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Giuseppe Merico
Il guardiano dei morti
Penso che questa storia della mia lunga lotta
col padre, che un tempo ritenevo insolita per
non dire unica, non sia in fondo tanto
straordinaria se come sembra può venire
comodamente sistemata dentro schemi e teorie
psicologiche già esistenti.
Giuseppe Berto, Il male oscuro
Mi manca chiunque.
David Foster Wallace, La scopa del sistema
Luce. La scritta si legge, Hodie mihi cras tibi, gli uomini
di poca fede che la capiscono si tastano sotto, i credenti reclinano il capo dicendosi: «È così o è così che dev’essere». Io,
la scritta sopra il cancello la guardo tutte le mattine, pedalo
e la guardo avvicinarsi. Di rame, verderame, barocca, immobile e impassibile. Vorrebbe spaventarmi, vorrebbe farmi
stringere il manubrio della bicicletta o farmi stringere forte
le chiappe, non ci riesce, non è cosa per lei, non adesso. Non
dopo che è morto papà. Non dopo che ho contato i respiri,
non dopo che non finivano mai, non dopo che la mamma
mi ha guardato con quegli occhi, che io quegli occhi spero
di non vederli mai più. Lo abbiamo portato a casa, messo
nella stanza in cui son cresciuto, messo dritto, girato di lato,
alzato, abbassato, consumato. Lo abbiamo messo nella mia
stanza da piccolo, nel letto con le sponde di ferro, sotto il
quadro della Madonna con il bambino. Ce lo siam portati
via dall’ospedale. È stato lui a volerlo. La mamma, poca luce,
gli ha detto: «Ora stai a casa tua, Nino», gli ha stretto la mano
destra e glielo ha ripetuto. Ancora meno luce. Lui non ha risposto, ha continuato a respirare; non so se papà abbia mai
sentito le parole della mamma o le sue preghiere silenziose
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recitate dentro di sé quasi si vergognasse, non so se abbia mai
sentito gli ultimi quattro giorni. Luce che va a spegnersi. Lo
abbiamo portato a casa che era già in coma, con la febbre da
coma, con le mani da coma, con l’innocenza da coma, con la
pelle che era la pelle di mio padre ma era pelle da coma, pelle
in transito. Luce che si spegne. La scritta dice Hodie mihi cras
tibi, lo sanno tutti, anch’io, per questo sorrido.
Buio.
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Fine giugno
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Porto i morti. Dal posto dove stanno, dalle loro case, li
porto dove sto io. Ce n’è uno, ce n’è sempre uno e questo
è uno di quelli che non te l’aspettavi, quarantotto anni, in
buona salute fino a ieri mattina. Proprietario di una rivendita
di automobili alla periferia di Bologna, soprattutto marche
tedesche. Gli sfioro un dito, l’anulare, è più lungo del mio.
Penso debba avere anche il cazzo più lungo del mio. Non mi
sbaglio. Gli tiro giù la lampo dei pantaloni neri da morto,
gli abbasso le mutande. Anche così, in uno stato di eterno
riposo, il suo cazzo è più lungo. Penso a stamattina, a come
mi sono guardato allo specchio, non mi sono mai visto così,
non sono mai stato così malato. Il dito del morto somiglia a
un bastoncino di legno, a una molletta per stendere i panni,
solo un po’ più lunga. Lo guardo in viso, le sopracciglia sono
nere, ma stavano ingrigendo, è un bell’uomo, anche i capelli
stavano ingrigendo. Penso sarebbe stato più attraente, il grigio gli avrebbe conferito un’aria più matura che a un rivenditore di automobili può fare solo bene; poi tutto si è fermato,
le sopracciglia hanno smesso di ingrigire e anche i capelli, è
successo ieri mattina quando gli è scoppiata l’aorta.
Mi sono guardato allo specchio ed ero nudo, avevo aperto
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l’acqua calda, quella della doccia, per lavarmi. Mi sono guardato mentre l’acqua veniva giù, mi sono fermato a guardare il
bacino, le ossa come ali che racchiudono l’addome. Con una
mano aperta riesco a congiungerle, tanto sono magro. Avevo
gli occhi che non si scollavano da lì, da quelle ossa misere,
così misere che ho cominciato a tremare mentre l’acqua non
la smetteva di andare. Il bacino del morto invece è possente,
capiente, racchiude e contiene. Ci butto dentro la faccia, gli
carezzo l’addome, protegge. Tra un po’ arriveranno i parenti,
il morto non sarà più mio. Tra un po’ lo porterò via. A breve
ne arriverà un altro, il lavoro non manca mai.
Qui dove sto ci sono due stanze e due letti di marmo, le
stanze sono unite tra loro dallo spazio di una porta, così ti
puoi muovere da una stanza all’altra e magari fare le condoglianze ai vicini. Prima, lo spazio della porta aveva anche una
porta di legno brutto, poi quando hanno portato uno che lo
avevano sparato i poliziotti, il fratello di questo l’ha buttata giù e nessuno l’ha più rimessa. Le due stanze hanno due
finestre, una per stanza. Ci sono due avvolgibili di plastica
verde, uno di questi è rotto e non si alza, l’altro è rotto e non
si abbassa. Nessuno ha bisogno di più luce di quella che c’è
e nessuno ha fatto richiesta perché gli avvolgibili venissero
aggiustati, una volta l’ho detto al prete, lui ha storto il muso
e ha imboccato la strada per l’uscita dal cimitero. Da un lato
e dall’altro dei letti di marmo ci sono quattro sedie, due per
parte. Il prete le ha prese da una scuola materna della zona,
dice che gliele hanno regalate, io penso le abbia rubate. Dice
che quattro sedie vanno bene, perché sennò le stanze si riempiono di gente che se ne sta comoda a parlare dei fatti suoi
e non gliene frega niente del morto. Le sedie sono talmente
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piccole che i parenti del morto prima di sedersi si scambiano
occhiate interrogative, poi va a finire che ci si siede solo qualche anziana che non ce la fa più con le gambe o qualche bambino che i parenti hanno lasciato entrare, al quale dicono:
«Hai visto lo zio? Dorme». Oppure è il bambino a chiedere ai
parenti: «Ma non li apre più gli occhi?» Gli uomini non ci si
siedono mai perché pensano sia indecoroso stare accovacciati
su quelle sedie piccole che poi va a finire che sembra stiano
seduti sul cesso di casa loro.
Nelle stanze c’è odore di candeggina, la passo spesso con
lo straccio e quando ho finito me ne sto sull’uscio con le
maniche della camicia arrotolate a guardare i muri del cimitero. L’edera li ricopre fino in cima e in cima ci sono pezzi di
bottiglie rotte, me li ha fatti mettere il prete per evitare che i
ragazzini ci si arrampicassero. Quando arrivano i parenti del
morto mi metto da parte in un angolo o me ne sto fuori ad
accarezzare il cane orbo del cimitero. Qualcuno mi chiede
dov’è il bagno, glielo indico col manico della scopa. Quando è ora faccio uscire i parenti. Prendo la lastra di stagno,
chiudo la bara, i parenti sentono il rumore che fa il trapano
avvitatore, li sento piangere. Sono l’ultimo a guardare il morto e sono l’ultimo a toccarlo, lo bacio sulla fronte. Li bacio
tutti, sempre.
Questa mattina mentre ero nel bagno che mi facevo la
doccia l’ho sentita urlare, voleva che le portassi qualcosa. Ho
continuato a lavarmi, a contare le coste, a carezzarmi le ginocchia tremanti. Mi sono asciugato in fretta e vestito con
le urla di lei che venivano dalla stanza in fondo al corridoio.
Ho fatto finta di non sentirla, per una volta ho fatto finta.
Sono uscito di casa e sono venuto qui in bicicletta. Sistemo la
cassa sul carrello con le ruote, la porto fuori, per un attimo i
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parenti non mi lasciano proseguire, si riuniscono attorno alla
cassa, la baciano, la accarezzano, salutano il morto e continuano a salutarlo fino a quando non è nel loculo, fino a
quando non getto il cemento con la spatola e chiudo tutto
con i mattoni di tufo che taglio al momento, e anche dopo
loro continuano. Li lascio lì alle loro cose e risalgo il vialetto,
il cane orbo mi segue e ogni tanto scodinzola.
Quando torno a casa passo dalla piazza del paese, hanno
montato le luminarie per la festa del patrono, le toglieranno
tra un mese buono perché il Comune non ha i soldi per
pagare la ditta che le ha messe su. La luce della sera taglia
a metà la serranda chiusa del barbiere con la scritta Sala da
barba e la faccia del vecchio seduto al bar dei mafiosi che
mi saluta con la mano, perché saluta tutti e non sa nemmeno lui perché. La nostra casa è l’ultima del paese, più in
là ci sono solo ulivi e una masseria in stato di abbandono,
ci vanno i tossici per farsi o qualche coppietta per scopare. Quando entro sento la puzza, se l’è fatta addosso e io
non l’ho cambiata perché non c’ero e non c’era nemmeno
la signora albanese che le fa compagnia. Sente la porta e
comincia a urlare, chiamandomi «Cane» e «Vieni qui che ti
sistemo io». Tiro fuori due uova dal frigo, le rompo in un
piatto , ci aggiungo del parmigiano, metto tutto a friggere.
Sopra il cucinino c’è una finestrella con la tenda unta di
grasso e olio, fuori passano le pecore, al seguito il pastore, lo chiamano Paneperso perché non si sa bene di chi sia
figlio. S’accorge che lo sto spiando di qua dalla finestra, si
ferma, si porta entrambe le mani sul cazzo, mi invita a fare
qualcosa, poi scoppia a ridere e continua a seguire le pecore.
Chiudo la tendina e torno alle urla della mamma, le uova
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si sono rapprese ed è venuta fuori una frittata più bianca
che gialla, l’albume non si è mescolato bene al tuorlo. «Mimino, la mamma tua l’hai abbandonata», dice lei oltre la
porta della camera da letto. Butto la frittata in un piatto, le
rispondo che sto arrivando.
Il mattino dopo mi sveglio che non è ancora l’alba, me ne
sto seduto al tavolo della cucina, bevo acqua da una bottiglia
di vetro col fondo ingiallito dagli anni. Fumo due sigarette,
dopo il caffè accendo la terza ed esco con la bicicletta. Passo
dalla piazza, ci sono due trattori con le ruote parcheggiati
vicino al busto di marmo di Ninetto Melli che cinquant’anni
fa tirò fuori i soldi per far costruire l’ospedale del paese. Ha il
collo grosso, il doppio mento, la testa calva simile a un uovo,
un fazzoletto nel taschino. Proseguo per la strada che porta al
cimitero, poi mentre pedalo ci penso bene e decido di andare
a svegliarla. Quando sono da lei suono il campanello, aspetto.
Mancano pochi minuti alle sei e lei non apre. È una strada
con le case piccole attaccate una all’altra, nessuna casa ha il
giardino, tutte danno sulla strada e dalla strada sono separate
solo da una porta e da una tenda di legno in estate, da una
porta senza tenda di legno in inverno. Se insisto a suonare,
qualche vicina si sveglierà incuriosita se non l’ha già fatto e
mi sta spiando da dietro qualche finestra. Se insisto a suonare
le faranno domande. È l’ultima cosa che voglio. Mentre sto
per andarmene, si apre la porta, ma solo di due dita, oltre lo
spiraglio non si vede nessuno. Appoggio la bicicletta al muro,
entro. Dietro la porta c’è lei, al buio, scalza.
Portano uno, certi forestieri, uno con una bara costosa, solo che dopo che arrivano si guardano in faccia e si
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accorgono di aver sbagliato cimitero. La macchina delle onoranze funebri riparte con le macchine dei parenti al seguito.
Il cane orbo li guarda per tutto il tempo con un orecchio su
e l’altro giù fino a quando non se ne vanno. Cercavano il
cimitero dov’è seppellito un avvocato che di cognome faceva
Moscagiuri, hanno chiesto al custode, quello ha controllato
nell’elenco, ma non è risultato niente. Una signora col vestito nero costoso, una parente del defunto, si è avvicinata per
sentire quello che si dicevano l’autista delle onoranze funebri e il custode del cimitero. Si è allontanata un attimo dopo
perché il custode puzza sempre di vino e di vestiti sporchi.
L’autista si è rivolto alla signora col vestito nero costoso, dicendo: «Abbiamo sbagliato paese, non è questo il cimitero».
Le macchine ripartono lasciando i segni sul brecciolino e
alzando tanta di quella polvere che il custode bestemmia i
morti a tutti e il cane orbo prende ad abbaiare. Dallo stanzino del custode esce Mirko, mi saluta con la mano, ricambio
il saluto, poi sembra incepparsi, non riesce più a fermare
la mano, la muove frenetica di qua e di là. Il custode che
è il suo patrigno, lo guarda, ci è abituato e anch’io ci sono
abituato. Si siede sul muretto accanto alla baracca dove vendono i fiori, le gambe penzoloni, lo raggiungo, mi metto seduto accanto a lui. Mirko non la smette di mulinare la mano
nell’aria, sembra saluti i pioppi e la croce di ferro arrugginito
della chiesa e le file dei loculi e le persone e il cielo azzurro. Gli abbasso il braccio, delicatamente. Respira affannato,
aspetto che si calmi.
«Come stai, Mirko?» gli chiedo. «Come stai Mirko», risponde guardandosi le gambe nude, i pantaloncini dell’Adidas gialli. Gli metto un braccio sulla spalla, le gambe sono
piene di graffi lunghi e rossi. Il custode ci urla da lontano
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che assieme facciamo una bella coppia, poi mentre sta per
andarsene si volta e dice che se fosse stato per lui ci avrebbe
mandato a raccogliere pomodori sotto il sole. Sorrido. Mirko ha preso a sbavare e non ho nemmeno un fazzoletto per
asciugargli la bocca.
Sono andato a trovarla, l’ho scopata mentre il televisore
con il centrino bianco sopra e la statuetta con i due cigni di
vetro mandava Anche i ricchi piangono. Vive in una casa con
due stanze, una è la cucina dove c’è il televisore, l’altra è la camera da letto, il bagno ce l’ha dietro, in una specie di cortile
stretto coi muri così alti che non puoi vedere quello che c’è
dietro. Il pavimento del cortile è in pendenza verso il centro
e al centro c’è un piccolo tombino. Carmela ci butta l’acqua
dei piatti e l’acqua del bucato. A star lì c’è sempre un odore
di cose malate, soprattutto in estate quando vi si ammassano
le mosche e le zanzare. Gliel’ho anche detto che non va bene
quel tombino, che prima o poi si prenderà una malattia. Mi
ha guardato con gli occhi neri da ragazzaccio, mi ha detto
che prima che muore lei io sarò già morto da un pezzo. Mi
ha trascinato sul divano di velluto rosso che quando fa caldo
non ci puoi stare perché comincia a pruderti tutta la pelle.
Me lo ha succhiato fino a quando non ho sentito dolore e
anche dopo. Quando ha deciso che andava bene così si è
staccata lasciandomi col cazzo arrossato sul divano. Ha messo a scaldare del latte e si è andata a lavare. L’ho aspettata. Le
ho spento il latte che aveva cominciato a bollire. Quando è
tornata, ha tirato fuori dal lavello una tazza e ci ha versato il
latte. L’ho guardata che inzuppava i biscotti Atene senza dire
una parola. Aspettava i soldi e io lo sapevo.
«Io vado», le ho detto.
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Ha continuato a mangiare in silenzio.
Prima di uscire le ho lasciato diecimila lire sul televisore.
Non mi ha salutato, non saluta mai.
A sera sono a casa. La signora albanese che sta con la
mamma torna domani. Entro. La mamma è nuda, si è tolta
il camicione che le avevo messo stamattina. È nuda e stesa sul
pavimento. Chissà da quanto tempo è lì. Tutta la carne della
pancia le si è distesa formando un mare di pelle. Si è tolta il
pannolone. È rimasto appeso al bordo del letto, giallo e pesante di pipì. Quando apro la porta è lì che dorme. Non c’è
sangue, non ha ferite sul corpo, dev’essere scivolata piano.
«Mamma…» dico.
Apre gli occhi, li punta in alto, mi guarda.
«Mimino…» risponde. «C’era tuo padre sulla porta che
mi chiamava, le gambe non mi hanno tenuta e tu non arrivavi mai».
La prendo sotto le ascelle e la metto seduta.
Mi prende sotto le ascelle e mi insegna ad andare in bicicletta e quando mi stacco da lei vado da solo. La sento dietro
che dice: «Bravo».
Mia madre ha le gambe d’elefante, il sangue scorre male,
sono gonfie e ricoperte di venuzze azzurre e sottili, tutte storte. Se ne segui una con il dito, finisce che si nasconde sotto la
pelle e non arrivi da nessuna parte.
Le passo un lenzuolo sotto le braccia, lo uso per far leva,
per sollevarla da terra. Io sono piccolo e lei è grande, ancora
adesso che son passati trentacinque anni. Non vuole saperne
di tornare sul letto. Mi tira giù, le cado addosso. Chiudo gli
occhi, non ci penso più.
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Quand’è mattina vado da lui. Prendo in prestito tre garofani rossi da un loculo dove i fiori non mancano mai e vado.
Papà, nella foto ovale con la cornice dorata sorride alticcio.
Sotto la foto c’è un mazzo di fiori di campo, non so chi ce
li abbia messi. Sistemo i garofani assieme ai fiori di campo.
La foto è stata scattata il giorno del suo cinquantesimo anniversario di matrimonio. Non è una brutta foto, ma non è
lui. Sorride guardando l’obiettivo; sul tavolino – ma non si
vede – c’è un bicchiere di vino. Lo saluto: «Ciao papà». Non
risponde. Me ne sto in silenzio per un po’. Nove mesi dopo
che è stata scattata la foto, un male ha deciso di sostituirgli le cellule del cervello con altre, speciali, diverse, inutili,
che lo hanno ucciso. Nove mesi. Gli dico di non spaventare
più la mamma, di lasciarla stare. Non risponde. Papà, nella
cappella di famiglia, è accanto al nonno e sopra il nonno c’è
la nonna, accanto alla nonna c’è un posto vuoto e sopra il
posto vuoto ce n’è un altro vuoto pure lui, i due posti vuoti sono uno mio, uno della mamma. Gli dico di star bene.
Chiudo a chiave la porta della cappella, la luce si riflette sui
vetri scuri della porta, i cristi dorati luccicano. Gli dico che
la deve lasciare stare anche mentre porto la carriola con i
quadri dei santi che il prete non vuole più nella chiesa perché
ha deciso di cambiarli con altri che ha ricevuto in regalo da
un suo amico, un prete anche lui che è venuto a trovarlo dal
nord. Poco prima di uscire mi chiedo perché non ho avuto il
coraggio di guardarlo negli occhi, non li ho guardati. Giro
la chiave nella serratura, la metto nella tasca dei pantaloni.
Spingo la carriola verso il cimitero nuovo. Costeggio i muri
di mattoni e arrivo alla fossa. Lascio cadere i quadri dei santi.
Nella fossa ci sono le bare da bruciare, adesso ci sono anche
i santi da bruciare.
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«Fuori dal cimitero succedono cose», mi dice il prete
quando torno con la carriola vuota. Mi sventola in faccia una
pagina tutta spiegazzata della “Gazzetta del Mezzogiorno”.
Mi dice che a stare coi morti non s’impara niente, che dovrei
interessarmi di più ai miei paesani. Gli rispondo che io mi
interesso a loro quando loro hanno finito di interessarsi a
se stessi: quando varcano la porta del cimitero con i piedi
avanti. Ride. Sul giornale c’è una foto, le luminarie per la
festa del patrono e dietro la Chiesa Madre. L’articolo dice che
quest’anno le luci della festa saranno pagate dal signor Salvatore e che il sindaco e tutta la giunta comunale lo ringraziano
perché ha dimostrato ancora una volta di avere a cuore la
comunità. In basso a destra c’è la foto del signor Salvatore in
piedi accanto a un cavallo bianco nella sua scuderia. Dopo
aver letto velocemente il breve articolo dico al prete che fuori dal cancello del cimitero non cambia mai niente, lui mi
risponde: «Meno male». Mi guardo le mani che stringono i
manici della carriola, sono magre e nervose, tutte le vene vengono fuori e si mescolano ai nervi. Mia madre dice che ho le
mani forti. Dico al prete che devo andare, spingo la carriola
verso il magazzino degli attrezzi. Mi urla dietro: «Mai contento tu!» Penso alla faccia del prete quando il signor Salvatore viene a trovare sua madre, che sta in una delle cappelle del
cimitero nuovo, penso a come gli brillano gli occhi, perché
da un saluto in più ne può venire fuori qualcosa di buono per
la sua chiesa. Mia madre dice che anche papà aveva le mani
forti prima che iniziassero a tremare. Io, le mani di mio padre, non le vedrò più.
La sera arriva tardi. Le gazze si nascondono nel folto degli
alberi del cimitero, le rondini inseguono gli insetti a mezz’aria
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e Mirko si fracassa la testa contro il cancello. Le mani ce le
ha strette alle sbarre. Assesta calci che a volte colpiscono le
sbarre e a volte lo spazio vuoto tra un ferro e l’altro. Il sangue
che si vede di più è quello che gli cade sui pantaloncini gialli
dell’Adidas. Lo sparo è venuto prima, ha echeggiato sotto il
voltone dove sta l’ufficio del guardiano e le gazze sono volate
via dai pioppi, bianche e nere. Dirgli di smetterla non cambierà le cose fino a quando non sarà crollato al suolo. Solo
allora la smetterà. Gli strappo via le mani dalle sbarre, gli
occhi non sono occhi, e quelle che mi urla contro non sono
frasi. Trema, sanguina, poi sviene. Quando è partito lo sparo
qualche signora anziana che sostava nel vialetto centrale ha
urlato, subito dopo un uomo ha ordinato a qualcun altro di
telefonare alla polizia.
Il poliziotto mi chiede: «E voi dov’eravate, signor Mimino?» Gli rispondo che ero corso ad aiutare Mirko. Mi guarda le mani e la camicia sporca di sangue, si guarda intorno
quasi a cercare Mirko, ma lui non c’è, l’autoambulanza l’ha
portato via dieci minuti dopo lo sparo. Per il custode invece
non ce n’è stato bisogno, si trovava già nel posto dove sarebbe
rimasto da lì in avanti. Il poliziotto fa cenno al suo compagno che possiamo andare, mi fanno salire in macchina e mi
accompagnano al commissariato per la deposizione.
Gli dico che ho visto il custode tutto buttato sulla scrivania del suo ufficio e il fucile vicino a lui messo di traverso,
con la canna lunga e nera che veniva fuori dal bordo della
scrivania. Mi tengono in centrale fino a notte fonda, telefono
alla signora albanese che si occupa della mamma, le dico di
star lì fino a quando non arrivo.
Mi chiedono se penso che il custode si sia sparato da solo,
mi chiedono se l’ho sparato io. Quando li guardo strano mi
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dicono che sono domande che mi devono fare. I due poliziotti che m’interrogano li conosco entrambi, conosco i loro
morti e so quanti figli hanno. Chiamo in ospedale con il telefono a gettoni della Centrale, chiedo di Mirko, l’infermiera
dice che sta bene, che ora sta riposando. Mi dice che il prete
è stato lì con lui fino a qualche minuto prima: «No». dice.
«Adesso è andato via».
Torno a casa con la luna che è alta nel cielo sopra il paese,
in giro non c’è nessuno. Domani tutti parleranno di quello
che è successo al cimitero, domani il custode sarà sulla pagina del quotidiano che legge il prete. La sera arriva tardi, ma
arriva e anche la notte arriva.
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Mi scopo Carmela da anni, me la scopo da quando ha
iniziato a far venire gli uomini a casa. Dice che le sembro uno
di quei pastori che stanno sulle montagne da soli per tanto
tempo e, in inverno, quando non possono scendere a valle
la buttano nel culo a qualche pecorella giovane. Scoppia a
ridere, poi la smette e mi abbraccia la schiena e me la graffia
ed è forte, così forte che non riesco a strapparmela di dosso
quando ci provo. Poi sento che allenta la presa, butta il collo
all’indietro. Vuole che glielo baci. Le carezzo i seni, la sento
fremere. Le passo la lingua su una vena del collo, mi fermo
dietro l’orecchio, mi nascondo lì dove i ciuffi dei lunghi capelli lisci sono più corti.
A un certo punto si stacca, contenta, dice: «T’ho fatto
un regalo!» Scende dal letto, scalza. Apre il primo cassetto
del comò, tira fuori una busta di plastica bianca di quelle
della spesa. Saltella con la busta tra le mani e intanto scioglie il nodo che ha fatto per chiuderla, non ci riesce, strappa
la busta coi denti. Mi mostra una maglietta azzurra della
mia taglia, con una stampa di Braccio di Ferro e la scritta,
Popeye.
Dice: «È per te».
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Le dico che non me la metterò mai, che sembro ridicolo
con quella maglietta.
Non ci rimane male, solo aggiunge che le piacciono gli
uomini ridicoli. Lascia cadere la maglietta sul letto, mi si
butta tra le gambe, lo prende in bocca, prima i coglioni, poi
il cazzo.
Dice che me la metterò per andarla a trovare, le rispondo:
«Va bene». Braccio di Ferro tiene in bocca la pipa e dietro di
lui c’è un barattolo di spinaci. Quando chiudo gli occhi è
l’ultima cosa che vedo.
Mirko se ne sta sul letto come un agnello. Bianco, tra le
lenzuola bianche. Il sangue, dalla testa e dalle mani glielo
hanno lavato via. Porta una vistosa fasciatura sul capo, sembra un casco morbido. L’ospedale, anche quello è bianco, ma
bianco sporco con delle macchie giallastre agli angoli e lungo
le giunture dei muri. Sono seduto su una sedia ai piedi del
letto, Mirko mi guarda. Da quando sono entrato non ha detto una parola, non mi ha salutato e non sono nemmeno certo
che ha capito quello che gli è accaduto. I suoi occhi dicono
solamente che ha una gran paura di sgretolarsi, di frantumarsi in mille piccoli pezzi che non potranno essere ricomposti
mai più. Si lascia prendere la mano, l’altra rimane adagiata
sul lenzuolo. Scelgo le parole, in mente ho quelle più sbagliate: «Lo hai visto mentre si sparava?» Non le tiro fuori, gli
chiedo invece come sta. Continua a guardarmi senza capire.
Fuori dalla stanza un campanello suona, un’infermiera
dice: «Arrivo».
Dopo ce ne stiamo in silenzio. Mirko alla fine ripete un
timido: «Arrivo…»
Lo guardo, sorrido.
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«Arrivi?» gli chiedo.
Mi guarda ancora, forse mi vede: «Arrivo», conclude.
Alla mamma non interessa nulla di quello che è accaduto
al cimitero, vuole solo mangiare e quando le porto un pezzo
di sanguinaccio che mi ha regalato il prete ne vuole ancora.
Le dico di Mirko, che è in ospedale. Mi chiede se sono andato a trovare papà, le rispondo di sì. Un pezzo di seno le
esce dal reggiseno troppo piccolo per la sua taglia, sul collo e
sulle spalle le sono spuntate delle macchie piccole e rosse con
la punta bianca. Penso sia per il sudore. Le dico che Mirko
verrà a stare da noi, che il prete adesso non lo può tenere
perché è venuto a trovarlo un suo amico dal nord. Mi chiede
dell’acqua, la bottiglia sul comodino è vuota, vado a riempirla al rubinetto della cucina. La mamma non si interessa
più molto di niente se non di quello che si trova sotto le sue
mani, gli oggetti che può spostare, quelli che può lanciare,
quelli che può rompere. Le verso venti gocce di Serenase
in un bicchiere, le dico di bere. Le ripeto che Mirko verrà
a stare da noi, mi dice di andar via dalla sua stanza che
vuole dormire. «Hai capito?» le chiedo. Le esce del gas dalla
pancia e questa è la sua risposta. Mi chiudo in bagno, ci sto
per un bel pezzo. Nudo di fronte allo specchio, passo in
rassegna le ossa e la pelle che ci è attaccata e le mani, quelle
che stringevano le spalle di mio padre circa venti anni fa.
Non era ancora estate piena. Era come adesso, che le persone cominciano ad andare al mare e prima di farsi il bagno
immergono i piedi nell’acqua per sentire se è buona, se il
sole l’ha scaldata a sufficienza. Mi ha insegnato a nuotare,
a stare al mercato in mezzo ai vecchi e a prendere in giro la
mamma in tutti i modi concessi a un figlio maschio. Le sue
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spalle nell’acqua non finivano più e non c’era nulla da temere anche se a guardare in basso l’acqua era scura e io sapevo
che dov’eravamo arrivati non toccava nemmeno lui. Dov’è
profondo, l’acqua è pesante e le mie ossa leggere, anche adesso che mi guardo col cazzo cresciuto tra le gambe e i peli
che li ho contati fino a quando li ho potuti contare. Riesco
ad abbracciarmi tutto il collo con una sola mano e con due
rimane spazio in abbondanza. A mio padre bastavano tre
dita perché mi indirizzasse dove voleva lui quando camminavamo per il mercato, me le appoggiava sul collo e sembrava tenesse un pony per le redini. Il mio collo è cresciuto
di poco e il suo diametro è rimasto pressappoco lo stesso. A
un certo punto s’inabissò e mi lasciò senza appiglio, lo vidi
scomparire sott’acqua. Presi a muovere le mani e i piedi, ma
non in fretta. Come faceva lui. Rimase sotto per un bel po’,
io galleggiavo e sorridevo col sole in faccia e mio padre sotto
e giuro di aver pensato che sarebbe stato meglio se non fosse
riemerso più, ci avrei pensato io alla mamma, sarei stato io
l’uomo di casa. Fu un pensiero veloce e solo anni dopo ne
capii il senso terribile e vero, che mi parlava di una silenziosa
e sotterranea lotta col padre. Lo chiamai ad alta voce, un po’
inghiottivo acqua salata e un po’ lo chiamavo: «Papà, papà».
Venne fuori come un sottomarino con le sue spalle nell’acqua che non finivano più.
Portano una, la sorella dice che non ha sofferto niente, che
le hanno fatto la morfina, se ne sta in silenzio, poi mi guarda,
si sofferma con gli occhi in un punto imprecisato della mia
faccia, mi fa: «Vero che non ha sofferto niente?»
Gli altri familiari parlano di soldi con quello delle onoranze funebri, un ragazzino, penso sia il fratello più piccolo
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della defunta, mi lancia il ghiaino fino a quando la sorella
della defunta non gli ordina di smetterla.
In cielo ci sono poche gazze e poche nuvole, sta arrivando
il caldo.
La sorella mi dice che hanno tirato avanti per tanto tempo
per far nascere il bambino. Mi accendo una sigaretta, guardo
lo stradone che porta al paese. La macchina delle onoranze
funebri se ne va.
Gli altri familiari entrano diligentemente nella stanza
con il letto di marmo, fanno piano, sembra non la vogliano
svegliare.
La ragazza ha i capelli corti, le arrivano poco più su delle
spalle, la guardo e penso invece abbia sofferto, pallida e con
le rughe che le sono rimaste tagliate sulla fronte, sembra che
prima di andarsene abbia fatto un lavoro faticoso, sembra sia
nata solo per portare a termine quel lavoro, che nessun altro
all’infuori di lei avrebbe potuto finire, e anche se lei lo avesse
chiesto a qualcuno dei suoi conoscenti o parenti, nessuno lo
avrebbe fatto al posto suo, nessuno l’avrebbe sostituita.
La sorella, quando mi accendo una sigaretta, me ne chiede
una, ma di nascosto, non è ancora maggiorenne e si allontana dagli altri per fumarsela, senza nascondersi però. Sembra
una concessione che i genitori le hanno accordato da poco e
lei ci va cauta. Mi guarda da lontano e mi sorride. Si è messa
sotto un pioppo e penso sia riuscita ad allontanarsi dai familiari solo adesso, e che ha aspettato questo momento da un
tempo lunghissimo protratto oltre il suo limite di resistenza.
Questa è la sua ora d’aria. Le sorrido. Dentro, i familiari parlano sotto voce, una donna, forse la mamma, piange. Il cane
orbo si è avvicinato alla ragazza sotto il pioppo, le annusa le
scarpe, lei lo lascia fare divertita. Spegne la sigaretta contro il
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tronco, poi non sicura di averla spenta bene, la schiaccia con
la scarpa. Quando torna da me, mi dice lentamente: «Avrei
dovuto morire io», e si unisce ai famigliari in un brusio che
conosco fin troppo bene.
Le tolgo il vestito di dosso. Le incido i seni con le unghie
lunghe e dure. Le unghie dei pollici. Le mordo un capezzolo, poi l’altro, poi torno al primo. Lo stacco a morsi. Il
sangue vorrebbe venir fuori dal corpo morto, ma non ha
spinta, pressione, vita. Sangue morto. Le tolgo il vestito di
dosso. La guardo nuda sul tavolo di marmo. Il bambino è
nato con un parto cesareo, la ragazza era terminale, non
avrebbe mai potuto affrontare un parto normale. Così è
morta cinque giorni dopo. Ha visto il suo bambino ed è
morta. Prima di fare tutto abbasso la tapparella e chiudo la
porta di legno con la chiave lunga. La bacio a lungo, penso
per un po’ alla sua vita. La sorella, prima di andar via mi ha
detto che il marito l’aveva lasciata da poco, che un giorno
era partito per non si sa dove e l’aveva lasciata con un figlio
dentro, mi ha detto che il marito, secondo lei, non sa nemmeno che è morta. Mi lascio cadere sul suo petto, l’orecchio
ad ascoltare l’assenza del cuore. Il padre della ragazza è stato l’ultimo a uscire dalla stanza coi letti di marmo, mi ha
lasciato mille lire. Ho tirato fuori dalla tasca dei pantaloni
una piccola immagine dell’apostolo San Pietro con dietro
una preghiera e gliel’ho data. Mi ha ringraziato. I familiari
della ragazza se ne sono andati via camminando piano, col
fratellino piccolo che strisciava i piedi sul ghiaino lasciando
due lunghe scie tutte a zig zag. Il capezzolo lo mastico a
lungo, poi lo ingoio.
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Mirko se ne sta seduto sul letto, la spalliera alzata come
gliel’hanno sistemata le infermiere.
Carmela dorme ancora, lasciata cadere sul letto a una
piazza e mezzo da un uomo che è appena andato via lasciandole i soldi tra le mani, lei li stringe e dorme.
La mamma, nel letto di casa, impiega un tempo lunghissimo a spostare la gamba destra colpita da un crampo, urla alla
signora albanese di andare ad aiutarla, ma la signora albanese
che le fa compagnia è ancora a casa, nel suo letto accanto al
marito che puzza di nafta.
Dico a Mirko che oggi lo dimettono. Mi guarda bieco, tra
le mani una grossa siringa di plastica senza ago, non credo
capisca la parola dimettere, correggo il tiro, dico che oggi lo
mandano a casa. Correggo ancora: «A casa mia», dico. Sulla
porta della camera di Mirko si è affacciato un vecchio con
il pigiama azzurro sbiadito, una mano tiene il sacchetto del
catetere, l’altra invece saluta Mirko. Lui ricambia.
Il vecchio si accorge di me, dice: «Buongiorno». Poi torna
a Mirko, gli chiede: «È papà tuo?»
Mirko rimane sospeso, attaccato a una domanda alla quale non sa rispondere.
«No, sono un amico», dico al vecchio.
Mi fa un sorriso che sottintende qualcosa che solo io e lui
possiamo capire, ma non Mirko, qualcosa che riguarda Mirko, il suo essere così. Un sorriso di benevola complicità che
ai miei occhi si trasforma nella peggiore espressione dell’intelligenza umana. Mirko non sa cos’è una domanda, quando
lo saluti ti saluta e se gli parli ti ascolta come può fare lui,
raccogliendo pezzi di parole e rimescolandole a caso, dandole
un significato che né io né il vecchio possiamo capire. Mirko
non condivide stupide verità come facciamo io e il vecchio,
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s’infila la siringa di plastica in bocca e con lo stantuffo spinge
l’aria dentro.
«Sei contento, Mirko, che il tuo amico è venuto a trovarti?» insiste il vecchio.
Riprova a sorridermi in quel modo, faccio in tempo a
non guardarlo. «Comincia a prepararti, andiamo a casa»,
gli dico.
«Mimino dei morti», dice secco Mirko mentre prende a
carezzarmi il braccio come faceva mio padre quando era in
vena di dolcezze. Mi accorgo di avere la pelle d’oca quando
il vecchio ci saluta e se ne va. Mirko mi tocca in un punto
dentro.
Carmela sta lontana da quelli che portano il dolore. La
guardo camminare nella piazza dove fanno il mercato. La
chiamano piazza coperta perché quando piove non ti bagni,
c’è tutta una struttura di acciaio che la copre, con le colonne
e con gli archi. È stata costruita dopo la guerra e i paesani
ne vanno fieri. La guardo da lontano, si ferma a comprare
dei pomodori, poi passa da quello della carne e infine il
pane. Me ne sto distante, attento a non farmi vedere, ora
nascosto dietro a una coppia ora mescolato ai vecchi con le
coppole. Carmela l’anno scorso l’hanno ricoverata perché
una mattina ha cominciato a tremare, stava da sua madre
che abita al mare anche d’inverno; a settembre, quando tutti lasciano Torre San Gennaro per tornare al paese, lei vede
la via svuotarsi dalle macchine parcheggiate e le risate dei
bambini prendono la strada che porta al paese d’inverno.
L’autoambulanza è arrivata dopo un quarto d’ora, Carmela
si era già morsicata la lingua, la madre mi ha raccontato che
dopo ha dovuto prendersi una compressa per la pressione
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e che ci è mancato poco che non ricoverassero anche lei.
Il gruppo dei vecchi con le coppole si disperde e io con
loro. Carmela esce dalla piazza coperta con un sacchetto in
mano e con la borsa a fiori comperata al mercato di Casalabate. Quelli dell’ambulanza le hanno fatto il Valium e il
medico del pronto soccorso ha detto che non si sbagliava,
secondo lui aveva avuto una crisi epilettica. È stata ricoverata una settimana per gli accertamenti, poi l’hanno mandata
a casa con una cura e con la diagnosi del medico del pronto
soccorso.
Un giorno, ci trovavamo nel bagno con le piastrelle gialle
dell’ospedale, le ho lavato i piedi nel bidet. Sulla lettera di
dimissione c’erano scritte le compresse che doveva prendere e
quando. La prima cosa che ha fatto una volta tornata a casa è
stato scrivere epilessia a lettere maiuscole sul calendario.
Prende la strada che la porta a casa e quando è lontana
dalla piazza coperta, la chiamo: «Carmè… Carmè».
Piove, tra pochi giorni è la festa del patrono, i contadini dicono che non la smetterà, i pescatori anche. Sono al
mare con Carmela, la guardo dallo specchietto retrovisore, le
stringo la nuca, l’accompagno al cazzo, regolo lo specchietto.
Guardo il mare che ci assale gonfio e grigio. Le dico di Mirko, che è venuto a stare da noi, mugugna con le labbra impegnate. Le dico che sono contento. Vorrei aggiungere che ho
mangiato il capezzolo di una morta. Mi ingoia, si tira su con
la bocca sporca, si asciuga con uno dei fazzoletti di carta che
tengo sul cruscotto. Le dico che vado a prendere una birra,
mi tiro su le mutande, mi allaccio i pantaloni, metto a posto
lo specchietto retrovisore. Mi chiede: «Dove vai, che piove?»
Le vorrei rispondere: «Un capezzolo…»
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«Torno subito».
Il Chiosco sulla spiaggia, che in luglio si riempie di corpi
bagnati o corpi di sale, adesso è vuoto; a tenere compagnia al
barista, che non è il padrone del Chiosco, c’è un cane che si
protegge dalla pioggia sotto il biliardino e qualche anziano
vestito troppo pesante per essere la metà di giugno.
«Una birra e un cono gelato», chiedo.
Sa chi sono, forse ha voglia di fare qualche battutaccia sul
mio lavoro, ma non la fa, mi serve lentamente, accompagna
con la mano lo sportellino della cassa che si apre mandando
fuori uno scampanellio che mette tristezza, mi dà il resto e
aspetta che il tempo cambi e il Chiosco si riempia di corpi.
La mia Ritmo blu è parcheggiata vicino al muretto, oltre
il muretto c’è la spiaggia e una coperta logora di mare che
si strappa agli angoli e sopra. Il finestrino chiuso e la pioggia mi nascondono Carmela, seduta a lato del guidatore. Ne
scorgo la forma della testa, mi appare nera ed enormemente
grande. Aspetto in ascolto della pioggia sull’asfalto, poi mi
volto verso la spiaggia, lì la pioggia non fa rumore e se spingo
l’orecchio sul mare sento che lì la pioggia non è pioggia, ma
acqua, acqua sopra e acqua sotto.
Mi incammino verso il mare, la sabbia è compatta e grigia
come il cielo. Sento lo sportello della Ritmo che si apre, sento
la voce di Carmela che mi chiama. Me ne sto in un punto
imprecisato della spiaggia con una bottiglia di birra in una
mano e un cono nell’altra. Penso al costume che indossava
mio padre, era nero, gli uomini indossavano tutti costumi
neri, un giorno sarei cresciuto e anch’io ne avrei messo uno
simile al suo. Gli anni son passati, i costumi neri non vanno
più. Mio padre non si tocca più il naso importante e da quel
naso non entra più aria, non esce più.
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Carmela continua a chiamarmi dalla Ritmo blu parcheggiata vicino al muretto e di questo la ringrazio.
Continua a piovere, il corpo del custode è un pezzo di
stoffa blu sul letto di marmo. Tra un po’ lo metto nella bara.
Viene il prete a dire messa, viene con la pioggia che bagna gli
alberi e gli uccelli nascosti. Ho visto due nel vialetto che porta al cimitero nuovo, litigavano a gesti, mi hanno guardato
chiedendosi cosa avessi da guardare, poi hanno fatto qualcosa e sono andati via nella stessa direzione, solo lui da un
lato del vialetto, lei dall’altro. Li ho rincontrati mentre venivo
qui, dove c’è il letto di marmo col custode che è un pezzo di
tessuto blu. Stavano vicino alla cappella dei Foscarini, quella
con i cherubini di marmo, pioveva e non si proteggevano
con nessun ombrello, pioveva e lui impugnava una sciabola
di plastica e la brandiva verso di lei. La donna vestiva bene
ed era una bella donna solo che adesso aveva il volto nascosto
da una maschera di cartone e la maschera era la faccia di un
saladino, coi baffi e un grosso neo sulla guancia e rideva.
Immagino ridesse anche la donna dietro la maschera mentre
lui era serio e le si avvicinava quasi fosse un nemico da fare a
pezzi. Non si sono accorti di me, hanno continuato il duello
in cui lei scappava e lui la inseguiva, hanno fatto il giro della cappella dei Foscarini così, inseguendosi sotto la pioggia.
Uno zaino colorato di quelli che usano i ragazzi per andare
a scuola stava accanto alla porta della cappella e la spada e
la maschera erano saltati fuori da lì. Poco dopo ho visto che
avevano smesso con l’inseguimento e lei si era tolta la maschera di cartone e lui la baciava tra gli alberi.
Il suono delle campane si infila tra la pioggia, le ha azionate il prete. Attraverso una complicata sequenza di pulsanti e
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leve, schiacciando quelli giusti e abbassando o alzando quelle
giuste, viene fuori il suono che vuole lui. Il vestito del custode è blu e assomiglia alla tuta da lavoro con cui l’ho sempre
visto. Lo faccio scivolare dal letto di marmo al carrello con la
bara, quando è dentro lo sistemo un po’, gli sistemo il vestito
e la testa che si piega di lato, la testa con la fasciatura che gli
copre la ferita provocata dallo sparo, la testa rattoppata al
meglio dal medico che se n’è occupato. Il prete ha scelto una
bara troppo grande e a vederlo così sembra che il custode del
cimitero nella sua vita abbia avuto sempre cose sbagliate, fino
alla fine. A stargli molto vicino con la faccia ti accorgi cos’è
un morto: un corpo privo di calore, non lo emana nemmeno
a un centimetro di distanza e io gli sono a cinque millimetri,
a tre, a zero. Io gli sto con la bocca attaccata alla sua e lo bacio
in fronte e sulle labbra e gli passo la lingua sulle labbra. Poi
gli parlo, ma poco, solo due frasi, gli dico che Mirko è al sicuro a casa mia. Tiro su la testa, la volto di scatto. Sulla porta,
con lo sguardo fisso su di me piegato sulla bara, ci sono i due
di prima, lei non indossa più la maschera e lui non ha più la
spada e anche lo zaino è sparito. Ci guardiamo, aspetto che
mi chiedano qualcosa, un’informazione, come accade spesso
ai visitatori che non conoscono il cimitero, invece no, non
dicono niente. Dietro, la pioggia continua a cadere senza il
ritmo che potrebbe pretendere di avere. Viene giù a casaccio.
Dopo, lui si allontana da lei e scompare tra le gocce, nelle
gocce, si fa lui stesso goccia, mi vien da pensare. Rimane lei,
fissa a guardarmi e solo dopo un po’ mi accorgo che è triste e
porta disegnata sotto l’occhio destro una lacrima nera.
Mirko sta nella stanza dove abbiamo messo papà gli ultimi
giorni, che poi è la stanza che ho abitato da piccolo, poggiate
al muro ci sono ancora le sponde del letto ospedaliero che
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nessuno è venuto a prendere ed è rimasto qui, inutilizzabile
da chi ha un minimo di spinta alla vita. Piegata in un angolo
c’è la rete del letto e quando entri nella stanza se per caso ti
cade lo sguardo su quel letto o sulle sponde ti viene subito di
spostarlo da un’altra parte. Mirko dorme su un letto normale. Sopra il letto c’è un quadro azzurro con la Madonna e il
bambino, la Madonna ha una corona di stelle e il bambino
ha i piedi scalzi ed è quasi nudo. Mirko porta al collo il medaglione della confraternita di Sant’Antonio, non so dove lo
abbia trovato, apparteneva a mio padre. Appena entro nella
stanza me lo mostra orgoglioso. «Dove l’hai preso?» Niente
ciao Mirko, niente sorrisi, niente bussare alla porta prima di
entrare. Lo tiene per il cordoncino rosso, lo tiene come fa il
prete quando porge l’ostia a Dio. Il medaglione è fatto di un
metallo leggero ed è colorato d’oro e sopra c’è tutta la saliva
di Mirko perché prima che entrassi io se l’è ficcato in bocca
un po’ da una parte, un po’ dall’altra. «Mirko, chi te l’ha
dato quello?»
Mirko ha una lesione a non so quale parte del cervello, ce
l’ha da quando il custode del cimitero l’ha adottato tirandolo
fuori da un istituto gestito dalle suore.
Non risponde subito, ma dopo un po’, magari tu pensi a
un’altra cosa, lui ritorna sulla domanda e può succedere che
ti risponda in maniera comprensibile, come anche che ripeta
la frase che ha ascoltato. Fa così e a me va bene così, perché
Mirko ha i capelli lisci e sottili e si muovono come il vento
sul mare e il suo naso è piccolo e delicato come un gingillo
di porcellana, e la sua bocca non è capace di mentire, e le sue
lentiggini mi commuovono.
La mia domanda cade per terra e si rompe.
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Ho affondato i denti poco al di sotto dell’unghia e ho
premuto e tirato verso di me. La falange è venuta via subito
dopo, ho masticato l’osso e l’unghia e il sapore salato della
carne morta e dei tendini. Ho mangiato un pezzo di custode,
ho sputato una poltiglia fredda e rosea accanto alla sua testa
col foro di proiettile nel cranio, e col proiettile nel cranio
che nessuno gli ha tolto. Ho vomitato nel bagnetto con le
piastrelle bianche, quello che adoperano i parenti dei defunti.
Ho vomitato nel cesso, accanto al secchio e alla mazza per
lavare per terra. Ho chiuso la bara ché non ne potevo più.
La mamma sta di là, lontana da Mirko, lontana da tutto,
con la pancia che è mezza sfera piena di cose che ha mangiato per una vita, alcune le ha buttate fuori come me, altre
le ha ributtate dentro, come me. Dorme, le ho aumentato
il numero di gocce, le ho detto che son sempre quelle. Non
voglio più una madre ora che papà non c’è più, niente ha più
ordine.
Mirko si sta tagliando il labbro col medaglione, lo guardo
che continua a passarsi il bordo tagliente intorno al labbro
superiore, so quello che sta facendo, tra un po’ gli dirò di
smetterla. Tra un po’.
La signora albanese che fa compagnia alla mamma crede
ciecamente nella famiglia e altrettanto ciecamente crede che
quando morirà andrà in paradiso. Porta grosse scarpe da ginnastica sotto la gonna e se le chiedi da dove viene ti risponde
che lei è italiana, se sorridi facendole intendere che hai capito
che non è italiana, lei ti guarda male ed è capace anche di
voltarti le spalle e andarsene col grosso culo che la segue nella
gonna lunga. L’italiano non lo parla, parla il dialetto, così
si fa capire bene dai paesani. È sempre stata qui, non credo
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abbia mai superato la provincia di Brindisi e quando suo marito le propose di fare un viaggio a Roma, lei per l’emozione
si sentì male e non partirono più. Regolarmente dice che andrà a Roma a vedere il Papa, ma alla fine non parte mai.
Quando mi volto è già entrata, in una mano tiene un sacchetto di plastica, dentro c’è un polpo tutto avvolto nel fondo e il fondo del sacchetto è una massa informe di marrone,
poca acqua e nero. Mirko sanguina un po’ dal labbro, si lecca
il sangue con la lingua. Gli ho strappato via il medaglione
di Sant’Antonio. La signora albanese che fa compagnia alla
mamma dice che sta andando a casa, che questa sera a casa
sua si mangia insalata di polpo e che secondo lei questo non
è il posto giusto per Mirko. Parla in dialetto con la erre albanese che svela le sue origini, dice: «Ci vediamo domani
Mimino». Fa per chiudere la porta della stanza, poi ci pensa
un attimo, forse si chiede se il suo dio non la punisca se non
saluta quel ragazzino seduto sul letto che si torce le mani e
si lecca il labbro, accenna un saluto con la mano, ma Mirko
ha preso a ondeggiare e nel suo mare la signora albanese è
un’isola non ancora avvistata. Chiude la porta, fuori piove
ancora, fra tre giorni è la festa del patrono.
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Le sei del mattino, il cimitero è pioggia sui tigli e sui caschi dei poliziotti. I morti sono bianchi o grigi o gialli, hanno
gli occhi tumefatti e la lingua secca. I morti non sentono la
mancanza, non hanno pretese e non danno risposte. I morti
sono tutti diversi, sono tutti uguali. I poliziotti pesano tutti
tanto, pesano sul ghiaino del cimitero con i loro stivali che si
allargano sui polpacci. Non so bene cosa cerchino, non me
lo chiedo, non lo voglio sapere. Ho seppellito il custode in
un loculo anonimo, niente cappella di famiglia, quell’uomo
non ha mai preteso niente dalla vita figuriamoci dalla morte. Il loculo non ha ancora una lastra di marmo, è solo un
quadrato di cemento grigio, non c’è ancora la foto e non c’è
il suo nome. Un poliziotto ha voluto sapere dove l’avessimo
seppellito, gliel’ho detto. Credo sia stato una sua curiosità
personale, non penso c’entri nulla con le indagini. Lo stanzino dove si è sparato è stato ripulito di ogni traccia di sangue
e adesso rimane solo l’odore acre dell’ammoniaca che si mischia a quello dei fiori. Hanno portato via il fucile, ho saputo
che prima che partisse il colpo è stato maneggiato dal custode e da Mirko, ho saputo che stanno aspettando che Mirko
si rimetta per fargli delle domande, hanno saputo che Mirko
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