Arte e psichiatria - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
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Arte e psichiatria - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale Parte IV Arte e psichiatria Gli eventi ambigui mi affascinano sempre perché sembrano accadere proprio in quei momenti quando la vita scosta il velo.1 Psichiatria, follia e arte L’interesse degli psichiatri ai prodotti “artistici” dei malati risale alla metà dell’800. In quest’epoca nacquero all’interno dei manicomi le prime collezioni di disegni, pitture, sculture, quaderni di scritti (poetici, diaristici). Cesare Lombroso fu uno dei primi psichiatri in Europa a collezionare opere di alienati, tuttora conservate al Museo di Antropologia Criminale di Torino. Dall’analisi di queste opere trasse importanti riflessioni sul rapporto tra genio e follia. Convinto di aver dimostrato che genio pazzia sono legati da stretti rapporti. Lombroso si interessò alle diverse forme di “anormalità” dell’essere umano. Anormalità sia sul versante del minus, della degenerazione: pazzia, criminalità, alcolismo, cretinismo, prostituzione; sia sul versante del plus: il genio, il creatore, il rivoluzionario in campo sia artistico che scientifico, filosofico e politico. Lombroso cercava analizzando le opere dei pazzi, analogie che potessero dar conto della loro malattia; così individuò caratteristiche tipiche: mescolanza scritto-disegno, abbondanza di simboli e geroglifici, mancanza di prospettiva, predilezione per gli arabeschi e le forme geometriche, tendenza a rappresentare oscenità,… Notò una somiglianza tra queste forme espressive e l’arte primitiva. Negli stessi anni in cui nasceva in Italia questo interesse per l’attività artistica spontanea dei malati di mente, in Francia due importanti psichiatri si interessarono al suo “significato clinico”. Si tratta di Ambroise Tardieu (Ètude medico-legale sur la folie, 1872) e dello psichiatra Max Simon che riprese gli studi di Tardieu e cercò di approfondirli al fine di interpretare i disegni dei malati mentali in chiave diagnostica e nosografia, non mostrando alcun interesse estetico per quelle opere. Dobbiamo a Simon l’intuizione che il malato traeva giovamento dall’esprimersi “artisticamente”. Si fa strada l’idea che il disegno e la pittura possano essere impiegate negli ospedali psichiatrici come attività occupazionale e terapeutica, nasce una nuova sensibilità nei confronti del malato mentale. Si può dire che da questa impostazione deriverà la disciplina che conosciamo ora come arteterapia. 1 Dubuffet J., Prospectus et tous écrits suivants, Éditions Gallimard, Paris, 1967, p. 79. 1 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale Tuttavia, si guarda alle opere degli alienati sempre con occhi di psichiatri, medici che cercano significati e sintomi da classificare. Occhi poco esperti a cogliere il valore estetico, occhi troppo vincolati a una percezione accademica e convenzionale dell’arte. Per far sì che un altro sguardo si posasse su tali prodotti, saranno necessarie due condizioni, indipendenti l’una dall’altra: 1) lo sviluppo delle teorie psichiatriche in direzione psicoanalitica e fenomenologica; 2) l’avvento delle avanguardie artistiche e la costruzione di un linguaggio espressivo e tecnico totalmente nuovo, destinato a stravolgere la concezione e la tradizione accademica. Al primo punto abbiamo uno spostamento dalle concezioni organiciste2 e descrittive verso una concezione dinamica dove non si guarda all’organo-cervello ma alla psicogenesi, quindi alla storia psicologica-relazionale dell’individuo, ai fattori inconsci, ai processi e meccanismi psichici, mentali che possono concorrere all’emergenza del disturbo. Freud distingue disturbi nevrotici da quelli psicotici (che riguardano più propriamente le tradizionali manifestazioni della follia). Nei primi decenni del ‘900 si delinea anche un altro approccio alla malattia mentale grazie a una impostazione che, nata in filosofia come “fenomenologia” (Husserl e Heidegger), vede in psichiatri come Karl Jaspers e Ludwig Binswanger dei rappresentanti in grado di rinnovare la concezione e la clinica della “follia”. Come nella psicoanalisi, anche nella psichiatria fenomenologica la clinica è basata sull’osservazione dell’individuo, sui dati e la storia psicologica del malato e non sulle classificazioni medico-biologiche dei “danni” cerebrali. Per Jaspers e Binswanger non sono importanti i sintomi ma il “senso” che l’esperienza della malattia assume per la persona; nel peculiare significato che assumono i propri vissuti, i propri desideri, la propria relazione con gli altri e con il mondo, è da ricercare la genesi e la possibile soluzione della follia. Non la spiegazione del male, del sintomo, ma la comprensione della persona e del suo “essere al mondo”. Ma fu soprattutto la rivoluzione portata da Sigmund Freud a instaurare una nuova percezione della malattia mentale e del malato, i cui comportamenti sintomatici non sono più letti come segni di degenerazione e danno del sistema nervoso, ma come espressione di un mondo interiore organizzato e complesso, un mondo da scoprire, da interpretare. Così gli stessi psichiatri fenomenologi a partire da Jaspers e Binswanger, avevano trovato nella psicoanalisi la chiave per impostare un nuovo sguardo psichiatrico. Al secondo punto è evidente notare come le avanguardie abbiano fornito, a partire da Cezanne e l’Impressionismo, una nuova sensibilità agli stessi psichiatri per comprendere 2 Fino alla rivoluzione francese i pazzi erano ospitati negli ospedali senza avere un trattamento specifico, la follia non era riconosciuta come patologia particolare. Con P. Pinel la pazzia viene medicalizzata, nasce la categoria di “malattia mentale” e nasce una nuova disciplina medica, la psichiatria. Così dall’Illuminismo in poi i folli non sono semplici reclusi ma diventano malati da trattare con metodi medico-razionali. Nel 1838 J. E. D. Esquirol pubblica un trattato dove distingue i pazzi (coloro che da normali diventano folli) e per i quali prevede un trattamento “morale”, dai deficienti mentali (sin dalla nascita). Negli anni successivi, con il consolidarsi della visione positivista, la psichiatria fa risalire la malattia mentale ad alterazioni o lesioni del cervello. La psichiatria organicista cerca nei danni dell’organo cervello le cause della malattia: nei neuroni, nella chimica, nei geni, nelle lesioni e nei traumi delle aree cerebrali, nelle alterazioni anatomo-funzionali, neurologiche. La psichiatria ottocentesca organicista è interessata alla descrizione dei sintomi e delle cause organiche e ha costruito un ampio vocabolario nosografico che classifica, differenzia e descrive sintomi, sindromi, quadri patologici. A partire dalla fine ‘800, figure come Emil Kraepelin cominciano a descrivere classificare le varie manifestazioni della follia (ad es.: maniaco-depressiva e demenza precoce). Ma con la nascita della psicoanalisi agli inizi del ‘900 si affaccia un nuovo, rivoluzionario, modo di intendere il disturbo psichico. Così anche psichiatri di formazione organicista cominciarono a spostare il loro interesse verso una concezione psicodinamica (come Eugen Bleuler che coniò il termine schizofrenia). 2 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale l’arte dei folli. Quelle caratteristiche di schematicità, ingenuità, spontaneità, regressione formale, che Lombroso associava alla degradazione e a un “primitivismo” incolto, ora sono assunte dai “nuovi” artisti come principi formali e compositivi essenziali. Non tutti ma molti psichiatri si educarono a questa nuova sensibilità estetica e furono in grado di guardare ai prodotti dei malati con un occhio non solo medico. È il caso di Walter Morghenthaler e di Hans Prinzhorn, psichiatri capaci di leggere la dimensione estetica delle opere di alcuni malati mentali. Il giovane medico svizzero Morghenthaler3 può essere considerato un pioniere: invece di concentrare la sua attenzione sui tratti patologici delle produzioni dei malati, si cimenta in una ricerca formale, allo scopo di determinarne lo stile artistico e la particolare costruzione linguistica. La sua sensibilità verso la pittura contemporanea porta lo psichiatra svizzero ad analizzare l’organizzazione spaziale e ritmica delle composizioni, tenta di definire i rapporti che legano la parola all’immagine e individua l’insieme dei motivi iconografici che animano queste complesse “opere d’arte totali”. Si dedica quasi totalmente allo studio dell’opera e della vita di un suo paziente: Adolf Wölfli,4 il quale, internato nel manicomio di Waldau nel 1895 come schizofrenico e criminalepedofilo, nel 1907 incontrò Morgenthaler, che per primo si accorse delle stupefacenti qualità artistiche di questo contadino svizzero ignorante e incapace di comunicare con gli altri. Ben presto infatti si rivela formidabile pittore e illustratore, torrenziale scrittore e indecifrabile compositore musicale. Oggi, l'opera di Wölfli viene considerata una delle principali esperienze artistiche del Novecento e alla base del movimento dell'Art-brut. Pittore, illustratore, compositore e scrittore, Adolf Wölfli sfugge a semplici classificazioni e si colloca tra quei personaggi incredibili e misteriosi di cui è costellata la storia dell'arte. Troviamo nella sua opera procedimenti che saranno alla base della Pop-art (tecniche di contaminazione, di collage, di ritagli pubblicitari e disegni), o analoghe alle sperimentazioni poetiche di Apollinaire e del Dadaismo (calligrammi, esperimenti di pitto-grafia), o che precedono Picasso (nel recupero del primitivismo e nei disegni di volti che sono simultaneamente di fronte e di profilo), che anticipano le sperimentazioni letterarie (giochi di parole alla Joice o logici alla Carroll). A Waldau rimarrà sino al termine dei suoi giorni. Morgenthaler evidenzia tre fasi nella sua malattia: la prima, durata circa cinque anni, sin quando non comincia a disegnare, è caratterizzata da accessi violenti, crisi impulsive, aggressività, manie di persecuzione, depressione, allucinazioni audiovisive, bruschi sbalzi d’umore, distruzione di oggetti, pestaggi. Nella seconda fase (1899-1917), quella dei disegni e della scrittura, Wölfli instancabilmente crea. Ha ancora crisi, è collerico e aggressivo; patisce allucinazioni, si sente spiato, umiliato e perseguitato. Tuttavia, progressivamente, l’esercizio artistico lo mitiga e lo placa: è il suo calmante e la sua unica via d’interazione con il mondo. Nella terza fase, viene trasferito in una nuova camera assieme a tutti i suoi scritti e ai suoi disegni. È il 1917. Diventa persino socievole e si mostra gentile con gli altri malati. Le allucinazioni non sono svanite: dialoga con queste voci ci discute animatamente. Mendica mozziconi di matita e fogli di carta dappertutto. Quando non ha matite colorate a Walter Morghenthaler (1882-1965) legò la sua fama di psichiatra alla sua opera dedicata a Wolfli. Il libro è uno dei primi e migliori casi di biografia artistica di uno psicotico: per la prima volta, uno psichiatra pubblica nome e cognome d’un paziente internato, perché lo considera un artista. Morgenthaler Walter, Arte e follia in Adolf Wölfli, Alet Edizioni, Padova, 2006. 3 4 3 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale disposizione, scrive la sua autobiografia fantastica. Sente di “dover fare”: la sua è una creatività che nasce dalla percezione di “necessità”. È applicazione e disciplina, dettate da una frenesia creativa. Non sa mai cosa disegnerà prima d’aver intrapreso l’opera: Morgenthaler dirà che “pensa con la matita”. Non ha “ispirazioni” creative: sostiene di aver trovato tutte quelle immagini, nei suoi viaggi nell’Universo, grazie alle indicazioni e agli ordini di Dio. L’acume di Morgenthaler si evidenzia nel commento alle opere di Wolfli: a proposito degli scritti fa una analisi della lingua, la punteggiatura, lo stile, la formazione di nuove parole, alle formule, alle interiezioni, alle ripetizioni, ai giochi di parole, ai dialoghi, al contenuto; a proposito della creazione musicale mette in evidenza le particolari partiture e l’importanza del ritmo; a proposito dei disegni ne studia con attenzione i contenuti, la costruzione, le figure simboliche, le scene, i tratti, le forme, i colori. Se l’opera di Morgenthaler è da considerarsi come la prima monografia artistica su uno schizofrenico, quella di Hans Prinzhorn5, L'attività plastica nei malati di mente (Bildnerei der Geisteskranken, Berlino, 1922)6, rappresenta il primo e unico tentativo di affrontare in modo sistematico il problema della “produzione plastica” dei malati mentali nella sua complessità.7 Qui analizza e raccoglie le opere prodotte da varie tipologie di ospiti in istituti psichiatrici, tracciando una ragionata relazione tra attività artistica e componente schizofrenica. Il grande rigore scientifico e l’umiltà di mostrare i vari paradossi concettuali8 senza cadere in facili semplificazioni, rappresentano i principali meriti di questo lavoro e lo rendono a tutt’oggi indispensabile per chi voglia inoltrarsi in questo terreno di confine. Hans Prinzhorn (1866 – 1923) psichiatra psicoterapeuta presso l'Istituto di Psichiatria dell' Università di Heidelberg è una personalità poliedrica con interessi sia scientifici che artistici, ha studiato storia dell’arte, estetica, filosofia, musica e canto, attività umanistiche che coltiva mentre nel 1917 prende una seconda laurea in medicina. Conciliando questi due filoni di interesse apparentemente distanti, redige un testo oggi divenuto un classico. 6 Prinzhorn H., L'arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali, Mimesis Edizioni, Milano, 2004. 7 Prinzhorn è il primo, anche dal punto di vista cronologico, che stila uno studio esaustivo su un numero statisticamente significativo di soggetti, mettendo insieme una collezione di circa 5000 pezzi realizzati da circa 450 autori. 8 Ad esempio nota come le stesse caratteristiche formali ed espressive delle opere degli schizofrenici si possono ritrovare nelle opere di persone totalmente sane o in particolarei categorie come i bambini, adulti inesperti, detenuti, o nei popoli “primitivi”. Per quanto riguarda poi l’analogia con l’arte contemporanea è evidente la condivisione di caratteristiche formali ed espressive, prima di tutte il ritiro dalla rappresentazione materiale, figurativa della realtà. Nell’artista come nello schizofrenico c’è come una presa di distanza dalla realtà condivisa, concreta e un ripiegamento sul proprio mondo interno. Ma la vera grande differenza è che per lo schizofrenico questo allontanamento dal mondo sensibile è un effetto di una sofferenza patita; per l’artista è frutto di una scelta sofferte ma consapevole e attiva. Nella sua indagine sul delicato confine tra arte e follia, Prinzhorn trova una affinità tra il sentimento del mondo schizofrenico e quello che si manifesta nell'arte contemporanea; le forme d'espressione del nostro tempo, nelle arti plastiche come nei vari generi letterari, rimandano ai procedimenti e alle tendenze che ritroviamo nel pensiero schizofrenico. Prinzhorn è particolarmente interessato all'avanguardia artistica che per quanto destrutturante manifesta comunque tendenze alla rielaborazione, al gioco, all'ornamento e alla ristrutturazione dell'immagine: rivela un atteggiamento attivo, esplorativo, ricostruttivo, utopico o evocativo verso il mondo esterno, rivela un interesse per l’Altro (a cui si rivolge e fa appello), interesse che spesso viene meno nella personalità schizofrenica, che rinuncia a fare appello all’Altro. In questo caso l’espressione artistica non si rivolge all’altro ma rimane chiusa su se stessa. Prinzhorn è il primo a sottolineare che lo schizofrenico è distaccato dal mondo degli altri e per definizione non può né vuole ristabilire il contatto con essi. Nei suoi quadri manifesta spesso un isolamento artistico. La differenza tra l’opera di un artista “sano” e quella di un artista schizofrenico sarebbe individuabile nel fatto che lo schizofrenico comunica un sostanziale rifiuto alla comunicazione, con una totale impermeabilità nei confronti dell’esterno e crea senza scopo né significato, in modo “autistico”. Eppure, la schizofrenia può essere considerata uno dei 5 4 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale Il testo Larte dei folli. L'attività plastica nei malati mentali è composto da una ricca parte introduttiva, una parte teorica, una parte dedicata all’analisi di varie opere della collezione, una parte all’analisi approfondita di dieci casi di “grandi artisti schizofrenici” della modernità tra i quali Van Gogh, Kubin, Ensor, Kokoschka, Nolde, e una parte conclusiva. Questa struttura ruota intorno al concetto di “Gestaltung” (impulso originario, costruzione, creazione). Concetto ripreso dall’estetica filosofica che indica, secondo Prinzhorn, una esigenza espressiva originaria priva di qualsiasi finalità estrinseca; è la Gestaltung stessa a dare un senso all’oggetto dell’elaborazione artistica. Dietro a ogni oggetto artistico c’è un unico processo nucleare comune a tutti gli uomini.9 Sulla base di questi riferimenti teorici Prinzhorn analizza molte opere di schizofrenici da lui collezionate. Le opere sono raggruppate in base alle radici di Gestaltung che vi prevalgono, partendo dalle più semplici: gli scarabocchi disordinati in cui prevale la tendenza ludica; per poi concentrarsi su quelle più complesse, guidando il lettore a leggere di volta in volta il contenuto espressivo racchiuso in esse. Una volta offerta questa ricca panoramica della varietà di tendenze (Gestaltung) presenti nella collezione di Heidelberg, Prinzhorn analizza approfonditamente le opere dei dieci noti artisti schizofrenici, scelti in base alla ricchezza e alla qualità delle opere. Nella conclusione mostra come non sia mai possibile leggere le caratteristiche delle opere dei malati mentali come indice della loro patologia. Le opere non possono essere la cartina tornasole per diagnosticare il tipo di sofferenza. Il lavoro di Prinzhorn varca in realtà i limiti sia della psichiatria che dell’estetica per giungere ad un vero e proprio rinnovamento dei metodi di approccio al disagio psichico, ipotizzando che questo possa essere curato attraverso la libera espressione creativa del malato. Qui troviamo un primo fondamento teorico alle pratiche di arteterapia. Grazie a questa nuova sensibilità di alcuni psichiatri, entra sulla scena dell’arte l’artista schizofrenico. Da una parte la nuova sensibilità portata dalle avanguardie ispira una diversa considerazione dell’arte schizofrenica; d’altra parte la schizofrenia, come condizione ed esperienza dell’essere umano, ispira le stesse avanguardie. Da una parte l’avanguardia ispira la lettura dell’arte dei folli. I nuovi linguaggi espressivi e compositivi che emergono dai nuovi artisti, informano psichiatri come Prinzhorn e Morgenthaler permettendo uno svincolamento da interpretazioni riduzionistiche e sintomatologiche dei pazienti e delle loro opere. D’altra parte l’arte si giova di questo scambio di influenze. La follia ispira le avanguardie: all’inizio del Novecento molti artisti “modi possibili di essere uomini”, compatibile con la vita, anche se richiede l’incredibile forza di reinventare continuamente il reale per continuare ad esistere in un mondo in cui tali persone percepiscono e soffrono per l’impossibilità di comprendere ed essere compresi. Se capissimo la schizofrenia, capiremmo molto di più anche su come siamo fatti noi uomini “normali”, così come l’interpretazione freudiana dei sogni ci ha insegnato tanto di più su come sono gli uomini da svegli: lo studio della schizofrenia può così avere significato antropologico generale. E come scrive R. M. Rilke a proposito del testo di Morgenthaler: «molti sintomi di malattia […] suscitano il ritmo tramite cui la natura tenta di riconquistarsi quanto le è diventato alieno e di strumentarlo in una nuova melodia». Lo psicotico e l’artista sembrano attingere alla stessa fonte. Ma nella condizione di sofferenza psichica, quell’acqua non disseta, piuttosto asseta. Ti priva della realtà, cancellandone confini, dettagli, sfumature. Come uno tzunami spazza via le costruzioni, inonda la percezione, annulla i riferimenti temporali e lascia una terra desolata. Come un fuoco gelido, che comunque brucia. 9 Rifacendosi alla concezione estetica di Tolstoj, considera la Gestaltung come il processo fondamentale che non interviene solo nel momento della creazione dell’opera artistica, ma anche nel momento della percezione di un oggetto reale in quanto cosa. Anche la percezione “quotidiana” è guidata da questo impulso originario, che dà forma alla personale costruzione del mondo. 5 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale vengono in contatto con opere di malati mentali e molti di loro conoscono il testo di Morgenthaler e il testo e la collezione di Prinzhorn. La conoscenza di questo materiale entra a far parte del bagaglio culturale delle avanguardie. L’arte dei folli diventa l’ennesima fonte stilistica eterodossa rispetto alla tradizione accademica, insieme all’arte dei primitivi e dei bambini. Ad attrarre l’interesse verso queste forme spontanee, incolte e non accademiche è proprio il loro portato di originalità, autenticità, spontaneità, verità. Come proclama lo stesso Paul Klee: Nell’arte si può anche cominciare da capo, e ciò è evidente, più che altrove, nelle raccolte etnografiche oppure a casa propria, nella stanza dei bambini. Non ridere lettore! Anche i bambini conoscono l’arte e vi mettono molta saggezza! Quanto più sono maldestri tanto più ci offrono esempi istruttivi e anch’essi vanno preservati per tempo dalla corruzione. Fenomeni analoghi sono le creazioni dei malati di mente e non è affatto un vituperio parlare in questi casi di puerilità o di pazzia. Se oggi si vuol procedere a una riforma, tutto questo è da prendere molto sul serio, più di tutte le pinacoteche del mondo.10 Questo riferimento mostra la conoscenza e la considerazione che Klee aveva dell’arte dei malati mentali già dieci anni prima della pubblicazione del libro di Prinzhorn, mostra come questa forma di espressione, insieme a quella dei bambini e dei primitivi, fosse considerata fondamentale per costruire un nuovo linguaggio pittorico ed artistico in generale. Anche altri artisti attribuiscono alle elaborazioni di folli, bambini e selvaggi la potenzialità di rivelare forze, forme, contenuti originari, non ancora ricoperti dalle convenzioni sociali e culturali. Max Ernst da studente in psichiatria si rivolge all’arte dei folli con una diversa consapevolezza della malattia mentale. Nel 1919 gli viene proposto di organizzare una mostra a Colonia sulle nuove tendenze dell’arte: dedica una intera sezione agli artisti Dada in cui figurano anche opere di pittori dilettanti, “objets trouvés” e opere di malati mentali. La mostra provoca uno scandalo, il manifesto e il catalogo vengono confiscati dalle autorità britanniche di occupazione.11 Per la prima volta le opere di malati mentali vengono esposte accanto a opere di artisti di professione e considerate opere d’arte a pieno titolo. Nel periodo tra il 1919 e il 1921 Ernst esegue la sua prima serie di collages, nei quali vengono raffigurati bizzarri personaggi i cui corpi meccanici nascono dalla giustapposizione di ritagli di stampe pubblicitarie. Questa vicenda è fondamentale nella vicenda artistica di Ernst in quanto inaugura quei procedimenti pittorici sperimentali che caratterizzano per intero la sua ricerca e gli permetteranno di indagare quella “terra di nessuno” ai confini della follia. Ernst, dopo essersi trasferito in Francia nel 1922, prenderà parte alla nascita del movimento surrealista. Pur senza affrontare, in questa sede, la complessa posizione del Surrealismo nei confronti della malattia mentale, è interessante mettere in luce due aspetti rilevanti di questa posizione che assumeranno grande importanza nell’arte del secondo dopoguerra. In primo luogo, la violenta condanna da parte dei surrealisti nei confronti della psichiatria, dei suoi metodi e della sua legittimità; condanna basata sulla denuncia delle condizioni disumane a cui erano sottoposti gli internati negli ospedali psichiatrici nella prima metà del Novecento. In secondo luogo, nella follia veniva individuato un atto di libertà, una condizione estrema le cui difficoltà sono rese sopportabili da una fervida immaginazione creativa. Questa Klee Paul, Diari 1989-1918, Il Saggiatore, Milano, 1960, pp. 273-274. Bianca, “Max Ernst: un esploratore dell’insidiosa terra di nessuno ai confini della follia”, in Bedoni G. e Tosatti B., Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile, Mazzotta, Milano, 2000. 10 11 Tosatti 6 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale posizione, che per semplicità possiamo chiamare “culto della divina follia”, è uno dei leitmotiv della poetica surrealista e compare già nel primo Manifesto del Surrealismo, scritto da André Breton bel 1924.12 Breton e Paul Eluard nutrono il culto della “divina follia” spingendosi fino all’imitazione: del disordine del pensiero,13 delle libere associazioni di idee, delle dis-percezioni, della lingua caotica, delle strutture deliranti del discorso delle malattie mentali e in particolare della schizofrenia.14 La pratica dell’automatismo mentale, sia nella scrittura che nella pittura, viene applicata ed esplorata in tutte le sue possibilità creative, con lo scopo di indagare quel profondo e inconscio livello della psiche ritenuto responsabile di ogni autentica espressività e che normalmente è ingabbiato dalla ragione. Inoltrandosi in questa “terra di nessuno” si scoprono principi e mondi che sono propri del sogno quanto della follia, del delirio, dell’intuizione. Tutti i surrealisti saranno esploratori dell’inconscio e della follia. Si pensi oltre a Ernst, Eluard, Breton, a Salvador Dalì, a René Magritte, a Paul Delvaux e a Yves Tanguy. Jean Dubuffet,15 sebbene non legato al movimento surrealista, riprende nella sua valutazione di queste opere sia l’idea della follia intesa come valore positivo, sia la decisa denuncia contro la psichiatria. Dubuffet, con la sua instancabile opera di artista, polemista e collezionista, contribuisce ad aprire un nuovo corso nello studio dell’arte dei malati mentali, contribuisce ad abbattere i forti pregiudizi che ancora circondavano questa forma espressiva non solo in campo psichiatrico ma anche in quello culturale. Dubuffet, influenzato anche dal libro di Prinzhorn, si schiera subito contro qualsiasi teoria o definizione tesa a considerare le opere dei malati mentali come una categoria a sé stante, quindi contro le nozioni di “arte psicopatologica” e di “arte dei folli”, egli pone per la prima volta al centro del dibattito artistico contemporaneo il problema della presa in considerazione delle opere di tutti gli artisti “marginali”, di tutti i creatori esclusi dal circuito istituzionale dell’arte. Nel 1945 fa un viaggio in Svizzera alla ricerca di artisti all’interno dei manicomi, sperando di trovare opere del livello di quelle fatte conoscere da Prinzhorn. Trova una vera e propria miniera di artisti e opere interessanti; inizia ad utilizzare il termine “Art Brut” (brutale, spontanea) per indicare le opere di artisti marginali.16 Giorno dopo giorno si imbatte in opere sorprendenti per 12 Breton André, Manifesto del Surrealismo, Einaudi, Torino, 1966 (v. pp. 12-13). psichica, “cretinizzazione”, automatismo. 14 Così risuonano i titoli dei capitoli di un fortunato libro dei due poeti: “Saggio di simulazione dell’imbecillità”, “Saggio di simulazione della mania acuta”, “Saggio di simulazione della paralisi generale”, “Saggio di simulazione della demenza precoce” (Breton A., Éluard P., L’immacolata concezione, Arcana Editrice, Roma, 1979). 15 Pittore e scultore francese nato nel 1901 fu il primo a teorizzare ed introdurre il concetto di Art Brut. Ha una forte influenza su di lui il libro di Hans Prinzhorn sull'arte degli alienati, ma è anche affascinato dall’arte dei popoli primitivi e dai disegni dei bambini. Nel 1947, assieme ad André Breton fonda la "Compagnie de l'art brut": il termine definisce l'attività creativa di "artisti loro malgrado", che creano senza intenzioni estetiche, per una personale pulsione emotiva confluente in una comunicazione immediata e sintetica. Contemporaneamente organizza una mostra esponendo i disegni di bambini e alienati mentali. 16 Quella di Dubuffet non è un’esperienza isolata, che viene dal nulla; si inserisce in un clima di rinnovamento dell’avanguardia artistica dell’immediato dopoguerra. Si va affermando in Europa una sorta di nuovo umanesimo esistenzialista e individualista che rivendica la dignità di ogni soggettività al di là di tutto. È un orizzonte, un’atmosfera, un orientamento generale sotteso a esperienze artistiche riconoscibili come Informale, Art Autre (arte altra), Tachisme (tache: macchia), Action Painting (pittura azione), Espressionismo astratto, Art Brut. Nella esperienza del Tachisme, ad esempio, si rimanda all’automatismo inconscio e si rifiuta ogni principio compositivo e semantico: le macchie, le chiazze di colore sono l’immediata trascrizione gestuale di uno stato emotivo. Nella formula di Art Autre (inventata dal critico Michel Tapié), “altro” indica una diversità espressiva radicale rispetto al passato, ma indica anche il diverso, il doppio, il nascosto e tutto ciò che nell’uomo 13 Regressione 7 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale qualità, contenuti, tecniche. Ma non sente la necessità di analizzare e definire le caratteristiche che contraddistinguono queste espressioni artistiche. Non elabora una teoria né dei principi identificatori. Ciò che definisce l’Art Brut è la sua stessa origine, la sua provenienza (da artisti non formati, ai margini della cultura e della vita sociale, non inseriti nel mercato dell’arte). Dubuffet sostiene che una definizione e una teoria ostacolerebbero il reperimento di tali opere e la loro stessa creazione in quanto fondata proprio sulla spontaneità e sull’originalità. In realtà si può identificare come Art Brut tutto ciò che è l’opposto dell’arte colta, accademica, leziosa. L’arte degli “irregolari”, in quanto non mediata dalle sovrastrutture della intelligenza, della tecnica, del sapere museale, è viva, immediata, originale: L’arte esiste come modo di operare che non coinvolge le idee. […] La vera arte non è mai dove ci si aspetta che sia: nel luogo dove nessuno la considera, nessuno la nomina. L’arte detesta essere riconosciuta e chiamata per nome. Scappa immediatamente. L’arte ama l’anonimato. […] Fu nel luglio 1945 che iniziammo sia in Francia sia in Svizzera e poi in altri paesi, la ricerca metodica dei modi significativi di produrre quella che ora chiamiamo Art Brut. Intendiamo con ciò le opere create da coloro che sono indenni dalla cultura artistica; dove il copiare ha un peso irrilevante, diversamente che nell’arte degli intellettuali.17 La logica conseguenza di tale impostazione teorica è la rivalutazione (idealizzata!) di tutti coloro che sono identificati come anti-intellettuali e/o esclusi dalla società riconosciuta: idioti, bambini, derelitti, folli. Della follia Dubuffet farà una vera e propria mitizzazione: La follia mette le ali all’uomo e favorisce il suo potere d’immaginazione; molti degli oggetti (quasi la metà) presenti nella nostra esposizione sono opere di persone chiuse negli ospedali psichiatrici. Non non traviamo nessuna ragione per segregarli, al contrario di altri. I numerosi contatti che abbiamo avuto con questi amici ci hanno convinti che i meccanismi della creazione artistica sono per loro gli stessi delle persone cosiddette normali. La distinzione tra normale e anormale sembra essere piuttosto forzata […]. L’atto artistico, con la tensione estrema che implica, il fervore che lo accompagna, può forse essere considerato normale? E infine,le “malattie” mentali sono estremamente diverse – ce ne sono tante quasi quante sono i malati – e parrebbe alquanto arbitrario etichettarle tutte nello stesso modo. Il punto è, secondo noi, che l’arte è uguale in tutti i casi, non c’è un’arte dei pazzi come non c’è un’arte dei dispeptici o di quelli che hanno male alle ginocchia.18 Successivamente Dubuffet sarà costretto a tentare alcune definizioni di massima e indicherà come Art Brut quelle opere in cui siano presenti solamente gli impulsi del suo autore: una creazione artistica diretta, pura, bruta. A partire dalla fine degli anni Sessanta l’interesse del pubblico per questa forma di creazione oscura e singolare cresce a dismisura; lo spirito di contestazione sociale ed intellettuale accende una nuova sensibilità nei confronti delle produzioni artistiche marginali. Numerose è sempre stato reputato pericoloso e “inferiore” in ogni senso, è anche l’altro antropologico. Quindi non è solo la rivincita dell’inconscio, del pulsionale sul razionale – già operata dal Surrealismo e ripresa nell’astrattismo del Tachisme – ma è il tentativo di far scendere in campo l’essere nella sua interezza, l’uomo nella sua piena “umanità”. 17 Dubuffet J., Prospectus et tous écrits suivants, Éditions Gallimard, Paris, 1967, p. 201. 18 Ivi, p. 202. 8 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale mostre in diverse città europee e americane fanno dell’Art Brut un polo di riferimento essenziale nel mondo dell’arte contemporanea. Ma la proliferazione di mostre e pubblicazioni fanno all’improvviso dell’Art brut un fenomeno di tendenza inserendolo nel sistema culturale dalla cui esclusione aveva trovato il suo motivo d’esistere. Le opere degli esclusi entrano a far parte del normale circuito dell’arte, perdendo la caratteristica di “esclusione”. L’Art Brut, forma d’arte spontanea e libera dai condizionamenti, viene così neutralizzata, condizionata e assimilata dalla cultura dominante. Inoltre, anche la situazione negli ospedali psichiatrici si sta intanto trasformando: da luoghi di reclusione si aprono al mondo esterno, si formano al loro interno atelier di pittura, scultura, che “educano” i pazienti all’espressione artistica. Educatori, insegnanti, artisti entrano negli ospedali portando il sapere, le tecniche, l’immaginario del “fuori”. I pazienti non sono più i creatori naive, spontanei, autentici, di un “altro mondo”. Così Dubuffet dovrà constatare che: Le opere d’arte veramente creative sono rare – tanto negli ospedali psichiatrici quanto fuori. La moda internazionale di incoraggiare i malati a produrre arte, non produce mai risultati interessanti e la maggior parte delle mostre di questi lavori sono penosamente modeste.19 Le trasformazioni che hanno luogo all’interno degli ospedali psichiatrici sono solo un aspetto di un processo di trasformazione su più vasta scala. La società degli anni ’60 è radicalmente diversa da quella del secondo dopoguerra, sono in atto diversi fenomeni sociali: lo sviluppo dei mezzi di trasporto, dei mezzi di comunicazione di massa, la scolarizzazione capillare, la critica alle istituzioni totali; fenomeni che favoriscono una maggior apertura verso l’esterno, contatti, scambi, spostamenti, un maggior flusso di informazioni, di conoscenze, di immagini condivise. Il mito dell’artista selvaggio, originale sembra ormai consumato; quella condizione di isolamento e di indipendenza dalla realtà socio-culturale, che Dubuffet aveva posto come caratteristica primaria del creatore di Art Brut, diviene impensabile nella società dei mass media. A maggior ragione con la riforma promossa dall’antipsichiatria e la chiusura dei manicomi (o quantomeno della loro trasformazione). L’arteterapia negli ospedali psichiatrici Dopo la seconda guerra mondiale, nel mondo psichiatrico si assiste a un nuovo interesse sia per la relazione tra arte e psicopatologia ma soprattutto per la relazione tra attività espressive e terapia psichiatrica. Questo interesse, destinato a divenire «un importante filone della ricerca psichiatrica, sia nel campo teorico che in quello clinico»20, ha come conseguenza pratica una grande diffusione di atelier, negli anni tra il 1950 e il 1970, in cui vengono praticate attività espressive con finalità dichiaratamente terapeutiche e riabilitative. Negli ospedali psichiatrici si cominciano ad affermare sempre di più le attività espressive degli atelier. Nascono atelier di pittura, scultura e bricolage, scrittura, musica, danza, teatro. Nel mondo anglosassone nasce e si sviluppa una vera e propria disciplina che prende il nome di “Art-Therapy” stimolata anche dal fermento intorno alle teorie e alle nascenti terapie di 19 20 Ivi, p. 327. Gamna G. e Bortino R., Attività espressive e terapie psichiatriche, Minerva Medica, Torino, 1982, p. 9. 9 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale gruppo, alla nascita delle “comunità terapeutiche” (piccole comunità di cura in cui le relazioni gerarchiche e disumanizzanti tra medico, infermiere, paziente, sono superate a favore di una democratizzazione e un diverso ascolto della individualità di ognuno).21 In questo clima di rinnovato interesse per la dimensione soggettiva, per il mondo affettivo e immaginario del paziente, si fa strada appunto la pratica dell’Art-Therapy, grazie all’opera di alcune figure pionieristiche, perlopiù artisti o insegnanti d’arte che danno grande rilievo alla funzione sociale dell’arte e della prassi creativa. Le radici pedagogiche (non cliniche) e l’estremo pragmatismo fanno sì che l’Art-Therapy si orienti a interventi di riabilitazione, rieducazione e reintegrazione che rispondono a una concezione non medicalizzata del paziente. Sono due artisti inglesi le figure più rappresentative di questo periodo aurorale: Adrian Hill e Edward Adamson; ma non mancano figure di psicologi e psicoterapeuti come ad esempio Irene Champernowne. Questi pionieri «avviano nel secondo dopoguerra attività terapeutiche a mediazione artistica nelle istituzioni psichiatriche, negli ospedali e nelle prime comunità terapeutiche, contribuendo alla nascita di una disciplina oggi riconosciuta dalla legislazione nazionale».22 Ovviamente i primi due orientano i loro interventi in ottica marcatamente pedagogica secondo cui il conduttore è “l’insegnante” e i pazienti sono gli “studenti”; l’arte è interamente ricondotta alla sua funzione sociale ed educativa. Nel lavoro con pazienti psicotici Adamson dimostra un grande rispetto e attenzione a essere il meno intrusivo possibile, a non interpretare mai il lavoro di un paziente, soprattutto mentre è impegnato a esprimersi, a creare. Lo stesso Adamson descrive il suo modo di lavorare: […] quando una persona veniva per la prima volta in studio non suggerivo cosa dipingere, questo doveva prendere forma in lui. Questo approccio richiede molta pazienza, settimane, mesi, qualche volta anni, il tempo necessario per aspettare la creatività di ognuno.23 Oltre all’impostazione pedagogica, anche l’impostazione clinica, in particolare della psicologia analitica junghiana, ha esercitato una grande influenza sulla nascente Art-Therapy. La figura principale a cui ricondurre tale matrice è Irene Champernowne, formatasi direttamente con Jung negli anni Trenta. Nel dopoguerra fonda in Inghilterra una comunità terapeutica, il “Withymead Centre”. Sebbene nelle intenzioni dei fondatori della comunità la psicoterapia era considerata prioritaria rispetto alle attività espressive, la collaborazione tra gli artisti che conducevano gli atelier e gli psicoterapeuti divenne ben presto molto stretta e proficua. Per questo motivo Withymead assunse la fama di comunità aperta alle arti espressive, attirando di conseguenza tutti i pazienti che desideravano sperimentare forme di terapia creativa. Tuttavia nel funzionamento del centro, l’artista e lo psicoterapeuta assumevano due ruoli ben distinti: da una parte l’artista (che come una levatrice assolveva la funzione di stimolare, evocare, attivare), dall’altra lo psicoterapeuta (che assolveva il ruolo di valutare, interpretare il prodotto artistico e il processo attivato, orientare la cura). Dunque, nella comunità terapeutica della Champernown, l’arte intesa come terapia diviene centrale, a differenza di tante altre comunità nelle quali essa occupava uno spazio marginale, oscillando tra funzioni Già nei primi anni del dopoguerra si avvia quella riforma delle istituzioni psichiatriche che porterà al movimento dell’antipsichiatria e in Italia alla chiusura dei manicomi con la legge Basaglia del 1978. 22 Bedoni Giorgio, “Le radici pragmatiche dell’arte terapia: tre profili inglesi”, in Bedoni G. e Tosatti B., Arte e Psichiatria, op. cit., p. 191. 23 Citato in Bedoni G. e Tosatti B., Arte e Psichiatria, op. cit., p. 194. 21 10 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale ergo-terapeutiche (basate sulle attività lavorative) o di semplice intrattenimento. L’ArtTherapy si propone quindi come terza via tra le attività di semplice intrattenimento e quelle occupazionali o ergo-terapia. Vediamo allora come in Inghilterra già nei primi anni Cinquanta le esperienze pionieristiche di Adrian Hill, Edward Adamson e Irene Champernowne si propongono come modalità alternativa di considerare e trattare il disagio mentale. Tale atteggiamento confluirà naturalmente nel movimento antipsichiatrico che da lì a poco avrebbe occupato la scena non solo inglese ma di tutta l’Europa. Negli stessi anni in Francia le terapie a mediazione artistica si diffondevano nelle istituzioni totali, ma con altri accenti. Rispetto alle pratiche di matrice anglosassone, quelle francesi risentono fortemente della tradizione nosografica e diagnostica che risale alla fine dell’Ottocento, agli scritti di Tardieu e Simon (come abbiamo già accennato). L’accento sarà posto sul nesso artepatologia e non arte-guarigione, infatti si parlerà di “arte psicopatologica”24 e non di “arte terapia”. Si accentuerà meno l’aspetto pragmatico e clinico di mediazione artistica, a vantaggio di uno studio scientifico della produzione artistica dei malati di mente. L’interesse principale della “psicopatologia dell’espressione” risiede nella possibilità di Dare dei parametri di classificazione e, perciò, di diagnosi, partendo da comportamento artistico, anziché da quello che quotidianamente e senza mediazioni […] il degente offre allo psichiatra. Si tratta, dunque, di compilare una cartella grafica che riflette quella clinica.25 Anche in Italia ci saranno studi importanti su questa scìa.26 Ma in generale l’approccio italiano e francese si distingue da quello anglosassone per essere più teorico e scientifico e meno pragmatico e clinico. Così anche le attività espressive che si svolgono dentro le istituzioni psichiatriche non hanno un vero carattere terapeutico e riabilitativo, […] sì che di fatto quasi tutti questi atelier finiscono per assumere una connotazione emarginante, nei casi più fortunati di “isola felice”, una emarginazione dentro l’emarginazione.27 In queste considerazioni sembra fare eco la scoraggiata reazione di Dubuffet, quando negli anni Sessanta intraprende il suo secondo viaggio nelle strutture psichiatrice d’Europa alla ricerca di nuovi creatori d’Art Brut. Quando individua il principale nemico della creatività dei folli nella capillare diffusione, a partire dagli anni Cinquanta, di atelier di arteterapia. Va però sottolineato che, se da una parte le attività espressive organizzate all’interno degli ospedali psichiatrici sottraggono al processo creativo del malato quell’aspetto di 24 Nel 1956 una importante mostra e la monografia di Robert Volmat che ne segue, sancisce il successo di questa formula: L’art psychopathologique. 25 Argenton A., Rota E., Attività espressive e istituzione psichiatrica: l’esperienza del non-atelier di pittura, Padova, Liviana, 1977, p. 20. 26 Nel 1959 si tiene a Verona “Il Simposio sull’Arte Psicopatologica” in occasione del quale si fonda la Società Internazionale di Psicopatologia dell’Espressione (SIPE). Studiosi come Taccagni G. e Andreoli V. arrivano a mettere in questione le ricerche di corrispondenze tra malattia e opere, in particolare quest’ultimo ritiene impossibile distinguere arte normale e arte patologica e completamente inutile un’analisi delle opere attraverso lo schema della psicopatologia e della nosografia clinica. Andreoli V., Il linguaggio malato. Il mito della comprensione in psichiatria, Milano, Masson, 1979. 27 Gamma G., Bortino R., Attività espressive e terapie psichiatriche, Torino, Minerva Medica, 1982, p. 16. 11 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale spontaneità e di originalità, dall’altra parte le stesse attività, portate avanti su larga scala con intenzioni e metodologie differenti in ciascun contesto, rendono accessibile a un numero immensamente superiore di malati la possibilità di esprimersi. L’arteterapia e l’antipsichiatria Negli anni Settanta il fermento di idee riconducibili all’antipsichiatria costituirà un cambiamento sostanziale in tutte le pratiche arteterapeutiche. La parola “antipsichiatria” è una formula abbastanza restrittiva, si riferisce ad un insieme di teorie e di pratiche che tendono a mettere in discussione i principi della psichiatria tradizionale e soprattutto le pratiche di repressione violenta messe in atto negli ospedali psichiatrici (lobotomia, elettroshock, terapie farmacologiche invasive). In breve questo fermento di idee si trasforma in un vero e proprio movimento di lotta contro le istituzioni psichiatriche. Basi comuni di questa lotta “antipsichiatrica” sono il rifiuto di affrontare il problema della malattia mentale in termini esclusivamente medici e il rifiuto delle pratiche oppressive, repressive, segreganti. Sia in Europa che negli Stati Uniti parallelamente ai fermenti politico-sociali della fine degli anni Sessanta, nascono le comunità terapeutiche, la psichiatria sociale, le riflessioni sociologiche e filosofiche intorno alle pratiche di esclusione. Erving Goffman, Thomas Szasz, Michel Foucault, Ronald Laing, David Cooper, Gilles Deleuze, Felix Guattari, Franco Basaglia, sono tra i nomi più importanti di questa “rivoluzione” culturale.28 Nel testo Asylums di Goffman, ad esempio, vengono presi in esame i meccanismi e le caratteristiche che agiscono all’interno dei manicomi e sono paragonati a quelli che agiscono nelle carceri e nei campi di concentramento, coniando per essi la nozione di “istituzioni totali”: Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.29 Attraverso il concetto di “istituzione totale” Goffman smaschera la funzione segregativa e non terapeutica degli ospedali psichiatrici. La follia non può essere affrontata come una malattia, poiché nella gran parte dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato non di malattie o di disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali, di contraddizioni sociali, di costrizioni e limitazioni imposte dall’ambiente. Per cui le stesse cure psichiatriche, l’internamento manicomiale e i trattamenti che si impongono contro la richiesta e la volontà del soggetto, sono causa della sofferenza psichica. Tale premessa attribuisce un carattere “sociogenetico” alla follia e delegittima ogni pretesa biologica, organicista, della psichiatria. L’antipsichiatria inglese si muove in un contesto teorico e pratico completamente diverso da quello di stampo “sociologico”. È proprio in Inghilterra che nasce una vera e propria scuola 28 Del 1961 è il testo di Szasz, Th., Il mito della malattia mentale; del 1961 il testo di Goffman E., Asylums; del 1963 il testo di Foucault M., Storia della follia nell’età classica. 29 Goffman E., Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 1968, p. 29. 12 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale antipsichiatrica che vede impegnati medici e psichiatri per costruire un’alternativa concreta al manicomio. Il modello inglese partendo da un rifiuto dell’istituzione totale, inventa e costruisce una rete di comunità in grado di affrontare in un modo nuovo la follia. All’ interno di questi piccoli nuclei sociali è possibile sperimentare nuove pratiche terapeutiche riabilitative e di reinserimento, proprio perché c’è una maggiore condivisione tra pazienti e operatori psichiatrici, quindi una maggiore flessibilità e una capacità di rispondere ai bisogni e alle particolarità di ognuno; in tal modo si può far fronte alla macchina burocratica e desoggettivante che nei manicomi impediva una reale relazione umana e clinica. Negli stessi anni la psichiatria francese offre un modello che, se pur non rientri nella definizione dell’antipsichiatria, avrà un grande impatto nella concezione della cura psichiatrica: si tratta della “psichiatria di settore”; un tipo di politica sanitaria e di metodologia che sostiene l’importanza di affidare in un territorio definito e limitato, ad una sola e medesima équipe terapeutica, che dispone di un ventaglio di istituzioni diverse, l’insieme dei compiti di prevenzione, riabilitazione e cura di competenza della psichiatria pubblica. Introdotta ufficialmente nel 1960, la politica di settore è un importante traguardo del movimento psichiatrico francese, che, fin dalla metà del XIX secolo, cerca di trovare nuove forme di cura e di assistenza, capaci di superare i limiti delle istituzioni asilari e degli ospedali psichiatrici tradizionali. Ecco allora che il termine “settore”, inteso come “territorio a misura d’uomo”, restituisce il senso del compito specifico della psichiatria che è, oltre alla cura, la prevenzione, il reinserimento. All’interno del modello organizzativo e operativo della psichiatria di settore, l’equipe, di cui è responsabile lo psichiatra, è multidisciplinare, ovvero è composta da medici, assistenti sociali, psicologi, infermieri, educatori. L’equipe opera nel territorio in maniera continuativa, allo scopo di conoscere bene l’ambiente di vita di ogni singolo soggetto, di aiutare e informare le famiglie dei malati (soprattutto gravi), di operare in rete cioè in costante collegamento con le risorse (servizi sociosanitari e terziari, associazioni, enti, imprese, ecc.) presenti nel territorio che possano contribuire al riadattamento e al reinserimento del malato tramite strategie adeguate di accompagnamento.30 L’ospedalizzazione continua a rivestire un’importante funzione di accoglimento (holding) e di trattamento della crisi, e contribuisce a delineare le condizioni di un trattamento possibile. Gli ospedali psichiatrici operano, dunque, in costante raccordo con le reti territoriali di istituzioni socio-terapeutiche (Ospedale di giorno, Ospedali di notte, Atelier protetti, Club terapeutici extra-ospedalieri), le cui funzioni sono concepite come le diverse fasi di un progetto sanitario globale per la prevenzione, la cura e la riabilitazione sociale del malato. In particolare gli atelier di arte-terapia assumeranno via via una importanza sempre maggiore. La psichiatria di settore avrà grande eco anche in Italia al punto che lo psichiatra Franco Basaglia riuscirà a creare un vero e proprio movimento che porterà nel 1978 con la legge 180 alla chiusura dei manicomi. La particolarità della riflessione antipsichiatrica italiana è da individuare nella sua dimensione politica, usando le parole di Jervis In Italia, la psichiatria all’opposizione ha avuto una doppia caratteristica. Da un lato, si è esplicata in un paese segnato da un forte ritardo amministrativo e organizzativo nel campo dei servizi 30 L’accompagnamento costituisce uno degli obiettivi della psichiatria di settore e consiste in “una presa in carico a tempo parziale molto importante” (circolare del 14/03/1990). Per quanto riguarda il reinserimento del malato mentale il percorso di accompagnamento si articola e scandisce in due aspetti, l’uno terapeutico, svolto dall’equipe di salute mentale, l’altro sociale, assicurato dagli operatori sociali o dai volontari. 13 Figure e luoghi della follia Dispense 2007-2008 a cura della cattedra di Psicoterapia teatrale pubblici (e anche da un ritardo scientifico-culturale specifico); da un altro lato è stata più decisamente politicizzata che non in Francia Gran Bretagna o Stati Uniti.31 L’idea guida dell’ antipsichiatria italiana sembra riassumibile in questa considerazione: è possibile superare il manicomio solo se nella società viene realizzato un profondo rinnovamento sociale, culturale e politico in senso democratico. Per questa ragione a differenza dei paesi anglosassoni la psichiatria di sinistra italiana non ha cercato di costruire piccole controistituzioni autonome , ma ha cercato di lottare dentro i manicomi, tentando di modificarne la struttura dall’ interno, arrivando appunto alla sua dissoluzione. Il principale limite di tale operazione e della stessa legge risiede proprio nel suo carattere in parte politicoideologico che l’ ha resa poco attenta agli aspetti pragmatici, quindi con difetti di attuabilità. Attualmente le strutture che rispondono al disagio mentale a distanza di trent’anni cominciano a dare i frutti annunciati dalla 180. Attività risocializzative di riabilitazione di reinserimento cercano di promuovere la dignità e una considerazione della persona malata che Basaglia aveva per tanti anni rivendicato. In questo contesto lo sviluppo delle pratiche riabilitative a mediazione artistica: musicoterapia, danzaterapia, teatroterapia si è consolidato all’ insegna di una nuova sperimentazione anti-istituzionale e anti-psichiatrica. Esperienze eterogenee che danno voce non solo ai sintomi, alla sofferenza e ai bisogni primari ma soprattutto al bisogno di socializzare, ai desideri particolari, alla voglia di esprimersi; danno voce alla creatività normale e non, artisticamente rilevante e non. Bibliografia Andreoli V., Il linguaggio malato. Il mito della comprensione in psichiatria, Milano, Masson, 1979. Argenton A., Rota E., Attività espressive e istituzione psichiatrica: l’esperienza del non-atelier di pittura, Padova, Liviana, 1977. Bedoni G., Tosatti B., Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile, Mazzotta, Milano, 2000. Breton A., Éluard P., L’immacolata concezione, Arcana Editrice, Roma, 1979. Breton André, Manifesto del Surrealismo, Einaudi, Torino, 1966. Dubuffet J., Prospectus et tous écrits suivants, Éditions Gallimard, Paris, 1967. Foucault M., Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano, 1988. Gamna G. e Bortino R., Attività espressive e terapie psichiatriche, Minerva Medica, Torino, 1982. Goffman E., Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 1968. Jervis G., Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1987. Klee Paul, Diari 1989-1918, Il Saggiatore, Milano, 1960. Morgenthaler W., Arte e follia in Adolf Wölfli, Alet Edizioni, Padova, 2006. Prinzhorn H., L'arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali, 2004, Mimesis Edizioni, Milano. 31 Jervis G., Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 61. 14