L`espresso extra
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CULTURA Architetto e artigiano Di ENRICO AROSIO Ama il legno e la pietra. Detesta le luci della ribalta. Progetta torri in Libia. E restaura il Castello Sforzesco a Milano. L'anti-star Michele De Lucchi All'ingresso del suo studio milanese, un intero palazzetto primo Novecento ai margini di Brera, non lontano da quel Café Radetzky dove Giuliano Ferrara dava udienza all'inizio del suo periodo ambrosiano, sono esposti i modellini di due progetti per la Libia la cui pubblicazione è vietata dai committenti: due torri per residenze e uffici a Tripoli, dalle superfici tramate come lievi tessuti, e un development a Bengasi. Michele De Lucchi, l'autore, non è il tipo che pensa che l'architettura sia come la Sicilia, più bella dov'è più alta. Anzi. Di grattacieli non ne ha mai costruito uno. E il fatto che lo abbiano chiamato dalla dirigistica nazione del colonnello Gheddafi, anziché dalla ribollente ma chiacchierona Milano, dà da pensare. Tantopiù che la prima vera torre, sui 100 metri, che l'architetto sta per mandare in cantiere, in anticipo sulla Libia, è un Medea Hotel, ardito prisma vetrato previsto a Batumi, città portuale nel sud della Georgia sull'asse della Transcaucasica. Viene spontaneo domandarsi: perché mai un architetto della classe di De Lucchi deve fare le sue prime torri a Tripoli e Batumi e non nell'Italia di cui è squisito prodotto culturale? Perché l'Italia, malata di esterofilia infantile, non vede e non promuove i propri talenti? Lui non risponde. Con quel fisico torreggiante e quella barba da profeta russo al cui confronto Ferrara è glabro come un culetto di pulzella, De Lucchi tende al taciturno. Ascolta, più che parlare. Macro e micro, per lui, non sono in gerarchia. E il suo mestiere è plurimo: architetto, designer, artista, falegname. "Da noi italiani", aggira la domanda, "ci si aspetta una visione olistica della dimensione creativa. La richiesta non è solo tecnico-costruttiva, ma di tipo complesso". Cercano l'umanista che superi la cultura disciplinare? "Forse. Essendo partito dal design, io parto dal dentro. E mi porto appresso le mie radici con Ettore Sottsass alla Olivetti, l'idea olivettiana del connubio delle arti". Si volta verso il fondo dello studio, indica due foto: Adriano e Camillo Olivetti, figlio e padre. La barba di Camillo non è meno profetica di quella di Rasputin. Michele De Lucchi, 57 anni, nato a Ferrara, laureato a Firenze, ex radical, ex contestatore, ex discepolo di Sottsass, usa dire che nato incendiario morirà pompiere. In molti, a Milano come a Tokyo, usano suoi oggetti, o infrastrutture di alta qualità, senza saperlo. La lampada Tolomeo della Artemide, il più clamoroso long seller del design internazionale degli ultimi vent'anni, come dimostra il suo uso a raffica nel miglior cinema americano: lanciata nel 1987, è diventata una famiglia di oggetti venduta in oltre 550 mila pezzi l'anno ("Potrei vivere di quello", ammette lui). Oppure le filiali di Intesa Sanpaolo, o Poste Italiane, o Deutsche Bank, di cui ha letteralmente ribaltato la corporate image. Ma poiché De Lucchi tende a evitare la televisione, le intervistine al volo, le battute a caldo, e passa i weekend ad Angera sul lago Maggiore imbracciando la motosega e lavorando il legno anziché andar per salotti, risulta uno dei meno divulgati talenti dell'architettura italiana. Solo nel 2008 il Politecnico di Milano lo ha chiamato in cattedra, design industriale. Ma già l'aver riprogettato con umiltà ed eleganza gli interni della Triennale di Giovanni Muzio, riconsegnando alla città, grazie al presidente Davide Rampello, una vera macchina culturale pubblica, fa di lui un benemerito. Altre notizie? Eccome. Ha vinto, insieme all'amico inglese David Chipperfield, il concorso per riqualificare il Castello Sforzesco: la parte museale e quella monumentale. "Valorizzeremo le nove diverse entità ospitate nel Castello, dalla Biblioteca Trivulziana fino al museo degli strumenti musicali. Ripenseremo l'accesso al giro delle mura merlate, che offrono uno sguardo privilegiato sulla città, grazie a una torretta d'accesso esterna in legno". Pausa. "Forse è il caso di abbandonare l'idea di costruire per l'eternità, e di rivalutare il temporaneo, specie in contesti storici". Notazione che sembra riflettere le sue esperienze in Giappone, con la rivalutazione di legno, bambù, pietra e altri materiali naturali. Legno e laterizio che ha impiegato per la nuova sala del Teatro Parenti di Andrée Shammah. Legno e pietra, e un dorso coperto di verde e di erbe officinali, che ispireranno la futura sede della Triennale Shanghai. È un progetto coperto da riservatezza che De Lucchi e il collega Pierluigi Cerri stanno realizzando per il Parco della Pace, area molto frequentata, inclusiva di laghetto, della metropoli cinese. La Triennale sbarcherà a Shanghai col proprio brand, 3 mila metri quadri, due livelli di spazio espositivo, uffici, ristoranti, bookshop, il tutto entro il 2010, anno della locale Expo (mentre tra Milano e Roma la politica si tortura sul 2015). I suoi maestri nel movimento moderno? "Non vorrei indicarne uno", dice, elusivo: "Preferisco dire che do molto valore all'arte. I miei veri maestri sono due figure mitologiche, Ettore e Achille. Eroi contrapposti. Sono cresciuto imbevuto di radicalismo, ma ho lavorato con un classico come Achille Castiglioni, cosa c'è di più contrastante?". Tra i contemporanei, stima Tadao Ando e Peter Zumthor. "Ma a volte amo le piccole opere più delle grandi". Lui realizza microsculture in legno chiamate Casette. E vasi, lampade, oggetti raffinati con la sua Produzione Privata, laboratorio neo artigiano. De Lucchi va verso la parete, illustra il rendering del ministero degli Interni di Tbilisi, capitale della Georgia. Dossier seguito personalmente dal presidente Mikhail Saakashvili. È un edificio vetrato nel verde, sinuoso, pianta vagamente organicista. A Tbilisi, con lo studio Freyrie e Pestalozza di Milano, lavora anche a un nuovo ateneo, la Black Sea University, e a un ponte pedonale. "Credo di non essere caduto in territori altrui. È facile cadere in equivoci alla Gehry", dice De Lucchi (e non ne avrebbe alcun bisogno). Sul tema stile e linguaggio è rigoroso. "Un mio principio è che il committente è trino: il cliente, il cittadino, io stesso". E l'architettura esibizionista, spesso pompata dai mass media? "L'architetto stilista cade in disequilibri", risponde sintetico. E aggiunge: "Non demonizzo l'aspetto scultoreo in sé; solo dev'essere giustificato. In senso funzionale e in senso simbolico". Ma gli architetti sopravvalutati esistono. E molti valgono meno di lei. De Lucchi sorride dietro gli occhialini neri che paiono disegnati da Saul Steinberg: "Sì, esistono". Centesima pausa. "È inevitabile. E non così grave". n