Espulsioni: sfida all`Europa sociale?

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Espulsioni: sfida all`Europa sociale?
Espulsioni: sfida all’Europa sociale?
Paola Cammilli, Alessandra Giannessi, La Comune del Belgio1
Marie è una maestra francese, da alcuni anni vive a Bruxelles. Qui lavora in una scuola
elementare finché, alcuni mesi fa, le viene diagnosticato un cancro al seno. Marie deve
dunque abbandonare temporaneamente il lavoro e chiede all’assistenza sociale un aiuto
per riuscire a pagarsi le cure necessarie, in attesa di riscuotere i suoi contributi versati. E’
un suo diritto. Poco dopo, a Marie viene recapitato un ordre de quitter le territorie:
ordine di lasciare il territorio belga. La ragione ufficiale: Marie è una cittadina straniera
che usufruisce del sistema di assistenza sociale belga, senza lavorare. Marie è incredula,
non riesce a capire come sia possibile che lo stato per il quale ha lavorato negli ultimi
anni, pagando contributi, decida di espellerla proprio nel momento in cui invece dovrebbe
tutelarla maggiormente. Dopo qualche tempo, grazie anche all’aiuto di un’amica che
lavora nel suo comune di residenza, il decreto di espulsione nei suoi confronti è stato
ritirato. Seppure, alla fine di questa storia, Marie è riuscita a recuperare il proprio diritto
di risiedere in Belgio, altra cosa sarà per lei recuperare la fiducia nei confronti di tale
Stato.
Silvia è un’artista italiana. Si è trasferita in Belgio nel 2010 insieme al figlio di sette anni,
Ennio, nato a Carcassonne, Francia. Madre, musicista e cabarettista appassionata, dal
2012 Silvia ha iniziato a lavorare per una compagnia teatrale. Silvia è stata assunta con un
contratto di lavoro a tempo pieno per tre anni, a norma del cosiddetto Articolo 60, ossia
una forma di inserimento professionale. Dunque un contratto in parte sovvenzionato dallo
Stato: ma si tratta in tutto e per tutto di un vero contratto di lavoro, tanto che Silvia aveva
pensato addirittura di comprare casa. Purtroppo, però, questo per lei non è stato possibile:
il 20 novembre 2013 anche a Silvia e a suo figlio è stato notificato un ordre de quitter le
territorie. Il motivo si ripete, Silvia è considerata “un peso eccessivo a carico dello stato
sociale belga”. Il suo lavoro non è abbastanza, non corrisponde ad “un’attività economica
reale ed effettiva”. Ennio, che ha iniziato il suo percorso scolastico in Belgio, “non è
sufficientemente integrato”. Silvia decide di fare ricorso presso il Tribunale, cosa che le
permette di restare in Belgio in attesa dell’esito, sospendendo temporaneamente il decreto
di espulsione. E’ trascorso un anno dall’inizio di questa storia. Un anno di fatica, di
frustrazione, di rabbia. Un anno di lotta, in cui Silvia non si è mai arresa e non ha mai
smesso di cantare al mondo la sua storia. Durante questo anno, il Tribunale non si è mai
pronunciato. Adesso, questa storia sembra volgere al termine: Silvia ha trovato un nuovo
lavoro, ha un “vero” contratto, ora. Può così far decadere il ricorso e cominciare a
ricostruire la sua vita a Bruxelles con il piccolo Ennio. La felicità per questa notizia lascia
1 La Comune del Belgio Asbl è un’ associazione che nasce per favorire l’integrazione dei nuovi migranti
italiani in Belgio, attraverso uno scambio di conoscenze e informazioni. L’associazione ha come scopo la
promozione dell’integrazione sociale, culturale e linguistica della comunità italiana immigrata in Belgio con
le comunità residenti, migranti e autoctone, con particolare attenzione al sostegno all’integrazione e alla
mobilità delle giovani generazioni di migranti.
A partire da Giugno 2014 la Comune del Belgio si é fatta promotrice di una piattaforma di associazioni ‘Europe 4 People’ - che difendo il diritto alla libera circolazione in Europa e denunciano le pratiche di
espulsione operate a danno di cittadini comunitari dal Belgio.
Paola Cammilli, Alessandra Giannessi, La Comune del Belgio
comunque spazio all’amarezza nel costatare che, per citare le parole di Silvia, “niente di
questo è successo grazie alla giustizia”.
AM è un operaio specializzato di nazionalità italiana, nato in Marocco. Per oltre 20 anni
lavora in Italia, per un’azienda che nel 2013 fallisce, lasciandolo così senza un impiego.
Trovata un’opportunità di lavoro in Belgio, AM decide di trasferirsi, sicuro del suo
contratto a tempo indeterminato che gli dà diritto di soggiornare regolarmente e senza
alcuna restrizione nel territorio dell’Unione Europea. Ancora una volta, l’impresa belga
per la quale AM lavora da otto mesi e mezzo dichiara fallimento e lui si trova di nuovo
senza un’occupazione (aprile 2014). Il lungo periodo di lavoro salariato e di contributi
versati in Italia, sommato agli ultimi mesi di contributi in Belgio, gli danno diritto,
secondo la normativa europea, a ricevere un’indennità di disoccupazione dallo Stato in
cui ha prestato l’ultima attività lavorativa, totalizzando i periodi contributivi. Alla fine di
agosto 2014, anche ad AM viene notificato un ordine di lasciare il territorio. Motivazione
dell’espulsione: ‘il suo lungo periodo di inattività dimostra che non ha alcuna possibilità
di trovare un lavoro’. Il suo lungo periodo di attività lavorativa, sembra invece non avere
alcun peso. Ad AM è negato il diritto di ricevere in Belgio le prestazioni sociali che ha
maturato durante i suoi 20 anni di contributi in Italia e in Belgio.
In Belgio, tra il 2010 e il 2013, 7.004 cittadini comunitari hanno ricevuto un ordine
di espulsione e si sono trovati nella situazione di Marie, Silvia e AM. È successo nel
2013 a 2.712 cittadini rumeni, italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, olandesi, e così
via; a 1.918 nel 2012; a 940 nel 2011 e a 343 nel 2010.
L’attacco alla libertà dei cittadini UE di circolare e soggiornare in qualsiasi Stato membro
sembra prender piede in diversi Paesi europei, non ultimi la Francia, Germania e il Regno
Unito. Ma è il piccolo Regno del Belgio che da tempo sta minacciando, più seriamente
degli altri, il diritto alla libera circolazione. Attraverso procedure di controllo sistematiche
e interpretazioni restrittive delle norme comunitarie, le autorità belghe stanno procedendo
ad un attacco ostinato alla libertà di circolazione e soggiorno delle persone. Spesso al
confine della legalità, spesso sfociando nella completa illegalità rispetto alla corretta
applicazione delle norme comunitarie, il Belgio procede a controlli automatici dei dossier
personali dei migranti, ritenendoli con molta facilità un ‘onere eccessivo’ per lo Stato
sociale.
Senza discriminazione rispetto al Paese d’origine - si può essere rumeni, italiani, inglesi,
olandesi, spagnoli, greci o francesi, e così via - le autorità belghe hanno identificato tre
categorie di cittadini destinatarie di ordini di espulsioni: i disoccupati, i beneficiari di
prestazioni sociali non contributive, i lavoratori dipendenti assunti con contratti di
reiserimento professionali. Questi ultimi sono conosciuti come ‘Articolo 60’, e sono
erogati in parte dal CPAS (Centro pubblico di azione sociale) e in parte dal servizio nel
quale è occupato il lavoratore, spesso artisti, come Silvia, ma anche operatori sanitari,
dipendenti comunali...
La creazione di meccanismi discriminatori, di diritti differenziali per i cittadini autoctoni,
per i cittadini UE che si spostano all’interno dei confini dell’Unione, nonché per i
migranti extra-europei, è preoccupante.
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Paola Cammilli, Alessandra Giannessi, La Comune del Belgio
Preoccupa perchè è indice di una pericolosa ri-nazionalizzatione dei vincoli di solidarietà
e di cittadinanza, mettendo in discussione il progetto stesso di integrazione europea da
parte dei suoi fondatori.
Preoccupa perchè nasconde un attaco frontale a ciò che distingue l’Europa dal resto del
mondo e che il resto del mondo ancora oggi guarda come modello o come aspirazione:
l’Europa sociale.
La reazione di chiusura dei piccoli stati-nazione europei del Belgio, del Regno Unito,
della Germania e via dicendo, è destinata a lasciare un arcipelago di debolezze strutturali
per l’Europa, piegata al soffio dei venti delle grandi potenze: Stati Uniti, Russia, Cina…
Ed è anche per questo che non si può parlare del tema delle espulsioni senza una
riflessione generale sulla debolezza dell’Europa e sull’attacco frontale, spesso animato da
furia ideologica, a quegli elementi caratterizzanti che, più di ogni altra cosa, sono stati la
fonte della sua forza coesiva interna e del suo potenziale attrattivo rispetto a persone
provenienti da ogni angolo del mondo: l’Europa sociale e la libera circolazione delle
persone al pari di quella dei capitali, dei servizi e delle merci.
Aiutati dai facili argomenti che la crisi economica ha portato con sé - dallo
smantellamento del welfare per motivi budgetari e di austerity, al ripensamento
involutivo delle relazioni di lavoro, sempre accompagnati dalla supposta necessità di far
fronte a nuovi pericolosi flussi migratori dal sud e dall’est Europa - Bruxelles, Londra,
Berlino, Parigi hanno operato tagli sistematici ai sistemi sociali, escludendo per primi i
cittadini non nazionali, poco importa se comunitari.
La non-discriminazione dei cittadini europei e la libera circolazione delle persone sono
principi cardine dell’Unione Europea. Nonostante questo, la loro difesa -e con essa il
mantenimento dei diritti sociali esistenti in Europa- non gode del supporto ampio e
schiacciante di cui necessiterebbe per far fronte a un attacco di tale portata. In anni di crisi
economica, finanziaria, politica e sociale, la sfida per la salvaguardia dell’Europa sociale
dovrebbe essere riconosciuta come tale, accolta e affrontata con uno sforzo senza
precedenti da tutte le forze progressiste d’Europa. Relegare la questione delle espulsioni
ad uno spazio giuridico di norme infrante o cercare rimedio delegando alla ‘buona
intenzione’ delle istituzioni europee -quali la Commissione Europea o la Corte di
Giustizia Europea- è una strada senza dubbio percorribile, ma certo limitata.
La vera sfida scoperchiata dalla questione delle espulsioni ‘di massa’ dei cittadini
comunitari dal Belgio riguarda la tenuta del patto di solidarietà transnazionale in
Europa. E la domanda centrale è se i processi di implementazione di regolamenti e
direttive comunitarie a livello nazionale siano – oggi più che mai – osteggiati dal
riemergere di frontiere nazionali nuovamente politicizzate, dovute al processo di
allargamento ad Est dei confini Europei del 2004 o al crescente euroscetticismo, e
giustificate dalla pressione sulla spesa pubblica nazionale per il welfare imposta – o
usata ad arte – dalla crisi economica.
L’approccio legislativo, da cui la delega alle istituzioni europee a difendere e a
incrementare la portata dei diritti, può espandere i diritti individuali. Tuttavia, ciò che
l’integrazione normativa può raggiungere soffre di limiti evidenti nello scontro con scelte
politiche nazionali. Nessun giudice può decidere quanto gli Stati siano disposti a cedere
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Paola Cammilli, Alessandra Giannessi, La Comune del Belgio
per raggiungere l’integrazione sociale. La creazione dell’Europa sociale è frutto di un
patto di solidarietà tra gli Stati membri: ed è questo patto ad essere messo oggi in
discussione.
L’Europa come spazio d’integrazione sociale è, di fatto, davanti al suo ultimo test.
Laddove uno Stato membro neghi il diritto alla protezione sociale al cittadino UE (che ne
abbia maturati i requisiti di accesso) soltanto sulla base della nazionalità di origine,
decade l’ultima occasione per mantenere una pretesa di solidarietà tra Stati membri.
Laddove alla negazione del diritto al welfare fa seguito un ordine di espulsione, l’Europa
sociale decade in favore dell’Europa dei mercati.
Ma cos’è lo spazio europeo se non uno spazio di solidarietà tra Stati membri?
L’atteggiamento di Stati come il Belgio va esattamente nella direzione che ci preoccupa.
Istituzionalizzare trattamenti differeziali dei migranti extra-comunitari rispetto ai cittadini
autoctononi o ai migranti comunitari, fino ad arrivare alle espulsioni di massa di questi
ultimi non afferma altro che la restrizione dello spazio dei diritti. Una deriva che nasce
dall’attacco ai più isolati e deboli, condizione tipica del migrante in sé. Se la solidarietà
tra Stati viene meno, l’Europa sociale viene meno: e con essa il progetto europeo.
Quest’ultimo, svuotato di ogni contenuto per le persone, diventa un facile bersaglio per il
rigurgito populista e di estrema destra, razzista, xenofobo ed euroscettico, su cui
facilmente si appoggiano le forze del liberismo economico, della libertà dei mercati e
della competizione per agire indisturbate e tentare di sopravvivere alla competizione con i
nuovi mercati emergenti.
È evidente che a fronte di queste spinte distruttive per l’Europa sociale e per il progetto
europeo la risposta non puó e non deve essere nazionale. Così come in Belgio, questa
procedura di esclusione ed espulsione può essere riprodotta da molti altri paesi
dell’Unione Europea: è sufficiente ritornare a considerare le persone emigrate come
‘oneri eccessivi’ oppure ‘pesi indebiti’. È sufficiente tornare ad un uso di argomenti
meramente economici per giustificare dei veri e propri giri di vite sul welfare nazionale e
sull’Europa sociale.
In un contesto di crisi economica e di appelli al rafforzamento di legami nazionali basati
su confini interni all’ambito nazionale, le espulsioni di cittadini comunitari si aggiungono
a un quadro in pericoloso disfacimento dei legami di solidarietà. L’attacco ai migranti
extra-europei, di cui ogni giorno si riempiono pagine di giornali, si sta estendendo, sotto
agli occhi di chiunque, a tutti i cittadini comunitari, contribuendo a precarizzare vite,
lavori, diritti.
L’approccio solo funzionale alla costruzione dell’Europa si è dimostrato fallimentare. La
graduale concessione di piccoli spazi di solidarietà sovra-nazionale (finanziaria, di più
stretta cooperazione, e cosí via), -piccoli spazi sempre limitati dal paventato pericolo di
‘turismo sociale’- ha precluso la via dell’armonizzazione delle politiche sociali, che
guardasse ad unico spazio europeo dei diritti. Soltanto un percorso di armonizzazione
delle politiche sociali può garantire la parità dei diritti a tutti i cittadini europei che
risiedono in un altro paese dell’Unione Europea, qualunque sia il Paese d’origine o di
destinazione. Soltanto un percorso di armonizzazione delle politiche sociali può arrestare
la pericolosa deriva di graduale riduzione dello spazio dei diritti.
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Paola Cammilli, Alessandra Giannessi, La Comune del Belgio
Così, l’Europa oggi appare divisa dalla linea rossa del conflitto tra il diritto fondamentale
alla libera circolazione e l’atteggiamento di protezionismo rispetto al welfare nazionale.
Alla base delle svolte protezioniste dei diversi paesi europei, rispetto a chiunque eserciti
quello che fino a qualche anno fa sembravano le opportunità e i diritti offerti dall’istituto
della cittadinanza europea, c’è un fatto: la sfera dei diritti sociali è rimasta per decenni
saldamente nelle mani dei governi nazionali. Nel 1957, al tempo del Trattato di Roma,
nessun fondatore ha mai espresso la volontà di integrare le politiche sociali nazionali.
Piuttosto, la Comunità Europa avrebbe dovuto essere un mezzo per integrare i mercati.
Questo perchè la strutturazione di sistemi sociali in sistemi territoriali statali ha
accompagnato e sostenuto il consolidamento dei processi democratici in tutti i paesi
dell’Europa occidentale, ben prima della nascita del processo d’integrazione europea.
Un solo articolo fu inserito nel Trattato di Roma su richiesta dell’Italia: ‘La libera
circolazione dei lavoratori deve essere assicurata all’interno della Comunità. Tale
libertà deve comportare l’abolizione di ogni discriminazione tra lavoratori provenienti
dai Singoli Stati membri relativamente all’occupazione, retribuzione e altre condizioni di
lavoro e occupazione” Art Art 49 TFEU, Ex Art 39 Trattato CE e Ex. Art. 48 Trattato
EEC. Si stabilì che un lavoratore che si fosse spostato da un paese ad un altro avrebbe
avuto il diritto ad accedere alla sicurezza sociale di un altro Paese e ad esportare i diritti di
sicurezza sociale maturati nel Paese di provienza. Più che il primo passo avanti per la
costruzione dell’Europa sociale, la libera circolazione dei lavoratori e il diritto al welfare
nel paese di destinazione hanno costituito la prima e più importante breccia nel muro di
resistenza degli Stati membri all’integrazione sociale.
Si è da subito capito che senza una protezione dei diritti sociali nessun cittadino UE
avrebbe usufruito del diritto alla libera circolazione. I lavoratori, poi i cittadini UE
migranti sono stati quindi i primi a poter godere della nuova forma di cittadinanza
europea, alla base del cui funzionamento vi è tuttavia un approccio ‘funzionale’, anzichè
una vera e propria scelta politica d’integrazione. Per garantire la protezione sociale ad
ogni cittadino migrante gli Stati hanno riconosciuto la necessità di una certa forma di
solidarietà reciproca, anche finanziaria.
Nonostante la mancanza di volontà politica, i successivi regolamenti hanno spronato in
parte l’integrazione sociale in modo significativo. In primo luogo, il regolamento
1408/71, adesso il Regolamento 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza
sociale tutela il lavoratore contro il rischio di perdere i diritti previdenziali maturati
lavorando in più Stati membri. Il principio alla sua base è la proibizione di ogni
discriminazione nell’accesso al welfare dei lavoratori migranti rispetto ai lavoratori
nazionali. Il lavoratore che versa contributi da lavoro in più Stati membri ha diritto a
totalizzarli -e ad accedere alle prestazioni di sicurezza sociale- nello Stato membro in cui
il lavoratore si trova, prendendo in considerazione anche i contributi maturati negli altri
Stati membri. Le prestazioni di disoccupazione rientrano in questo capitolo. Questo
regolamento è la prima vera breccia aperta nel welfare nazionale e costituisce una pietra
miliare dell’Europa sociale.
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Paola Cammilli, Alessandra Giannessi, La Comune del Belgio
Parallelamente, il Regolamento 1612/68 stabilì che i lavoratori migranti avrebbero avuto
gli stessi diritti alle prestazioni sociali dei lavoratori nazionali. Tuttavia, a due giorni dal
grande allargamento ad est del 2004, è stata approvata la Direttiva 2004/38/CE sul diritto
di soggiornare e risiedere in un altro Stato membro. Questa non riconosce il diritto
incondizionato al soggiorno e alla residenza di tutti i cittadini. Per sventare il fanstasma
del temuto ‘turismo del welfare’, il diritto venne garantito alle persone a condizione di
non essere un onore eccessivo per il sistema sociale dello Stato ospitante: in altre parole,
si puó essere cittadini economicamente attivi o inattivi, ma occorre dimostrare di avere
mezzi sufficienti di sostentamento, di essere in cerca di lavoro e di avere buone
possibilità di ottenerlo per essere al riparo da un ordine di espulsione. Tuttavia, la
Direttiva tutela il cittadino comunitario dall’espulsione automatica per aver fatto richiesta
di assistenza sociale.
Ed è proprio da questo che nascono i primi limiti del progetto europeo. La mancanza di
un progetto di armonizzazione sociale a favore di un ‘compromesso linguistico’ ha
lasciato ad ogni Stato la libertà di rispondere con argomenti nazionali. Le scelte nazionali
e le pratiche amministrative possono e continueranno a trovare nuovi modi per stabilire
soglie di entrata e di uscita, di onere eccessivo e di peso indebito. La logica di apertura,
arrivata al suo punto massimo con la Direttiva 2004/38, è adesso, a distanza di soli 10
anni, in svantaggio rispetto alla logica di chiusura frutto del compromesso voluto dagli
stessi Stati membri.
Se da un lato la Commissione europea, nel 2013, ha dato al Belgio due mesi di tempo per
adeguare la sua normativa nazionale a quella comunitaria, al fine di assicurare che i
cittadini comunitari beneficiassero appieno del diritto alla libertà di circolazione,
dall’altro spinte nazionali alla chiusura prevalgono, in Belgio, nel Regno Unito, in
Germania, e così via.
Il diritto alla residenza in un altro Stato membro è diventata la soglia di accesso
all’Europa sociale, per questo motivo la sua messa in discussione altro non nasconde che
la messa in discussione dell’Europa sociale stessa: dunque del cuore del progetto
europeo.
Oltre che battersi per il ‘diritto ad avere diritti’, è necessario che le forze sociali e
progressiste riconoscano la sfida collettiva, politica e sociale, e facciano propria la
battaglia per una Europa sociale forte e armonizzata, poiché senza di essa il cittadino
torna ad essere isolato, solo e per questo debole, i cittadini dell’UE e i loro familiari,
nonché i cittadini di paesi terzi, continuano ad oggi a non essere protetti: e le espulsioni
continuano ad aumentare.
Ciò che sta avvenendo in Belgio, dunque, è la spia di un più imponente attacco all’Europa
sociale. Questo ci obbliga a fare i conti con la necessità sempre più pressante di azione,
sensibilizzazione e informazione. L’ordine di espulsione arrivato a Marie, Silvia e AM
può arrivare a tutti: nessuno puó e deve essere lasciato solo ad affrontare il proprio caso
personale, che evidentemente ormai si inserisce nella battaglia collettiva in difesa
dell’Europa sociale.
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