del 28 Giugno

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del 28 Giugno
Del 30 Gennaio 2015
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Workers buyout come antidoto alla crisi
di Lorenzo Maria Alvaro Due storie, una di Pisa l'altra di Ravenna, che raccontano la nuova imprenditorialità ai
tempi della crisi. I dipendenti delle ditte in difficoltà si organizzano in cooperative e rilevano la proprietà con
l'aiuto delle Banche di Credito Cooperativo.
Ecco le loro storie Si diffondono sempre più i casi di workers buyout: per evitare chiusura e licenziamenti, i
dipendenti mettono in piedi una cooperativa e acquistano la ditta in crisi. Un'operazione complessa che è
diventata più facile grazie anche al sostegno delle Banche di Credito Cooperativo del territorio e
all'accompagnamento
di Confcooperative e Legacoop. Ecco due storie che possono essere di esempio e modello in Italia.«I problemi
dell’azienda non erano dovuti alla crisi economica. Il problema era la sua cattiva gestione». Mentre controlla
che gli imballaggi non abbiano difetti, Susi ci racconta come sono iniziate le difficoltà per la Pansac, l’azienda
in cui lavora da 10 anni. Un’azienda florida, leader nel suo settore: produce da oltre un secolo imballaggi
plastici per le industrie nella città di Ravenna.
Ma nel 2010 entra in crisi finanziaria a causa della cattiva gestione del proprietario. Due anni di
amministrazione straordinaria e due anni di cassa integrazione: «Sono stati quattro anni duri, anni di incertezza
per chi aveva bambini, famiglia, un mutuo per la casa da pagare» – racconta Susi – «Non sapevamo se si
sarebbe trovato un acquirente, se avremmo mantenuto il posto di lavoro: continuavamo a lavorare con la
speranza che qualcosa cambiasse».
Non ci sono compratori all’orizzonte, e i dipendenti capiscono che per salvare il posto di lavoro devono
prendere in mano l’azienda.
Nasce allora l’idea di costituire la Raviplast, una società cooperativa, per rilevare la Pansac. I timori e le paure
non mancano: ci vuole coraggio per passare da dipendenti a imprenditori. Ma la paura più grande era quella di
perdere il lavoro racconta Alessandro, da 14 anni operaio nell’azienda: «A me questo lavoro piace, quando si è
presentata quest’opportunità, i miei genitori e la mia compagna mi hanno detto: vai, prendila al volo!».Con
l’aiuto delle tre centrali cooperative provinciali (Confcooperative, Legacoop e Agci) viene avviata l’analisi di
fattibilità, spiega l’amministratore delegato Carlo Occhiali: creare un’azienda solida dal punto di vista
finanziario è fondamentale.
«La BCC Ravennate e Imolese è stata la prima ad averci aiutato e supportato: non solo con linee di credito
ordinarie, ma anche con l’anticipazione dell’indennità di mobilità». Sono stati i soci a costruire il capitale
sociale usando le loro indennità, a cui si sono poi aggiunti i fondi di sviluppo delle centrali cooperative. Ma
cosa significa essere parte di una cooperativa?
«Mi piace pensare che come socio lavoratore, ora il lavoro è nelle mie mani», spiega Susi. Comprare un nuovo
macchinario, organizzare i turni di lavoro: prima erano cose comunicate dal proprietario, adesso sono decisioni
che si prendono assieme, secondo le competenze di ciascuno.
«Noi come soci lavoratori ci mettiamo il lavoro, adesso come prima, ma forse con uno spirito diverso: essere
partecipi del proprio lavoro dà una spinta in più».
Per la neo-costituita Raviplast i primi risultati sono incoraggianti e i soci guardano con speranza al futuro: è la
loro occasione per dimostrare quello che hanno pensato molte volte, come dice Daniele, direttore commerciale.
«Ho lavorato per 30 anni qui, ho pensato spesso che se l’azienda fosse stata mia, mi sarei comportato in modo
diverso in molte circostanze.
Adesso che l’azienda è in parte anche mia, è l’occasione per mettere in pratica le nostre ambizioni e le nostre
idee».Quando arriva la notizia che il proprietario ha deciso di liquidare l’azienda, sono già più di 20 anni che
Giuliano lavora come operaio nel capannone della Bulleri Brevetti di Cascina.
«Lavoro qui dal 1977. Quando sono entrato, la ditta andava benissimo, eravamo più di 100 dipendenti. Poi la
gestione è peggiorata, si diceva che l’azienda fosse in crisi e da un giorno all’altro mi sono ritrovato senza
lavoro».
Nata nel 1935, la Bulleri è un’azienda storica del polo industriale di Pisa.
Famosa per la produzione di macchinari per la lavorazione del legno, della plastica e dell’acciaio. Rilevata nel
1998 dal gruppo Sicar, nel 2009 si trova ad affrontare difficoltà di gestione e di bilancio.
Con la crisi, arriva la liquidazione: 47 dipendenti si ritrovano in cassa integrazione, con mesi di arretrati non
pagati. «È stato un brutto periodo: senza stipendio, ci siamo dovuti appoggiare alle famiglie. Nel mio caso, con
mio padre pensionato, era difficile arrivare a fine mese. SEGUE
SEGUE E c’era la preoccupazione di dover cercare un nuovo posto di lavoro e la paura di non riuscire a
trovarlo». Per un anno i lavoratori, le istituzioni e l’intera comunità di Cascina si mobilitano per impedire la
chiusura di quella che è una realtà di eccellenza del settore.
«Non potevamo buttare via 20 anni di esperienza: credevamo che ci fosse ancora un futuro per l’azienda, e
volevamo dimostrarlo. Tanto più che il lavoro non è mai mancato, gli ordini non erano diminuiti: abbiamo
chiuso con sei milioni di commesse». Non c’è nessun motivo per chiudere la ditta e perdere l’esperienza e le
competenze di tanti operai, progettisti, disegnatori.
Eppure non si trova nessuno disposto a investire: gli imprenditori locali non sembrano interessati a rilevare
l’azienda. Tranne la Banca di Cascina. Che con la garanzia di Fidi Toscana mette in piedi un finanziamento di
600 mila euro. Gli ex-dipendenti decidono così di prendere in mano il futuro, il loro e quello dell’azienda. E si
costituiscono in cooperativa. 10 operai rinunciano alla cassa integrazione e ottengono in liquidazione
straordinaria 10 mila euro a testa, che versano all’azienda.
Altri 16 operai investono la cifra simbolica di 150 euro. Nel luglio 2010 nasce, con il supporto delle istituzioni
pubbliche e a fianco della Banca di Cascina, la Nuova Bulleri Brevetti. In forma cooperativa. Vincenzo Littara,
direttore della Banca di Cascina racconta: «Come banca abbiamo risposto con entusiasmo alla richieste degli
operai della Bulleri, appoggiando incondizionatamente il loro progetto». L’azienda ricomincia a lavorare tra
molte difficoltà: alla riapertura non ci sono nemmeno gli impianti per la produzione di nuovi ordini. I soci
riprendono i contatti con i vecchi clienti, e si occupano dell’assistenza e della manutenzione dei macchinari
venduti. Poi iniziano ad arrivare le commesse e la produzione ricomincia. «La vera risorsa dell’azienda è il
capitale umano, non le macchine o i capannoni.
È da questo dato che siamo ripartiti». Alberto, il presidente della cooperativa, racconta i sacrifici e le rinunce:
alla tredicesima, agli straordinari, alle ferie degli operai (ora soci). Soci che ora percepiscono la differenza,
rispetto alla precedente condizione di operai, in termini di responsabilità: «Da operaio tanti problemi non li
percepivi, entravi alle 8 della mattina e uscivi la sera, non ti preoccupavi se la ditta andava bene. Da quando
siamo soci, siamo responsabili del destino della fabbrica: lavoriamo per noi stessi. Un bullone, se prima lo
avvitavi così, adesso cerchi di avvitarlo con un po’ più di… coscienza».