Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
DANIELE RIELLI
LASCIA STARE LA GALLINA
ROMANZO
BOMPIANI
© 2015 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria
ISBN 978-88-452-7825-9
Prima edizione Bompiani maggio 2015
A mio padre e a mia madre
Ogni riferimento a fatti, cose, aziende e persone realmente esistenti
è puramente casuale.
Se hai una stanza in cui non vuoi che entrino
certe persone mettici una serratura della quale
non hanno una chiave. Ma non ha senso parlare di
questa stanza, a meno, naturalmente, che tu voglia
fargliela ammirare da fuori. La cosa più decorosa è
mettere una serratura che sia notata solo da quelli
che sanno aprire la porta e non dagli altri.
L. Wittgenstein
Niente inaridisce una mente quanto la ripugnanza
a concepire idee oscure.
E.M. Cioran
Ho una sola opinione, anzi passione storica, ed è
questa: ho sempre parteggiato per i cartaginesi.
E. Flaiano
The game is out there, and it’s either play or get
played.
Omar
ANTEFATTO
Tempo di adulterio
31 luglio-6 agosto 2011, Frassanito (LE)
Con Elena non facevamo altro che litigare. La notte precedente, appena tornati dalla dancehall in spiaggia mi aveva ammonito
acida di pulirmi bene i piedi prima di entrare in tenda. Non voleva
portassi dentro aghi, terra o altre cose di cui solo lei al mondo era
in grado di preoccuparsi alle sei di mattina. Così senza replicare
avevo estratto dalla tenda il mio materassino, l’avevo messo sotto il
pino mediterraneo di fronte al nostro piccolo accampamento e mi
ero addormentato lì pur di non sentire oltre la sua voce petulante.
Dopo poche ore il sole era filtrato fra i rami e mi ero alzato fresco
come una rosa – a ventidue anni “doposbronza” era una parola priva di significato. Quando mi ero affacciato in tenda l’avevo trovata
vuota, la mia ragazza doveva già essere in spiaggia. Avrei potuto
scommettere che stesse approfittando della mia assenza per starsene in topless, sapendo benissimo quanto mi desse fastidio.
Solo allora mi accorsi che il mio materassino era mezzo sgonfio, doveva essersi bucato con gli aghi di pino. Bestemmiai. Era un
punto a favore delle regole naziste di Elena sulla pulizia interna alla
tenda, ora mi toccava assolutamente trovare una pezza per camere
d’aria e chiudere il buco prima che facesse ritorno. Nell’improbabile eventualità che poi se ne fosse accorta avrei sostenuto con calma
e decisione che la toppa c’era sempre stata. Cosa voleva saperne lei
di pezze per camere d’aria?
Soddisfatto del piano mi tastai i pantaloni in cerca delle sigarette. Trovai flyer tagliuzzati per farne filtri, monetine, un pacchetto
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di cartine, diversi accendini (ero un cleptomane di Bic), resti di
sigarette spezzate che ordinai uno a fianco all’altro, sulla stuoia. Di
lì a poco mi sarebbero serviti. Infine ripescai anche il pacchetto di
Camel Lights morbide che stavo cercando e ne accesi una.
Aspirai il primo tiro e ripensai alla sera precedente: una volta
io e Elena saremmo rotolati in tenda incuranti di trascinare dentro
sabbia, foglie, serpenti, stercorari o capre rupestri. Una volta, quando la passione ci dominava. Sospirai, presi il barattolo del Nesquik
e ne tirai fuori una cima di orange avvolta nella pellicola. In un
campeggio come quello era un nascondiglio ridicolo per dell’erba
ma per il viaggio aveva funzionato alla grande. Avevo persino richiuso il sigillo di freschezza con dell’Attack invisibile, creando una
confezione a prova di cane tossico. Un sacco di gente si faceva beccare perché era sciatta nelle misure di sicurezza, diventare un emarginato però non faceva parte dei piani di Marco De Sanctis per il
futuro. Il campeggio comunque era sicuro: il proprietario era un
ex finanziere e godeva di un occhio di riguardo da parte dei vecchi
colleghi e quel posto doveva la sua fama nell’ambiente del reggae
proprio a questo. Presi dall’abside della tenda il Roor, il mio bong
di vetro, e gli cambiai l’acqua usando una delle preziose bottiglie di
Elena, una piccola malignità compensativa. Io e la mia dolce metà
eravamo gli unici imbecilli in tutto il campeggio con due casse d’acqua fuori dalla tenda. Inutile specificare a chi toccasse il trasporto.
Accesi il bong e tirai con studiata lentezza facendo sfavillare tutta
la mista, poi sfilai il braciere e inspirai di colpo tutto il fumo che si
era accumulato nel tubo.
Buongiorno, cazzo.
Espirai formando una piccola nuvola a mezz’aria fra la nostra
tenda e quelle dei vicini arrivati la notte precedente. Quando finalmente il banco di nebbia d’agosto si disperse mi trovai di fronte a
una visione: una ninfetta mora, con una spirale tatuata sulla spalla
destra e i capelli a caschetto come Uma Thurman in Pulp Fiction,
giocava a pochi metri da me con dei fili a cui erano legati due piccoli delfini di peluche.
Li faceva roteare ma non era molto brava: ogni tanto le corde
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s’ingarbugliavano e gli animali di pezza le sbattevano sulle gambe.
Ci misi qualche secondo a capire che non si trattava di una creatura
del THC, era una ragazza reale e soprattutto aveva un sedere perfetto,
piccolo e ben incorniciato da un paio di culottes blu. Lo sforzo faceva
intuire muscoli delle natiche tonici sotto la pelle brunita, particolare
che apriva a scenari d’incontestabile sodezza. Guidato da una forza
più subdola della gravità ma ugualmente definitiva, mi alzai dalla
stuoia e a rischio della vita mi misi a portata di delfino sul cranio.
“Ciao” abbozzai.
La ragazza alzò lo sguardo impegnato e si produsse in un piccolo
sorriso.
“Ciao.”
“È dura far volare i delfini?” e stavo per aggiungere “Voglio dire
sono pesci. Cioè mammiferi. Ma insomma vivono nel mare comunque. O nei circhi acquatici. Ad ogni modo non volano” quando la
parte sobria e minoritaria del mio cervello riuscì a impedirmelo.
“Abbastanza. Ho appena iniziato.”
Avrei voluto invitarla a fare colazione al bar, ma ero fidanzato e
se lei dormiva in quella tenda doveva aver visto Elena. Mi sembrò
sconveniente, benché fossero almeno cento anni che nessuno usava
più quella parola. Così me ne stetti lì a guardarla qualche secondo
di troppo, agevolato nel mio immobilismo da bambola di pezza
anche dall’effetto dell’erba. Alla fine riuscii a chiamare a raccolta
qualche neurone e chiesi:
“C’è un segreto particolare?”
“Per cosa?”
“Per fare roteare i cosi.”
“Bolas.”
“Per far roteare i Bolas.”
“Le Bolas.”
“Per far roteare le Bolas.”
“Se c’è non credo di averlo ancora scoperto.”
“C’è sempre un segreto per fare le cose.”
Che cazzata pazzesca. Invece lei fece planare i delfini all’altezza
delle caviglie fermandone la rotazione e guardandomi sorrise nuovamente, questa volta in modo più netto.
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“Dici?”
“Sì” mentii. Per un culo come quello avrei rinnegato dio se solo
ci avessi creduto.
“Mi chiamo Martina” disse, porgendomi la mano.
Mi presentai a mia volta e scoprii che era di Milano e, come la
maggior parte delle ragazze con cui avevo tradito Elena, studiava
Lingue. Prima o poi avrei dovuto prendermi la briga di scoprire
cosa diavolo scrivevano in quei libri per renderle così ben disposte
al sesso occasionale. Le dissi che invece studiavo Scienze politiche
ed ebbe il buon gusto di non dire “E cosa farai dopo?”, forse perché
anche Lingue non assomigliava esattamente a un assegno circolare
nel mondo del lavoro. Ad ogni modo fu un punto a suo favore. Non
che ne avesse bisogno con quelle chiappe marmoree. Martina era
in Salento con due amiche, avevano la macchina e “Chissà magari
possiamo andare da qualche parte assieme.” Certo, come no. Dovevo solo trovare un posto dove seppellire il cadavere di Elena.
“Lo proporrò alla mia ragazza” dissi per puro dovere istituzionale e per farle capire fra le righe il motivo per cui non avevo ancora
provato a leccarla.
“Grazie, intanto” aggiunsi, e poi tornai alla mia tenda.
Prima di esplorare i possibili sviluppi di quella nuova conoscenza avevo due compiti fondamentali da svolgere per mettere la giornata sui binari giusti: 1. mangiare un cornetto crema e nutella al bar
2. trovare una pezza per camere d’aria e applicarla al materassino
prima che tornasse Elena.
Riuscii a fare entrambe le cose e celebrai con un altro bong. Non
avevo ancora idea della piega che avrebbero preso gli eventi e mi
stavo dimenticando che era piena estate, il periodo dell’anno in cui
la classica domanda femminile “Ma sarà quello giusto, sensibile al
mio animo gentile e rispettoso delle mie prerogative?” viene inevitabilmente sostituita da “Domani mattina alle sei ho l’intercity che
mi riporta a Pinerolo, vuoi scoparmi da dietro?”
Eravamo cioè nel pieno di quella breve orgia di socialità carnale
che il nostro mondo patologicamente individualista si concede ad
agosto. Eppure per amore e paura delle rappresaglie di Elena provai a dimenticarmi di Martina. Non durò a lungo. Già nel pome12