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II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Epifania del Signore
Matteo 2,1-12
La via per arrivare a Dio
M
atteo e Luca, i due evangelisti che raccontano l’infanzia di
Gesù, sono interessati a dimostrare che il Figlio di Dio,
facendosi uomo, si è incontrato, fin dall’inizio, con persone ai margini della società e della religione ufficiale.
Per Luca queste persone sono i pastori, individui di scarso valore
sociale e religioso, per Matteo sono i magi, pagani notoriamente
esclusi dalla salvezza. Del resto, a ben pensarci, anche Maria, svergognata da una gravidanza impossibile e Giuseppe, tradito nel suo
onore di sposo e di padre, nei Vangeli appaiono come esseri umanamente perdenti e impuri di fronte alla Legge dei padri. Certo, i
pastori superano ogni limite. Sì, sono loro che accolgono e accompagnano i primi vagiti di Gesù, ma tutti sanno che tipacci sono queste
persone poco presentabili e per nulla encomiabili. Difatti, secondo
i più autorevoli rabbini, essi sarebbero stati i primi di quella lista
che il Messia, alla sua venuta, avrebbe annientato. Come è strano
il Vangelo! Proprio loro saranno i primi ad essere avvolti dalla luce
sfolgorante della gioia di Cristo.
Per Matteo, invece, coloro che prima di tutti gli altri riconoscono
la eccezionale particolarità di quel bambino, tanto che si prostrano
ad adorarlo, sono i magi. Sarebbe più giusto chiamarli col loro vero
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nome, i maghi, ma questo appellativo suonava particolarmente scandaloso ai membri della comunità matteana perché il termine magos
in greco significa ciarlatano, furfante, impostore. Allora come oggi.
Non è possibile, avranno pensato i bravi cristiani, che dei maghi,
dei «cani» che esercitano una attività condannata dalla Bibbia, siano
proprio i primi beneficiari di un incontro irripetibile con il Messia.
Tutti loro sapevano a memoria che l’area della magia, della divinazione, della consultazione degli spiriti e dei morti era proscritta
nella Torah con pene severissime. Già Es 22,17 aveva lapidariamente
affermato: «Non lascerai vivere colei che pratica la magia». Ricordavano tutti con precisione che «chiunque fa queste cose è in abominio
al Signore» (Dt 18,12) tanto che per i trasgressori YHWH annunciava un castigo di cui Lui, in prima persona, si faceva garante: «Se
un uomo si rivolge ai negromanti e agli indovini per darsi alle superstizioni, io volgerò la faccia contro quella persona e la eliminerò dal
suo popolo» (Lv 20,6). Del resto avevano ascoltato tante volte nella
sinagoga le continue invettive dei profeti che avevano denunciato
quanto fosse infedele a Dio chi partecipa a riti e consultazioni perverse. Chi di loro non sapeva a memoria la solenne dichiarazione
del Signore che in Isaia 3,6 aveva affermato di aver «rigettato il suo
popolo perché rigurgitava di maghi orientali e di indovini»? Come
potevano ora questi maghi orientali, questi scomunicati, di colpo
essere diventati dei modelli di fede?
Sbucati all’improvviso nei dintorni di Gerusalemme, essi erano
apparsi subito persone assai determinate nella loro ricerca. Avevano
ben chiaro chi volevano vedere, incontrare, riconoscere. Avevano
fatto tanta strada solo per «adorare il re dei Giudei». Strana profezia.
L’essere «re dei Giudei» sarà il capo d’accusa principale che porterà
Gesù alla morte e che sarà impresso a chiare lettere sulla sua croce.
Avevano ricercato dei segni di Dio nel mondo creato e si erano messi
alla ricerca del mistero. Erano certi di essere sulla strada giusta e di
non essere lontani dalla meta.
Quel Dio che aveva sollecitato la loro sete di verità li aveva sostenuti in quel lungo cammino. Ed ora, a dispetto di tutte le avversità
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incontrate, volevano trovare quello che il Cielo aveva voluto loro
indicare con quei segni non facilmente decifrabili, certi che la «pace
che qui in terra Dio elargisce a tutti gli uomini perché li ama» si
poteva e si doveva incontrare, costruire, realizzare. Loro, uomini
assetati di pace e di interiorità, avevano tutte le carte in regola per
accogliere Gesù, il Dio che salva. Loro non leggeranno mai il Vangelo di Gesù, perché sono parte integrante di quella bella notizia, di
quell’arricchente annuncio di gioia che noi continuiamo a considerare un libro, ma che invece è, per chi crede che in quel bambino
ci sia la pienezza di Dio, l’unica vera chiave di lettura dell’esistenza
umana, la più semplice e la più facile da comprendere. Se non ci
fossero i magi e se non ci fossero i pastori la «bella notizia» sarebbe
meno ricca e meno affascinante. Il Vangelo infatti è parola che rompe
gli schemi religiosi che ci obbligano a vedere la sua presenza solo
nelle situazioni canoniche e canonizzate. No, Dio si fa trovare da
chi lo cerca appassionatamente e, per questo, è disposto a rinunciare
a tutto, soprattutto ai propri schemi mentali, alle proprie certezze
assolute, alle proprie invettive e scomuniche.
A loro non viene chiesta né circoncisione né partecipazione ai
sacrifici del tempio, ma neanche battesimo o confessione dei loro
peccati. Essi hanno tutto, perché si sono davvero incontrati pienamente con il sacramento di Dio, quel Gesù a cui hanno offerto tanti
anni di ricerca interiore, tanta attenzione ai segni dei tempi, tanto
coraggio per non farsi sopraffare dalla disperazione quando hanno
perso le indicazioni della stella, quando hanno dovuto contrastare
le perfidie menzognere di chi è aggrappato al potere politico e religioso, quando sono sembrati solo dei falliti che inseguivano sogni e
chimere irrealizzabili. Hanno trovato la via per arrivare a Dio attraverso Gesù. La via è l’espressione usata dal cristianesimo primitivo
per definire il cristianesimo stesso (At 9,12; 18,25.26; 19,9). Forse
sarebbe il caso che i cristiani di oggi facessero propria questa via,
visto che è stata questa strada a far esperimentare ai magi «una gioia
smisuratamente grande».
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Il Vangelo secondo
un ex prigioniero
«H
o visto la foto su “Epoca”. C’era un albero vicino a un lampione. Signor direttore, mentre venne scattata quella fotografia io non dovevo essere molto lontano perché ricordo benissimo
quella scena, o per lo meno ne ricordo una uguale, nello stesso posto,
un giorno prima o un giorno dopo. A quell’epoca, mi trovavo in
Germania prigioniero in un campo di lavoro non lontano da Berlino e proprio in quei giorni, non ricordo nemmeno come, con due
compagni ero riuscito a fuggire prima che arrivassero i russi e per
una serie di circostanze mi trovai a vivere le ultime ore di Berlino
nazista. Ma non è di questo che voglio parlarle. Voglio parlarle di
quell’albero che si vede nella fotografia pubblicata in copertina. Noi
eravamo in tre, giravamo per la città ancora in fiamme e nessuno
ci voleva, nessuno aveva tempo da perdere con noi. Cercammo di
consegnarci agli inglesi, agli americani, perfino ai russi, e fummo
sempre cacciati via. Non sapevamo più che fare e dove andare. Io,
in particolare, ero così stanco e sfiduciato (forse anche a causa della
spaventosa denutrizione: non mangiavamo nulla da almeno cinque
giorni) che stavo pensando al peggio. Avessi trovato un’arma mi sarei
tolto la vita. Se qualcuno mi avesse minacciato di morte ne sarei
stato quasi contento. Eravamo sconvolti e impauriti. Oltretutto non
sapevamo nemmeno che la guerra era davvero finita, e chi, in questo
stato, poteva ancora nutrire una speranza di salvezza? Io, poi, non
avevo nemmeno il conforto della fede, rimasta solo come un ricordo
di fanciullezza. Quand’ecco, tra le rovine, le fiamme, gli scoppi che
ancora si sentivano per tutta la città, in mezzo ai resti dell’immane
rogo, io vidi quell’albero e quell’albero aveva tutte le gemme! Quell’albero sarebbe tra poco fiorito come aveva sempre fatto a primavera
e la spaventosa battaglia non aveva potuto nulla contro quei fragili
rami, quelle piccole gemme. Allora mi inginocchiai e pregai, e la
mia disperazione si sciolse in un lungo pianto. Avevo capito tante
cose e tante altre ne avevo ritrovate. In quel momento diventai un
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altro uomo e cominciò per me un’altra vita. Non so se sono riuscito a spiegarmi e se la mia storia potrà interessarvi. Vorrei essere
un grande scrittore per poter far capire a tutti l’insegnamento che
mi venne da un albero quel giorno a Berlino: 2 maggio 1945. Vorrei
dire a tutti: cercate in copertina quell’albero, guardatelo e immaginate cosa doveva essere la vista delle sue gemme per chi chiedeva solo
di morire».
(Da una lettera inviata al direttore di «Epoca» nel 1965).
Dov’è il re dei Giudei, che è nato?
Dov’è il re dei Giudei?
In un palazzo da «mille e una notte»,
servito e riverito da vergini ancelle
e nutrito da balie accuratamente selezionate?
Si trova nel tempio,
osannato da sacerdoti e maestri della legge,
collocato in una nicchia
o in una teca di vetro,
perché nulla possa contaminarlo?
Si è arrampicato su un alto monte,
al confine tra la terra ed il cielo,
ed è possibile vederlo trasfigurato
in una notte di luna piena?
È sceso in campo,
per salvare la politica e la nazione,
sparando i suoi slogan a voce spiegata,
distribuendo miracoli come gadget,
circondandosi di portaborse
e chiedendo agli eserciti di dare la vita per Lui?
No, il re dei Giudei,
quello che andò oltre il mondo,
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ebbe per culla una mangiatoia,
per genitori due profughi,
per testimoni dei poveretti,
per nemici mortali i sacerdoti del tempio
ed i potenti della terra.
Non chiese la vita di nessuno,
anzi la restituì a molti.
Chiamò degli amici al suo fianco,
semplici e imperfetti,
e si fermò a lavar loro i piedi,
come l’ultimo degli schiavi.
Non esitò a spendersi per loro, fino alla fine.
Poi se ne andò, per non ingombrare,
per restituire la libertà agli uomini
che sceglievano il prossimo re.
Proprio per questo fu vero re,
quello che gli uomini possono adorare.
Perché è l’unico che non ci ha chiesto niente,
e ci ha dato tutto.
Caro Bruno,
esperto di arti marziali... L’altro giorno eri felice di mostrarmi i
biglietti della dimostrazione di Wrestling, Smack Down, finalmente
in tournée in Italia. Saresti andato per la prima volta a Milano per
questo evento. Mi accorgo che molti tuoi coetanei si fermano quasi
adoranti davanti a questi divi del teleschermo. Tengono religiosamente i poster dei vari atleti, si esaltano di fronte alle loro imprese
a metà tra fumetto e realtà. E tutto sommato vorrebbero imitare se
non il loro fisico, almeno il loro coraggio.
E fortunatamente – lo dico da educatore – qualcuno di loro si
rende conto della presa che ha sui ragazzi, come John Cena che
non si stanca di ripetere che nessuno deve imitare le loro gesta, non
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essendo allenato allo scopo. Inoltre questi giganti riconoscono di far
parte di un circo, dove la cattiveria non è mai fine a se stessa, ma un
mezzo spettacolare di solito finto.
Anche duemila anni fa alcuni sacerdoti persiani affrontarono un
lungo viaggio per incontrare il loro eroe. Fecero calcoli astronomici
approfonditi e seguirono i segni del cielo. Incontrarono soltanto un
bambino, ma intuivano che avrebbe cambiato il mondo. Per questo
non si stupirono di una storia capovolta: la mangiatoia al posto della
culla, un neonato al posto di un re, un asino al posto di un animale
nobile... Il messaggio era subito chiaro: gli ultimi sarebbero stati
messi al primo posto, perché un «rifiutato» e presto «perseguitato»
avrebbe salvato il mondo.
Anche tu dovrai scegliere quale sarà il tuo re, l’eroe a cui affiderai
la spinta di vita che ti cresce dentro. Oggi li guardi tutti con curiosità e stupore, domani dovrai capire qual è la strada migliore. Sai
già quanto conta la mente, forse un giorno comprenderai veramente
il peso dell’anima. E riconoscerai che solo il figlio di Dio ti apre
uno spiraglio sulla vita per sempre. Degli eroi di Smack Down ci si
dimenticherà in fretta, della storia di quel Bambino probabilmente
mai.
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