G. Camomilla – AUTOSTRADE SpA - Dipartimento delle Bioscienze

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G. Camomilla – AUTOSTRADE SpA - Dipartimento delle Bioscienze
RIASSUNTO
Poter operare nel campo della sicurezza stradale, al fine di ridurre gli incidenti sulla
nostra rete e comunque le conseguenze degli stessi, è sicuramente motivo di
soddisfazione e di stimolo, ma per i tecnici e gli addetti coinvolti nel “mondo” delle
barriere di sicurezza non è facile districarsi tra normative in continua revisione, nuovi
parametri di valutazione in un “clima” generale non sereno anche per i grossi interessi
economici in gioco.
Sono trascorsi ormai 15 anni dai primi crash fatti dalla Società autostrade, che hanno
messo in moto lo sviluppo della ricerca e la nascita della “barrieristica”, e quasi 10
anni dalla promulgazione del primo D.M. che regola l’omologazione delle barriere di
sicurezza. Questo articolo ripercorre questi anni analizzando i processi e i concetti sulla
sicurezza che hanno originato la nascita e l’evoluzione di nuove barriere, della
normativa di riferimento e dei parametri di misura delle prove di crash.
Si analizzano le 18 barriere di sicurezza, che la Funzione Studi e Ricerche ha progettato
e testato per l’omologazione, ormai in uso continuo sulla rete aziendale ed al di fuori di
essa; tra queste le barriere New Jersey che risultano ancora le più sicure.
Viene analizzato, da un punto di vista tecnico, quanto si è fatto, senza trascurare anche
alcuni errori, ma si indica anche la strada che resta da percorrere per rendere la rete
stradale e autostradale italiana sempre più “intrinsecamente” sicura.
I NUOVI DISPOSITIVI DI SICUREZZA STRADALE
I RISULTATI DELLA RICERCA 2000 di “autostrade”
Gabriele Camomilla, Stefano Bruschi autostrade spa Funzione Studi e Ricerche
LA GESTIONE DELLA SICUREZZA
Il tema della gestione della sicurezza ben si situa nel più ampio tema della gestione delle strade, scienza
giovane, che sta facendo i suoi primi passi proprio in questi anni nei quali finalmente si comprende che
oltre alla necessità di creare nuove infrastrutture (poche) è forse più importante gestire bene quelle
esistenti.
Dal punto di vista del gestore della strada la sicurezza è soprattutto quella intrinseca della struttura. Per
ottenerla in pratica, occorre rendere la strada sempre più sicura, cioè con meno incidenti in relazione al
traffico smaltito, in primo luogo per come è fatta la strada stessa, prescindendo dal comportamento dei
conducenti e dei veicoli, ed in secondo luogo per minimizzare le conseguenze degli incidenti (in
termini di numero di feriti e di morti ) una volta che questi siano avvenuti.
In questo testo viene trattato principalmente il secondo argomento, cioè quello che si può fare per ridurre
le conseguenze di un incidente che si è innescato. Non tralasceremo di trattare un aspetto del primo, in
fase anch’esso di evoluzione, che riguarda la gestione della segnaletica orizzontale che sarà oggetto di
un prossimo articolo.
LA GESTIONE DELLE BARRIERE DI SICUREZZA
Cominciamo quindi con la gestione delle barriere di sicurezza, cioè quelle attrezzature che servono a
contenere i veicoli nella strada, dopo che il conducente ne ha perso il controllo, e che quindi governano
molte volte le conseguenze dell’ incidente.
L’uso di questi dispositivi di sicurezza è basato su quattro azioni così riassumibili sinteticamente:
(I)
il progetto del dispositivo, con sistemi avanzati di calcolo;
(II)
la sua verifica da eseguire con prove “full scale” di crash test che ne consentono anche la
validazione formale;
(III)
il progetto della sua sistemazione sulla strada con tutti gli accessori necessari;
(IV)
il controllo della efficacia delle soluzioni , basato sui risultati ottenuti nell’uso pratico, in
termini di riduzione di incidentalità e delle sue conseguenze 1 .
Per la messa a punto e l’impiego di questi dispositivi, sono pertanto necessari almeno tre tipi di figure
tecniche (il progettista del dispositivo, il progettista della sistemazione ed il gestore moderno della strada)
che sono diverse tra loro, ed agiscono con criteri diversi.
La scienza che governa la materia detta in gergo tecnico “Barrieristica” è abbastanza recente e non ancora
completamente sviluppata come materia di insegnamento specifica né in Italia né in altri paesi europei, tranne
qualche punta di diamante statunitense, in rapporto all’importanza che queste attrezzature hanno nei confronti della
sicurezza stradale e quindi della vita umana. Esse governano una mortalità molto più alta di quella dovuta all’AIDS
tanto per fare un paragone che è paradossale solo apparentemente; recenti studi belgi pongono infatti la mortalitá
maschile di quel paese al 19% per cause legate a malattie oncologiche maligne ed, al secondo posto, per il 13 % a
1
Molto interessante a questo fine è il nuovo approccio ,di origine belga, che consiste nel misurare l’ efficacia delle azioni di
miglioramento della sicurezza valutando anno dopo anno, la diminuzione del numero di “anni perduti”. Si intendono per tali gli
anni di vita residui probabili delle persone morte in incidenti stradali, che si calcola misurando il numero di morti negli
incidenti, moltiplicato per gli anni medi di vita probabile, partendo dall’età media degli incidentati comparata ad una vita probabile
pari a 75 anni.
quelle da incidenti stradali. In Italia è la maggior causa di morte dei giovani; “produce” infatti circa 9000 morti
all’anno e, non accertati nel numero, ma sbagliati per difetto, almeno 27.000-29.000 invalidi gravi (tre invalidi per
ogni morto), senza contare le centinaia di migliaia di feriti ed i danni economici.
La legislazione che via via ha regolamentato la barrieristica, ha pagato questo stato di fatto di
profonda carenza cognitiva, e per questo è stata dapprima nulla e poi continuamente rinnovata, man mano
che miglioravano le conoscenze su cui basare le norme.
È opportuno ricordare almeno la parte più recente di queste vicende, riferendoci grosso modo al
periodo 1987 – 1998, partendo cioè dal momento in cui si sono riprese da parte della società Autostrade
(Fig. 1) le prove su scala reale, cioè i crash test, dopo anni di abbandono e di totale vuoto legislativo.
I crash test sono stati ripresi da Autostrade perché dovevano essere valutati i sistemi di
protezione degli ampliamenti autostradali da due a tre corsie per direzione che allora avevano il massimo
del loro sviluppo; a quelle prove risale l’avvio degli studi della barrrieristica italiana nei suoi aspetti testé
ricordati
Fig. 1 La pista di crash test della soc. AUTOSTRADE ad Anagni. 2
A quell’epoca (1987) le barriere in uso derivavano da prototipi che erano state provati negli anni
60, nei laboratori ANAS di Cesano con crash test, molto più semplici di quelli attuali, eseguiti sempre
per conto di Autostrade, che aveva deciso di dotare di barriere di sicurezza lo spartitraffico delle allora
“nuovissime” autostrade.
Queste prove avevano dato origine ad un certo tipo di barriera che era stata pensata principalmente per le
vetture, in quanto a quell’epoca i camion erano piuttosto lenti e leggeri e non avevano il problema della
fuoriuscita di strada o dell’attraversamento dello spartitraffico.
Dopo quelle prove, avallate dall’Anas per l’impiego autostradale, non si erano scritte norme applicative
di nessun tipo. La materia del progetto del dispositivo, punto di partenza del’iter di protezione, era
considerata una esclusiva dei costruttori di barriere , che addirittura in seguito, come vedremo, per
alcuni anni, sono rimasti i soli organismi a poter progettare dispositivi di sicurezza stradale con le
conseguenze che vedremo.
Questo atteggiamento era stato infatti avallato da una delle normative poi promulgate e si è perpetuato
fino al 1998 quando è stata giustamente allargata la gamma dei possibili progettisti dei dispositivi.
Le barriere stradali sono un prodotto “povero” a scarso valore aggiunto, che non ha forti margini da
destinare alla ricerca, come invece potrebbe fare chi presiede alla costruzione delle strade o, meglio, alla
gestione della sicurezza della collettività. Ne consegue, con l’atteggiamento di cui si è detto, una ricerca
2
Per maggiori dettagli vedi sito www.autostrade.it (percorso da seguire: Home page, La società, II piano
Gestione delle strade ed il riquadro specifico)
povera e tesa a conservare i risultati, anche se errati o pericolosi od obsoleti, per un settore - la
sicurezza stradale - che, come si è detto, opera nel tentativo di limitare quella incidentalità stradale che è
la maggior causa di morte tra i giovani.
Questa tendenza alla conservazione dei risultati ottenuti può essere ridotta da una gestione della ricerca
dei dispositivi di sicurezza passivi della strada, con maggiori mezzi, tesi ad ottimizzare sia il loro
progetto, che il tipo di crash test, come ha fatto Autostrade nel 1987 e come può essere ulteriormente fatto
oggi, per esempio, usando sistematicamente i manichini strumentati, più costosi, ma più precisi nel
rilevare gli effettivi danni possibili a carico dei passeggeri. Anche l’omogeneizzazione delle tipologie da
impiegare, che notoriamente può meglio controllare e minimizzare le conseguenze di un errore umano, in
relazione alla strada in cui devono essere installate, richiede un maggior numero di costose prove.
Ma torniamo al sintetico racconto delle vicende normative della barrieristica; nel 1987, le
barriere provate dall’ANAS negli anni 60 si erano rivelate troppo “deboli” per i veicoli merci, divenuti
nel frattempo molto più veloci, pesanti e frequenti nel traffico autostradale e stradale (ed anche per le
vetture, anch’esse molto più veloci del passato).
EVOLUZIONE DELLE NORMATIVE ITALIANE
L’11 luglio del 1987, il Ministro Zamberletti promulgò la circolare 2337 che definiva dimensioni, forma
e materiali di una barriera definita “di minimo”.
La circolare diceva in sintesi che qualsiasi barriera si sarebbe potuta mettere in opera in Italia, purché non
fosse meno valida di questa, non fosse meno resistente (si parlava anche allora sempre in termini di
robustezza, perché occorre ricordare che in quel periodo il problema era appunto la scarsa “robustezza”
delle barriere).
All’epoca non si misurava ancora l’energia di contenimento, ma possiamo asserire da misure successive,
che la barriera di minima resistenza aveva (ed ha) un’energia di contenimento tra 50 e 60 Kilojoule.
Dal 1987 al 1992 la Società Autostrade fece eseguire un centinaio di prove di crash test (in linea con i
dettami della Circolare sopra ricordata), come accennato all’inizio di questo excursus, nella pista prove di
Anagni (Frosinone). In base a dette prove si misero a punto una ventina di tipologie di barriere da bordo
ponte, spartitraffico e bordo laterale, in acciaio, in calcestruzzo ed in legno, che, inserite in appositi
cataloghi, hanno poi permesso di progettare e porre in opera le barriere dei potenziamenti autostradali che
risalgono a quel periodo, cioè circa 1000 chilometri di spartitraffico, circa 1500 chilometri di bordo
laterale e circa 400 chilometri di bordo ponte.
La posa in opera di queste barriere, realizzate con criteri di rapidità e sicurezza della posa, funzionalità
estetica, protezione del rumore, riduzione degli interventi di manutenzione (e quindi dell’incidentalità e
dei costi connessi), sono tuttora perfettamente funzionanti ed hanno ridotto significativamente una serie
di problemi prima pressanti, quali il salto di carreggiata e la caduta dei mezzi pesanti dai ponti e dai
viadotti. (questo si riferisce alla fase IV della barrieristica che abbiamo ricordato all’inizio, ma che
spesso viene trascurata perché si guarda di più alle “prescrizioni” delle norme che ai risultati ottenuti
nell’impiego pratico).
L’energia di contenimento di queste barriere, cioè non la massima possibile, ma quella testata, era
compresa tra 70 e 450 Kilojoule; quindi tutte le barriere rispettavamo la Circolare 2337 che stabiliva
l’utilizzo di barriere con resistenza superiore a quella della barriera di minimo.
Il 18 febbraio 1992 il Ministero dei Lavori Pubblici promulgò il decreto n. 223, che chiameremo in
questa esposizione, per semplicità, 223/1 perché avrà successive variazioni. La forza del decreto 223/1 era
ed è quella di regolamentare in modo più articolato la complessa materia, introducendo le tipologie delle
barriere, la necessità di proteggere certi determinati luoghi, il progetto della sicurezza sulla strada (il III
aspetto tra quelli ricordati), la necessità di progettare e testare le barriere da usare in questo progetto
(aspetti I e II) nonché la necessità di seguire nel temp o i risultati ottenuti in opera (IV aspetto).
L’aspetto negativo di questo decreto era contenuto nelle istruzioni per l esecuzione delle prove; in esso
era definita un’energia di contenimento delle barriere per strade ad alto traffico (la classe denominata B3)
compresa tra 600 e 1000 Kilojoule e per le prove venivano richiesti almeno 800 Kilojoule da ottenersi
con un autocarro con baricentro minimo di 1.60 m.. Anche questo baricentro molto alto, tra l’altro non
presente nella normalità dei veicoli che percorrono le strade, richiede contenimenti, leggi principalmente
altezza anti ribaltamento, molto elevate. Ciò era ed è legato alla “sindrome da paura di attraversamento
dello spartitraffico” 3 , che, risolta dalle barriere testate con successo da Autostrade negli anni precedenti,
rendeva ancora più severe le richieste della nuova normativa, rispetto ai risultati già ottenuti.
Inoltre per la sicurezza degli occupanti i veicoli leggeri (autovettura da 900 Kg) era prevista una verifica
delle accelerazioni massime, peraltro fatta su altri veicoli (p.e. in classe B3 su di un furgone pesante
2000 chilogrammi , cioè con una massa notevolissima, più di 2 volte superiore a quella di una vettura
media), che era molto generica e priva di effettiva validità.
Altra carenza di questa prima normativa consisteva nel fatto che l’omologazione della barriera era
possibile solo ai produttori delle barriere stesse, che per ovvi motivi commerciali “tendono” verso lo
studio e l’omologazione di dispositivi molto potenti, cioè alti, ingomb ranti e pesanti: barriere di elevata
resistenza ma rigidissime.
Nel frattempo, l’Europa, con la Commission Européenne de Normalisation (CEN), aveva messo in
cantiere la sua normativa per i soli criteri di prova (il II degli aspetti della barrieristica); il working group
curava non solo i criteri per la prova delle barriere, ma anche di tutti gli altri dispositivi di sicurezza
stradale: barriere, assorbitori di urto, parapetti anche pedonali.
Il Ministero dei Lavori Pubblici, riconoscendo che quegli 800 Kilojoule erano effettivamente troppo
elevati, in data 15 ottobre 1996 modificò il decreto 223/1 facendo uscire il 223/2, il quale prevede
un’energia di contenimento, per la classe più severa B3, di almeno 600 kilojoule, e questa è anche
l’energia richiesta per il relativo crash. La classe B3 è peraltro l’unica che “beneficia” di una riduzione :
tutte le altre cinque classi di contenimento vengono ritoccate su valori superiori alla 223/1. Tutti gli altri
aspetti controversi o carenti della 223/1 non vengono “sanati”.
Nel frattempo, però, la norma europea CEN era giunta alla sua conclusione (EN 1317-1 e 1317-2)
sancendo il fondamentale principio che ogni barriera o dispositivo deve essere testata con una vettura
che pesi 900 chilogrammi e che deve subire nell’urto delle decelerazione contenute e misurate secondo
l’indice ASI, Acceleration Severity Index (o altri indici, tutti tesi alla salvaguardia del passeggero della
vettura media, il più esposto a pericoli nell’urto con barriere di sicurezza). Questi indici sono tutti però
ricavati in modo semplice (semplicistico sarebbe il termine più esatto e vedremo perché) misurando le
accelerazioni che subisce il veicolo durante l’urto nel suo baricentro. L’indice ASI, data la sua variabilità
e la sua imprecisione era considerato buono fino al valore di 1 (uno) ed accettabile fino al valore di 1.4 ed
oltre ”a secondo della zona di protezione”4 .
La norma europea ha comunque, come obbiettivo primario, la protezione dell’uomo, e non il
contenimento del camion nello spartitraffico, come la 223/2.
Il Ministero dei Lavori Pubblici, o meglio l’Ispettorato Circolazione e Traffico, che regola in Italia questo
settore, resosi conto che la normativa 223/2 era inadeguata, anzi potenzialmente “pericolosa” per le
vetture ha richiesto al Consiglio Superiore del ministero, nel luglio 1997, la revisione della 223/2, ed il
Consiglio ha costituito una Commissione specializzata e composita che l’ha analizzata ed ne ha preparato
una revisione, la 223/3 del 3.6.1998, che in pratica sposa tutti i principi della norma europea, aggiungendo
anche i criteri di scelta della classe di barriere o altri dispositivi da usare secondo il tipo di strada, criteri
che indirizzano le scelte del progettista di terza fase di cui si è parlato all’inizio.
3
Spesso nella legisla zione italiana sindromi non del tutto razionali di questo tipo danno origine a
normative che hanno conseguenze negative; basti pensare alla “Sindrome da paura di diossina" che ha
causato “l’estinzione” in Italia degli impianti di incenerimento della spazzatura, costringendoci alla corsa
alla discarica, che proprio in questo periodo mostra i suoi limiti: per mancanza di spazio stiamo
trasportando in Germania i rifiuti italiani perché ivi vengano bruciati (spesso in impianti altamente
tecnologici costruiti da aziende italiane).
4
Una notazione normativa di questo tipo è poco gradita in un paese come l’Italia dove le norme non si
utilizzano con lo spirito anglosassone della responsabilità, ma con il criterio dell’interpretazione
pedissequa e formale dello scritto, quindi le norme italiane non l’hanno recepita.
La 223/3, diversamente dalla 223/2, richiede principalmente alle barriere di garantire la salvaguardia e
protezione degli occupanti le vetture medio leggere, pur dovendo resistere all’azione dei veicoli pesanti.
Questi sono i suoi principi fondamentali.
L’energia di contenimento massima è ridotta a 572 Kilojoule e su questo valore (e negli altri relativi alle
diverse classi) la 223/3 è allineata con la norma CEN che però non prescrive dove vadano usate le
barriere di questa massima classe.
Si prescrive quindi sempre la prova con la vettura leggera, ma questa volta la 223/3 diviene
inspiegabilmente più severa della norma CEN : essa impone (e non suggerisce soltanto) un valore ASI
≤ 1.0 per tutti gli usi correnti mentre un ASI ≤ 1.4 è accettato solo per le zone con massimo pericolo 5 in
caso di superamento della barriera, cioè, per esempio, per la protezione sul bordo ponte, o per impedire la
fuori uscita in zone dove ci sono abitati o installazioni pericolose come raffinerie di petrolio, o altro.
Quindi, mentre le norme CEN indicano che “sarebbe preferibile” avere valori di ASI ≤ 1.0 ed accetta
correntemente valori fino a 1.4, la norma italiana prescrive che “bisogna” non superare 1.0 quasi
sempre.
Questa posizione che sembrava ineccepibile alla sua promulgazione è divenuta però il punto debole
della norma italiana 223/3, perché l’ASI si è rivelato un indice non valido per valutare la pericolosità
potenziale dei dispositivi sui passeggeri e le azioni esplicate per ottenerlo, hanno dato luogo a prodotti
meno validi dal punto di vista della sicurezza (vedi paragrafo dedicato all’ASI).
Si normalizzano gli assorbitori di urto puntuali ed i criteri di progetto ed uso dei terminali di inizio e
fine delle barriere ,” dimenticati “ dalla 223/2.(in questo modo si può parlare di “dis positivi” di sicurezza
e non solo di barriere).
Infine si estende la possibilità di omologazione a tutti i progettisti anche agli enti proprietari di strade; si
impone per contro che chi costruisce e/o installa barriere omologate abbia il controllo di qualità sulla
produzione e certifichi il montaggio secondo quanto previsto nell’omologazione.
Si completa così lo spirito della prima parte della 223, quella promulgata con la 223/1 che non è mutato
nel corso di questa evoluzione normativa, (che ha operato solo sul suo regolamento di esecuzione ) e che
affida l’altro aspetto fondamentale delle protezioni di sicurezza, cioè la sistemazione sulla strada (fase
III), ad un progettista specializzato responsabile (ingegnere), sottraendola al montatore, come la pratica
corrente e ben nota faceva.
Come conseguenze negative però la norma italiana ha dato luogo alla progettazione e conseguente uso di
barriere, specialmente quelle di tipo metallico, sempre più alte, larghe (cioè occupanti spazi laterali
spesso non disponibili su strade esistenti) e costose (maxibarriere) che vengono usate anche a sproposito,
non solo nelle strade primarie di adeguate dimensioni e dove il pericolo costituito dai camion è presente,
ma anche su strade di ridotto traffico ed anche in siti urbani, dove i veicoli merci non transitano e gli
autobus, condotti secondo certe regole, non rappresentano un pericolo potenziale che giustifichi certe
spese.
LE NORMATIVE ESTERE
La corsa alle maxibarriere è presente solo in Italia: non esiste paese al mondo che utilizzi barriere
con energia di contenimento dell’ordine di grandezze di quelle italiane.
5
Questa “rigidezza” nei limiti tra l’altro sta creando problemi perché esistono dispositivi che sono a
norma europea, ma non accettabili per la norma italiana; inoltre, come si dirà nel seguito l’ASI che non è
una misura degli effetti sull’uomo, ma sulla macchina, da luogo ad interpretazioni errate più che sul
risultato delle prove, sulla effettiva pericolosità per le persone delle diverse barriere.
La norma europea CEN, quella di cui abbiamo parlato finora, è promulgata dalla Comunità, come si è
detto, solo in termini di criteri di prova dei dispositivi di sicurezza; i paesi non sono obbligati ad
utilizzare la barriera di massimo contenimento in ogni punto della strada, ma decidono cosa fare di volta
in volta e fino ad oggi hanno deciso di usare dispositivi di minor potenza (livello di energia contenuta),
perché non è vero che più potenza voglia dire più sicurezza. E’ un errore fondamentale commesso
solo dall’Italia a partire dalla norma 223/1 e continuato nella norma 223/2 e poi nella 223/3.
Il pericolo temuto principalmente dall’immaginario collettivo italiano e sposato dal nostro legislatore,
legato più a fattori emotivi che razionali, è il salto di carreggiata dei veicoli merci che le norme tendono
ad individuare come massimo pericolo, ma che è di fatto meno “importante” della protezione dalle
fuoriuscite laterali e dei pericoli che corrono le vetture leggere negli urti normali; tra l’altro si evita il
salto di carreggiata del camion, ma non la perdita del carico trasportato, come diremo in seguito, che ha
effetti altrettanto mortali.
È comunque anche un problema economico: i livelli di energia che vengono richiesti in tutta la comunità
europea e negli altri paesi avanzati sono molto più bassi di quelli italiani, in questo modo essi, con la
stessa spesa, proteggono più strade, ed il risultato finale è quello di maggior sicurezza complessiva.
La Comunità europea si è anche posta il problema di verificare ulteriormente i criteri posti per la
valutazione dei risultati dei crash test dando luogo ad una ricerca denominata “Round Robin Test” da
effettuare da parte di tutti i centri di prova delle diverse nazioni al fine di verificare per la prova TB11
(quella della vettura leggera) che strumenti e metodi siano uguali e che i parametri di prova siano validi e
comparabili. Per questo oltre all’ASI saranno valutate l’efficacia degli altri indicatori quali il THIV e
PHD senza trascurare la possibilità di inserirne o di sostituirli con altri, se quelli descritti si dimostrassero
insufficienti alla valutazione della potenziale pericolosità dell’urto dei veicoli leggeri.
IL PERCHÈ DEL POTENZIALE PERICOLO
Vediamo di capire perché le barriere super resistenti di classi B2 e B3 (testate, ma non omologate, con i
criteri della 223/2) ed anche le successive H3 ed H4 della 223/3) possono essere (a meno di non studiarle
specificamente e verificarle come già detto) “pericolose” per le autovetture , e non solo per queste.
Il parametro ASI, funzione delle tre accelerazioni registrate sul baricentro dell’autovettura leggera, è un
indice della “rigidezza” della barriera durante l’urto; è quindi intuibile che, semplificando il fenomeno,
più grandi sono le deformazioni (dell’insieme barriera -autovettura) e maggiore è il tempo dell’urto, cioè
la lunghezza di barriera coinvolta, e più basso sarà il valore dell’ASI. In pratica quindi valori bassi di ASI
si possono ottenere o con grosse deformazioni principalmente a carico della barriera o anche con grosse
deformazioni dell’autovettura.
Questo risulta anche dagli studi del Politecnico di Milano condotti dal Prof. Vittorio Giavotto, che
evidenziano come l’ASI può facilmente scendere sotto 1, come vuole assolutamente la norma
italiana, se l’urto avviene all’altezza della parte vetrata dell’abitacolo, dove però si trova la testa dei
passeggeri o del conducente del veicolo leggero.
In generale molte barriere sono “pericolose” perché le vetture molto leggere, che rappresentano una
parte notevole del parco circolante, non possiedono la massa sufficiente per deformarle o spostarle.
Alcune di quelle dotate di paletti presentano dei problemi ulteriori da risolvere nel progetto, perché,
essendo la lama a tre onde tenuta spesso molto alta per bloccare i camion con baricentro alto 1.60, le
macchine le si possono infilare sotto e quindi possono facilmente “impuntarsi” su qualcuno dei molti
elementi (paletti più o meno fitti e distanziatori) che la costituiscono, con ASI potenziale ancora più
elevato di quello rilevato in prova.
Alcune barriere perfettamente omologabili quindi, hanno ASI basso non perché siano sicure, ma perché
evitano urti anomali di impuntatura che non farebbero superare le prove di omologazione, privilegiando
l’urto della parte superiore dell’abitacolo, che è potenzialmente molto più pericoloso
Inoltre, la dimensione trasversale di molte di queste barriere, e questa considerazione è ancora più
importante quando esse vengono applicate su strade esistenti di sezioni trasversali ridotte, è tale da creare
un forte ingombro effettivo e visivo che arriva fino ad un metro e venti da terra, cioè praticamente molto
al si sopra dell’altezza dell’occhio umano di chi guida vetture, riducendo fortemente la distanza di
visibilità della strada in curva.
Questa riduzione della distanza di visibilità è un fatto di elevata gravità tecnico-economica che va
contro l’ingegneria stradale, contro la sicurezza intrinseca primaria della strada.
Ma non è finita: la grande resistenza della barriera non risolve comunque il problema della perdita del
carico trasportato dai veicoli merci ed anzi ne aumenta la probabilità in quei veicoli merci “di medio
tonnellaggio” che potrebbero essere contenuti anche da barriere meno rigide e potenti. Cioè, se la barriera
resiste fino ad energie così alte, per energie di urto più normali, che poi sono quelle dell’urto più
frequente, è più probabile che il carico passi dall’altra parte provocando situazioni di pericolo analoghe a
quelle che si hanno senza il trattenimento del veicolo.
Con queste soluzioni quindi, da un lato si riduce la protezione per le autovetture, che costituiscono spesso
più dell’80% dell’intero traffico stradale; il restante 20% poi, in caso di urto può dar luogo alle
conseguenze di cui si è parlato per ciò che concerne i carichi trasportati.
La soluzione a tutti questi problemi è la revisione della la 223/3, per arrivare ad una 223/4,
preceduta o meno dall’adozione anche in Italia della norma europea nella versione integrale, che
almeno elimini le storture più immediate della nostra norma
Perché, a questo punto, la ricerca e tutta l’intelligenza dell’ingegneria delle barriere, la “barrieristica”, che
si è formata in questi anni grazie a tutte le vicende narrate, è già rivolta all’individuazione di barriere del
tipo che abbiamo appena definito, che diano per le autovetture, o meglio per gli occupanti delle
autovetture, degli indici di decelerazione bassi e che comunque abbiano delle energie di contenimento
necessarie e sufficienti. Tra l‘altro ci sono progettisti - gestori di strade che cercheranno di ottimizzare,
pur senza trascurare l’aspetto economico, principalmente la protezione per gli urti a bassa energia, i più
diffusi, invece di progettare solo per superare le prove di omologazione, che tengono conto solo o
principalmente degli urti, molto poco probabili, a energia massima.
La nuova normativa anche se imperfetta, sta così generando soluzioni per l’uomo e la strada (ed anche per
i produttori di barriere) e valide anche dal punto di vista economico (con gli stessi soldi proteggo più
strade), per cui entro un certo tempo, anche breve, si arriverà a realizzare protezioni di nuova concezione,
che siano adatte alla gestione in sicurezza della strada.
Una certa resistenza e certamente presente da parte di alcuni produttori che vorrebbero sfruttare di
più le barriere già testate e in attesa di omologazione, dato l’alto costo delle prove, che peraltro
dovrebbe aumentare se si affermasse la linea di quelli che sostengono che le valutazioni in merito alla non
pericolosità, per i passeggeri, delle barriere vadano fatte con l’ausilio di manichini, come già avviene
per l’omologazione delle autovetture.
Queste resistenze si possono vincere creando dei finanziamenti ad hoc da parte dello Stato, che fino ad
oggi non ha investito nulla in questo settore vitale della ricerca di dispositivi di sicurezza che conseguano
i migliori risultati sia per il livello di contenimento che per la protezione degli occupanti i veicoli leggeri.
IL PROBLEMA DELL’ASI
Esaminiamo ora come si è pervenuti alle conclusioni su esposte.
Inizialmente si era partiti (223/1 e 223/2) da una valutazione delle accelerazioni su furgoni da 2000 kg.
(ovviamente non significative), e solo con la 223/3 gli studi si sono concentrati sull’ottenimento dell’ASI
su autovetture leggere conformi alla prova TB11 prevista dalla normativa europea; il compito non era
semplicissimo, perché l’ottenimento di ASI con i valori richiesti non è risultato dei più facili.
Non bastava permettere i movimenti e le deformazioni della barriera necessari anche con l’urto,
relativamente debole, della autovettura leggera: occorre in più avere una resistenza graduale a questo
urto.
Tutto deve essere molto calibrato, per smorzare e per diluire nel tempo l’energia cinetica dell’ automezzo.
Tutto ciò è stato evidenziato nei primi crash test condotti nelle piste di Lione (L.I.E.R.) ed Anagni
(Autostrade spa) dopo la promulgazione della 223/3, quando si è affrontato anche il problema della
misura secondo le nuove prescrizioni che prevedevano la sistemazione degli accelerometri “in punti
significativamente vicini” 6 al baricentro della vettura.
Questo termine è importante perché una misura spostata rispetto al centro di gravità della vettura di
prova può alterare il valore dell’ASI7 :
in aumento, se ci si pone davanti al baricentro rispetto al senso di movimento della vettura ;
in diminuzione se ci si pone posteriormente.
Nei test condotti nel passato, questo fatto non era stato preso nella necessaria considerazione, stante le
difficoltà che comportava in certe vetture il posizionamento dei sensori sul baricentro (in pratica vicino
alla leva del cambio) ed anche per la ridotta importanza che, secondo le norme vigenti al momento,
aveva, come ricordato, la misura delle accelerazioni; naturalmente, nella maggior parte dei casi, questa
variabilità dei valori dell’ASI, dell’ordine di uno o massimo due decimi, sarebbe stata trascurabile
adottando la norma europea, che accetta valori da 1 fino a 1.4, ma con la norma italiana assume
un’importanza notevole.
Per ottenere questi comportamenti mutui tra veicolo e barriera tali da conseguire valori di ASI ≤ 1 si sono
dovuti progettare dispositivi specifici, da inserire nei punti giusti; alcuni di questi dispositivi, brevettati,
sono già stati messi a punto sulle barriere studiate dalla società Autostrade che hanno già superato le
prove che ne permetteranno le omologazioni.
I “SEGRETI” DELL’A.S.I. (ED I SUOI LIMITI)
L’indice che è stato scelto negli anni cinquanta dagli sperimentatori americani risulta dalla
ricomposizione secondo una certa formula, delle tre componenti dell’accelerazione (longitudinale ax ,
laterale ay e verticale az , che normalmente, in questo caso, tutti chiamano decelerazione) che subisce il
veicolo quando urta un ostacolo. La formula è:
A.S.I. = [ (ax / 12)2 + (ay / 9)2 +(az / 10)2 ]1/2
Si vede chiaramente come lo sperimentatore ha voluto dare pesi diversi alle tre componenti secondo dei
criteri che non sono stati mai ben chiariti, al di là di una certa verifica empirica di risultati di incidenti
ricostruiti a posteriori dove, per valori di ASI sotto certe soglie le persone presenti sui veicoli avevano
subito danni crescenti con l’ASI. Questo spiega il comportamento delle norme europee che non
impongono limiti rigidi al valore dell’ASI, ma suggeriscono dei campi di validità assolutamente
accettabili fino al valore di 1.4 , anch’esso superabile in certi casi.
Inoltre possono essere misurati altri parametri, come il PHD (decelerazione massima della testa dopo
l’urto) o il THIV (velocità d’impatto della testa teorica contro superficie fissa) per verificare la validità
del dispositivo nei confronti della protezione dei trasportati. Nella situazione attuale l’unico parametro
che in Italia giudica della validità del dispositivo è l’ASI, considerato inoltre, come si è ricordato, in
modo molto fiscale, con limiti molto rigidi.
Studiamone quindi il meccanismo.
Dopo numerose prove di crash che Autostrade ha condotto su propri dispositivi, si dispone di una
casistica di ASI che mostra subito la forte differenza esistente tra tipologie diverse di barriere (vedi Fig.3)
Le barriere a lame e paletti infissi si comportano in modo nettamente diverso da quelle “a muretto”, cioè
quelle appoggiate sul supporto (ancorate o no ) con profili che inducono cinematiche specifiche all’urto e
che nella pratica corrente sono conosciute come “barriere New Jersey”.
6
Nell’agosto del 1999, una nuova circolare ha specificato cosa voglia dire “significativamente”; in pratica da allora la misura va
fatta proprio sul baricentro del veicolo; nella circolare si è precisato anche che le misure ASI vanno arrotondate alla prima cifra
decimale
7
Anche se questo cambiamento è significativo solo in termini formali, data la rigidezza della norma italiana;con la norma europea la
variabilità accettata dell’ASI non cambierebbe i risultati se esso non venisse misurato esattamente nel baricentro (vedi paragrafo :I
SEGRETI DELL’ASI).
La differenza è nella componente az , l’accelerazione verticale, presente vistosamente nei muretti e quasi
sempre assente nelle barriere a lame (vedi Fig. 4 ed anche le foto del riquadro relativo ai New Jersey che
mostrano il sollevamento del veicolo urtante, estremamente positivo per ridurre le energie di urto frontale
e laterale); in termini di valore di ASI ciò penalizza fortemente le prime che con danneggiamenti al
veicolo 8 ed all’uomo nettamente inferiori a quelli presenti su veicoli che urtano le barriere a paletti, hanno
ASI più alti, proprio per il loro comportamento, che spinge verso l’alto il veicolo che urta, alzando sì la
componente az e quindi l’ASI, ma dissipando anche molta energia in una direzione nella quale il
passeggero è ben protetto, se ha le cinture di sicurezza.
Naturalmente ne consegue anche che, se l’urto è ben distribuito nel tempo e se la barriera a muretto si
sposta gradatamente, si può ottenere ugualmente l’ ASI minore di 1 richiesto dalle norme, che in questo
caso significa maggior sicurezza per il passeggero in quanto in esso c’è sempre la componete az , positiva
per le ragioni sopra .descritte, non presente nell’altro tipo di barriere, che quindi, per offrire la “stessa
sicurezza” dovrebbe avere ASI minore. Cioè a parità di indice ASI una barriera tipo New Jersey presenta
componenti ax e ay , le più pericolose per i passeggeri che vengono proiettati verso l’esterno e quindi
verso la barriera, inferiori rispetto alle barriere a lame e paletti.
8
Abbiamo detto come le deformazioni dell’insieme barriera-autovettura permettano valori di ASI “bassi” e negli urti con barriere
New Jersey le deformazioni della barriera sono nulle (anche se la dissipazione di energia si ha grazie al loro spostamento
trasversale) e quelle del veicolo sono molto più “soft” rispetto a quelle riscontrabili con barriere d’acciaio tipo “guardrail”.
7
Fig. 3. A confronto le tre componenti ax , ay ,az, dall’alto verso il basso (gli ASI, di valori simili, sono i
due diagrammi più in basso) delle decelerazioni di un urto su barriera a muretto N.J. (a sinistra) ed a
lame e paletti (a destra). Le ax sono molto simili; le aY sono diverse nella distribuzione temporale, ma
simili per l’energia dissipata; le az sono molto diverse: quasi inesistente quella delle lame, importante
quella del muretto
I RISULTATI DELLA RICERCA AUTOSTRADE:LE BARRIERE OMOLOGABILI
Partendo da brevetti specifici, ricercati al fine di controllare le decelerazioni imposte dall’urto di vetture
leggere (ASI) e per il contenimento di mezzi pesanti, la società Autostrade, nel periodo 1999 - 2000, ha
progettato e fatto costruire, per poi sottoporre a crash test, i prototipi di diverse barriere.
Fig. 4 Valori degli ASI su diverse barriere New Jersey in cui si vedono le variazioni eseguite per
ottenere gli Asi ; foto di un urto su di una barriera Autostrade, con il comportamento del veicolo all’atto
dell’urto. Alla fase di sollevamento segue un atterraggio morbido, senza ribaltamento, come avviene del
resto anche su strada dove questo tipo di protezione nelle sue diverse forme, è presente per oltre 2000
chilometri da più di 10 anni
I risultati dei crash test eseguiti nelle piste autorizzate di Anagni e Lione sono stati presentati al Minis tero
dei Lavori Pubblici, Ispettorato Generale per la Circolazione e la Sicurezza Stradale ai fini della loro
omologazione.
Le barriere che hanno superato le prove, nelle varie classi di contenimento, sono attualmente sette per
bordo laterale, cinque per spartitraffico, quattro per bordo ponte, una per la protezione dei cantieri di
allargamento e/o per i varchi spartitraffico semifissi ed un assorbitore d’urto (vedere alcuni disegni
schematici nelle figure che seguono). Più precisamente sono disponibili i seguenti dispositivi:
Barriere a paletti e lame d’acciaio
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Barriera bi-onda bordo laterale classe N1;
Barriera bi-onda bordo laterale classe N2;
Barriera bi-onda bordo laterale classe H1;
Barriera trionda bordo laterale classe H2;
Barriera bi-onda contrapposta bordo laterale classe H2;
Barriera trionda bordo laterale classe H3;
Barriera trionda bordo ponte classe H3;
Barriera trionda bordo ponte classe H4;
9. Barriera trionda bordo laterale classe H4;
10. Barriera trionda bifilare spartitraffico classe H4;
11. Barriera a doppia trionda monopalo spartitraffico larghezza 63cm, classe H4.
Barriere a muretto New Jersey, in acciaio o calcestruzzo
12. Barriera in calcestruzzo New Jersey monofilare h=100, L 62 cm; (per cantieri e per varchi nello
spartitraffico) classe H2;
13. Barriera in calcestruzzo New Jersey monofilare h=100, L 62 cm;. per spartitraffico classe H4;
14. Barriera in calcestruzzo New Jersey bifilare h=100, L 62 cm;. per spartitraffico classe H4;
15. Barriera in calcestruzzo leggero N.J. monofilare h=120, L 66 cm, con funzione anche di frangiluce,
per spartitraffico classe H4;
16. Barriera in acciaio New Jersey h =150 cm, per bordo ponte classe H4;
17. Barriera in calcestruzzo leggero New Jersey h =150 cm, per bordo ponte classe H4.
Assorbitore d’urto per punti singolari
18. Dispositivo assorbitore d’urto per cuspidi e/o punti singolari in polietilene classe TC2;
Le barriere Autostrade SRC sono state studiate con l’ottica del gestore di strade, quindi tenendo presente,
oltre naturalmente il buon comportamento con l’autovettura e il contenimento del veicolo pesante,
l’ottimizzazione del montaggio e della manutenzione; sono di peso ridotto sia per i bordi laterali normali
che sui ponti, dove non richiedono rinforzi e non trasmettono gli urti alle strutture sottostanti.
Tutte hanno dispositivi per la riduzione degli effetti dell’urto su autovetture leggere e/o sono state
espressamente verificate per questo tipo di funzionamento, dando quindi anche la massima garanzia sia
per la protezione degli utenti “deboli” che per i gestori, in eventuali contenziosi conseguenti ad incidenti.
. Fig. 5 - Il distanziatore autostrade brevettato,in una delle sue forme più usate
A precisazione di quanto detto in precedenza, quando si è parlato di “punti di vista” nella gestione in
QUALITÀ, la nuova norma 223/3 ha avuto il pregio di permettere l’applicazione anche del punto di
vista del gestore \proprietario: quando il gestore può omologare le barriere può fare in modo che quelle
che vengono messe sulle strade/autostrade delle sua rete siano non solo le migliori per l’utente, studiate a
questo fine come già detto, ma anche siano in un numero non eccessivo di tipologie, o per lo meno di un
certo tipo per ogni tipo di strada e per ogni zona della medesima. In questo modo si genera una par
condicio nei costruttori di barriere i quali produrranno al minor prezzo le barriere definite
dall’omologazione del gestore ed il gestore avrà le barriere tutte uguali e molto simili, per cui il
magazzino, le riparazioni e tutti gli altri aspetti connessi con la gestione e la manutenzione saranno
facilitati.9 . Il costo unitario scende (per contro il mercato cresce con vantaggio di tutti). Inoltre non
9
Con l’omologazione da parte del costruttore, succede invece che c’è una proliferazione di barriere simili, ma tutte diverse, per cui
si dovrebbe avere in stoccaggio per ogni chilometro e per ogni tratta di cui è costituita la strada una serie di pezzi diversi. Questo dà
scende solo il costo, ma anche la rapidità di intervento nella riparazione, per cui la sicurezza aumenta e
con essa il numero di anni di vita “salvati”.
Questo chiaramente nell’ottica di una gestione vera della strada. Cosa vuole dire gestione vera? Vuol
dire che se c’è qualcuno che urta su di una barriera, il gestore dopo un giorno o un tempo ridotto,
provvede alla sua riparazione e quindi al ripristino della sicurezza. È ovvio che se la politica aziendale
prevede di non intervenire rapidamente (la barriera non viene riparata e rimane “incidentata” per anni) ma
di fare una gara unica per ripararla insieme ad altre nelle stesse condizioni, non è più gestione vera.
Chi ripara i danni in tempi lunghi, quindi non gestisce e può anche accettare barriere scelte con criteri
meno scientifici.
IL FUTURO AUSPICABILE
Non siamo naturalmente ancora alla fine del percorso di ricerca applicativa (con una battuta si può dire
che i ricercatori non “trovano” mai la soluzione definitiva), ma nel nostro caso la ricerca ha veramente
ancora molto da fare per ottimizzare ancora di più i risultati già ottenuti anche alla luce di quanto essa
stessa ha messo a punto e sa padroneggiare sempre meglio.
In sede europea infatti dalle perplessità destate dalla scarsa validità dell’ASI per giudicare dei risultati
ottenibili con le barriere, sta nascendo l’esigenza di rivedere i criteri di validazione e questa esigenza è
sostenuta anche dall’UNI italiano e da tutti gli interessati al miglioramento della sicurezza reale della
strada.
Il tutto si può manifestare in modo sintetico in una revisione delle norme con i seguenti punti principali,
da discutere:
§
§
§
§
§
Verificare se è possibile abbassare il baricentro di prova dei veicoli merci;
Allineare il criterio dei limiti dell’ASI alla normativa europea o rivedere l’uso dell’ASI e/o la sua
formula, eventualmente eliminando la componente verticale che discrimina uno dei comportamenti
potenzialmente positivi per la sicurezza dei dispositivi;
Introdurre in alternativa o in aggiunta alcune o la totalità delle prove con l’uso del manichino tipo
ibrido III, per verificare il comportamento effettivo della barriera sull’uomo almeno con l’indice già
noto dell’HIC (Head Injury Criteria) oppure usare il manichino almeno per studiare le revisioni da
apportare agli attuali indici di accettazione ASI e THIV;
Definire dei criteri più precisi per la valutazione del VCDI;
Dare alle piste di prova potere certificatore sui risultati della prova (risultato positivo o negativo), per
ridurre i tempi di decisione degli organismi centrali di valutazione tecnica, che, non decidendo ormai
da mesi, trasferiscono di fatto le decisioni ai gestori delle strade all’atto delle gare, e questi ultimi,
raramente esperti di barrieristica, hanno modi non omogenei ed a volte solamente burocratici, per
scelte basilari per la sicurezza stradale.
luogo a una serie di ovvi inconvenienti ed è necessario ricordare i problemi che sorgono nelle gare pubbliche nell’ambito della legge
109 e suoi derivati, che in pratica non permetterebbe l’ impiego di barriere diverse da quella di progetto.
LA PISTA DI ANAGNI
Storia
L'impianto di Anagni è nato nel 1987 quando la Società Autostrade, in vista di una serie di investimenti
per l'ampliamento e l'adeguamento della propria rete autostradale, ha deciso di ristudiare tutti i dispositivi
di sicurezza passiva secondo i criteri più avanzati al momento. Le barriere usate sino ad allora erano state
studiate in prove di crash effettuate durante gli anni '60 nel centro ANAS di Cesano (ROMA).
Creato l'impianto di lancio, con esso si sono provati in oltre 120 crash-test, molti dei dispositivi ormai
divenuti familiari agli automo bilisti italiani:
barriere New Jersey spostabili sotto l'urto per centro strada e bordo ponte
barriere metalliche di II generazione a doppia e tripla onda
barriere in legno e acciaio
barriere fonoassorbenti
assorbitori d'urto puntuali
La pista ha conseguito l'ufficialità ai sensi del D.M. n. 2344/96 ed ha eseguito ad oggi oltre 300 crash test,
il che porta il totale delle prove Full Scale eseguite ad oltre 400.
La pista costruita dalla Società Autostrade nell'ambito del Centro ISAM, Istituto Sperimentale Auto e
Motori di Anagni, è una filiazione del Centro Rilevamento Dati e Prove sui Materiali della Funzione SRC
della Società Autostrade, che cura tutto il settore delle Terotecnologie Stradali, cioè i servizi di gestione e
manutenzione in Qualità delle infrastrutture di trasporto:
manutenzioni programmate delle pavimentazioni
monitoraggi e collaudi
sicurezza, ambiente e arredo autostradale
soluzioni per la funzionalità e la qualità delle infrastrutture di trasporto
Una pis ta di prova per crash test è il luogo dove i dispositivi di sicurezza, progettati con metodi avanzati
di modellistica matematica, vengono verificati sotto urti di energia standard che non rappresentano le
condizioni di urto normale, ma quelle di urto esasperato, definite da apposite normative.
I moderni dispositivi di sicurezza vanno testati per rendere meno gravi:
gli urti delle autovetture
gli urti dei veicoli pesanti
Per le prime è importante verificare che il livello delle accelerazioni raggiunto nell'urto standard non
superi determinati valori: in questo modo, con cintura di sicurezza, il passeggero ha la massima
probabilità di sopravvivenza, senza danni o senza gravi danni.
[mettere foto da depliant-internet]
Per i secondi è importante il contenimento nella sede stradale, anche a protezione di chi abita nelle
immediate vicinanze del bordo della strada o, nel caso di autostrade, di chi transita sulla carreggiata
adiacente.
Vicenda attuale
Dopo la privatizzazione della Società Autostrade sono sorte delle questioni, sollevate da produttori di
barriere, circa la possibilità che il Centro di Anagni possa effettuare prove anche per conto di prodotti
messi a punto dalla stessa Società, proprietaria del Centro, data la sua “non terzietà”; in pratica si tentava
di impedire l’omologazione delle barriere progettate e testate dalla Società Autostrade.
Questa problematica è ormai stata risolta, confermando la validità della linea seguita dall’azienda, sulla
base di una serie di sentenze edite dal TAR del Lazio e sulla base della normativa europea sui Certified
body, che prevede casi analoghi a quelli della Pista di Anagni e ne convalida la possibilità di operare
anche per l’organismo proprietario, in quanto unico Centro Prove in Italia, purché siano rispettate certe
garanzie che in Anagni sono state sempre presenti.
Tutto questo è stato riconosciuto dal D.M. del Ministero dei Lavori Pubblici protocollo n° 3011 del
8.5.2001; in particolare all’Art. 10 si sottolinea la validità dei certificati di prova emessi prima
dell’emanazione del decreto stesso, e che quindi nulla osta all’omologazione delle barriere
progettate e testate dalla Società Autostrade presentate nel presente articolo.
Ciò assicura la continuità di una organizzazione che ha sempre fornito sin dal 1987 risposte scientifiche e
tecniche al settore della sicurezza passiva del traffico stradale, anche grazie alla collaborazione continua
con i più avanzati Istituti di ricerca del settore, italiani e stranieri, come il Centro Crash test del
Politecnico di Milano e le piste di prova europee di Francia, Germania, Inghilterra, Svezia e Svizzera.
Ultimamente le prove più avanzate sono quelle con l’uso di manichini per verificare le effettive
conseguenze degli urti più pericolosi nei confronti delle persone trasportate.
LE BARRIERE NEW JERSEY
Le barriere New Jersey sono dei “muretti” con la parte lato strada sagomata secondo tre pendenze
diverse che hanno lo scopo di reindirizzare il veicolo in svio in modo tale da far prima salire il
veicolo sul paramento così sagomato (creando così l’accelerazione a z di cui si è parlato nell’ASI) per
poi rinviarlo verso la carreggiata stradale che aveva abbandonato, in un tempo più o meno lungo a
seconda dell’angolo e della velocità dell’impatto.
La forma del paramento è stata definita negli anni 50 nel New Jersey (USA) da qui il nome; questa
forma è stata scelta per gli esperimenti Autostrade degli anni 80, perché era quella che garantiva il
miglior comportamento nella redirezione dei veicoli a passo corto, dopo le espe rienze positive
americane con i veicoli europei e quelle negative del TRRL inglese con le Mini Minor a ruote
piccole.
La originalità del New Jersey “autostrade” sta nel fatto che la barriera, sufficientemente armata per
non essere spezzata dall’urto, è realizzata in elementi prefabbricati, collegati tra loro con robuste
barre di acciaio all’altezza di circa un metro, semplicemente appoggiati a terra per permettere la
traslazione laterale sotto l’urto in modo da facilitare l’affiancamento del veicolo all’elemento di
barriera spostata; questo affiancamento alla barriera che si sposta formando un’ansa più o meno
accentuata, unitamente al meccanismo di saliscendi già descritto, facilita il “controllo” da parte del
dispositivo specialmente per i veicoli di maggior massa, e la loro ridirezione, distribuendo l’energia
dell’urto lungo la barriera stessa che collabora con più elementi formanti una catena.
Questo spostamento è presente anche nei New Jersey da ponte in cemento o in acciaio, dove lo
spostamento laterale è contenuto da ancoraggi duttili che prima si deformano e poi si spezzano
sotto l’urto, trasmettendo alle strutture del ponte (solette a sbalzo e travi) solo sollecitazioni ridotte
anziché tutta l’energia prodotta dall’urto.
L’altezza ridotta di questi muretti e il sollevamento del veicolo non da luogo a fenomeni pericolosi
per il manichino che sicuramente non urta la barriera. Le figure mostrano una delle prove con
manichino dove si è ottenuto HIC = 122, valore molto basso e pari al solo sfondamento del vetro
laterale (ad oggi si ritiene di poter indicare in 600-700 il valore limite per il parametro HIC per urto
laterale su barriera con angoli fino a 20°).
[Altre foto sono nel file Power Point .Vanno inserite nel paragrafo delle barriere omologate da
Autostrade]