il confine tra ricerca e
immaginazione resti molto confuso”.
E in effetti, mano a mano che la sceneggiatura è progredita, l’immaginazione ha preso il sopravvento e la Causa è
stata rappresentata come un’entità distinta, un surrogato di famiglia vulnerabile alle potenti forze e alle
dinamiche ingannatrici dei rapporti di sangue. Ciascuna scena è densa di una dicotomia tra rivalità e amore,
aspirazione e confusione che agita i protagonisti. “Quando guardo ora il film, vedo Freddie e il Maestro come due
persone che vorrebbero disperatamente stare insieme e creare un legame” osserva Anderson parlando dei due.
“Credo che ognuno dei due trovi la sua forza nell’altro, ma che allo stesso tempo provi l’impulso di far emergere
le debolezze dell’altro. Li vedo entrambi come uomini generosi con modi molto diversi di comunicare ciò che
hanno da offrire”. Quando la versione finale della sceneggiatura ha preso vita sul set, si è trasformata in una
specie di incubo febbrile sui temi del dopoguerra – ruotanti attorno al bisogno di dare un senso autentico alla
famiglia, alla fede, al successo, ai legami – messi in scena in modo del tutto inedito.
Intervista a Paul Thomas Anderson
Paul, l'aspetto narrativo di The Master è caratterizzato da una forma ellittica. Perché questa scelta?
In realtà il mio metodo è quello di andare in sala montaggio, eliminare il superfluo e sperare che il resto sia
sufficiente a narrare una storia. Scherzi a parte, ciò che mi interessava era raccontare una storia d'amore e
d'affetto tra i miei personaggi. L’amore tra due persone che, a prima vista, possono sembrare molto diverse per
come si comportano, per quello che fanno e per il loro background ma che in realtà sono molto simili. Sono due
bestie selvagge che cercano di addomesticarsi a vicenda. All’inizio è Lancaster che guida la storia d’amore che ha
le redini in mano della vicenda e che mette sotto Freddie cercando di inculcargli i suoi insegnamenti da fanatico.
Ma Freddie si rivelerà una persona che o non vuole o non riesce a cambiare, e un giorno se ne va, poi torna, ma
non ama più come all’inizio il suo Maestro. Non lo stima più. Un tempo si sono identificati uno con l’altro ma poi
le loro strade si sono divise come le loro anime ‘bastarde’.
Paul, il rapporto padre-figlio è un tema che emerge in molti tuoi film ed è sempre trattato in maniera
angosciante. Come mai questo ritorno?
E' vero, è un tema che mi interessa molto, ma questa non è una relazione filiale. E' più un rapporto amoroso,
anche se atipico.
Il film è stato girato il 70 mm. Perché hai scelto questo formato?
Ho fatto degli esperimenti per vedere come sarebbe venuto il look del film. I tecnici mi hanno suggerito di usare
questo formato e io ho accettato, ma ho avuto difficoltà durante la lavorazione perché la cinepresa era enorme,
si rompeva sempre e faceva un sacco di rumore. Però ha fornito un'epica particolare nella resa visiva del film, nei
primi piani e nei campi lunghi.
Paul, ci puoi raccontare come hai scelto gli attori? E' arrivata prima la sceneggiatura o prima gli attori?
Da tempo volevo lavorare con Joaquin, ma lui è un po' difficile e ha sempre rifiutato. Stavolta però ha detto di si.
Con Philip siamo molto amici perciò ero certo che avrebbe detto di si. Quanto a Amy Adams è un'attrice
straordinaria ed è lei che decide i ruoli. Le è piaciuto il film e ha accettato. Sfortunatamente oggi non è qui
perché è impegnata a Broadway, ma le sarebbe piaciuto molto essere con noi.
Perché hai scelto di realizzare un film ispirato a Scientology? Ti serviva per dare un'altra visione dell'America?
Non so, forse il film potrebbe essere ambientato ovunque. Anche i personaggi sono universali, ci sono un
mentore e un seguace. Il mentore soffre perché il suo seguace lo abbandona. In questo non vedo aspetti
sociologici legati in modo specifico all'America. Per quanto riguarda la vicenda di Scientology l’unico spunto di
vero che c’è è che la storia del film si svolge negli anni dal ’50 al ’52 quando viene fondata una sede da Hubbard
sulle sue teorie che ha esposto nel suo libro Dianetic – La forza del pensiero sul corpo. E ci sono molte cose che
Lancaster dice che si rifanno a Scientology come il fatto che se il nostro pensiero diventa puro e forte possiamo
curare anche il nostro corpo, addirittura, malattie come la leucemia. O la famosa domanda: ‘Ti capita di avere
spasmi muscolari senza alcuna ragione?’ che era una di quelle che Hubbard faceva sempre. Ma questo non fa del
film una biografia su di lui, assolutamente, no. Potremmo trovare tremila altri rimandi ad altre teorie teosofiche,
mistiche o spirituali di vario tipo.
Però l'ambientazione post-bellica è molto specifica.
In effetti il film è ambientato negli anni '50, dopo la fine della guerra. Quella era un'epoca in cui molte famiglie si
spostavano da uno stato all'altro quindi la situazione che mostro è tipica di quel momento.
I ruoli di marito e moglie sono fluttuanti, a volte si invertono, come nella vita. Ciò accade normalmente in tutti i
rapporti di coppia.
Tra le scene più intense del film ce n'è una ambientata nella prigione. Puoi dirci come è stata realizzata?
Quella in prigione è una scena estremamente violenta. Sfortunatamente il water che si vede rompere nel film era
un vero sanitario d'epoca perciò sapevamo che avremmo potuto girare la scena una volta sola. Quello è un
edificio storico e ora sono rimasti senza bagno.
Recensioni
Paolo D'Agostini. La Repubblica
Lasciandosi trasportare dagli snodi spesso arcani del nuovo film di Paul Thomas Anderson The Master (Il
Maestro) viene alla mente una battuta della serie tv Boris. Quando a un certo punto, parlando di un film artistico
- vale a dire quanto di più lontano da ciò che la scalcinata compagnia di Boris fa - qualcuno, tra ammirazione,
diffidenza e complesso di inferiorità decreta che "si capisce e non si capisce". Anche il trascorrere non sempre
immediatamente coerente tra una situazione e l'altra di The Master "si capisce e non si capisce" (non succedeva
un po' anche in Magnolia dello stesso regista?) ma non ha alcuna importanza. Il regista-autore americano di
alcuni dei più significativi film dell'ultimo quindicennio, da Boogie Nights a Il petroliere, tra i maggiori innovatori
della generazione quarantenne (più di Tarantino: unica ipoteca su questa generazione l'essere imbevuta di
cultura cinefila e dunque in agguato la tentazione citazionista a scapito di una più libera personalità di sguardo),
conferma in pieno il grande talento di chi dietro l'apparente divagare, eludere, gingillarsi nell’inseguire stranezze
(...) e dietro l'apparente categorica distanza dall'attualità e da ciò che ci riguarda da vicino, sa al contrario colpire
il cuore delle cose e rappresentare con dolente precisione la condizione umana.
Siamo nel 1950. Non risulta chiara e di immediata comprensione, e ciononostante non riusciamo a immaginare
che altro potrebbe succedere se non quello che vediamo succedere, la dinamica che conduce un ex combattente
di marina sul fronte del Pacifico, un giovane sbandato e squilibrato di nome Freddie (Joaquin Phoenix) tra le
braccia di un seducente ciarlatano, imbonitore, guaritore, presunto salvatore di anime e dispensatore del segreto
dell'armonia nonché capo di una setta-azienda denominata La Causa, che si fa chiamare Maestro (il superbo
Philip Seymour Hoffman, presenza fissa nel cinema di Anderson). Creandosi di conseguenza tra i due un flusso di
eccezionale intesa, fatta di dipendenza unilaterale ma anche di autentico scambio e bisogno reciproco, di intenso
riconoscimento di un sentimento misto tra amicizia e fraternità - e complicità spinta fino all'ambiguità sessuale evidentemente per entrambi mai conosciuto prima.
Ecco. Se nell'andare a quella lontana temperie c'è il recupero e la rivisitazione, tanto storica che cinematograficocinefila, di gusto un po' vintage e un po' archeologico, di quello che dovette essere uno sconvolgimento epocale e
che, con la guerra e i suoi reduci, fu battesimo del fuoco per una generazione che al tempo stesso perdeva
precocemente la sua innocenza e che si sarebbe poi anche tuffata nel vortice euforico di un'incondizionata
conquista del mondo (...), ebbene c'è anche molto di più nel film.
(…) Ma il fatto principale è che la precisa e accurata ambientazione d'epoca (colori, oggetti, abiti, comportamenti,
musiche) è il veicolo per una rappresentazione universale delle misteriose vie e dell'enigmatico affermarsi,
attraverso l'ondeggiare tra fedeltà e slealtà, di legami, dipendenze, intrecci affettivi veri e profondi ancorché
sbilenchi, sbilanciati, iniqui. La meraviglia imperfetta delle relazioni umane. Come i suoi grandi oggetti di
ammirazione Kubrick e Welles anche P. T. Anderson sembra avviato alla costruzione di una leggenda il cui
cammino è lastricato di lunghi intervalli tra un'opera e l'altra e di faticose avventure nella costruzione e per il
finanziamento di ciascuna opera.
Valerio Caprara. Il Mattino
Onore a due interpreti, inevitabilmente premiati all’ultima Mostra di Venezia, che rischiano però di cannibalizzare
il film in cui giganteggiano dal primo all’ultimo fotogramma. Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix danno,
infatti, vita nel parimenti aureolato “The Master” a un incontro-scontro psicologico di tale violenza e intensità da
finire col mettere in ombra alcuni riferimenti, tagliare (a furia di spesso indimenticabili assoli) più di un passaggio
temporale e moltiplicare eccessivamente i tasselli narrativi; nessuna sorpresa, però, perché Paul Thomas
Anderson –da “Magnolia” a “Il petroliere”- non ha mai voluto barattare la sua idea di messinscena come
transfert compulsivo tra personaggi e Storia con una maggiore affabilità nei confronti del pubblico. “ The Master”,
comunque, è un film che non si può dimenticare come pure succede nel caso di tanti altri, anche stimabili
prodotti ed è destinato a restarti attaccato dentro con un carico di sensazioni che vanno dallo sgradevole
all’abbacinante, dal polemico all’enigmatico. Si è detto che l’intera operazione è intrappolata nel pericoloso
intento di svelare i segreti legati alla potenza della setta Scientology (rinominata per precauzione legale The
Cause) e del suo inquietante e onnipotente guru Lancaster Dodd (ispirato al vero L. R. Hubbard): eppure per gran
parte del suo zigzagante percorso nella storia americana post seconda guerra mondiale, il film riesce a
materializzare l’attrazione che una personalità dominante e fanatica esercita nei confronti di un’altra disturbata,
inferocita e fragile, alludendo nel contempo alle contraddizioni materiali e le lacerazioni culturali che rendono
fecondo e pervasivo, odiato e amato, ma soprattutto inimitabile il dna degli Stati Uniti d’America.
(...) Tra sequenze d’incredibile fascino, rifiniture fotografiche e scenografiche raffinatissime, scene madri dense di
morboso erotismo represso e amputate di qualsiasi uscita di sicurezza spettacolare e una miriade di sfumature
sfuggenti tanto sono lavorate, la visione di “The Master” finisce con l’assumere essa stessa il valore e la funzione
di un trip tra l’utopistico, l’iperrealistico e il trascendentale.
Federico Pontiggia. Il Fatto quotidiano
“Non si capisce”, “Ma non è su Scientology!”, “I due sono gay?”. Oltre al Leone d’Argento e le due Coppe Volpi a
Venezia e le tre nomination per gli attori agli Oscar, The Master mette in bacheca un altro premio: è il film più
incompreso, travisato e sbeffeggiato – la più grossa Corazzata Potemkin dopo The tree of life della stagione.
Perché? Già alla Mostra non piacque a chi si aspettava, dunque esigeva, un urlante j’accuse contro Scientology,
ma crediamo non possa non piacere a chi ama il cinema. Dire che The Master si ispira a L. Ron Hubbard per la
figura del carismatico e mesmerizzante guru Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman) corrisponde al vero, ma
bisogna intendersi: il superbo film di Paul Thomas Anderson non stenografa ex post la nascita e l’ascesa di
Scientology, bensì ne fotografa il perché, individuando l’emersione di quella e analoghe organizzazioni fideistiche
nel binomio maestro-allievo inculcato nello Zeitgeist stesso dell’America. Per rimanere al cinema, basti pensare
all’istruzione dello schiavo Django a opera del Dr. Schultz.
(…) Negli States si può essere solo maestri o allievi: senza alcuna salvezza. Ognuno sta, deve stare, al proprio
posto, come autorità vuole: indagando padri e figli (e madri: Amy Adams), The Master discerne tra autorità
maschile e affettività femminile. In altre parole, tra guerra e pace: la dedizione al conflitto, l’impossibile
abbandono alla pace. Si apre col mare, il più filosoficamente mosso da Film Socialisme di Godard, si chiude con
l’abbraccio di Joaquin alla donna vitello d’oro che ha costruito sulla sabbia: in riva al mare, a propria immagine e
pulsione. È’ l’unica donna che l’America del self-made man può avere: perché? Chi comanda ha qualcuno che lo
masturba (Amy Adams smanaccia il marito Hoffman davanti allo specchio), chi non comanda si masturba da solo
(Phoenix onanista sulla spiaggia), ma per entrambi l’Amore, l’incontro paritario tra due persone, non c’è.
L’accostamento delle due masturbazioni è centrale nel definire lo status di maestro e allievo: il primo è la mente,
il secondo il braccio. La teoria e la prassi, l’immaginazione e l’azione.
Non a caso, la stentata sintesi avviene nel finale quando Phoenix seduce la qualunque e a letto sfodera gli
“insegnamenti” del suo vecchio master: il braccio ha trovato la mente, ma è ancora – la terza – masturbazione.
Non c’è reale incontro, non c’è amore. Dopo un incesto (la zia) adolescenziale , l’allievo non può più incontrare
affettivamente, solo farsi sottomettere, mettendo la testa sotto l’ala protettiva di una rassicurante, magistrale
autorità: Scientology, se credete, o un qualsiasi uomo, organizzazione, movimento forte. Strano ma tristemente
pronosticabile, il film più ambiguamente e intrinsecamente politico della stagione non c’è tra i nove nominati agli
Academy Awards (...). Metteteci una drammaturgia da grande romanzo sociale che ribalta la Libertà di Jonathan
Franzen: “Se non sono libero di scegliere, allora come devo vivere?”, regia e montaggio sublimi, direzione d’attori
matura (P.T. non si lascia mangiare più il film come da Daniel Day-Lewis nel Petroliere), e il genio di The Master
tracima. Un capolavoro: ovvio, per chi se lo merita.
Gianni Rondolino. La Stampa
Premiato alla Mostra di Venezia con il Leone d’argento e con la Coppa Volpi per i due interpreti, evidentemente
The Master è stato accolto dalla critica italiana e straniera come un grande film, che forse si sarebbe meritato il
Leone d’oro. Ma credo che sia anche possibile - come invece è, almeno in parte, l’accoglienza degli spettatori non
solo italiani - dare un giudizio negativo a un’opera che avrebbe potuto essere ben altrimenti geniale e
accattivante.
Il fatto è che non basta l’interpretazione, indubbiamente buona, di due attori come Joaquin Phoenix e Philip
Seymour Hoffman, e nemmeno la regia, altrettanto buona, di un regista come Paul Thomas Anderson, il quale da
molti critici è considerato uno dei migliori nuovi autori del cinema americano. Si tratta invece di analizzare con
molta attenzione quella che è possibile chiamare addirittura la «noiosità» di un racconto, che è al tempo stesso
lungo e breve, articolato e ripetitivo, geniale e mediocre. (…) La noia nasce dal fatto che le situazioni che
dovrebbero chiarire in profondità non solo il rapporto fra i due protagonisti, ma anche ovviamente la loro
personalità, si ripetono senza trasformare la realtà quotidiana e senza renderla fondamentale per cogliere a
fondo il problema esistenziale che li lega l’uno all’altro. Si potrebbe in realtà sostenere il contrario – come non
pochi hanno sostenuto – e cioè che questa realtà quotidiana è al centro di uno stile registico e interpretativo che
trasforma le immagini in un racconto straordinario, che non si riferisce solo agli Stati Uniti degli Anni Cinquanta
del secolo scorso, ma anche alla vita di oggi. Ma si può anche dire che il tedio di questo film non è soltanto fine a
se stesso, ma impedisce di analizzare a fondo una realtà che potrebbe in effetti essere criticamente aperta a ogni
interpretazione.
Dario Zonta. L’Unità
Paul Thomas Anderson ha un progetto in mente e i suoi film sono il lento comporsi di questa strategia, come
pezzi perfetti di un puzzle ancora incompleto. The Master (...) è l'ennesimo tassello. Il progetto è raccontare la
storia di un paese, gli Stati Uniti d'America, attraverso gli snodi più cupi del suo farsi. Lontano dall'elegia,
immergendosi volutamente nella più profonda ambiguità, Anderson è sempre teso a cercare il personaggio più
promiscuo a confronto con il suo doppio negativo. In questo senso, The Master segue le stesse orme e la stessa
struttura de Il petroliere. Due personaggi a confronto, mai prossimi alla salvezza, presi in una gara a perdere,
sempre più giù nel baratro, come sonde sporche nella terra dell'abbondanza. (...). Nella polarità di questi opposti,
Anderson cerca le ragioni inesplicabili della Nascita di una Nazione, andando, di volta in volta a cogliere gli snodi
più importanti e sempre avendo in mente la biografia di personaggi veri (in Il petroliere si rifaceva a Edward
Doheny, in The Master L. Ron Hubbard). Ma le biografie, mai accreditate, sono una traccia a volte lontana, il
simulacro di un percorso, di una vita, di un destino cui il regista dà altro spessore, lasciandosi giustamente
prendere dalla foga di riscrivere la storia proprio nel tentativo di estorcere un senso altro e più profondo.Nel
raccontare la relazione tra un maestro e il suo allievo all'ombra della nascente organizzazione chiamata «la
Causa», The Master è e rimane un film molto enigmatico che avanza per ellissi in un'articolazione narrativa mai
consequenziale, ricca di felicissime intuizioni visive, capaci di sintetizzare in una scena o in un'occasione il cuore
di un passaggio oscuro, trovando nella nascita delle ideologie religiose anni Cinquanta l'altra faccia del peccato
originale americano.
Giancarlo Zappoli. Mymovies
(…) Il film che è stato forse il più atteso alla 69^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si rivela
perfettamente in linea con l'autorialità di un regista che ha sempre cercato di scrutare il lato oscuro della psiche e
dei comportamenti umani senza alcuna intenzione di scandalizzare ma con il desiderio di fare molto di più:
cercare cioè di comprenderne le ragioni. Potremmo dire che queste si traducono nel suo cinema con un solo
termine: solitudine. Soli, profondamente soli erano i protagonisti di Magnolia nel loro tentativo di sfuggire alle
piaghe che spesso si erano inferti da soli. Solo era Il petroliere, bruciato dalle fiamme dei pozzi in cui scorre l'oro
nero delle coscienze asservite al Dio Denaro. Soli sono Freddie e Lancaster. Il primo alla ricerca di donne di sabbia
che plachino la sua sete sessuale ma anche inconsciamente desideroso di incanalare la propria violenza in forme
socialmente accettabili. Il secondo, dotato di un potere di fascinazione su uomini e donne bisognosi di 'credere' a
vite passate e pronti ad immergersi in dinamiche ipnotiche che li facciano sfuggire a un presente difficile da
controllare. Il tutto, da una parte e dall'altra, in un dominio in cui la razionalità non possa infiltrarsi; pena il crollo
del castello di illusioni.
L'ispirazione a Hubbard, il fondatore di Dianetics, è esplicita ed innegabile ma Paul Thomas Anderson è
abilissimo, ancora una volta, nello spiazzare lo spettatore. Chi si aspettava un pamphlet cinematografico sulla
capacità di irretire e depredare economicamente gli adepti alla setta, non lasciando loro quasi nessuno spiraglio
di fuga, si trova di fronte a tutt'altro. Freddie e Lancaster sono due uomini (perfetta la scelta di Phoenix e
Hoffman) che si confrontano mettendo in gioco tutti i loro comportamenti devianti. La differenza tra di loro sta
nel modo in cui riescono a gestirli. Alla fine del film si ripensa allo spazio angusto in cui i due si erano incontrati la
prima volta mettendolo a confronto con quello in cui finiscono con il ritrovarsi uniti e al contempo divisi più che
mai e ci si accorge che in quelle due location si sintetizza il senso di un'opera che sa andare oltre la contingenza
della setta miliardaria. L'ultima inquadratura poi riapre il film e chiude l'analisi di una psiche.
Mariarosa Mancuso. Il Foglio
La donna più sexy, tra quelle viste di recente al cinema, viene fabbricata dal marinaio Joaquin Phoenix su una
spiaggia. Con la sabbia umida e un gusto per il dettaglio che lascia senza parole i commilitoni, gente abituata a
passar subito ai fatti (siamo nel Pacifico, si combatte la seconda guerra mondiale, imperano noia e solitudine).
Lascia ammirati anche gli spettatori, che vedono l’attore sbucare dietro una tetta di sabbia a far da quinta. E’ una
tra le scene grandiose che aprono questo film, girato dal regista Paul Thomas Anderson cinque anni dopo “Il
petroliere” (che aveva per modello certe storiacce di ricchezza e prediche raccontate dai sudisti William Faulkner
e Flannery O’Connor, oltre a un titolo originale che biblicamente prometteva scorrimenti di sangue). A guerra
finita il reduce torna in patria, sbandato come vuole la tradizione (...). Con gli abiti troppo larghi e i nervi
tesissimi, Joaquin Phoenix prova a fare il fotografo in un grande magazzino. Va male, anche perché il nostro beve
qualsiasi cosa abbia un’inebriante tasso alcolico: in una scena successiva, lo vediamo mettere insieme cocktail
(molto apprezzati, peraltro) usando come ingrediente il solvente per vernici. Ubriaco fradicio, Freddie - così si
chiama il personaggio in questo film che dovrebbe fruttargli un Oscar, già preventivamente disprezzato da Mr
Phoenix con insulti ai giurati che votano per le nomination – finisce a bordo di uno yacht. Dove incontra Philip
Seymour Hoffman, alias Lancaster Dodd: un sedicente “scrittore, medico, fisico nucleare, filosofo teoretico” che a
guardar bene non è tanto meno sbandato dell’ex marinaio. Ma ha scelto di curarsi mettendo su una setta:
battezzata “La Causa”, per depistare ogni riferimento a Scientology di L. Ron Hubbard, nata più o meno negli
stessi anni. Freddie diventa il primo seguace di Lancaster, il suo braccio destro, perfino la cavia per le terapie
(domande su domande insidiose e personali a cui rispondere senza battere ciglio), e il fornitore appunto dei
velenosi cocktail. Gara di bravura tra i due attori, e una regia che perde qualche colpo verso la fine.