il catalizzatore 2 settembre 2013

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il catalizzatore 2 settembre 2013
IL CATALIZZATORE
2 SETTEMBRE 2013
Perché l’Italia non cresce più? è ormai opinione largamente condivisa, perfino ovvia, che la caduta del
tasso di crescita rifletta l’incapacità di adattarsi ai tre grandi cambiamenti che hanno investito il quadro
economico internazionale negli ultimi due decenni: la “globalizzazione”, cioè l’integrazione mondiale dei
mercati dei beni e della finanza; il processo di integrazione europea, culminato nell’introduzione della
moneta unica; il drammatico cambiamento del paradigma tecnologico. Tre fenomeni fin troppo prevedibili
e macroscopici nel loro dispiegarsi che hanno aperto una nuova dimensione nella storica e irrisolta dualità
del paese: non più e non solo tra il ricco nord e un sud sempre più arretrato e malavitoso, ma anche tra le
imprese che navigano nel mare aperto esposto ai venti forti della globalizzazione e l’ affollato universo
delle attività protette che hanno continuato ad espandersi fino alla forzata deflazione imposta dall’Europa
dal 2011.
Incapacità, si diceva. Ma di chi? La lettura dei numeri aiuta ma non basta: le cause della prolungata
stagnazione dei redditi e della produttività hanno genesi multiple e parzialmente sovrapponibili, di natura
economica, sociale, istituzionale, con rapporti di causa effetto a volte chiari, spesso confusi. Comunque di
difficile misurazione. Quasi tutti puntano sulle amministrazioni pubbliche e la incontenibile voracità
predatoria di uno stato sempre più ipertrofico. Ma si discute all’infinito anche delle croniche debolezze del
tessuto produttivo, ben rappresentate dalla scomparsa della grande impresa. Italia, paese demultinazionalizzato, sarà soddisfatto qualche ingrigito rivoluzionario da cattedra degli anni ‘80. Infine è
sempre di attualità il tema dell’ inadeguatezza del sistema finanziario, oggetto di storiche gattopardesche
quanto apperentemente improduttive trasformazioni. Per non parlare di recenti o meno avventure al limite
del grottesco.
Imprenditori, banchieri e politici, con l’aggiunta del quarto potere rappresentano di fatto la classe dirigente
in tutti i paesi moderni. Molti elementi fanno pensare che il declino italiano sia strettamente legato
progressivo sbriciolamento dei cosiddetti “poteri forti”, diventati, nell’ultimo ventennio, “poteri marci”.
In Italia negli ultimi cinque anni il prodotto interno è calato dell’9 per cento, la produzione industriale
del 25 per cento e il rapporto debito/Pil è esploso al 134 per cento. La caduta è stata accentuata dalle
conseguenze di una manovra fortemente deflattiva imposta dai padroni dell’euro per
evitare una
incombente crisi finanziaria di grandi proporzioni e conseguenze internazionali incalcolabili. Nel breve
termine ciò ha peggiorato sensibilmente le metriche della produttività, del costo del lavoro e del debito. Si
può sostenere, però, che non tutti gli effetti collaterali dell’amara medicina sono indesiderabili. Un drastico
ridimensionamento della “rendita” lucrata troppo a lungo sui mercati protetti dei servizi pubblici, privati e
delle professioni, come sta avvenendo da tempo in Grecia, Spagna e Portogallo, sembra una ineludibile
necessità se si vogliono creare le condizioni per una meno distorta allocazione delle risorse e un
riallineamento degli incentivi, anche e soprattutto nel settore educativo e di sviluppo professionale. Manca
ancora all’appello la pubblica amministrazione sulla quale convergono gli opachi interessi di tutte le parti
politiche, finalizzati al mantenimento dello status quo. Forse però siamo vicini alla fine del processo di
deindustrializzazione e si può guardare con maggiore ottimismo al futuro. Nell’ultimo decennio anche in
Italia si sono avviati significativi processi di ristrutturazione produttiva. Chi ha investito in attività a monte
e a valle della produzione ha innalzato qualità e prezzi di vendita dei prodotti, creato aziende di successo,
multinazionali tascabili.
Con i primi segnali di ripresa, che già si intravedono all’orizzonte, si potrà arrivare ad un primo parziale
recupero. Anche il quadro internazionale è in veloce evoluzione. Non è affatto scritto che il prossimo
ventennio veda
una continuazione senza soluzione di continuità dei noti fenomeni che hanno
caratterizzato gli ultimi lustri. I vantaggi comparati dei paesi emergenti si vanno inevitabilmente
afflievolendo. La Cina fronteggia la difficilissima sfida del cambiamento in corsa del modello di sviluppo.
Difficilmente potrà avvenire senza conseguenze traumatiche. Il fenomeno della delocalizzazione
produttiva si sta già ridimensionando e lascia spazio a quello, inverso dell’”insourcing”, anche per il
continuo lievitare degli oneri di trasporto. L’enfasi sul costo del lavoro si riduce e lascia spazio a valutazioni
più articolate che considerano con maggiore attenzione i vantaggi derivanti dalla gestione integrata di tutte
le funzioni aziendali, dalla R&S, al marketing, alla filiera completa del processo produttivo. D’altra parte lo
sviluppo tecnologico trasforma la logistica e i processi distributivi, sempre più basati sul web. Nuove
tecnologie in veloce evoluzione, come la stampa tridimensionale, potrebbero rivoluzionare la manifattura e
permettere una rivalutazione anche dei modelli d’impresa di minori dimensioni.
Se guardiamo avanti con un po’ di ragionato ottimismo è quindi possibile vedere un futuro di ritorno alla
crescita per l’Italia. Lo shock economico, sicuramente necessario, c’è stato. Ora manca un segnale di forte
discontinuità, oltre ad un evento, magari simbolico che funzioni da catalizzatore positivo. Quello che è
mancato dopo tangentopoli. Serve una nuova classe dirigente di trenta-quarantenni che sotterri
definitivamente i sopravvissuti della “prima repubblica” e metta da parte anche la generazione successiva,
quella del baby boom, storicamente fallimentare. Serve gente che si assuma onori e oneri della leadership,
che sappia indicare una strada comune, una visione almeno condivisa per il futuro. Qualche segnale si
intravede.
Non è un caso che anche Piazza Affari abbia già alzato le antenne evidenziando una discreta voglia di
recupero malgrado il quadro politico rimanga apperentemente indecifrabile e caratterizzato dalla massima
incertezza. Oggi il paese e il suo mercato sono paragonabili ad un titolo “ deep value” caratterizzato cioè da
una valutazione nettamente inferiore al capitale economico. Si tratta di azioni di imprese con fatturati
declinanti, marginalità insufficiente o in calo, costi comprimibili, a volte, non sempre, gravate da un alto
indebitamento. Investire in queste aziende è molto pericoloso - il declino può proseguire fino al fallimento
- ma potenzialmente molto redditizio. Perché la scommessa sia vincente ci vuole un “catalizzatore”, che
può essere la scoperta e lo sfruttamento di nuovi mercati, una discontinuità nel processo produttivo, a volte
solo un nuovo management più capace e aggressivo. Basta perfino, sia pure per brevi periodi di tempo,
perché poi la realtà viene a galla, una buona “narrazione” di discontinuità rispetto al passato. La finanza
vive anche di storie, di sogni. La borsa italiana è pronta ad ascoltare la narrazione. Poi si vedrà, col tempo,
se seguiranno i fatti. E, come nel ’93-94, può tranquillamente raddoppiare di valore nel giro di qualche
semestre, sempre ammesso che l’andamento dei mercati esteri lo permetta. Serve però il maledetto
catalizzatore. Quale può essere? Indovinatelo voi, non è difficile.