canti popolari ed evoluzione della coscienza

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canti popolari ed evoluzione della coscienza
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Mariano Fresta
CANTI POPOLARI ED EVOLUZIONE DELLA COSCIENZA MEZZADRILE
1. La mezzadria «'un ritornerà più, perché semo stati troppo sfruttati, noi. E’ stata una
cosaccia e infatti ora non esiste più».
E questo un giudizio definitivo sulla mezzadria, espresso da un mezzadro toscano durante
un'intervista. Esso, però, nasce a posteriori, dopo una lunga esperienza di lotte, di vittorie e di
sconfitte, che hanno modificato nelle campagne i rapporti di produzione e le condizioni di vita
dei pochi contadini che sono rimasti a lavorare la terra. Se oggi, infatti, i contadini sono convinti
che la mezzadria non potrà più tornare, è perché, dietro questa convinzione e questa volontà, c'è
la storia di quasi un secolo di organizzazione politica e sindacale, di scioperi, di battaglie
politiche. Quando invece (ci si riferisce all'incirca ad un secolo fa) il mezzadro non aveva ancora
maturato alcuna possibilità collettiva di ribellarsi, né tanto meno di potersi prefigurare condizioni
di vita diverse, l'unica consapevolezza era quella della sua subalternità, della fatica inumana e
della miseria cui era soggetto.
Tra il giudizio di oggi e l'atteggiamento di allora c'è tutto un processo evolutivo della
coscienza dei contadini, che trova puntuale riscontro nella storia sociale e politica degli ultimi
cento anni1 Ma il demologo che studia il folklore come concezione del mondo delle classi
subalterne deve cercare di scoprire i segni dell'evoluzione della coscienza sociale non solo dentro
i processi storici, ma anche attraverso lo studio dell'attività espressiva e culturale di queste classi.
Se quest'analisi è, però, possibile nei riguardi della storia degli ultimi cinque decenni, dato che la
relativa cultura folklorica è ancora viva e presente o quanto meno facilmente ricostruibile
attraverso la memoria degli «informatori», essa diventa alquanto ardua allorché si deve lavorare
su documenti che riguardano il secolo scorso e i primi decenni di questo.
Infatti, nella documentazione folklorica relativa alla Toscana dell’Ottocento (e non solo
alla Toscana) è raro poter rintracciare canti o altre forme espressive di contenuto «politico» e
sociale. Da un lato, perché, come è noto, i ricercatori e gli studiosi di allora esercitavano su di
essi una censura, ritenendoli poco «poetici» e per nulla corrispondenti alla visione idillica che
essi volevano dare del mondo contadino e pastorale2; d'altra parte, sembra, attraverso la memoria
storica ricostruibile per mezzo di interviste agli ex-coloni più anziani, di poter rilevare un
fenomeno di scarso intreccio tra l'attività espressiva dei mezzadri toscani e le vicende storiche e
sociali di cui essi erano protagonisti.
E tuttavia, pur restando nel quadro di una concezione «contenutistica» dei canti popolari,
1 Cfr. E. Ragionieri, La questione delle Leghe e i primi scioperi in Toscana, in «Movimento Operaio », n. 3-4,
1955; L. Radi, I mezzadri. Lotte contadine nell'Italia centrale, Roma 1962; G. Procacci, Geografia e struttura del
Movimento contadino, in Lotta di classe in Italia, Roma 1970; G. Giorgetti, Contadini e proprietari nell'Italia
moderna, Torino 1974.
2 Nell'800 si sviluppa la teoria del carattere essenzialmente «amoroso» della poesia popolare. Questo processo di
selezione passa dal Tommaseo al Tigri, dal Rubieri al D'Ancona. Sull'ideologia degli studiosi ottocenteschi di poesia
popolare si veda A. M. Cirese, La poesia popolare, Palermo 1970 (ristampa); e U. Carpi, Classi dominanti e
letteratura popolare nella Toscana dell'Ottocento, in «Lavoro critico» n. 14, Bari 1978.
La stessa selezione avvenne per i testi del teatro popolare; in D'Ancona, La rappresentazione drammatica
del contado toscano, Appendice I delle Origini del teatro italiano, Torino 1877 (ora in ristampa anastatica, Roma
1966), pp. 274-75 si legge: « ... la vita presente non è per lui (il popolo) soggetto condegno di poesia ». Sullo stesso
piano si colloca E. Pea, Il Maggio in Versilia, in Lucchesia e in Lunigiana, Carpena, Sarzana 1954.
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già Carlo Tenca — e proprio ragionando sulla selezionatissima raccolta del Tigri — segnalava
nel 1857 la possibilità di studiare gli stessi canti amorosi come segni socio-culturali e non come
«idillio domestico» invitando a «cercare nel concetto di siffatta poesia popolare gli indizi del
costume, della socievolezza, delle abitudini morali o domestiche della gente che le possiede», e
coglieva inoltre nella raccolta di proverbi curata dal Giusti (un materiale necessariamente meno
idillico), i segni della storia, delle delusioni, della vita sociale, perfino del «bisogno di protesta»
delle classi subalterne toscane3.
Ma sarebbe certo impresa disperata usare la documentazione ottocentesca più censurata
per ipotizzare la fisionomia «totale» espressività mezzadrile; resta comunque la possibilità di
studiare numerosi documenti canori del mondo mezzadrile (raccolti nel ‘900, ma riferibili
almeno al secondo '800), come canti «obiettivamente» sociali, o per il loro soffermarsi su
descrizioni di condizioni di oppressione, o per le concezioni che in essi sono evidentemente
condensate. È possibile, cioè, avviare una lettura «contenutistica» di alcuni canti, che, tra i più
negletti nell'800, erano forse anche legati a tematiche della vita sociale, ed anche di testi del
teatro popolare, come Maggi e Bruscelli, che erano i «generi» più tradizionalmente formalizzati4.
Prendiamo qui in esame solo quattro componimenti (due contrasti e due canzonette
satiriche), raccolti di recente, che hanno diversa profondità storica, per avviare un tentativo di
lettura che è organizzabile – almeno logicamente, ma crediamo anche storicamente – in tre fasi
progressive della consapevolezza colonica.
Una lettura «contenutistica» oggi non significa ovviamente supporre che i canti
rappresentino l'indole di un popolo, ma analizzare il tipo di rappresentatività socio-culturale che
è presente nei testi, assunti come veicolatori di ideologie.
E ciò nella consapevolezza precisa che questo è solo uno dei piani di lettura dei canti
popolari, che qui privilegiamo, non senza ampliarlo con note sul loro uso e sulla loro funzione
negli «istituti» della circolazione culturale contadina.
2. Una delle forme «maggiori» dell'espressività popolare è il contrasto, una composizione
in versi in cui si contrappongono due personaggi o due entità elementari (contadino-padrone,
ricco-povero, cittadino-contadino, rosa-viola, tramonto-alba, ecc.). L'uso di improvvisare in
ottava rima (che è il metro più abituale) sui fatti del giorno e su questioni generali e di discuterli,
assumendo posizioni contrapposte, proprio nella forma del contrasto, è ancora vivo in alcune
zone della Toscana e del Lazio. La difficoltà non sta solo nel saper dare la risposta al proponente,
ma anche nel fatto che i due «contendenti» sono obbligati a riprendere nel primo, nel terzo e nel
quinto verso la rima proposta dall'avversario negli ultimi due versi dell'ottava precedente.
Il contrasto, come si accennava poco fa, ricorre generalmente all'ottava rima, una forma
metrica molto usata sia nel repertorio che si rifà alle fonti scritte («storie» tratte dai Reali di
Francia, episodi e rifacimenti dell'epica greco-romana e della letteratura epico-cavalleresca del
'500, leggende romantiche come la Pia de' Tolomei), sia in quello trasmesso dalla tradizione
orale, che va dai «rispetti» alle «storie» dei banditi (Nicche, Marziale, Tiburzi, ecc.) ai
3 C. Tenca, Canti popolari toscani, in «Crepuscolo », aprile-maggio 1857, poi in Prose e poesie scelte, Milano
1881, p. 273.
4 Sui testi del teatro popolare tratti da vicende storiche contemporanee si veda S. Lo Nigro, Genesi e funzioni dei
maggi drammatici in Toscana, in La drammatica popolare nella Valle padana, Atti del IV Convegno sul folklore
padano, Modena, maggio 1974, Modena (ma Olschki, Firenze) 1976. Per uno studio più specifico si veda il capitolo
VIII della dispensa universitaria di P. Clemente - M. Fresta, Lo spettacolo popolare tradizionale nell'area senesegrossetana, Fac. Lettere e Filosofia, Univ. di Siena a.a. 1976/77; e la comunicazione di M. Fresta, Espressività
tradizionale, vicende contemporanee e uso politico-culturale del folklore, negli Atti di prossima pubblicazione del
Convegno « Il Maggio drammatico nell'area tocco-emiliana », Pisa, maggio 1.978
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“contrasti” appunto.
I contrasti in ottava rima vengono cantati su moduli melodici molto semplici e vicini al
parlato quotidiano; esistono poi canzoni a contrasto, con strofe di forma metrica varia, che
utilizzano melodie diverse, «per lo più allegre e con un andamento quasi “a ballo”»5.
I contrasti, spesso, vengono «improvvisati» durante le gare poetiche che si svolgono nelle
occasioni associative, come le “veglie”, le riunioni in osteria e nei circoli, o in altri luoghi di
ritrovo abituali; possono, però, essere composti, come si suol dire, a tavolino. La differenza tra i
due modi del comporre non è grande se si considera l'aspetto del contrasto, che si presenta come
una forma particolare, chiusa e cristallizzata6; se invece si confronta il testo dei contrasti
«improvvisati» (e qui l'aiuto della registrazione magnetofonica diventa indispensabile) con il
testo (anche se tramandato oralmente), di quelli composti a tavolino, da un solo autore, la
differenza è facilmente rilevabile. Mentre in quest'ultima la tensione si mantiene sempre allo
stesso livello, in quelli improvvisati l’attenzione del «poeta» è rivolta piuttosto alla rima a cui è
obbligato, col risultato che spesso i versi sono poco perspicui e le argomentazioni poco pertinenti
al tema da svolgere. Conseguentemente, esiste una diversità anche nell'andamento del canto: i
contrasti non improvvisati vengono cantati su una melodia standardizzata e semplice,
l'espressione cantata di quelli improvvisati, invece, si arricchisce di numerosi melismi, che
permettono all'improvvisatore di guadagnare il tempo necessario per trovare la risposta adeguata.
Riprendendo quanto scrive Diego Carpitella, possiamo dire che il contrasto, «per il suo semplice
aspetto sia di cristallizzazione che di uso quotidiano», è proprio di quelle regioni in cui si ha
«l’assoluta prevalenza della musica vocale» su quella strumentale, cioè in quelle regioni, come la
Toscana mezzadrile, in cui esisteva (e/o esiste) un artigianato della voce, che trova
[ ...] le sue radici anche nelle condizioni storiche e sociali della comunicazione. Ora le condizioni
storiche di questa comunicazione sono quelle date, per lungo tempo, dall'istituto della «grande famiglia»
(ovvero comunità tacita familiare), che rappresentava appunto il tessuto conduttore. Questo istituto
aveva, specialmente, due aspetti: da un lato rappresentava un arroccamento, un’ autosufficienza, in cui
avveniva una continua dialettica tra i piccoli gruppi familiari (potevano arrivare sino a venti);
dall'altra, invece, la quantità di persone creava un clima di socialità e di continuo interscambio,
sufficiente a soddisfare gli aspetti creativi della comunicazione. In questo ambito un mezzo di
comunicazione formalizzato, come l'ottava rima o lo stornello, ma soprattutto la prima, aveva una
funzione primaria7.
Da qui la larga diffusione nel patrimonio culturale dei contadini toscani dei contrasti in
ottava rima, da qui le stereotipie dei contrasti tra «padrone e contadino», tra «fiorentino e
casentinese» e, nella tradizione degli improvvisatori, le stereotipie di tenzoni tra «terra e mare»,
«bionda e bruna», e poi nel tempo, tra «America e Russia», «democristiano e comunista», ecc.
Data, dunque, la funzione di comunicazione sociale che hanno svolto, alcuni contrasti del
filone «padrone e contadino», «povero e ricco», «cittadino e contadino», ecc. presentano precisi
riferimenti a determinate condizioni sociali e alle concezioni ideologiche che intorno ad esse si
sviluppano.
5 R. Leydi, I canti popolari italiani, Milano 1973, p. 212.
6 D. Carpitella, Musica contadina nell'Aretino, Roma 1977, p. 17 e p. 45.
7 Ivi, p. 15 e pp. 22-23.
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Così è nel contrasto fra Pasquino e il padrone8:
Là, nel mese di ottobre il dì ventotto,
per San Simone il giorno ricordato,
vi era un signore in un salotto
che contrastava con un disperato.
E non vi saprei dir chi sia più dotto,
l'uno e l'altro sta accorto allo steccato;
sopra le sue ragion convien ch'io canti,
saluto chi mi ascolta e tiro avanti.
Udite l'argomento tutti quanti:
un contadino al suo signor padrone
gli dice: 'un ho vitto né contanti,
a doppio ho digiunato a San Simone!
Rispose il padrone: Poi viene tutti i Santi,
sconta di quando facevi tre colazione!
E così lo rimprovera e minaccia
E per di più gli chiude l'uscio in faccia.
Co' rustiche maniere lo discaccia,
il contadino brontula e sbadiglia,
in verso casa riprende la traccia,
racconta tutto il fatto alla famiglia.
A Dio si raccomanda a larghe braccia,
e col figlio maggiore si consiglia.
Datemi sacchi, rispose Pasquino,
o bastono il padrone o vo' al mulino!
Di corsa come un frate al mattutino,
dicendo: 'un è tempo di pensalla!
arriva alla porta e bussa ogni tantino
con sette balle vuote sulla spalla.
Si affaccia il suo padrone a un finestrino,
dicendo a Pasquino: Stai in là con quella balla!
Pensi cosa mi fece nella state,
mi lasciò venti libbre di patate.
Tu sei più duro delle cantonata!
E smetti di picchià la campanella;
io presi le raccolte ed altre entrate
8 Il testo ci è stato fornito, ma in maniera lacunosa, nel 1974, da Egisto Mangiavacchi, di anni 82, ex-mugnaio, di
Montepulciano. Un'altra lezione, completa, abbiamo rintracciato manoscritta in un quaderno fornitoci da Elio
Guerrini, detto «Pepe», ex-mezzadro di Montepulciano. Di questo contrasto Caterina Bueno ha raccolto una lezione
nell'aretino (cfr. disco La Toscana di Caterina, Tank MTG 8010); altre lezioni si trovano in Staccia buratta, a cura
della Biblioteca Comunale di Montevarchi, 1974; in D. Priore, Canti popolari della valle dell'Arno, Firenze 1978, p.
76. Molte lezioni ha trovato D. Carpitella, Musica cit., che però non le riproduce.
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per vede 'se quel chiodo si scancella.
A costo di finilla in bastonate,
come fece alle nozze Pulcinella,
e smetti di da' noia al can che diace,
sennò co' legno ti farò capace.
A me mi bolle il sangue come una fornace,
non so' come mio padre che ha paura:
gli prende il grano e acconsente e tace
e tutta l'uva quando l'è matura.
A ben che il vino a me molto mi piace,
e non mi curo un fiasco di strettura,
pensi a darmi mangia' che io penso a bere
e attendo alle faccende del podere.
Che bella cosa! Mettiti a sedere!
Per sete vien le fonti, il fiume e il mare,
e per la fame le famiglie intere
fori di Talia vanno a lavorare.
Tu puoi partire e gli altri rimanere
E regolarti molto nel mangiare,
solo una volta al giorno acqua e pane,
e spedire una somma a chi rimane.
Così mi tratterei peggio di un cane,
'un sono avvezzo a fare il galeotto
e neppure il digiun delle campane:
se ci vole anda' lei, faccia fagotto!
Se lavoro il poder colle mie mane,
io son sicuro, vinco un terno al lotto;
se l'abbandono, glielo dico in ghigna,
come ciuchi si mangia la gramigna.
Per me sarebbe meglio aver la tigna,
potrei guarì' con medicine e bagni;
tu peggio sei della febbre maligna,
averti intorno te, mangia guadagni!
E se non voi vangare, pota la vigna;
Vattene in pace, Iddio ti accompagni!
'Un ti do nulla, se la voi capire,
questi beni per te non vo' finire!
E manco di fame io voglio morire:
venderò vacche, bovi e altri armenti;
con quelle quattro o cinque mila lire
mi caverò la ruggine dai denti!
Sì che lo voglio il portafogli empire
di amici, di vicini e di parenti;
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e così me la passo la paura,
padrone, a arrivederlo a battitura!
Pasquino, tu farai trista figura,
senza di me non vende' bestie in fiera!
Ti mando la disdetta in iscrittura:
tu passerai da ladro e vai in galera.
Portati bene! Un po' di vagliatura
te la prometto in questa primavera;
ti manderò un quintale di molende
quando nel colmo sarai delle faccende.
Ora l'ho proprio là dove mi intende!
Queste proposte a lei gli fanno torto;
veramente per me cura si prende:
vol da' la biada quando il ciuco è morto!
Dalla fame uno cade e l'altro pende;
come anderà se il grano non gli porto?
Ad aspettar lei quattro o cinque mesi
quaggiù ci troverà tutti distesi!
Ma se i quattrini non l'avevi spesi
n giubba sottoveste e pantaloni
e con quei stivalini da marchese,
orologio e catena ciondoloni!
E poi con le ragazze dei paesi!
Tu fai la coglia a barba dei padroni.
Ma chi fa gobbi per compari' belli
stamperà più lunari del Baccelli!
Pensi nel mondo siam tutti fratelli:
ama più gli animali che i cristiani.
Che fa di quattro gatti e otto agnelli,
otto cavalli e venticinque cani,
sei gufi, tre civette e mille uccelli,
dame, spie, scrocconi e mangiapane?
Tra sguatteri, ruffiani, cani e gatti,
tiene in cucina cento lecca piatti.
Pasquino, bada ben come tu tratti!
Prima dei cani muore i contadini,
così non tengo tanti libri imbratti
e vado a caccia e giro i miei confini!
Non ti avvezzare a riguardarmi i fatti:
mi frutta il piano, costa ed appennini;
benché peggio di te porto la vesta,
degno sarei di una corona in testa!
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Perché dunque mi spoglia e mi molesta,
che se potesse il sangue me lo cava?
Quando viene a spartire a me non resta
di tanti monti neppure una fava!
Tutto farò per impegno e impresta,
così esclamando chiuderò l'ottava:
Addio scarpe, vestito, addio oriolo,
addio teglie, mezzine, addio paiolo!
Tu canti bene come un usignolo:
so' tutti scherzi e fantasia di amore,
ti cerchi moglie all'uno e all'altro polo,
ma non toccherebbe a te che sei il maggiore.
Se prendi moglie avrai più di un figliolo,
e forse un branco che metta terrore,
e poi li manderai con tante sporte
a consuma' i battenti alle mie porte!
Ma se sposo io l'Annina incontro sorte,
che di una selva gliene vien la parte,
vigna, un quartiere e di battaglia un forte,
che vinse un punto al diavolo nell'arte.
Ragiona pare un giudice di corte,
a taglio sfiderebbe mille sarte;
e per complimenta' coi padroni
la sa più lunga lei del Panettoni.
Se è vero questo, più non si ragioni,
da me la manderai sera e mattina;
farà pane e bucato e maccheroni,
altre faccende in camera e cucina.
E gli consegno camicia e calzoni,
la chiave di dispensa e la cantina;
a te del vino te ne do un barile,
i sacchi ti empirò di gran gentile.
Pasquino parte con parole umile,
sposa l'Annina e sazia ogni appetito,
allegro come un asino d'aprile
quando vede il trifoglio fiorito.
L'Annina con parole femminile
prima serve il padrone e poi il marito;
da su e da giù resta affrontata,
si esporrebbe a servire anche un'armata.
Signori questa storia è terminata,
chi prende moglie impari da Pasquino:
solo una vigna aveva in entrata,
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che mai non gli mancò né pane e vino.
Le mie scuse farò come gli altr'anni.
son il Fantoni e il mio nome è Giovanni.
Il contrasto, che risale agli ultimi anni dell'8009, si compone di venti ottave e una sestina,
la quale racchiude insieme e la «morale» della storia (i primi quattro versi) e il commiato dell'autore (i restanti due versi). Secondo Dante Priore10, l'autore del componimento, Giovanni Fantoni,
è un poeta-contadino di Ponte a Buriano, nell'aretino; noi pensiamo, invece, che Pasquino
appartenga al repertorio dei cantastorie. Il componimento, infatti, oltre a presentarsi privo di tutte
quelle oscurità, che sono proprie, come abbiamo visto, dei contrasti improvvisati, denuncia,
nell'equilibrata dialettica dei due «contendenti», una mano scaltrita e avvezza alla versificazione,
come poteva essere quella di un cantastorie professionista. Ciò non toglie, evidentemente, che
possa essere opera di un poeta-contadino, ma secondo noi la formula di chiusura, Le mie scuse
farò come gli altr'anni / Son il Fantoni e il mio nome è Giovanni, è tipica di chi è solito ritrovare
periodicamente lo stesso pubblico di ascoltatori, al quale dà appuntamento per l'anno successivo,
è tipica dei cantastorie, abituali frequentatori di fiere, di mercati e di feste patronali, che hanno
appunto scadenza annuale. Che il contrasto sia fra i testi dei cantastorie più vicini al mondo
rurale, è vero; ma ciò non significa necessariamente che sia opera di un contadino. D'altra parte,
come vedremo fra poco, la conclusione di Pasquino e il padrone è tale da rendere inaccettabile
l'ipotesi che esso sia nato in ambiente rurale e soprattutto mezzadrile.
Dallo stesso repertorio dei cantastorie proviene probabilmente un altro componimento,
Bistone11, che appartiene al genere della canzone satirica, ma anche a quello della canzone «a
ballo»: infatti il testo è cantato su un'aria da ballo di tradizione contadina, il trescone:
Ora vi vo' cantare di Bistone,
ch' a San Mariano facea il contadino;
ma poi troppo severo era il padrone,
tremar facea Bistone, poverino.
E gli dice: Stai attento,
ch'io di te non son contento!
Fai il tuo dovere,
sennò ti mando via dal mio podere!
La moglie dice allora al suo marito:
Bisognerà il padrone accarezzare.
Di fargli due carezze ho stabilito,
così non ci potrà più mai scacciare.
Se lui vole un bacio solo
lasciami fare, ch'io lo consolo:
son cose strane,
ma tanto anche per te ce ne rimane.
9 La datazione approssimativa del contrasto è ricavabile dalla sua settima stanza, in cui si trova un chiaro
riferimento ai fenomeni di emigrazione verso l'estero che interessarono l'Italia specialmente sul finire dell'Ottocento:
e per la fame le famiglie intere / fori di Talia vanno a lavorare.
10 D. Priore, Canti popolari, cit. p. 83.
11 Il canto è stato raccolto ad Acquaviva di Montepulciano nel 1976; informatore era Sesto Marchetta, exmezzadro, analfabeta, di anni 68.
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Bistone riman poco persuaso,
a testa bassa corre a lavorare.
Ecco il padrone che passa per caso,
entra in casa di Rosa per parlare.
E le dice: Bella Rosa,
tu sei bella e sei graziosa!
Non c'è Bistone,
ti ricompenserò, dammi un bacione!
In quel momento stavano abbracciati,
Bistone torna a casa a desinare.
Vedendo quei quattr'occhi spiritati,
lui vorrebbe la moglie bastonare.
Ma il padrone in allegria
dice: Non ti mando via!
Ti fo un favore,
da oggi in su ti nomino fattore!
Biston resta contento, a tal parole
divenne rosso come un peperone.
Disse al padrone: Faccia quel che vole,
quello che dice, l'ha sempre ragione.
Lei vedrà con gran piacere
rifiorisco il suo podere;
io son devoto,
d'avello per padrone metto il voto.
Questi due canti, e in maniera più analitica il primo, possono essere studiati come
rappresentativi di determinate condizioni materiali di vita e del grado di subalternità ideologica
dei mezzadri toscani.
In Pasquino e il padrone vengono denunziati l'arbitrio che presiedeva alla ripartizione dei
prodotti (gli prende il grano... / e tutta l'uva quando l'è matura), la vita parassitaria dei padroni e
la loro arroganza (Pasquino, bada bene come tu tratti! / Prima dei cani muore i contadini); c'è
anche la rassegnazione del vecchio «capoccia» (A Dio si raccomanda a larghe braccia; Gli
prende il grano e acconsente e tace) e c'è il tentativo del giovane Pasquino di ribellarsi ai soprusi
padronali e alla miseria. Ma questo istintivo momento di ribellione viene sconfitto e in maniera
piuttosto umiliante: Pasquino ottiene sì un barile di vino, i sacchi pieni di grano «gentile» e
un'esistenza senza preoccupazioni materiali (mai non gli mancò pane né vino), ma in cambio
deve dividere la moglie col padrone.
La medesima umiliazione deve subire il protagonista del secondo canto: addirittura qui è
la stessa moglie a suggerire al marito il rimedio atto a sollevarli dalla miseria: concedersi al
padrone (Se lui vole un bacio solo / lasciami fare, ch'io lo consolo / Son cose strane / Ma tanto
anche per te ce ne rimane).
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Questi canti si possono dunque assumere come documenti che illustrano, anche se non
immediatamente, i rapporti di produzione e i soprusi perpetrati nelle campagne toscane coltivate
col sistema mezzadrile. Scrive ancora Diego Carpitella, a proposito del Contrasto tra padrone e
contadino:
Nell'economia di questa formalizzazione verbale cantata si può dire che siano illustrati ed
elencati tutti i motivi dei rapporti di produzione, e dell'ingiustizia sociale. In tal senso questo contrasto
può essere considerato un canto politico di contestazione, in cui una ulteriore e più moderna variante
può accrescere un maggiore tasso di coscienza critica.
Così come il Contrasto tra fiorentino e casentinese può considerarsi un canto «sociale» nel senso
che illustra una dicotomia tra città e campagna, anche se le immagini si riferiscono ad un passato
prossimo12.
Tuttavia l'ultima ottava di Pasquino e il padrone e tutto il canto di Bistone sollevano
qualche problema: se, infatti, poteva accadere (e certamente è accaduto) che il padrone abusasse
delle donne dei mezzadri, sarebbe ridicolo pensare che tutti i mezzadri e le loro donne si
comportassero come le coppie Pasquino-Anna e Bistone-Rosa.
D'altra parte questi canti, con la loro conclusione così umiliante per i coloni, anche se
appartenenti ai repertori dei vari cantastorie che frequentavano le fiere e le feste padronali, erano
e sono ancora oggi largamente diffusi nelle campagne; i mezzadri, cioè, li hanno in qualche
modo fatti propri, perché in essi hanno visto proiettati i drammi della loro esistenza quotidiana.
In Pasquino si rifletteva la loro rabbia, la loro disperazione, ma anche la consapevolezza che,
dopo la sfuriata, sarebbero stati costretti ad accettare le imposizioni del patto colonico e le
prepotenze dei padroni. Tuttavia ci sembra quanto meno masochistico il comportamento dei
mezzadri che, cantando le strofe di Pasquino o di Bistone, ne accettavano supinamente le
umilianti conclusioni. Ci sembra, insomma, esistere uno «scarto» di rappresentatività tra l'analisi
dei rapporti colonici contenuta nei canti e le conclusioni di tono in qualche modo anticontadino e
soprattutto beffardamente oltraggioso nei confronti della famiglia colonica.
Si può congetturare che, nell'appropriarsi dei canti, i mezzadri intendessero esprimere la
consapevolezza della loro profonda subalternità, ma l'ipotesi non soddisfa.
La questione va forse risolta considerando la provenienza dei canti e l'uso che di essi
faceva il mondo contadino, spostando l'analisi dal loro contenuto al loro uso.
S'è detto della provenienza di questi componimenti dal repertorio dei cantastorie; questi,
certamente, non appartenevano al mondo contadino, spesso venivano dalla città o dai paesi più
importanti delle zone rurali. Tra le loro «storie» molte erano quelle che avevano un contenuto
anticontadino e antifemminile e che si inserivano in quel genere molto diffuso della «satira
contro il villano» e in quello, parimenti tradizionale, della satira contro le donne, che è il genere
classico dei canti di osteria.
Visti sotto questa luce, i due canti citati, e soprattutto quello di Bistone, ci danno la
possibilità di leggere l'ideologia urbana anticontadina, del cantastorie, che si rivela nel modo con
cui descrive il contadino, incapace di avere dignità e orgoglio per ribellarsi a certi soprusi, o
addirittura pronto ad offrire la propria moglie al padrone in cambio di un tenore di vita migliore.
Ma se questo fosse il reale segno ideologico dei nostri canti, bisogna pur notare che,
nonostante i toni sarcastici e sprezzanti nei loro confronti, i contadini hanno fatto largamente uso
di questi componimenti durante le veglie, nelle pause di lavoro, in tutte le occasioni in cui
l'attività espressiva era caratterizzata dalla ripetizione delle stesse «storie», degli stessi canti,
degli stessi indovinelli. Nelle occasioni, dunque, in cui, assumendo il canto (il racconto, o la
12 D. Carpitella, Musica, cit. p. 17.
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recitazione) un carattere estremamente formalizzato, non aveva più importanza il testo ma il
meccanismo di composizione del canto e la sua esecuzione; era cioè l'opposizione tra due
persone-elementi ed il suo sviluppo tematico in canto ad assumere il ruolo centrale, rispetto al
contenuto ideologico.
Per un motivo anche più nettamente formale i contadini potrebbero avere accettato un
canto come quello di Bistone: il testo, come s'è già detto, veniva eseguito sul vivacissimo modulo
musicale del trescone; si può, quindi, ipotizzare, senza andare molto lontano dal vero, che il
canto era funzionale alla danza, specialmente quando, in assenza di un organetto o di un altro
strumento musicale, si ballava seguendo il canto accompagnato dal ritmico battere delle mani (il
che per il trescone accadeva frequentemente). Anche in questo caso, dunque, il testo della
canzone non assumeva quel valore e quei significati che invece balzano all'attenzione del lettore
moderno.
Non si può infine dimenticare che tutti i prodotti della cultura popolare tradizionale si
qualificano per il loro peculiare carattere iterativo che, da una parte, riconferma le cose già note,
dall'altra, offre all'esecutore la possibilità di mettere in evidenza le sue capacità espressive
attraverso tutta una serie di variazioni “stilistiche” personali.
Si può quindi provvisoriamente concludere che nei canti esaminati c'è una prevalenza
ideologica paesana e urbana, pur assai vicina alla realtà rurale, e che l'appropriazione contadina
di questi canti è dovuta ad una accentuazione dell'interesse formale poetico-oppositivo o ritmico.
Quest'ultimo fenomeno, pur non permettendo di eludere del tutto l'ideologia soggiacente, la
faceva diventare marginale e attribuibile alla situazione «individuale» dei personaggi del canto
più che a quella collettiva dei contadini. Allo stesso modo, il comportamento di Annina e di Rosa
era sentito più come luogo comune che fa scattare il meccanismo della risata che come umiliante
ammissione di subalternità.
3. Anche il terzo canto, che ha avuto larga circolazione e diffusione in tutta la Toscana tra
la fine dell'800 e i primi del '900, proviene dal repertorio dei cantastorie13; si tratta del Lamento
dei contadini o Storia dei contadini, di cui si danno qui di seguito alcune quartine14:
Se mi state a svoltare, o cittadini,
vi canterò la storia dei contadini,
che giorno e notte noi si lavora
e non abbiamo di riposo un'ora.
Giovani e vecchi siamo tutti armati
che si sembra tanti soldati:
chi con la zappa, chi col piccone,
chi con lo zaino sul groppone.
Si va con la speranza della raccolta,
si spera sempre sarà di molta:
ma con la ruggine e la brinata
ecco la vita bell'e disperata.
13 Riprendiamo questa notizia cronologica da G. Vettori, Il folk italiano. Canti e poesie popolari, Roma 1975, p.
407, il quale riporta del componimento una lezione che presenta lievi varianti rispetto al testo da noi raccolto.
Un'altra lezione si trova in D. Carpitella, Musica, cit. p. 66.
14 Il canto mi è stato fornito da Elio Guerrini, per il quale cfr. nota 8.
12
Quando poi la faccenda è fatta,
quel po' di grano che s'arraccatta!
E poi viene la battitura
E tutti corrono con gran premura.
Il primo frate che vien sull'aia
saluta il capoccia e la massaia,
e poi a sedere si mette al fresco
e chiede il grano per San Francesco.
Poi c'è la monaca con la sacchetta,
lei vole il grano per santa Lisabetta;
per mantenere tutto il sistema
al contadino la raccolta scema.
Poi c'è il sensale con la bugia
che più di tutti lo porta via,
e con la scusa di veder la stalla
vole anche il fieno per la cavalla.
Poi c'è il dottore e il veterinario,
il fabbro, il sarto e il calzolaio,
la levatrice ed il becchino:
son tutti ad arrestalla al contadino.
E dopo tutte queste persone
la mezza parte tocca anche al padrone;
e per dirvela allora lesta lesta:
a noi contadini nulla ci resta!
Se consideriamo che la Storia dei contadini, Pasquino e il padrone e probabilmente anche
Bistone hanno avuto una circolazione contemporanea, possiamo rilevare fra i tre componimenti
una discrepanza netta, se non nei contenuti, almeno nel tono. Se, infatti, la denuncia delle
ingiustizie sociali è identica in tutti e tre i canti, l'ironia con cui nella Storia si guarda alla propria
condizione e con cui vengono descritti i rappresentanti della classe dominante segnala
l'affacciarsi di una coscienza nuova e di una volontà di lotta prima inesistente.
È evidente che non si può parlare per questo di trasformazione della coscienza politica e
sociale dei mezzadri; si dà però il caso che proprio negli anni a cavallo tra 1'800 e il '900 la
situazione delle campagne toscane risente dell'influenza delle prime organizzazioni sindacali
contadine e dei primi scioperi mezzadrili15. Tutto ciò è presente nel canto o, per meglio dire, nel
tono consapevolmente ironico con cui si parla della propria sorte.
I tre documenti esaminati presentano, dunque, una coesistenza di strati ideologici diversi,
15 In una quarta lezione, molto diversa anche musicalmente, raccolta da Dodi Moscati nel Casentino (cfr. disco
Cetra n. 40, LPP 291, Ti converrà mangiare i' pan pentito) si trova una quartina che documenta i primi passi verso
l'organizzazione po-litica e sindacale: «Ma i' partito socialista / ai contadini gli aprì la vista, / molti si sono
organizzati / e più non credono né a preti e frati ».
13
che si può spiegare sia considerando il carattere formalistico dei canti e il loro uso nella società
contadina, sia tenendo presente che una tale coesistenza è tipica di quasi tutta la cultura
folklorica. Infatti, è possibile riscontrare lo stesso fenomeno in altre attività espressive
fortemente formalizzate, come la drammatica popolare, in cui hanno circolato e si sono diffusi
contemporaneamente testi di segno ideologico diverso, se non addirittura contrapposto. E’ il
caso, per esempio, dei Maggi e dei Bruscelli tratti dai Reali di Francia o dalla Bibbia e
caratterizzati dalla presenza di situazioni metatemporalizzate e di astratte ideologie moralistiche
(il Bene trionfa sempre sul Male), i quali sono stati rappresentati negli stessi anni e nelle stesse
zone geografiche insieme con quelli tratti, invece, da vicende storiche contemporanee, in cui c'è
spesso, il riflesso di una più moderna coscienza politica e sociale16.
Il quarto ed ultimo componimento, che ci proponiamo di esaminare, è una canzone a
contrasto, nata e diffusasi in un altro contesto storico, quello degli anni del secondo dopoguerra.
Nel contrasto non solo è cambiato il tono dell'espressione, come era avvenuto nella
Storia dei contadini, ma anche il contenuto, che porta i segni del nuovo clima venutosi a creare
con la Resistenza, con la ripresa della vita politica e sindacale e soprattutto col riemergere della
lotta di classe dopo vent'anni di repressione:
Mezzadro: Buongiorno, signor padrone17
sono venuto a salutarlo.
Podere non mi rende,
cerco di abbandonarlo;
lavoro giorno e notte
soltanto per mangiar,
gli consegno le chiavi,
lo venghi a lavora'!
Padrone: O vile contadino
e privo di pudore,
'bbandoni il mio podere
perché sei un gran signore:
hai fatto una bella macchina
e vino a volontà
e compri un appartamento
vicino alla città!
Mezzadro: O senta, signor padrone,
so' un omo rovinato,
se sto nel suo podere
divento un disgraziato!
Ci ho il bimbo che va a scola
e ha voglia di studia':
16 Si veda, ad esempio, in R. Palmarocchi, I maggi, relazione al I Congresso di Etnografia Italiana, Perugia 1912, il
Maggio L'emigrante tradito dal prete, composto sul finire dell'800, in cui vengono affrontati i problemi sociali
dell'emigrazione, non senza qualche punta di anticlericalismo di provenienza socialista. Questo Maggio avrebbe
fornito poi la trama ad un Bruscello del Chianti senese, L'emigrante, rappresentato intorno agli anni Venti del 900.
Per ulteriori notizie su questo problema si rimanda alla bibliografia citata nella precedente nota 5.
17 Il canto è stato raccolto ad Acquaviva di Montepulciano nel 1976. L’informatore era S. Marchetti, per il quale si
rimanda alla nota 10.
14
dicesti ci ha il podere,
lo venghi a lavora'!
Padrone: Nel venti e nel ventuno
i contadini eran più boni:
parlando dell'agoìsimo 18
faceven dell'affezioni;
lavoravan giorno e notte
con forza e con ardor,
ora 'n sete contenti,
fate tutto coi motor!
Mezzadro: Nel venti e nel ventuno,
sia per questo sia per quello,
allora l'adopravi
un antico manganello.
Se nel settantasei 19
Ventuno non è più,
allora il manganello
qui non esiste più!
Il contrasto segna uno stacco netto con il passato; ciò non vuol dire che Pasquino e il
padrone, Bistone e la Storia dei contadini non si cantassero più. Viceversa, continuava a
verificarsi in quegli anni il fenomeno della coesistenza di strati ideologici diversi che abbiamo
visto essere tipica della cultura folklorica. L'emergere, però, di una coscienza di classe nei
mezzadri, e nei contadini in genere, incide maggiormente sull'attività espressiva. Non è un caso
che canti di contenuto similare comincino in quegli anni a circolare con più frequenza in tutta
Italia: il cantastorie bolognese Marino Piazza, per esempio, è autore di un contrasto intitolato I
patti agrari, in cui la situazione è identica a quella raffigurata nel contrasto toscano; addirittura,
alcuni versi hanno quasi le stesse parole:
Lavorare ora in campagna
non ti bagni di sudor,
le grosse fatiche
le fai tutte col motor20.
La nuova coscienza sociale si riflette anche nella drammatica popolare. Le forme teatrali
del Segalavecchia e del Bruscello veicolano, oltre a quelle tradizionali, nuovi messaggi di
carattere politico.
In un testo di Segalavecchia, rappresentato in quel periodo a Pienza, il testamento della
«vecchia» ha il seguente tenore:
Lascio ai padroni dei poderi un bicchiere di olio di ricino da prendere avanti la colazione per
smaltire la bile che a loro entrò nel cuore per il Lodo De Gasperi...
18 agoìsimo: «egoismo».
19 Settantasei: l’informatore ha attualizzato il canto, che risale senza dubbio al decennio 1946/1956.
20 Il contrasto è riportato da R. Leydi, I canti popolari, cit. pp. 217-220.
15
In un altro, proveniente da Montefollonico (Siena), la «vecchia» viene segata perché,
durante l'occupazione tedesca, aveva tradito due partigiani. Gli ultimi mesi di Mussolini e del
fascismo diventano argomenti di un Bruscello rappresentato a Monte San Savino21; infine la
Guerra di Liberazione è il titolo e il tema di altro Bruscello rappresentato nel 1948 in molti centri
della Val di Chiana senese e utilizzato per la campagna elettorale a favore del Fronte Popolare22.
A questo punto ci sembra lecito poter affermare che, nonostante la persistente circolazione di
contenuti tradizionali, nell'espressività popolare si manifestava, negli anni del secondo
dopoguerra, ormai nettamente l'evoluzione della coscienza dei mezzadri. E’ questo un segno che
indica la profondità con cui, in poco più di un cinquantennio, era penetrato anche nel mondo
contadino il progetto di una nuova società. Ma è soprattutto la testimonianza della consapevolezza con cui i mezzadri affrontarono le lotte, che avrebbero contribuito allo sgretolamento
dell'istituto quasi feudale della mezzadria.
4. Fino a questo momento abbiamo esaminato i canti privilegiando una lettura
«contenutistica», per scoprirvi il riflesso della coscienza mezzadrile, senza però tener conto del
contesto storico-sociale in cui si collocavano.
In effetti, mettere in rapporto immediato le vicende storiche e la condizione mezzadrile
con certe forme di espressività, come il canto di Bistone, non sarebbe stato possibile, date le
caratteristiche dei primi tre documenti presi in esame.
Pur tuttavia, ci sembra necessario qui ricongiungere il contenuto «ideologico» dei canti ai
processi storico-sociali che hanno interessato la Toscana mezzadrile dalla fine dell'800 sino al
1950
circa.
Quali fossero le condizioni di vita del mezzadro negli ultimi anni del secolo scorso risulta
abbastanza chiaramente dal contrasto di Pasquino e il padrone e dalla canzone satirica di
Bistone. La fame, la miseria, lo sfruttamento, i debiti erano i nemici di ogni giorno; il padrone era
ancora il signore feudale, che disponeva della vita dei suoi subordinati, dando loro la possibilità
di sopravvivere quando ne aveva voglia e minacciando il licenziamento a chi protestava.
Erano anni in cui la borghesia toscana imponeva al colono nuove prestazioni gratuite,
come quelle previste dai «patti di fossa», e nuove spese dovute all'introduzione di colture
industriali, per le quali erano necessarie macchine e prodotti chimici. Permanevano, tuttavia, le
vecchie clausole: la ripartizione delle spese e dei prodotti era al 50 per cento, ma il valore delle
bestie in stalla era stimato dal padrone, che l'alzava e abbassava a suo arbitrio; la semente doveva
essere restituita al doppio; non si poteva tenere che un certo numero di animali da cortile; se si
allevava il maiale, bisognava corrispondere al padrone, che veniva a pesarlo quando s'amrnazzava, una somma pari al valore della carne. E ancora c'erano i dazi: i capponi a Natale, le
galline per carnevale, i galletti ad agosto, un certo numero di uova al mese, un carro d'erba e uno
di paglia, la ghiaia per le strade, ecc. E ancora le corvées: il trasporto gratuito dei prodotti alla
casa del padrone, la mano d'opera gratuita per la manutenzione delle strade del podere, ecc. E poi
il divieto di recarsi in paese, o alle fiere e ai mercati (a ciò non era obbligato il capoccia), di
frequentare le osterie, di sposarsi senza il permesso del padrone; il rischio, infine, di essere
licenziato in tronco «qualora il Colono si desse a vita scostumata e scandalosa, sia per cose
21 Il Bruscello, col titolo Storia di Mussolini, è stato riproposto nello spettacolo di Castri-Jona-Liberovici, Per uso
di memoria, scena 16, pubblicato in «Sipario», XXXI, n. 359, 1976, pp. 77-78.
22 Per questi testi del teatro popolare si rimanda ancora una volta a P. Clemente -M. Fresta, Lo spettacolo popolare,
cit. Il Bruscello La guerra di Liberazione è stato pubblicato poi in V. Pandolfi, Copioni da quattro soldi, Firenze
1958, pp. 97-103, ma senza il nome dell'autore, che è Candido Berti di Abbadia di Montepulciano.
16
contro la morale, sia contro la legge»23.
Ma già nel 1884-85 le tensioni sociali fra i contadini erano sfociate nei primi grandi
scioperi di massa della Valle padana: nascevano le prime Leghe anche in Toscana, si
modificavano la coscienza e l'ideologia del mezzadro. Ormai il padrone non era più visto come il
signore feudale, ma come l'avversario di classe da battere; i coloni cominciavano ad avere la
coscienza che il loro sfruttamento serviva a mantenere il sistema dei padroni e dei parassiti;
cominciavano a scrollarsi di dosso quell'atteggiamento subalterno che era stato loro imposto
dalla classe dominante attraverso una fitta rete di iniziative pedagogiche e religiose per quasi
tutto il secolo XIX24.
Testimonianza indiretta di una tale situazione è, secondo Storia dei contadini, in cui
l'ironia su se stessi e sulla propria condizione è il segno premonitore di quanto sarebbe accaduto
da lì a poco.
Gli scioperi del 1902, che ebbero inizio a Chianciano e a Chiusi per poi diffondersi in
tutta la Toscana, resero i mezzadri della loro forza25. E infatti da quel momento in poi, il
movimento mezzadrile toscano raggiunse un elevato livello di combattività, che si manifestò
soprattutto nel primo dopoguerra, quando riuscì a strappare ai proprietari della terra un nuovo
patto colonico, che sanciva importanti conquiste: la giusta causa nella disdetta anticipata del
contratto, un annuale premio di produzione per le colture industriali, l'attribuzione di numerose
spese solo al padrone, l'esonero cune prestazioni servili; inoltre:
[ ...] la pratica del concordato collettivo toglieva ai proprietari possibilità di valersi della concorrenza
fra i contadini per imporre a proprio arbitrio patti individuali più pesanti 26
L'avvento del fascismo cancellò tutte queste conquiste, ma non spazzò via la coscienza
sindacale e politica dei mezzadri. Infatti, alla caduta del regime, i coloni ripresero le lotte,
disintegrando il contratto della mezzadria: tacitamente, fin dal 1943, i dazi non vennero più
pagati; poi attaccarono, tutti insieme, il padrone per l'abolizione delle prestazioni supplementari
del lavoro, per la ripartizione dei prodotti al 53 per cento, per la giusta causa nelle disdette, ecc.
Non erano battaglie sindacali soltanto, ma anche politiche: si lottava per «la terra a chi la
lavora» prima e per difendere la pace nel mondo poi; sulle aie si innalzavano bandiere rosse e
tricolori e se arrivavano i carabinieri «a spiccalla, noi si smetteva di tribbià, e noi fermi e
sciopero. Se 'un ci faceveno riappicca' la bandiera, 'un si tribbiava».
In un clima siffatto i mezzadri immettono, consapevolmente, nei loro canti e nelle forme
teatrali contenuti più vicini al loro nuovo modo di pensare e, soprattutto, più adeguati alle lotte
che conducevano per liberarsi della loro condizione di subalternità. E’ questo il periodo in cui si
cantano testi come quello del contrasto che abbiamo riportato per ultimo, e si rappresentano
Bruscelli e Segalavecchia ispirati alla lotta antifascista e partigiana.
23 La frase fra virgolette è tratta da G. A. Bastogi, Una scritta colonica, Firenze 1903, in cui l'autore illustra gli
articoli di un contratto mezzadrile «modello». Sui patti colonici si veda anche L. Radi, I mezzadri, cit., che riporta il
Regolamento della Fattoria di Brolio della famiglia Ricasoli. Per una visione più ampia e completa sulla condizione
mezzadrile nelle campagne toscane si vedano: E. Sereni, Agricoltura e mondo rurale, in Storia d'Italia, Torino 1972,
vol. I, I caratteri originali, pp. 231 e segg.; G. Giorgetti, Contratti e rapporti sociali nelle campagne, in Storia
d'Italia, Torino 1973, vol. V, t. 10 I Documenti, p. 175 e segg.; Id. Proprietari e contadini cit.; Id. Linee di
evoluzione delle campagne toscane contemporanee, in Capitalismo e agricoltura in Italia, Roma 1977, pp. 372-400
(nello stesso volume si trovano altri saggi sulla mezzadria parimenti rilevanti); C. Pazzagli, L'agricoltura toscana
nella prima metà dell'Ottocento, Firenze 1973.
24 Cfr. U. Carpi, Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento, Bari 1974, in special modo il capitolo IV.
25 Sullo sciopero di Chianciano si veda E. Ragionieri, La questione delle Leghe, cit.
26 G. Giorgetti, Linee di evoluzione, cit. p. 396.
17
Ma i contraccolpi padronali, favoriti dalla politica repressiva del centrismo, costrinsero i
mezzadri alla difensiva: la battaglia per una radicale riforma agraria si concluse così con una
sconfitta. Molti coloni riuscirono ad accedere alla proprietà della terra, altri divennero operai e
braccianti, altri ancora emigrarono: la mezzadria, a poco a poco, scomparve.
Dice un altro ex-mezzadro: «Io penso che sia stata la fine, come fine di una persona. Era
una schiavitù che non tornerà più».
(Tratto da Clemente, Coppi, Fineschi, Fresta, Petrelli, Mezzadri, letterati, padroni, Sellerio,
Palermo 1980, pp.161-185)