1 L`analogia inconscia tra comunità terapeutica e famiglia e la

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1 L`analogia inconscia tra comunità terapeutica e famiglia e la
L'analogia inconscia tra comunità terapeutica e famiglia e la dimissione del minore
La comunità terapeutica per adolescenti non può mai sostituire la famiglia dell'adolescente. La
comunità differisce dalla famiglia per diverse ragioni (turnover degli operatori, turnazione degli
operatori, ampiezza del numero degli ospiti, loro differente provenienza ecc...). Tuttavia, nel caso
dei minori assai di più che per altre istituzioni di cura, a causa della loro giovane età, l'analogia che
si profila sullo sfondo del lavoro terapeutico è quella con la famiglia.
Se la si considera dal punto di vista del figlio, la famiglia è stata pensata nella tradizione del
pensiero dinamico come un'istituzione finalizzata a procurare all'individuo il bene psichico della
sicurezza (Togliatti-Lavadera, 2012). In questa prospettiva, la famiglia è fondamentalmente un
ambiente sicuro, in cui l'individuo apprende alcune abilità di fondo che gli saranno utili nel corso
della sua esistenza. Ciò è conforme alla tradizione della cura istituzionale nel suo senso più ampio,
perché quest'ultima, al di là delle differenze relative ai suoi ospiti (psicotici, tossicomani,
anoressico-bulimici, adolescenti), riconosce in prima istanza come compito dell'istituzione quello di
porsi per l'ospite come una base sicura. Vero questo, si può dire che già il semplice fatto
dell'inserimento in comunità comporta per il minore che l'istituzione supplisca alla funzione di base
sicura che normalmente viene svolta dalla famiglia, indirizzando l'intervento verso l'apprendimento
di quelle abilità di base, come l'autoregolazione emotiva, che sono in qualche modo connesse alla
soddisfazione del suo bisogno di sicurezza e stabilità.
Tuttavia, accanto al versante della sicurezza, esiste un secondo versante su cui può essere giocata
l'analogia di fondo tra comunità e famiglia, che è a nostro avviso più specifico dell'adolescenza: dal
punto di vista dell'individuo adulto, della coppia e, in senso ancora più esteso, della generazione, la
famiglia infatti può essere concepita come un'istituzione finalizzata ad esprimere la generatività
dell'individuo adulto e, in una prospettiva intergenerazionale, a trasmettere la generatività come
bene psichico essenziale dal genitore al figlio (Scabini-Cigoli, 2012). Se la prima prospettiva si
ispira agli studi sull'attaccamento, la seconda si ispira alla tradizione della psicologia dell'arco di
vita di matrice eriksoniana. Quando l'analogia della famiglia viene declinata in questo modo è
possibile riconoscere che l'istituzione comunitaria non ha come scopo esclusivo quello di accogliere
e bonificare i bisogni di sicurezza disattesi del minore, ma ha anche lo scopo di vicariare la famiglia
nella funzione di trasmissione della generatività come bene psichico che si tramanda attraverso le
generazioni, con il suo corollario di responsabilità per la vita. Ѐ come dire che Il fallimento della
famiglia a cui l'istituzione è chiamata a rispondere, in questo caso, non sarebbe solo un fallimento
della sua funzione di base sicura, ma anche un fallimento della generatività, vale a dire
un'incapacità di porsi per il minore come punto di articolazione del legame con le generazioni
precedenti, come snodo del contatto con la società come corpo organizzato e come ricettacolo di
un'attesa relativa al futuro. Se si pensa la comunità per minori sulla base dell'analogia inconscia con
la famiglia, allora, e se si pensa la famiglia in questi due modi, si capisce che il compito
dell'istituzione è fin dal principio sia quello di contenere e riparare le ferite inferte all'individuo dal
fallimento del dispositivo di attaccamento, sia quello di preparare la separazione dell'individuo dal
suo ambiente di crescita, compito che dovrebbe rappresentare il fine della famiglia come dispositivo
di generatività.
Si evidenzia allora subito, sui due versanti, la centralità di due momenti chiave della cura di
comunità: l'inserimento e la dimissione. Se l'inserimento può essere paragonato, sul piano
dell'analogia inconscia con la famiglia, ad una nuova affiliazione, che deve svilupparsi nel tempo
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attraverso la condivisione degli aspetti più concreti della vita quotidiana, la dimissione può essere
paragonata alla separazione dell'adolescente dai genitori. È del tutto chiaro che le trasformazioni
attuali della società e della famiglia rendono inverosimile che un minore affetto da una seria
patologia del carattere venga messo dalla cura nella condizione di assolvere ad un compito
evolutivo che nemmeno i suoi coetanei più avvantaggiati sono in grado di assolvere facilmente: il
dato di fatto è che la stragrande maggioranza degli ospiti minori delle comunità terapeutiche al
termine del loro percorso rientra in famiglia, nei casi in cui quest'ultima esiste; alcuni vengono
inseriti in strutture per adulti; una percentuale minore viene coinvolta in progetti di "supported
housing" (Ferruta, Foresti, Vigorelli, 2012). Per questa ragione appare fin dal principio astratto
declinare la separazione nel senso dell'"autonomia" economica, come obiettivo della cura; occorre
piuttosto ricordare che il termine autonomia, in senso greco, indica fondamentalmente la capacità di
"dare la legge a se stessi" e occorre intendere con quest'ultimo la capacità dell'adolescente di darsi
delle regole anzitutto nella cura stessa, nella vita sociale, nell'affettività, atte a garantire un percorso
il più possibile di benessere e stabilità, prima di tutto all'interno dell'istituzione.
Questa circostanza, più volte rimarcata, non toglie tuttavia nulla al fatto che l'analogia inconscia alla
luce della quale occorre pensare la dimissione del minore sia quella della separazione dal nucleo
familiare e che tale processo non debba essere articolato soltanto entro la cornice del lutto e della
sua elaborazione, come avviene nella cornice dell'attaccamento, ma anche entro quella del dono, del
lascito e della trasmissione. Questo da un lato perché, sul piano del vissuto inconscio, la dimissione
è un evento che evoca la perdita di un figlio da parte di un genitore e risuona assai spesso nel
mondo interno del minore con abbandoni vissuti in precedenza; e dall'altro perché, se si pensa fin
dal principio il destino di un minore come il reinserimento nel suo contesto di appartenenza, che
sovente è iatrogeno, l'intervento terapeutico rischia di perdere le sue ragioni d'essere e la sua spinta
interna. Se è vero che occorre riconoscere la dura realtà dei fatti, e dall'altra parte che occorre
sempre assegnare dei limiti precisi all'intervento terapeutico di comunità, è altrettanto vero che
quando quest'ultimo è entrato "nel vivo" si producono dei vissuti che il richiamo alla generalità del
caso non basta a razionalizzare e che richiedono una cornice di pensiero differente. Occorre poter
integrare un grano di speranza, per così dire, accanto alla perdita, nel pensiero della dimissione, e
riconoscere che nel lavoro fatto con il minore c'è qualcosa di quella generatività che afferisce alla
funzione genitoriale, così come c'è qualcosa di quel lutto che attiene alla separazione del minore
dalla famiglia.
Si può esemplificare questa dialettica tra generatività e sicurezza con due casi di minori trattati in
istituzione. Nel caso di Simona, ospite della comunità con una struttura di personalità dissociativa,
le dimissioni hanno avuto un sapore amaro. Il vissuto prevalente è stato di abbandono e a dominare,
nel gruppo degli operatori, sono stati la rabbia, la frustrazione ed il senso di ingiustizia. Al termine
di un lungo periodo di incertezza, in cui il servizio sociale avrebbe dovuto farsi carico di
individuare un luogo idoneo per il trasferimento della giovane, quest'ultima si è trovata di fatto
sprovvista di una destinazione. Gli operatori hanno avuto la sensazione di abbandonare
nuovamente il minore, come era stato fatto dai genitori in passato; hanno avuto l'impressione che
quel briciolo di fiducia di base che Simona ha cominciato a sentire verso degli adulti di riferimento
fosse svanito quasi del tutto negli ultimi mesi di permanenza in struttura e se ne sono difesi con
considerazioni, del resto del tutto ragionevoli, relative all'incompetenza del servizio pubblico. Dalla
parte dell'ospite, la situazione ha riattivato gli stati di angoscia e le reazioni dissociative già note e,
più in generale, ha prodotto un diffuso stato di abulia, che si è riversato per contagio sull'intero
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gruppo degli ospiti. È stata l'occasione per rilevare, una volta di più, che la dimissione non è un
evento che interessa il solo dimesso, ma influisce in modo più o meno sfumato su tutto il gruppo
comunità. D'altra parte, negli intervalli tra gli importanti stati di assenza a cui è andata soggetta
nell'ultimo periodo, Simona ha sorpreso il gruppo operativo, dimostrando di voler lottare per i suoi
diritti e di esser capace di ottenere, anche se in minima parte, delle risposte; infatti, mossa dal
vissuto condiviso di rabbia, l’equipe si è adoperata per cercare di dar voce a Simona, e finalmente la
sua voce è uscita riuscendo più volte ad attraversare i fili di un telefono, per arrivare infine alle
orecchie di chi si è reso disponibile ad ascoltarla. Con grande fatica la giovane è riuscita a trovare
nella comunità che l'aveva ospitata in precedenza un luogo disponibile ad accoglierla
temporaneamente; si è trattato così per l'ospite di adattarsi a percorrere una strada che né lei stessa,
né l'équipe riuscivano più ad immaginare.
Si può dire che tanto più è stato forte il richiamo alle energie riversate nella cura del minore, tanto
più si è imposta l'analogia con la famiglia generativa, e l'evento della dimissione si è colorato delle
tinte fosche del tradimento, da parte del servizio verso gli operatori e, a ruota, da parte degli
operatori verso il ragazzo: poiché entrambi i vissuti non sono stati piacevoli, la mente di gruppo
dell'équipe ha avuto più volte la tendenza ad adagiarsi nel pensiero salvifico di un porto sicuro ad
oltranza, oppure in quello dell'intervento miracoloso di un agente esterno al processo di cura, in
questo caso rappresentato da una zia della ragazza. Se l'immagine ricorrente di Simona durante il
periodo delle dimissioni è quella della ragazza seduta sulla panchina della piazza adiacente alla
comunità che scruta il cielo vuoto in cerca di risposte, oppure quella di lei, ricurva su una sedia
all'ingresso della comunità, con una sigaretta ormai finita tra le dita, che non ricambia il saluto
dell'Altro, quest'immagine è stata almeno in parte, per isomorfismo, anche quella degli operatori
stessi.
Ora, la condizione dell'équipe che vede frustrate le proprie spinte generative ed è portata ad
enfatizzare inconsciamente il vissuto di abbandono, magari fantasticando reattivamente di poter
tenere con sé la ragazza ad oltranza, è paragonabile alla condizione degenerativa del genitore della
famiglia cosiddetta "post-moderna", in cui non c'è articolazione fra la società e il gruppo familiare e
quest'ultimo, per tutta risposta, tende ad appropriarsi del figlio come se fosse di sua proprietà.
Nel caso di Martina l'analogia inconscia dell'evento della dimissione con i due aspetti della famiglia
è ancora più forte: si tratta di un ospite di 17 anni con un disturbo di personalità isterico di livello
borderline, con una famiglia monoparentale e un abbandono alle spalle. Il lavoro svolto da Martina
in comunità è stato così buono, a parere dell'équipe, da portare l'ospite da un livello di
funzionamento borderline ad uno più oscillante verso il polo nevrotico del continuo diagnostico.
L'investimento di risorse sul suo caso si è scontrato però ancora una volta con l'indisponibilità del
servizio a reperire una collocazione adeguata dell'ospite in fase di dimissione: gli operatori hanno
vissuto personalmente il rinnovato fallimento della funzione genitoriale, con i correlativi pianti
della ragazza, allorché l'hanno accompagnata per una visita ed un colloquio preliminare alla
struttura indicata dal suo servizio come prima destinazione, poi riconosciuta come del tutto
inadeguata. In conformità alle due analogie inconsce proposte, il vissuto è stato da un lato quello
dell'abbandono, e dall'altro quello del più radicale disincanto, della disattesa delle aspettative per il
futuro di Martina. All'indomani della visita il gruppo ha espresso un parere contrario all'inserimento
nella struttura, cercando di motivarlo con precisione e interpretando l'angoscia distruttiva
manifestata dalla ragazza in occasione della visita. Si è reso così possibile individuare una struttura
più consona ai bisogni della giovane. In una seconda visita alla nuova struttura, più adeguata,
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Martina ha manifestato una reazione completamente diversa: il ricordo dell'équipe è quello di averla
vista tornare molto felice: urlava a tutti che aveva visto un posto ben organizzato, con televisori al
plasma giganti e con un ragazzo bellissimo, che avrebbe subito voluto conoscere. Il giorno di
dimissione di Martina è stato un giorno sereno; gli operatori hanno accompagnato Martina alla
macchina, per aiutarla con le valige; la ragazza ha salutato con un sorriso, con la speranza che il
nuovo luogo potesse accoglierla come il precedente, come se ci fosse nella cura un filo rosso che la
dimissione non avrebbe reciso.
Ci interessa mettere in evidenza il fatto che in entrambi i casi descritti la "protesta" del gruppo
operativo affonda le sue radici in una zona inconscia del trattamento di comunità in cui le
attribuzioni di significato di ospite e operatore vanno nettamente nel senso di strutturare la relazione
come vicaria della relazione parentale, sia nel senso della sicurezza che in quello della generatività.
Accade come se una zona che per la gran parte del tempo è latente si "slatentizzasse", per così dire,
nelle situazioni cariche di maggiore intensità emotiva. La dimissione è sicuramente tra queste: essa
contiene da un lato il vissuto del lutto, che interessa il primo aspetto della relazione, e dall'altro la
rivendicazione, che si è resa in questo caso particolarmente evidente nella forma della protesta,
della generatività parentale. È stato questo vissuto, questo sentire, condiviso e temperato nel
contesto dell'équipe, a consentire in entrambi i casi una migliore collocazione degli ospiti al termine
del loro percorso di comunità. Che queste due dimensioni delicate dell'esperienza di comunità siano
ben presenti non solo nella mente dell'operatore, ma anche nel mondo interno del minore è
documentato dalle seguenti parole di Martina, parte del questionario praparatorio alla sua
dimissione dalla struttura:
Che cosa consigli ai ragazzi che verranno in comunità? Consiglio di essere sempre se stessi, di
non cambiare mai di essere se stessi perché se le persone ti accettano bene, se non ti accettano bene
lo stesso, te ne puoi trovare degli altri migliori. Per quanto riguarda i rapporti con i tuoi
pari...Hai detto di essere se stessi... Possiamo consigliare dell'altro? Di prendere la comunità
come "una seconda famiglia"... Una seconda famiglia temporanea...In fin dei conti ci vivi ci mangi
ci dormi... Ci piangi fai di tutto. Hai sempre una persona al tuo fianco. Noi siamo una famiglia
allargata.[...] Se uno arriva qua e ha una famiglia? Quando uno entra esce dalla sua famiglia, se
ce l'ha. Cosa consigli per i rapporti con la famiglia se pensi alla tua storia? Penso che della
famiglia vera e propria non si riesce mai a prendere il posto. Penso però che con le persone che
decidi tu... Con le persone "buone"... Con le persone che non sono "sbagliate"... Come fai a
saperlo? No lo devi intuire capire... Cioè una persona che ti vuole bene non è una persona che ti dice
andiamo ad alcolizzarci. Ѐ la persona che ti dice no non bere perché ti fa male. Ok...Cercare di fare
una piccola famiglia tua con le persone che capisci che ti vogliono bene. E con le persone che ti
stanno accanto nei momenti del bisogno. E se hai nostalgia?La nostalgia c'è sempre. Devi pensare al
futuro (corsivi nostri).
La dimissione dunque da un lato è un momento cruciale della cura di comunità, e dall'altro si
presenta, in modo del tutto speciale nel caso dell'adolescente, come uno snodo che mobilita il
vissuto inconscio dell'analogia con il "famigliare"; poiché tale analogia va declinata a nostro avviso
nella cura sia nel senso della sicurezza, sia in quello della generatività, occorre sottolineare che la
dimissione deve essere tenuta presente fin dall'inizio del trattamento. Il lavoro di dimissione quindi
deve iniziare circa un anno prima, a metà del percorso comunitario. In questo momento si inizia a
pensare a quale progetto può essere costruito nel percorso futuro del paziente. Questo processo
richiede la costituzione di almeno due gruppi di lavoro, da un lato la coppia paziente-comunità e
dall’altro il gruppo formato da comunità-paziente da un lato e famiglia-servizi territoriali dall'altro.
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A questo fine, prima della dimissione vera e propria, la nostra comunità prevede incontri con le
famiglie ed il servizio di riferimento per valutare le opportunità concrete necessarie a dare
continuità al percorso di cura anche dopo la comunità. Viene inoltre previsto un incontro di progetto
ad hoc, circa tre o quattro mesi prima della dimissione, a cui partecipano l'educatore di riferimento,
l'adolescente ed il responsabile clinico. L'educatore di riferimento accompagna il ragazzo per
quest'ultimo periodo e, a seconda degli obiettivi progettuali, si valuta la possibilità che durante
l'ultimo mese di permanenza il ragazzo non abbia un educatore di riferimento specifico, ma si possa
rivolgere alle diverse figure adulte a seconda delle necessità.
Il lavoro di dimissione non rappresenta solamente il raggiungimento di un obiettivo di cura ma
anche la possibilità di costruire in modo nuovo la rete territoriale del paziente e, soprattutto, il suo
modo specifico di rappresentarsela e di interagire con essa. Può essere definito come un periodo di
co-costruzione tra i diversi protagonisti di un percorso futuro all’interno del quale il ragazzo deve
avere un importante ruolo di di agency, di responsabilità. Quando questo avviene si riesce a
costruire un percorso nuovo che può anche prevedere l’uso di strumenti già usati, come il passaggio
ad un'altra comunità, che vengono vissuti come una scelta personale del ragazzo, come un tratto di
strada da percorrere nel suo percorso di individuazione e autonomia. Dal punto di vista diagnostico
ci si interroga molto su quello che gli ospiti hanno preso, sui cambiamenti ottenuti (riduzione o
risoluzione della sintomatologia, modificazioni strutturali nella personalità, modificazioni nelle
dinamiche relazionali disfunzionali ecc …), su quanto riescono a portarsi via del percorso
comunitario, ma crediamo che sia altrettanto importante porre l’attenzione sulla sensazione di aver
lasciato qualcosa di sé. Un’immagine diversa, una nuova rappresentazione di sé differente da quella
con cui l'ospite è arrivato e, fondamentalmente, in analogia con la dimensione generativa del
famigliare, una sorta di dono. Si tratta di una nuova rappresentazione, cognitiva e affettiva ad un
tempo, del ragazzo nella mente degli operatori che permette di lasciare una traccia di sé, permette
un’esperienza di permanere nella mente di un altro per come si è e per come si potrebbe diventare.
Il rimando di quest’immagine al ragazzo nutre la possibilità di vivere le esperienze vissute come
proprie e di fissare quindi dei fondamentali paletti identitari.
Se quindi nella pratica il gruppo operativo non deve mai sostituirsi al familiare dell'ospite, a rischio
di cadere in una dannosa regressione familiarista (Cosenza, 2001), resta vero che al livello
inconscio c'è di fatto tutto un gioco di proiezioni e contro-proiezioni che si attiva in modo speciale
in questi momenti cruciali e che questo gioco non contiene solo una deformazione del ruolo
dell'operatore, ma contiene anche un fattore vitale. Se gli operatori imparano a riconoscere un
fattore vitale nell'analogia con il famigliare che attraversa la comunità terapeutica e si impone in
questi particolari momenti all'attenzione di tutti, possono inserire il loro sentire nel dispositivo
dell'équipe e trasferirlo in una dialettica che può arrivare, di fatto, a modificare concretamente il
futuro dell'adolescente. Ciò equivale a nostro avviso ad attingere, nel modo giusto, a quelle risorse
di generatività che l'adolescente spontaneamente sollecita e permette di augurarsi che alla fine della
cura, anche nel caso di una "cattiva dimissione",il dispendio di energie profuse porti l'adolescente,
entro limiti ragionevoli, a vivere un futuro migliore. Solo questo permette di redigere un bilancio
favorevole, a dimissione avvenuta, tra il vissuto del lutto e quello della speranza e fa in modo che
un ospite non vada mai via, veramente, dalla mente degli operatori, ma continui ad animarne, quasi
per incorporazione, il futuro lavoro in comunità.
Bibliografia:
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Cosenza, D., La comunità terapeutica come luogo della cura, in A.A.V.V., La cura della malattia
mentale II. Il trattamento, Mondadori, Milano 2001, pp. 227-249.
Busana, C., Zanolini S., Il distacco dalla comunità, in Ferruta A., Foresti G., Vigorelli M., Le
comunità terapeutiche, Cortina, Milano 2012.
Scabini E.-Cigoli V., Alla ricerca del famigliare, Cortina, Milano 2012.
Togliatti M.-Lavadera A., Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia, Il Mulino, Bologna
2002.
Mingarelli, L., Adolescenze difficili. Autobiografia di una comunità terapeutica per adolescenti,
Ananke, Torino 2009.
Daniele Tonazzo, gruppo operativo comunità terapeutica "Rosa dei venti", con la collaborazione di
Martina d'Amato.
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