L`uomo che veniva da Messina di Silvana la Spina «italiana» Giunti

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L`uomo che veniva da Messina di Silvana la Spina «italiana» Giunti
L’uomo che veniva da Messina
di Silvana la Spina
«italiana» Giunti
http://narrativa.giunti.it
© 2015 Giunti Editore S.p.a.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – italia
Prima edizione: novembre 2015
Ristampa
anno
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Sugli occhi.
Per istam sanctam unctionem...
Maestro, finalmente siete arrivato!... Vi ho chiamato tanto
in questi giorni. Da quando sono stato male, dicevo con­
tinuamente: «Chiamatemi mastro Colantonio. Chiamate­
mi il mio maestro...». Ma adesso siete qui. Posso parlarvi
finalmente!
Voglio anzi raccontarvi ogni cosa di me e di questi anni
in cui siamo stati così lontani.
la vita del resto è un fiume che ci trascina. Potremmo
persino scomparire nelle sue acque se qualcuno non si im­
mergesse con noi.
E io in questo viaggio ho scelto voi.
l’uomo più misterioso, il pittore più indecifrabile – per
tutta la vita ho cercato di imitarvi, fin da quando vi vidi per
la prima volta a napoli.
Ma ora siete qui, questo conta.
il prete mi ha appena passato l’olio santo sugli occhi. Ho
sentito le sue dita sulle palpebre, la densità del liquido sulla
pelle colare lungo il collo...
«Perché con gli occhi hai peccato, il Signore ti perdoni»
mormora piano.
Come posso aver peccato con gli occhi, quando per un
pittore gli occhi sono il suo strumento di lavoro?
Ma non ho avuto la forza di dirglielo.
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Sto morendo del resto, maestro. lo so bene che sto moren­
do. Eppure ancora ieri mia moglie mi chiedeva: «Come ti
senti, marito?».
Ho risposto meglio, ma non era vero. avevo la gola secca
e bruciavo di febbre. Un sudore acido ammorbava l’aria...
E mi mancava il respiro.
Ma non volevo mostrare la mia paura. Perché da quando
ho dettato il testamento non sono più al sicuro qui... Cre­
devano che spartissi la roba tra loro, ma si sbagliavano. Ho
lasciato tutto a mio figlio iacobello invece...
Ma c’è un’altra eredità di cui non sanno. Parlo di una
tavola, maestro. Un’annunciata.
indossa un mantello azzurro e i suoi occhi sullo sfondo
buio guardano con sicurezza... Sono io che l’ho voluta così.
Con quella sfrontatezza di chi guarda in faccia Dio o il suo
angelo... Perché chiunque sia, lei lo ferma con un gesto del­
la mano. Volevo tutta l’attenzione su quella mano, maestro.
È la mia più bella annunciata, credetemi. È l’oggetto più
prezioso che ho portato con me da Venezia.
E adesso l’affido a voi, maestro. Saprete cosa farne.
Del resto è l’unica immagine che mi resta di Griet. l’amo­
re della mia vita, l’unico essere per cui ho lottato, penato,
sofferto... non c’è momento che io non pensi a lei. Cre­
detemi...
Persino adesso la sua immagine è inchiodata nel mio
cervello. i suoi occhi, il suo sorriso si sono inchiavarda­
ti come bulloni fin dal primo sguardo... «Griet!» sospiro.
«Griet!» urlo nei sogni.
la sua morte è stata la mia morte. la sua sorte la mia
sorte... Sì, maestro, è stato per lei, per non lasciarla nem­
meno dopo morta, che sono tornato a Messina – non per
la peste come credono.
lei, la mia annunciata, la mia Vergine leggente mi ac­
compagnerà sull’orlo dell’abisso eterno.
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Ma qui nessuno sa di quest’amore disgraziato... anche
se non fanno altro che chiedere: «Che portasti, marito?»,
«Figghiu cu c’era ccu tia?».
indagano, capite, mastro Colantonio? non fanno altro
che chiedere da quando mi hanno trovato...
È stato quel ragazzino ad avvertirli, Giovanni Salvo, il figlio
di mio fratello Giordano.
Quel ragazzo ha l’occhio acuto e, come dico sempre,
potrebbe diventare un buon pittore.
È stato lui che mi ha trovato al porto in quello stato. la­
cero come un mendicante, miserabile come un accattone,
pieno di pulci e la faccia tutta rogne...
«Zio!» urlò. Subito anche altri si fecero attorno. «Che
fu? Che successe ad antonello il Messinese?» si chiedevano.
«Cosa l’ha ridotto in questo stato?»
non ho mai risposto alle loro domande.
Che dire poi? Ognuno è un mistero persino per se stesso,
figurarsi per gli altri... Ma voi che siete pittore, capirete.
aiutatemi a non perdere il controllo proprio adesso.
Voglio guardarlo in faccia, l’eterno nemico, l’irriducibile
avversario di ogni moribondo...
Di cosa muoio, maestro? Di una malattia antica, che da
tempo mi perseguita e mi opprime. i medici la chiamano
consunzione.
anche se solo un’ora fa ho sentito il mio che bisbigliava
di essere prudenti con me. Che potrei persino essere am­
malato di peste.
«Peste?! Perché dovrebbe essere peste, magister?» saltò
su mia moglie.
non ho capito la sua reazione. la peste invece sarebbe
una possibilità, venendo da Venezia. Ma so bene che il mio
male è altro.
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Già varie volte mi è accaduto, ma ho sempre ripreso le
forze.
E dopo qualche giorno di febbre mi sono persino rimes­
so in piedi a lavorare.
il corpo umano è un edificio così strano e misterioso, mi
dico sempre, che non c’è bisogno di essere un cerusico per
averne contezza. E ogni uomo lo sente quando il peggio è
passato.
Ma stavolta...
«Forse ci vorrebbe un’altra cura» ha commentato il me­
dico.
troppo tardi. Ormai una presenza oscura nell’aria.
Qualcosa mi tira giù. annegherò in quel mondo buio? Op­
pure riuscirò a risalire? Credetemi, maestro, là in fondo c’è
qualcosa o qualcuno che mi guarda.
E poi quel rumore... Mi pare di avere un cavallo che
galoppa nella testa. a ogni colpo di zoccolo sobbalzo.
Fatelo smettere, vi prego.
Oppure siete voi quel fantasma. Ditemi, siete voi?
Strano. non siete mutato affatto da allora. la vostra fac­
cia è ancora severa, l’occhio acuto... Solo gli zigomi si sono
fatti più asciutti, scarniti quasi.
Quante volte avrei voluto disegnarvi così, mentre ci
guardavate lavorare, ma voi l’avete sempre impedito.
«non sprecate i colori» dicevate. «i colori devono essere
sempre al servizio della committenza.»
Come se si potessero sprecare poi, lo sapete anche voi
che i colori sono nella nostra testa.
Per un pittore anzi ogni cosa è colore, una casa, un albe­
ro, una donna, un bambino... la vita stessa con le sue albe
e i suoi tramonti...
Quindi niente più schermaglie tra noi. niente menzo­
gne. Solo la nuda verità.
anche voi avevate del resto i vostri segreti. Ma li tene­
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vate stretti per paura che fuggissero... Solo gli occhi non
potevano nasconderli. Quegli occhi, acuti e rapaci come
un uccello, erano la vostra finestra spalancata sull’abisso.
lasciateli andare adesso... Fate come me. l’acqua è lì ai
vostri piedi. E ora scivola sotto i ponti, sciaborda, sguazza
e turbina per diventare schiuma...
Da ragazzo stavo ore a guardare quelle onde, che poi
sparivano al largo...
Ore e ore così, fermo su quel braccio di costa che chiude
il porto, mentre il fragore della marea cullava i miei sogni
di grandezza.
inghiottirà quell’acqua anche me? E con me il ricordo di
Griet? Potessi risparmiarmi almeno questo...
È vero, ho avuto altre donne. Ma quelle le ho avute per
avidità. Per non dire lussuria.
E questo so bene è peccato. la Chiesa condanna infatti
la lussuria, ma poi dimentica che per un pittore tutto è lus­
suria, per un pittore ogni gesto è carnale... anche il semplice
gesto del dipingere.
Per un pittore la pasta del colore è carne viva, sangue,
dolore e gioia, muco e mestruo... Quando la spande prova
un brivido, il membro si inturgida...
Ma questo lo sapete già. Siete stato un pittore anche voi...
E avete provato gli stessi appetiti.
Per questo voglio affidarvi il tempo che mi rimane...
Chiunque voi siate, uomo in carne e ossa o semplice fan­
tasma.
avete sentito? la campana di San Francesco sta suonando.
Sono i Vespri, maestro. la luce si spegne... il sole tramonta
sul mare scivolando come su una lastra d’olio.
Ma prima che si spenga, devo aver fatto pace con me
stesso e i miei ricordi...
Ho deciso che li leverò a uno a uno dal sacco della me­
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moria, come da bambini levavamo le lumache cotte dal loro
guscio.
Erano la carne di noi poveri le lumache. Una festa quan­
do venivano messe in tavola. allora chiamavamo i parenti,
i vicini... E tutti si radunavano intorno, con gli occhi sber­
luccicanti di desiderio...
Solo allora, tra tutte quelle facce accese, mio nonno co­
minciava a raccontare la favola antica...
«C’era ’na vota u re dei Babaluci ch’avia ’na figghia ca si
voleva maritari...»
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la verità è che non sono nato pittore, maestro – anche se
poi tutti i miei ricordi nascono da immagini.
Questo è uno dei più antichi. È il giorno della partenza
del re d’aragona.
Per le strade c’è tripudio di colori. Carrozze che sfer­
ragliano, muli, cavalli e mantelli di nobili che svolazzano
insieme agli stracci dei poveri. Un accattone grida: «la ca­
rità... facitimi la carità nel nome di alfonso d’aragona».
in ogni caso Messina è contenta della sua partenza. la mia
città non ama quel re che l’ha sommersa di tasse, non ama
la sua corte prepotente... Ma io non so nulla di tutto questo.
inoltre proprio quel giorno in casa nostra c’è dolore –
devo avere pochi anni, ma questo lo ricordo bene.
È morto un fratello molto piccolo, perché non hanno
chiamato nemmeno il prete, ma ci sono ugualmente i ceri
attorno al cataletto, sul centro un piccolo cadavere, bian­
co e biondo, mia madre grida: «Figghiu, figghiu, figghiu».
Sento intorno odore di incenso e di cera, un odore che
in quel momento mi penetra nel cervello, vi si annida... E
da lì non si schioderà più. Ma improvvisamente qualcuno
mi leva da quel mondo e da quegli odori e mi porta fuori.
Eccolo adesso il re. Una figura minuscola sulla tolda della
nave. la gente lo fissa dalle barche, dalle finestre, dalle porte
dei negozi, dove i mercanti vendono la seta di Messina, la
lana lombarda, la maiolica olandese...
Gli araldi suonano le trombe tra vessilli e bandiere, dal
Palazzo sparano colpi di cannone, la gente fugge oppure
grida: «Evviva, viva il re nostro che va a napoli».
Mio nonno che mi accompagna però dice cose amare
di quel re. Dice che quel disgraziato ha messo troppe tasse
e balzelli per armare l’esercito che va a combattere gli an­
gioini a napoli. Quel re non ha dato a Messina nemmeno
le libertà e il riconoscimento per le libere maestranze...
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«È nu fetentissimo» insiste mio nonno... «Ma lu pisci, si
sa, fete dalla testa.»
io non capisco molto di quel che dice. So solo di vivere in
una città con un grande porto sulla punta dello Stretto, oltre
cui continuano le guerre tra gli aragonesi e gli angioini.
Ma il motivo delle guerre non lo conosco, anche se mio
nonno ne parla di continuo. Mio nonno racconta scene che
mi fanno piangere e rizzare i capelli in testa... infanti sgoz­
zati e abbruciati dalle fiamme. Femmine violentate. navi
assaltate dai turchi o dagli uscocchi e marinai che ardono
come torce.
«Ma che ne sai tu, antoniuzzu...» dice scuotendo la testa.
È vero, non so niente. Mentre mio nonno, don Michele,
o zzu Michele, come lo chiamano, è sempre al corrente di
ogni cosa.
Gran viaggiatore e proprietario di una galeazza, mio
nonno andava spesso per mare. E al suo ritorno mi entu­
siasmava con i suoi racconti.
Forse perché mio nonno è più che altro un grande fa­
volatore, e parla spesso di viaggi fino in capo al mondo,
quando nella realtà non era andato oltre napoli o Marsiglia
– una volta sola in Oriente.
i suoi ritorni poi sono così spettacolari che superano
persino i suoi racconti.
Mio nonno era così alto e possente, maestro, che sem­
brava un re quando scendeva dalla nave con la sua guar­
nacca col bavero di lupo... E a quella vista tutti accorrevano.
«Zzu Michele, tornastivu? Dove foste stavolta, don Mi­
chele?»
E la sera poi... tutto un susseguirsi di visite. Venivano i
vicini, i parenti, gli amici con le casseruole che traboccava­
no cibo e il vino scorreva fino al tocco dell’avemmaria che
arrivava dalla campana del convento.
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Ma c’era sempre qualcuno in quelle sere che chiedeva
a mio nonno: «Dov’è Giovanni? Unni è vostro figghiu?».
Ma la risposta era sempre la stessa: «Me figghiu nun c’è...».
Mio padre infatti non assisteva mai ai festeggiamenti.
Mio padre, Giovanni degli antoni, non amava mio nonno
e, da quel che sapevo, il suo era un disamore ricambiato.
Mio padre odiava il mare, si diceva, figurarsi comandare
una galeazza.
Era stato l’altro figlio, il secondogenito, a seguire mio
nonno. Di conseguenza era stato quello il più amato, la vera
pupilla dei suoi occhi.
almeno fino a quando a quindici anni non era morto
per una febbre fulminante.
Da allora mio nonno non volle più figli con sé nei suoi
viaggi, ma pretese a qualunque costo che il primo nipote
ereditasse il nome del morto. antonius de antonii, così
volle mi chiamassi.
Ho insomma il nome di un morto molto amato, ma non
credo che la cosa mi abbia giovato nella vita.
Quel nome si portava appresso troppe speranze non
esaudite, troppi sogni. Quel nome è stato un’ombra sulla
mia vita. E forse al fondo il segno di una sorte maligna.
Mio padre invece fu messo a imparare il mestiere da un
mastro marmorario.
E si legò a tal punto al suo padrone da sposarne l’unica
figlia e da ereditarne persino la bottega.
non ho mai saputo quasi nulla di questo nonno – mia
madre era una donna silenziosa.
ne avevo dedotto che la sua presenza in questo mondo
doveva essere stata di quelle col passo leggero.
Solo da grande ho saputo che era un uomo rustico e ven­
dicativo, che pretendeva più di quello che dava e che per­
sino in punto di morte non volle perdonare i suoi nemici.
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in tal caso mio padre, insieme alla bottega, deve aver
ereditato da lui il suo malo carattere.
È stato quel carattere a metterlo in attrito con mio non­
no? non so cosa rispondere. non sono mai riuscito a capire
del tutto mio padre, ma so che è sempre stato un uomo
rancoroso.
Di lui non ricordo un sorriso, un gesto di tenerezza. Quan­
to al mio lavoro, credo che lo abbia semplicemente detestato.
Mio padre ha fatto di tutto per impedirmi di diventa­
re pittore, maestro, mi ha picchiato, insultato, schernito
e denigrato... e quando non ha potuto fare altro, ha detto
male di me.
Persino adesso incolpa il mio mestiere di pittore della
mia malattia. Dice che per quel mestiere sono andato vaga­
bondo, per quel mestiere non ho avuto pace...
«Malidittu tu e la vogghia di pittare figure...» mi ha detto
quando mi ha visto riportare in casa dal porto mezzo mor­
to. Poi ha preso la berretta che tiene sempre in testa e l’ha
buttata a terra rabbioso.
«Malidittu...» ha insistito.
Quasi che morire non fosse umano, ma vendetta della
sorte per non aver seguito i suoi insegnamenti.
Del resto mio padre, Giovanni degli antoni, non accet­
tava molte cose. Era questo il suo limite.
Ma io dico che il suo limite era anche la mancanza di
ambizioni, di sogni, di speranze di una riuscita nel mon­
do... Forse è questo il motivo se alla fine ho sempre pre­
ferito mio nonno.
Ricordo primavere dolci come frutta sciroppata, inverni
gelidi, estati caldissime passate sulle banchine del porto in
attesa del suo ritorno. Ricordo che attraversavo di nascosto
l’orto dietro casa, dove una vite s’arrampicava e riempiva
l’aria autunnale col profumo dell’uva matura.
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Risento i pianti di mio fratello che voleva venire con
me, ma io invece corro, corro per la discesa che da via dei
Sicofanti porta alla rada dove le navi si fermano.
Oggi infatti mio nonno tornerà – lo so, lo sento, anzi l’ho
sognato. Uno di quei sogni strani che al risveglio comprendi
tutto d’un fiato... Ma che danno anche adito alla gente di
fare mali pensieri.
«Come faceva vostro nipote a sapere che oggi arrivastivo,
don Michele?» chiedeva sempre qualcuno.
«Sapillu» rispondeva lui.
a me invece la cosa metteva paura. «nonno, voi pensate
che sono fatato?» chiedevo. «Pensate che le Belle Signore
mi hanno fatto la magherìa?»
«Zitto e cammina» mi diceva lui irritato. «Da dove ti
vengono certi pensieri, scimunito.»
Ma adesso so che c’era una ragione. Mio nonno ospitava
spesso dei giramondo. Compagni di viaggio e di avventu­
ra. Gente che aveva incontrato in altri porti, con cui aveva
bevuto, fatto affari o che lo aveva per una notte divertito.
tra questi una volta ci fu un francese, un certo Jacques,
un uomo con la faccia coperta di pustole che amava molto
raccontare.
Fu lui a parlarmi di quella ragazza francese che aveva
visioni e sentiva voci. Si chiamava Jeanne di lorena, disse.
Mandata da Dio per convincere il Delfino di Francia a
fare guerra agli inglesi... il re non solo le aveva creduto, ma
le aveva dato persino un esercito. Che quella guidò vestita
da uomo, fino a cacciare quasi tutti gli inglesi dalla terra di
Francia.
«Una ragazza vestita da uomo?» chiedevo stupito. «Ma
non è peccato per una donna vestirsi da uomo?»
«infatti è stata bruciata come strega» disse lui.
«E il re?»
«Chi ha voglia di legarsi a una strega, per quanto questa
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ti abbia messo sul trono? i re alla fine usano semplicemente
i sudditi per le loro necessità, mon enfant...»
la storia mi fece molta impressione. Ricordo che non
dormii per tre notti di seguito dopo averla ascoltata – e se
dormivo, vedevo nei sogni la Pulzella correre sul suo cavallo
come avvolta da una fiamma... Mi svegliavo allora urlando
in mezzo all’odore bruciato della carne morta.
E se fossi anch’io uno stregone? mi dicevo. non sentivo
forse le voci? non mi svegliavo talvolta nel sonno come se
qualcuno mi avesse parlato... E non sognavo esattamente il
giorno e l’ora in cui mio nonno sarebbe tornato a Messina?
Quando mio nonno seppe la storia, cacciò il francese in
malo modo chiamandolo malacarne – ma alla fine anche
lui mi guardò per qualche tempo con sospetto.
Mia nonna invece mi prese da parte parlandomi della
tentazione.
«la tentazione è dappertutto, figghiu miu. Guardati e
non parlarne mai.»
aveva ragione. Erano tempi strani quelli, tempi in cui le
ragazze venivano possedute dal Diavolo o sognavano Ma­
donne che vomitano rose.
Un vento nuovo era infatti arrivato a Messina. lo chia­
mavano il vento dell’Osservanza e a portarlo erano stati
alcuni frati francescani.
Era un vento che parlava dell’inferno e dei suoi dolori,
delle piaghe di nostro Signore, dei suoi tormenti sul Cal­
vario... Forse puzzava di troppo rigore, ma a Messina non
si era mai visto niente del genere e affascinò tutti quanti.
inoltre questi frati parlavano contro l’arroganza della
Chiesa stessa. Di abati che si davano alla fornicazione, di
vescovi usurai, di monaci al servizio della nobiltà prepo­
tente.
Erano di solito monaci barbuti, con la chierica molto
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spesso mal rasata, la tonaca miserabile tenuta da un cinto di
corda, la faccia corrucciata. Ma quando parlavano la gente
restava a bocca aperta...
Mai a Messina si erano sentite parole come quelle! la
follia dei peccati capitali, i vizi, le ipocrisie del popolo di
Dio... Quell’abate aveva una concubina, il priore dei bene­
dettini si crogiolava nel vizio della gola, il vescovo stesso
era in fama di sodomia...
la gente correva a frotte alle loro prediche. Faceva dona­
zioni, metteva i monaci nei testamenti e per la prima volta
alcune signore scendevano dalle portantine e distribuivano
con le loro mani il pane ai diseredati.
«non mi piacciono» diceva invece mio nonno. «Saranno
i veri seguaci di san Francesco ma sono pericolosi... Già
altre volte dei monaci hanno portato lo sconquasso. Ma
qua mai... qua c’era il re, e non si muoveva foglia. Mentre
ora questi che vogliono?»
«nonno, predicano la carità e l’uguaglianza... Sono santi
uomini.»
«E da quando in qua gli uomini sono uguali? Sono ugua­
le io forse al principe di Valguarnera che tiene servi e cavalli
in casa sua? Cammino a passeggio col re forse? Guido i suoi
eserciti? Ma che vai dicendo, nicuzzu... Fissarie.»
Ma mio nonno non poteva impedire che noi andassimo
a sentire quei monaci... Senza scordare che era quasi sempre
in viaggio.
Così certe giornate, insieme a file di gente, sotto il sole o
sotto la pioggia, risalivamo la campagna fino al convento.
Entravamo nella chiesa in costruzione, ancora con il tet­
to aperto... Pioveva, troneggiava, chissà?
io non sentivo nulla, maestro. né pioggia, né sole. i miei
occhi erano solo pieni delle immagini delle fiamme inferna­
li... le mie orecchie piene delle urla eterne di usurai, ladri,
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assassini, mentitori, gente di malaffare, bestemmiatori e
sodomiti...
«tu, tu, tu...» allora urlava un monaco indicando qual­
cuno. «inginocchiati e confessa i tuoi peccati.»
Ma altre volte era il racconto di Cristo sulla Croce. allora
attraverso la loro voce dolente potevo vedere le percosse, la
corona di spine, il sangue divino che scorreva sul costato,
sulle mani, sui piedi... la gente attorno a me singhiozzava,
si batteva il petto per il rimorso dei suoi peccati, mia madre
e mia nonna piangevano a dirotto... e io?
Posso dire che in qualche modo è stata l’Osservanza dei
frati francescani a farmi pittore.
Del resto l’Osservanza era finita anche nei giochi dei fanciulli.
alcuni dopo un po’ giocavano a fare i frati che predicavano,
altri volevano essere i ricchi signori che si spogliano per dare
al povero, altri dicevano messe, altri facevano i fedeli... Una
sola, una ragazzina di manco dieci anni si dichiarò santa.
Si chiamava Smeralda ed era figlia di un mercante di la­
na, ma noi ragazzi la chiamavamo «la strega». Forse perché
sua madre andava in giro a piedi scalzi durante le proces­
sioni e vestiva sempre il saio francescano...
O forse perché Smeralda voleva sposarsi con Dio.
«E perché Dio ti dovrebbe maritare?» le chiedevamo
stupiti.
«Perché è lui che lo dice. non credete forse che Dio mi
parla?»
allora volevamo sapere se Dio le parlava anche di noi,
e lei come risposta diceva: «Sì, è così. Ho saputo infatti da
Dio che tu diventerai monaco, tu mercante come tuo padre,
tu assassino e finirai ai remi...».
a me solo una volta disse: «tu non so che diverrai, an­
tonello, perché vedo tutto buio quando chiedo di te».
non mi piacque la sua risposta. Per questo dopo quella
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volta mi unii agli altri, tirandole addosso pietre appuntite
o merda di cane. Oppure le urlavo come tutti: «Strega!
Strega!».
non contento un giorno la portai con me in campagna,
le dissi che l’avrei aiutata a trovare fiori speciali per l’altare
della Madonna... Ma in realtà con la speranza di perderla...
Ricordo che era un pomeriggio di primavera, i merli
saltellavano sui rami, nuvole pazze correvano nel cielo.
in campagna vagammo per ore, finché a un certo punto
arrivammo a uno stabbio, dove un pastore dall’occhio mal­
vagio stava governando le pecore... Quella vista mi allarmò.
temetti persino che ci rapisse e vendesse ai pirati – non
sarebbe stata la prima volta, sapevo.
l’uomo poi, quasi a giustificare la sua natura malandri­
na, era brutto e mancava di un occhio. «trasiti, picciriddi...»
ci disse, facendo segno alla stamberga.
Ma ecco, improvvisamente, le pecore smisero il loro be­
lare servile e corsero intorno a Smeralda, il cane si accucciò
ai suoi piedi.
il pastore che non capiva niente ci guardò spaventato:
«Cu siti? Cu è ’sta picciotta?».
non so cosa risposi. So però che guardai Smeralda. Ri­
splendeva come avesse attorno al viso una vampa di fuoco.
Gli occhi accesi, il volto splendente, il sorriso sopranna­
turale...
E questo ci salvò.
Da allora non ho più visto Smeralda.
Seppi poi che la famiglia l’aveva chiusa in casa per non
fare altri danni, che crescendo i fratelli la volevano sposare,
ma che lei invece era fuggita in convento...
So che, nascosta nei dammusi della badia, ancora oggi
continua a pregare e a martirizzarsi per la città – prega
anche per me, ho saputo...
Questo non mi dà nessuna soddisfazione. Vorrei che mi
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lasciasse in pace piuttosto. Che mi lasciasse morire come il
maledetto pittore che sono.
a quel tempo anch’io ero stato messo a far pratica presso
un artigiano – solo chi doveva farsi monaco continuava
nello studio, oppure chi doveva farsi dottore o notaro.
in tal caso sarebbe andato a studiare lontano, magari Pa­
dova o Bologna, per addottorarsi con l’aiuto di una speciale
sovvenzione della città.
E al ritorno noi figli di artigiani ci saremmo inchinati
al suo passaggio e l’avremmo chiamato dominus o magari,
all’uso angioino, messere.
noi invece saremmo rimasti al massimo col titolo di
mastro.
Mio padre per esempio era un mastro mazzolario – e
neppure dei più bravi. Ce n’erano migliori di lui, ma questi
spesso erano vagabondi, che non sottostavano alle regole
del cantiere. E se ne andavano all’improvviso lasciando il
lavoro non finito.
Mio padre aveva anche una sua squadra fatta da due ope­
rai e quattro apprendisti – tra questi ultimi c’ero anch’io,
che non avevo ancora dieci anni.
i più grandi si chiamavano Giovanni e andrea, e se­
condo l’uso consueto mio padre li adottò come lavoranti.
Dormivano con noi e mangiavano con noi, e per la gran
parte del giorno spaccavano pietre.
avevo dieci anni quando l’archimandrita del Santissi­
mo Salvatore fece chiamare mio padre. Parte delle mura
del convento avevano ceduto, diceva, e nella cappella c’era
bisogno di un nuovo altare.
Sapevo che mio padre aveva bisogno di quel lavoro, ma
sapevo anche che non era bravo nel presentare i progetti o
nel disegnarli su carta... Mentre io da qualche tempo andavo
sempre più spesso in Duomo.
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Mi fermavo specialmente davanti al monumento funebre
del vescovo Guidotto de’ tabiati, scolpito da un certo Goro
di Gregorio, con un baldacchino di marmo e dei leoni ai
piedi...
Stavo ore a guardarlo.
Come si può scolpire in questo modo? mi dicevo. È que­
sto forse quello che chiamano talento?
Riportavo le immagini su un foglio, anche l’altare che
mio padre doveva fare per l’archimandrita.
Così quando l’abate del Santissimo Salvatore si trovò per
caso il disegno tra le mani, guardò mio padre con nuovo
rispetto: «È buono questo lavoro, mastro Giovanni... non
sapevo che sapevate disegnare...».
Mio padre stava per dire non è mio, ma la prudenza
dovette fermarlo.
E arrivati a casa mi guardò malamente.
Poi levò dal muro la cinghia che usava per flagellarsi in
pubblico e cominciò a martoriare le mie carni.
E intanto gridava come lo ammazzassero: «Mai lo devi
fare, capisti? Mai! Chi credi di essere, figlio di cagna?! Ri­
spetto mi devi, capisti, disgraziato?».
Mia madre in un angolo piangeva, i miei fratelli urlavano
di spavento. tutti sapevano che mio padre era un mastro
molto duro, ma fino a quel momento non aveva frustato a
sangue nessuno.
Forse voleva piegare la mia natura all’obbedienza – ma
sbagliava. l’obbedienza non è mai stata una mia virtù.
Mio nonno invece era legato ai confrati di Santa Maria ale­
manna, che erano ciò che restava del Sacro Ordine di San
Giovanni. E molti di loro di nobile famiglia.
Spesso gli fornivano l’elenco degli acquisti prima che
si imbarcasse: «Mastro Michele, ci portasse una pezza di
pannolana per le tonache» dicevano. «Mastro Michele, una
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cassa di calzature che abbiamo ordinato ai confratelli di
Santa Maria in trastevere...»
Fu per questo, o forse per levarmi dalla sferza di mio pa­
dre, che mio nonno volle mettermi a scuola in quel convento.
Pensava che con un po’ di cultura sarei diventato un
buon commerciante, o magari marinaio come lui... Ma cer­
to neppure lui desiderava che diventassi pittore.
«la pittura è l’arte del Diavolo» mi disse una volta. Ché
aveva saputo di un pittore dannato dopo aver dipinto per
certi monaci un Cristo sulla Croce che rideva. «Gliel’aveva
insegnato il Diavolo, capisti? È questo che dissero quei mo­
naci... E bruciarono il quadro e lo stesso pittore...»
Era una storia assurda. nessuno ha mai dipinto un Cri­
sto che ride, pensavo. Doveva essersela inventata. Ma per­
ché impedirmi di diventare pittore? Cos’ha un pittore che
non va? Eppure sentivo in lui una sorta di timore, per quel
mestiere, una diffidenza...
in ogni caso è merito suo se ho cominciato a sognare
altri posti e altri luoghi.
talvolta infatti mio nonno mi mostrava le monete che
aveva incassato con il suo commercio. Mi mostrava i ducati
o gli alfonsini di napoli, i genovini di Genova, i fiorini dei
Medici...
«Guarda, nicuzzu, guarda» mi diceva. «non sono ma­
gnifiche?»
alcune erano veramente bellissime, disegnate da grandi
artisti, ma io allora non sapevo nulla di questo. Sapevo solo
che a vedere le monete sognavo i luoghi favolosi da cui
quelle provenivano.
Sono stati quei sogni all’origine di tutto? non ne so­
no sicuro, maestro... non basta, mi dico, un desiderio per
realizzarlo, non bastano i sogni, se quelli non nascono da
un’ossessione.
È solo l’ossessione che li fa diventare realtà.
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