G. Melandri, F. Sirano

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G. Melandri, F. Sirano
Roma
CeC 2012
21-23 Giugno 2012
Contestualizzare la “prima colonizzazione”:
Archeologia, fonti, cronologia e modelli interpretativi fra l'Italia e il
Mediterraneo
Contextualising “early Colonisation”:
Archaeology, Sources, Chronology and interpretative models between Italy and
the Mediterranean
I primi contatti col mondo greco e levantino a Capua tra la prima età del ferro e gli inizi
dell’Orientalizzante
Gianluca Melandri - Università degli Studi di Milano
[email protected]
Francesco Sirano
Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta
[email protected]
1. Ricostruire lo scenario dei primi contatti tra Capua e il Mediterraneo orientale significa non
soltanto dar conto dei rapporti di scambio individuabili nell’analisi della cultura materiale ma
cercare di riconoscere l’impatto culturale e tecnologico che tale apporto ha avuto, in una mutua
correlazione, sulla comunità indigena. A tale scopo si tenta di presentare gli elementi significativi
per far luce su questa problematica in una scansione diacronica che non offra soltanto una
panoramica delle diverse categorie di oggetti, orientalia lato sensu e prime importazioni greche, ma
anche del loro innesto in un più ampio quadro culturale, che risulta fin dalle origini dinamico e
variegato per apporti e stratificazioni.
I recenti studi sull’età del Ferro a Capua e le recenti scoperte di nuovi lotti di sepolture nelle
necropoli del Nuovo Mattatoio (comune Santa Maria Capua Vetere, loc. Parisi, scavi 2005-2006) e
di Cappuccini (comune S. Tammaro, loc. Scondito/Masseria Melelle, scavi 2011) hanno poi
ampliato ulteriormente tale quadro.
2. Nel caso degli orientalia, il materiale è costituito quasi esclusivamente da scarabei (necropoli
Cappuccini, Fornaci, San Tammaro) ed è collocabile tra l’VIII secolo a.C. e gli inizi del VII secolo
a.C. con significative, seppur sporadiche, presenze di oggetti ciprioti e levantini riferibili già al IX
secolo a.C. Agli scarabei si aggiungono statuine-pendenti di divinità egizie e pendagli in argento,
più propriamente fenici ma assimilabili concettualmente agli altri prodotti egizi ed egittizzanti. Dai
contesti più antichi provengono oggetti di fattura vicino-orientale, mentre le tombe successive alla
seconda metà dell’VIII secolo a.C. si segnalano per la presenza di produzioni più massificate,
soprattutto rodie.
Per il IX secolo a.C., la t. a tumulo Nuovo Mattatoio 1/2005 risulta la sepoltura più eminente del
lotto. Si tratta di un’incinerazione in vaso biconico decorato a pettine, con motivi tipici del distretto
tarquiniese e la “vestizione” a borchiette di bronzo dell’urna, accanto a una spada tipo Cuma
ritualmente defunzionalizzata, e a un rasoio a paletta rettangolare. Agli elementi brevemente
descritti, che datano il contesto al più alla fine della fase IA1 (ca. primo quarto del IX secolo a.C.),
si aggiunge un calderone tripode con manici ad anello verticali di tradizione tardo-cipriota.
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Il reperto è significativo perché trova confronti nei tripodi di tradizione egea del XIV-XII sec. a.C.,
in un piccolo calderone proveniente dalla t. 49 di Palaepaphos-Skales a Cipro (CG, seconda metà
dell’XI sec. a.C.) e in uno da Dorgali-Cala Gonone e può essere considerato diretto antecedente di
quelli geometrici di Adrano (VIII-VII sec. a.C.). In particolare la piastra rettangolare con tre
ribattini fissata alla rinforzatura dell’imboccatura ricorda quelli di Piediluco (deposito di
Contigliano), datati alla II metà dell’XI secolo a.C. ma in un contesto relativo alla II metà del Xprima metà del IX; la datazione di tali frammenti era basata sugli scarsi confronti succitati nel
Mediterraneo e la loro presenza in un deposito riferibile ad almeno il secolo successivo veniva
giustificata a suo tempo attraverso un fenomeno di tesaurizzazione, abbastanza verosimile per la
natura stessa del contesto di rinvenimento. La scoperta del calderone capuano, in un contesto ben
datato e chiuso quale il corredo della t. NM1/2005, colma la penuria di testimonianze, offrendosi
come prezioso trait d’union della classe, poco rappresentata a orizzonti così recenti e che illustra
un’evoluzione rallentata del tipo tra tarda età del Bronzo e inizi dell’età del Ferro.
I labili apporti levantini durante la I fase si disvelano anche attraverso un altro reperto ben più
recente, quello della t. Cappuccini 95 (fase IB2, fine del IX-inizi dell’VIII secolo a.C.). Al suo
interno si rileva la presenza di un pendaglio in faïence a forma di scrofa, riconducibile a un tipo
presente dalla XXI dinastia in Egitto. In Italia ne sono noti due esemplari, uno conservato al Museo
di Asti e uno da Pitigliano. A proposito del secondo si è fatto riferimento a un confronto stringente
che proviene dalla t. 1/11 della necropoli di ‘Ain Shems in Palestina.
Il numero di orientalia a Capua cresce esponenzialmente a partire dal secondo quarto dell’VIII
secolo a.C. La loro presenza sembra sollevare numerose questioni spinose e collaterali relative
principalmente ai canali di trasmissione, alla loro recezione in ambito indigeno, alla consapevolezza
mediata del loro significato originario in chiave escatologica e magico-religiosa, alla possibile
autenticità egizia o, più in generale, all’individuazione della loro produzione, ai possibili vettori
degli oggetti e al ruolo mediatore svolto in ambito coloniale che può avere coinvolto Greci e/o
Fenici.
Il campione è formato principalmente da scarabei, sebbene non manchino anche scaraboidi,
statuine, pendagli, vaghi in faïence più o meno direttamente collegati ai medesimi flussi e
provengono tutti da contesti funerari di individui inumati in fossa di sesso femminile, spesso sotto
forma di collane composite.
La t. Quattordici Ponti 17 ci permette di segnalare un tipo di oggetto esotico molto apprezzato a
Capua: il pendaglio d’argento con falce lunare e disco solare. Lo stesso tipo si riscontra in tombe
capuane coeve o di poco posteriori, caratterizzate da corredi particolarmente ricchi (tt. Fornaci 200
e 1203). Il tipo è presente in Italia a partire dal IX secolo (Tarquinia IA), sebbene il motivo del
crescente lunare associato al disco solare abbia origini mesopotamiche ben più antiche. In Fenicia e
a Cipro, agli inizi del I millennio, la diffusione di questo motivo con la falce sormontante il disco, e
non viceversa, raggiunge una tale diffusione da renderlo elemento distintivo della produzione
levantina per cui si è arrivati alla conclusione che non si possa prescindere per questi prodotti da un
coinvolgimento di “vettori fenici” se non addirittura a maestranze straniere in loco, anche per
rinvenimenti avvenuti in area greca (Rodi). M. Botto sottolinea tuttavia la penuria di rinvenimenti
nel Levante durante l’età del Ferro, fase in cui sono maggiormente attestati almeno in Campania:
bisogna dunque ipotizzare per l’Italia un influsso diretto da Oriente nella fase iniziale dei contatti
con i Fenici, che incide particolarmente in area campana, dove la significativa concentrazione di
rinvenimenti di alta cronologia coincide con la fase di (pre-)colonizzazione a Pithecusa.
La t. 365 presenta uno scarabeo incastonato in un pendente d’argento, l’unico finora noto a Capua
che sembra essere in steatite. La legenda sul retro dello scarabeo presenta segni beneauguranti
comuni, due anx che inquadrano un segno p nfr, resi però in modo tale da essere quasi illeggibili.
Il supporto in argento poi è da mettere in relazione concettualmente ai pendagli del tipo a falce
presenti a Pithecusa, sebbene sia tipologicamente differente, non presentando l’usuale rastrematura
del modello d’ispirazione siro-palestinese per la sospensione ma piuttosto dei perni di filo riavvolto
a spirale, soluzione apparentemente locale.
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Gli scavi del 2011 a S. Tammaro, in un’area prospiciente il limite sud della necropoli Cappuccini,
hanno restituito altri cinque corredi in cui sono attestati scarabei, ma senza dubbio le due sepolture
che spiccano per la presenza di particolari classi di orientalia sono la t. 17 e la t. 64: quest’ultima,
riferibile alla fase IIA locale (ca. 780-760 a.C.) e ad un individuo di sesso femminile, è quasi
paragonabile, per la varietà e ricchezza dei suoi bronzi, alla già citata t. F365 e presenta al suo
interno un vago piriforme piumato in faïence, sicura produzione siro-fenicia
La t. 17 è invece relativa alla fase IIC avanzata (ca. 730-720 a.C.): a tre fusaiole, due anelli di
sospensione, almeno tre tazze capeduncole, un’anforetta globulare a solcature verticali, un anfora a
corpo espanso si aggiungono un vago globulare in argento e soprattutto due pendagli, uno del tipo a
falce, l’altro del tipo ellittico semplice: quest’ultimo ha castone a fascia, tubicino modanato di
sospensione e uscite lanceolate in cui è alloggiato uno scaraboide in ambra. Il prodotto è di
probabile produzione campana/etrusca ma trova un diretto modello nei pendagli ellittici di
produzione fenicia. Vi è la possibilità anzi che si tratti di un prodotto composito, per cui partite di
scarabei in ambra giungono a Ischia o Cuma e qui vengono confezionati poi i pendagli in argento o
elettro e, dalle attestazioni, sembra che abbia particolare fortuna in Campania settentrionale, viste le
testimonianze di Calatia, Suessula e ora Capua. Accanto, troviamo un altro piccolo pendaglio a
falce di tipo canonico fenicio, con terminazioni rastremate, in cui è incastonato uno scarabeo in
faience gialla; quest’ultimo rientra nell’usuale categoria di prodotti tipo “Perachora-Lindo” con un
esergo in cui si possono riconoscere i segni n nb, p nfr, z MAat.
La t. Cappuccini 1617 invece propone un altro oggetto apprezzato soprattutto a partire
dall’Orientalizzante a Capua, una statuina pendaglio di Ptah-Pateco, divinità curotrofica legata al
culto menfita1, sebbene gli amuleti egittizzanti in Italia rappresentino una figura divina “pantea” che
in chiave sincretistica presenta spesso attributi riconducibili anche a Bes e ad altre divinità
ricollegabili. Il pendaglio ha numerose varianti, pur trattandosi di una produzione massificata; ha
testa abnorme con la presenza sopra il capo dello scarabeo, attributo spesso connesso alla figura del
dio-nano anche su un esemplare da Pithecusa e che rappresenta il suo potere creatore, e i suoi tratti
sono geometrici e molto stilizzati. Il modello potrebbe essere quello di un esemplare egiziano da
Abydo che viene considerato da Hölbl come prototipo di un gruppo di statuine presenti in Italia, di
probabile fabbricazione rodia.
Altrettanto interessante lo scaraboide in vetro turchese della t. Cappuccini 1623, associato a una
kotyle Aetos 666. Il tipo morfologicamente è accostabile a reperti rinvenuti a Cuma, Suessula,
Civita Castellana e Veio ed è certamente attribuibile a fabbriche nord-siriane. La legenda presenta
un grifo alato con alta egretta con, in alto a destra, il disco solare e sulla sinistra un cartiglio con
doppio disco solare. Il tema iconografico diventa comune sugli scarabei in un periodo successivo,
almeno da Psammetico I in poi, nella produzione naucratide, ma ci sono anche esempi più antichi.
3. In parallelo alle attestazioni degli orientalia appena visti, a partire dagli inizi dell’VIII secolo
a.C., si riscontra a Capua una presenza massiccia di ceramica d’importazione e imitazione greca.
Così come a Pontecagnano, infatti, la ceramica fine di Capua è solo raramente importata dalla
Grecia e i due centri forniscono un ventaglio molto simile di forme. Il repertorio della ceramica che
adopera forme locali e un sistema decorativo greco è già pienamente formato nel periodo IIA. Un
esempio di tali imitazioni può essere rappresentato dal recente rinvenimento a S. Tammaro (t. 9) di
una brocchetta con decorazione di tipo euboico TG in un corredo femminile di fase IIB, che trova
pieno riscontro in prodotti coevi del centro picentino.
Nel caso delle importazioni, i modelli euboici, come è ovvio dato l’avvio dell’emporio ischitano, la
fanno da padrone; pur tuttavia sono attestati prodotti di altra provenienza: si pensi agli skyphoi della
t. Fornaci 800, attribuiti da alcuni a fabbriche attiche, a quello rodio-cicladico con decorazione a
losanga della t. Fornaci 281, a quello forse attico, sporadico, conservato al Museo Campano di
1
I culti menfiti e del Delta del Nilo sono quelli più noti alle genti fenicie e sono dunque quelli maggiormente diffusi in
area mediterranea. Un altro esempio capuano è rappresentato dalla t. Fornaci 695 (ex-697), celebre per la coppa su
piede con il “Signore dei Cavalli”, con uno scarabeo e tre statuine di produzione egizia rappresentanti gli dei menfiti
Nefertum e Sekhmet.
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Capua. Tra i prodotti euboico-cicladici si annoverano invece altri skyphoi a chevrons di tipo
classico (Fornaci 1200, IIA iniziale; Fornaci 204, IIC?), lo one-bird skyphos delle tt. Fornaci 248 e
Fornaci 1214, il kantharos forse cicladico della t. Fornaci 925 e il più recente rinvenimento della t.
104 di S. Tammaro (inizi fase IIB, 760-740 a.C.) con uccelli affrontati e campiti a tratteggio, di
probabile produzione pithecusana, associato a una tazza capeduncola del tipo più antico (IB-IIA
locale). Gli uccelli affrontati sono un tipico motivo del TG euboico e trova confronti generici in
Calcide e nelle Cicladi, ma senza dubbio i principali raffronti si possono fare con coppe rinvenute in
Campania. Questa varietà trova infatti un parallelo nella coppa della t. 7386 di Pontecagnano,
collocabile agli inizi della fase IIB locale e nel TGIa pithecusano (ca. 750-730 a.C.). Il contesto
associativo capuano, cronologicamente alto, sembrerebbe porre l’oggetto tra le prime attestazioni
del tipo, attorno alla metà dell’VIII secolo a.C. Dallo stesso emporio dovrebbero venire le black
cups delle tt. Cappuccini Ex-Polveriera 104 e Cappuccini 1649, di nuovo di probabile produzione
coloniale.
Stupisce la mancanza di coppe a semicerchi penduli, così ben rappresentate sia in Etruria (Veio,
Cerveteri) che a Pontecagnano, sebbene in una raccolta privata di Bojano sia documentato un
esemplare d’incerta provenienza accanto a materiali tipici dell’ager Capuanus che potrebbero
suggerire una correlazione tra i materiali dell’intera collezione e il centro campano. L’assenza non
può essere imputabile a una penuria di dati nel record archeologico, dato che il campione sembra
rappresentativo soprattutto se paragonato a quello numericamente analogo dell’altro centro etruscocampano, ricco al contrario di attestazioni del tipo (ben undici esemplari); né può avere significato
in termini cronologici, dal momento che a Pontecagnano convivono nello stesso periodo delle coppe
a chevrons di tipo classico, presenti a Capua e Cuma nello stesso periodo “precoloniale”; la
circostanza potrebbe rappresentare un indizio per il riconoscimento di diversi circuiti e di rotte
preferenziali per dati vettori, che tagliano fuori la Campania settentrionale (Capua, Cuma) a favore
prima della Sardegna e poi della Sicilia, dell’area picentina e di quella etrusca (Veio, Cerveteri).
A partire dal terzo quarto dell’VIII secolo tuttavia il quadro muta leggermente e tra le importazioni
si annoverano prodotti di tradizione più marcatamente corinzia: è il caso del kantharos della t.
Cappuccini 1688 e la kotyle Aetos 666 della t. Cappuccini 1623 e della t. Fornaci 722, che tuttavia è
di probabile produzione pithecusana e la coppa tipo Thapsos della t. Fornaci 492.
Già da questa breve panoramica si possono notare due dati significativi connessi fra loro: da una
parte la collocazione cronologica e geografica degli esemplari rispecchia due momenti ben distinti
nei flussi di prodotti greci; dall’altra, il fatto che tali flussi possano avere avuto protagonisti
differenti, pur nella generale e univoca selezione dei prodotti recepiti dai ceti emergenti che elegge
a status symbol la coppa per bere su tutti gli altri oggetti legati al simposio. Nella maggior parte dei
casi, infatti, questi reperti si collocano cronologicamente nella fase IIA, agli esordi della
colonizzazione greca in Occidente e del contatto tra Euboici e indigeni (Pithecusa), e nella fase IIC
avanzata quando Cuma è già fondata e il ponte Pithecusa-Cuma assume un ruolo dominante nei
traffici.
Già W. Johannowsky rilevò per Capua uno hiatus tra il periodo “precoloniale” e protocoloniale,
interessato da importazioni prevalentemente euboico-cicladiche e il terzo momento, corrispondente
alla fase IIC, dove, secondo lo studioso, erano di nuovo attestate importazioni greche ma di vasi
corinzi e pithecusani. Questo intervallo era invece negato da B. d’Agostino. In realtà, sembra di
poter riconoscere una situazione di compromesso fra le due posizioni: è indubbia infatti la presenza
di due flussi distinti fra i due periodi a livello di importazioni, dovuta essenzialmente alla
fondazione delle colonie greche, anche se difficilmente si può parlare di hiatus, vista la presenza di
prodotti euboico-cicladici (di imitazione?) anche nella fase IIC, dove tuttavia ha un ruolo
consistente anche la componente corinzio-pithecusana, al contrario di quanto avviene a
Pontecagnano.
4. Dopo questa disamina, è utile cercare di porre l’attenzione su ciò che questo campione suggerisce
riguardo ai canali di trasmissione-mediazione culturale e conseguente recezione in ambito indigeno
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e all’individuazione dei vettori e della mediazione commerciale da un punto di vista diacronico e
sincronico.
Schematizzando in maniera un po’ meccanicistica, è possibile riconoscere quattro momenti nei
rapporti Capua/mondo greco e levantino: un primo, in cui isolate attestazioni giungono
indirettamente nel centro campano, forse per via meridionale, e si caratterizzano come agalmata il
cui valore intrinseco è ancillare a quello estrinseco: nelle rade attestazioni di IX secolo sembra
avere un certo peso la mediazione cipriota2, un’evidenza già riscontrata riguardo ai primi prodotti
d’importazione nella Penisola e in particolare in Calabria. Un secondo momento, agli esordi
dell’VIII secolo, che, per dirla secondo le parole di D. Ridgway, è di “mobilità” ed “espansione
generale” in cui i contatti non sono sistematici e articolati e potrebbero essere dovuti non solo a
mercanti o esploratori greci ma anche a vettori estranei al mondo greco, per lo più Fenici, veicoli di
modelli acculturativi e materiali sia greci che levantini. Una terza fase “protocoloniale” che
rappresenta il momento delle prime fondazioni greche in Occidente (Pithecusa, Cuma) che vede la
supremazia euboica negli scambi con la penisola, insieme alla già consolidata presenza fenicia, che
porta a Pithecusa alla nascita di una comunità mista. Infine un quarto momento pienamente
coloniale in cui la componente corinzia si fonde e in parte si sostituisce a quella euboica, nel
decennio successivo all’acquisizione dello scalo, cruciale in termini commerciali, di Corcyra (734733 a.C.)3: inizia la colonizzazione in Sicilia e in Calabria e avviene la conquista assira di Hama che
interrompe bruscamente il ponte ideale tra Oriente e Occidente che univa Pithecusa ad Al-Mina.
Naturalmente si tratta di una schematizzazione che non dà giustizia di un panorama ben più
articolato, di cui i Greci non sono esclusivi protagonisti e dove non esistono “priorità etniche”, che
tuttavia permette una scansione diacronica di momenti che non sono in ogni caso così ben definibili.
Se per gli ultimi due momenti individuati, proprio perché chiusi in un sistema controllato in termini
politici, è più facile riconoscere le componenti in gioco, più eterogenea è la situazione dialettica tra
Greci e Indigeni durante i primi due, dove altre componenti (cicladiche, attiche, cipriote, fenicie,
nord-siriane), oltre a quella euboica, hanno avuto senza dubbio un ruolo non secondario, proprio
perché si tratta di una fase non sistematizzata in termini commerciali. Queste considerazioni sono
naturalmente basate sulle tracce lasciate dalla cultura materiale e in particolare sulla ceramica
d’importazione, che seleziona quasi esclusivamente forme legate al consumo “alla greca” del vino e
che si trova spesso associata ad altre importazioni, in primis gli orientalia visti in precedenza, il cui
messaggio magico-religioso doveva essere ben chiaro alle comunità locali.
2
Nell’isola di Cipro, a partire dall’850 a.C., il ruolo “commerciale” euboico e fenicio non è scindibile in maniera così
deterministica. Certamente deve essere stata una base commerciale rilevante nella trasmissione di alcuni prodotti greci e
levantini in Italia fino almeno alla fine del IX secolo a.C.: un indizio può essere riconosciuto nel calderone della t.
NM1/2005 e negli aegyptiaca siriano-palestinesi delle tt. Cp95 e Cp126, collocabili ancora tra la fase IB2 avanzata-IIA
iniziale di Capua, per cui tuttavia è difficile, e forse privo di significato, riconoscere vettori specifici.
3
Il quadro stilato di attestazioni concernenti la prima produzione corinzia in ambito capuano suggerisce un diverso
legame tra Capua e Pithecusa/Cuma rispetto al distretto picentino, in cui permane pressoché esclusiva la tradizione
euboica TG. C. Dehl aveva sottolineato a suo tempo che la diffusione dei prodotti TG corinzi tradiva un diverso
carattere dei rapporti euboici e corinzi con l’Occidente, più strettamente connessa alla fondazione delle prime colonie
greche, a fronte di un periodo precedente in cui i contatti erano favoriti dalle città euboiche di Calcide ed Eretria e da
Atene, ma non da Corinto.
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