Autotrapianto di cellule staminali emopoietiche
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Autotrapianto di cellule staminali emopoietiche
EMATOLOGIA 1 direttori della collana Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati AUTOTRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE NELLE EMOLINFOPATIE Giovanna Meloni, Marco Vignetti Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia Università degli Studi “La Sapienza” - Roma 9 EMATOLOGIA DIRETTORI DELLA COLLANA Franco Mandelli, Giuseppe Avvisati Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia Università “La Sapienza”, Roma ACCADEMIA NAZIONALE DI MEDICINA REDAZIONE P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova Tel. 010/5458611 - Fax 010/541761 E-mail: [email protected] http: //www.accmed.net DIREZIONE Luigi Frati - Stefania Ledda COORDINAMENTO EDITORIALE Gabriella Allavena PROGETTO GRAFICO Giorgio Prestinenzi IMPAGINAZIONE Giuliana Vaglio, Maria Grazia Granata SERVIZIO STAMPA EFFE di Ugo Fraccaroli - Via Cesiolo, 10 - 37126 Verona © 1999 Forum Service Editore s.c.a r.l. P.zza della Vittoria, 15/1 - 16121 Genova Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte del libro può essere riprodotta o diffusa senza il permesso scritto dell'editore INDICE INTRODUZIONE 1 SCREENING PRE-TRAPIANTO 2 LE CELLULE STAMINALI 3 IL CONDIZIONAMENTO 4 LEUCEMIE ACUTE 5 LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA 6 LEUCEMIA LINFOIDE CRONICA 7 LINFOMI NON HODGKIN A ISTOLOGIA AGGRESSIVA 8 LINFOMA FOLLICOLARE 9 LINFOMA DI HODGKIN 10 MIELOMA MULTIPLO 11 MIELODISPLASIE 12 DOPO L’AUTOTRAPIANTO: L’IMMUNOTERAPIA 13 LE MALATTIE AUTOIMMUNI 14 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 15 BIBLIOGRAFIA GENERALE 16 LE DIAPOSITIVE ABBREVIAZIONI Bu CSE CSP CVC Cy Cya DHAP EBMT ECG EFS GITMO GM-CSF GvHD GvL HIV IFM IFN IL LAK LAP LDH LH LLA LLC LMA LMC LNH MDS MM NK PCR RC SCO SLM TAC TBI TMO VES busulfano cellule staminali emopoietiche cellule staminali periferiche catetere venoso centrale ciclofosfamide ciclosporina schema di polichemioterapia utilizzato nei linfomi, composto da desametasone, citarabina ad alte dosi, cisplatino European Blood and Marrow Transplant Group (Gruppo Europeo di Trapianto di Midollo) elettrocardiogramma sopravvivenza libera da eventi Gruppo Italiano Trapianto di Midollo Osseo granulocyte macrophage colony stimulating factor graft versus host disease graft versus leukemia virus dell’immunodeficienza umano Intergruppo Francese Mieloma interferone interleuchina lymphokine activated killer leucemia acuta promielocitica lattato deidrogenasi linfoma di Hodgkin leucemia linfoide acuta leucemia linfoide cronica leucemia mieloide acuta leucemia mieloide cronica linfoma non Hodgkin mielodisplasia mieloma multiplo natural killer polymerase chain reaction remissione completa sangue da cordone ombelicale sopravvivenza libera da malattia tomografia assiale computerizzata irradiazione corporea totale trapianto di midollo osseo velocità di eritrosedimentazione 1 INTRODUZIONE 1.1 DEFINIZIONE Il primo autotrapianto riportato nel registro italiano del GITMO (Gruppo Italiano Trapianto di Midollo Osseo) risale al 1979, ed è stato eseguito a Pesaro in un paziente affetto da leucemia mieloide acuta. Da allora, e per i primi anni ’80, l’autotrapianto è stato in linea di massima considerato come alternativa terapeutica al trapianto di midollo allogenico da offrire ai malati che non avevano un fratello HLA compatibile. La procedura di autotrapianto consiste essenzialmente nella reinfusione del midollo osseo, prelevato al paziente in una fase idonea della malattia, per lo più in remissione completa, dopo una chemioterapia ad alte dosi, associata o meno all’irradiazione corporea totale. Il trattamento ad alte dosi era eseguito con lo scopo di ottenere una completa eradicazione delle cellule neoplastiche, e la successiva reinfusione di midollo osseo autologo permetteva di superare la barriera più grave della tossicità ematologica, rappresentata dall’aplasia midollare irreversibile. Con il trascorrere degli anni, i progressi della ricerca biomedica, sia clinica sia pre-clinica, hanno portato a profonde modifiche delle procedure dell’autotrapianto. Le cellule staminali reinfuse dopo la terapia ad alte dosi sono oggi ottenute più frequentemente dal sangue periferico che non dal midollo osseo, e alcuni protocolli terapeutici prevedono la somministrazione sequenziale di due o più cicli di chemioterapia intensiva ognuno seguito da reinfusione di precursori emopoietici per accelerare la risalita di neutrofili e piastrine. Contemporaneamente, i progressi nella terapia di supporto, l’acquisizione di una più ampia esperienza nei trattamenti chemioterapici “convenzionali” e, soprattutto, la disponibilità dei fattori di crescita emopoietici, hanno portato a schemi di chemioterapia fortemente citoriduttivi, simili a quelli utilizzati per l’autotrapianto, anche se non seguiti da reinfusione di cellule staminali autologhe. Pertanto, dal punto di vista strettamente biologico, esiste un confine sempre meno netto tra quelle che erano considerate le componenti proprie della procedura di autotrapianto e altri schemi di terapia. A questo proposito, sia a livello nazionale sia internazionale, è in corso un dibattito sulla definizione di ciò che può essere considerato un autotrapianto e ciò che va annoverato nella terapia “convenzionale”. Una possibile definizione, comunque non ufficiale né definitiva, potrebbe essere quella di “trattamento che comporta la necessità della rein- A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 1 fusione di precursori emopoietici per ottenere una ripresa dell’emopoiesi”. In altre parole, la reinfusione di cellule staminali emopoietiche, ottenute sia da midollo osseo che da sangue periferico, oggi può essere considerata una condizione necessaria, ma non sufficiente, per poter parlare di autotrapianto. E 2 M A T O L O G I A SCREENING PRE-TRAPIANTO 2 Le procedure per arrivare a eseguire un autotrapianto iniziano ben prima del momento in cui il paziente si ricovera per iniziare il condizionamento; infatti l’autotrapianto essendo, nella maggior parte dei casi, un intervento da eseguire in elezione e non in emergenza, deve essere programmato e il paziente va preparato e studiato accuratamente prima di essere avviato al ricovero e alla terapia mieloablativa. Questo aspetto assume un’importanza particolare quando la procedura viene eseguita in un centro diverso o addirittura in una città diversa da quella in cui il paziente viene seguito abitualmente. 2.1 STATO DELLA MALATTIA La cosa più importante da verificare è lo stato della malattia. La maggior parte dei problemi per i quali non viene eseguito un trapianto programmato sono legati a questo aspetto. L’autotrapianto va eseguito quando esistono delle indicazioni obiettivamente documentate della sua utilità, oppure nell’ambito di studi clinici prospettici di valutazione; in entrambi i casi, lo stato della malattia è uno dei fattori determinanti nello stabilire l’idoneità del paziente alla procedura. Naturalmente ciò è correlato anche al tipo di patologia; per esempio, allo stato attuale delle conoscenze, un autotrapianto è indicato nelle leucemie acute in remissione completa, ma anche nei linfomi e nei mielomi in remissione parziale. Questo non deve essere considerato come un limite, come una disparità di trattamento tra pazienti “fortunati” e altri meno fortunati; lo stato della malattia va accertato e confermato immediatamente prima dell’inizio della procedura, perché altrimenti il paziente potrebbe ricevere un trattamento non utile per la sua condizione, che lo espone a rischi anche di vita e potrebbe perdere l’occasione per ricevere una terapia più corretta che gli offra maggiori probabilità di sopravvivenza. Lo stato della malattia pertanto va prima valutato per definire l’indicazione terapeutica; successivamente va ricontrollato al momento del trapianto, soprattutto se passa un intervallo di tempo rilevante (diverso da patologia a patologia) tra il momento in cui è stata fatta la prima valutazione e il ricovero. Infatti non è infrequente che un paziente si A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 3 ricoveri e, al controllo dell’aspirato midollare o a un accertamento radiologico, fatti immediatamente prima dell’inizio del condizionamento, si scopra che lo stato della malattia è cambiato. Gli esami per effettuare la verifica ovviamente differiscono in rapporto alla diagnosi: nelle leucemie acute sarà sufficiente, nella maggioranza dei casi, un aspirato midollare eseguito non più di una settimana prima dell’inizio del condizionamento; nei linfomi andranno valutati gli esami necessari a stadiare la malattia in rapporto alle sue localizzazioni e al suo comportamento. 2.2 SCREENING INFETTIVOLOGICO Il paziente sottoposto a una terapia ad alte dosi corre il rischio di comparsa di complicanze infettive durante il periodo di aplasia. Oggi l’impiego di una terapia collaterale estremamente efficace e di colture di sorveglianza hanno permesso di ridurre l’incidenza di complicanze letali determinate dalle infezioni batteriche; inoltre, la riduzione del periodo di aplasia, ottenuta con l’uso di precursori emopoietici prelevati da sangue periferico e/o dei fattori di crescita, è associata a una minore probabilità di infezioni anche fungine. Dobbiamo però ricordare che il paziente che giunge a un autotrapianto è stato sottoposto, quasi sempre, a uno o più trattamenti chemio e/o radioterapici, che possono aver provocato gravi complicanze infettive, soprattutto fungine, che, anche se apparentemente guarite, sono a rischio di recidiva nel corso di una nuova profonda e prolungata aplasia. Il paziente va pertanto sottoposto a un accurato esame clinico, batteriologico (tamponi, eventuali emocolture dal catetere venoso centrale e da vena periferica), ecografico (per lo studio del fegato e della milza) e radiologico, includente eventualmente anche una TAC total-body con mezzo di contrasto. Tali accertamenti hanno un razionale basato su due aspetti: il primo è la ricerca di eventuali processi infettivi, o di loro esiti; il secondo, che purtroppo è molto spesso poco considerato, è la documentazione delle condizioni basali del paziente, cui fare riferimento nel corso del trapianto. Infatti durante l’aplasia, in caso di febbre non rispondente alla terapia antibiotica empirica e in assenza di accertamenti colturali positivi, l’identificazione di una lesione dubbia alla TAC può assumere significati diversi se questa era già presente all’esame eseguito prima del trapianto o se è insorta successivamente. L’eventuale identificazione di lesioni sospette durante lo screening infettivologico non deve essere considerato un criterio di esclusione definitivo dalla procedura autotrapiantologica. La lesione va invece studiata più accuratamente, discussa con il consulente infettivologo, interpretata alla luce della precedente storia clinica. Se esistono dubbi rilevanti sulla sua origine va valutata la fattibilità di un accertamento E 4 M A T O L O G I A diagnostico invasivo. Un classico esempio dell’utilità “preventiva” di uno screening infettivologico è la documentazione di una lesione polmonare esito di un aspergilloma che può portare alla decisione di eseguire ugualmente l’autotrapianto, ma sotto terapia antifungina da iniziare al momento della granulocitopenia e da sospendere al momento della risalita dei neutrofili. Il paziente, grazie a uno screening ben fatto, beneficia ugualmente dell’autotrapianto, ma riduce i rischi connessi con l’insorgenza delle complicanze. Nell’ambito dello screening infettivologico va considerato anche lo studio dei virus dell’epatite e dell’HIV. 2.3 SCREENING METABOLICO E CARDIOVASCOLARE Ovviamente un’importanza tutt’altro che trascurabile assume anche la valutazione della funzionalità degli organi e apparati. Questo prevede l’esecuzione di tutti gli esami emato-chimici per la funzionalità epatica e renale, oltre a un accurato studio cardiologico, con ECG ed ecocardiogramma per la valutazione della frazione di eiezione ventricolare. Questi accertamenti permettono di modificare, in caso di necessità, la terapia di condizionamento, in modo da utilizzare farmaci con diversa tossicità d’organo in rapporto alle condizioni del paziente; un esempio abbastanza classico è l’impiego del melphalan al posto della ciclofosfamide nel condizionamento dei linfomi, se esiste un rischio di tossicità cardiaca elevato. La Figura 1 mostra un modello di scheda di valutazione dell’eleggibilità di un paziente per autotrapianto. In conclusione, lo screening pre-trapianto va eseguito nel periodo immediatamente precedente il ricovero per l’inizio del condizionamento; e va concentrato in tempi brevi, perché gli esami eseguiti più precocemente non perdano di significato prima di completare tutti gli altri accertamenti. Non è facile coordinare tutto perfettamente, soprattutto in considerazione della difficoltà di programmare il ricovero con approssimazione sufficiente, ma è uno sforzo importante poiché lo screening, oltre che escludere il paziente dalla procedura trapiantologica, permette di ridurre i rischi di complicanze, anche letali, durante la terapia. 2.4 PRE-DEPOSITO PER AUTOTRASFUSIONE Nei casi in cui è previsto l’espianto di midollo osseo, va sempre valutata l’utilità di effettuare il pre-deposito di sangue autologo, per A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 5 2 Figura 1 • Richiesta di ricovero per autotrapianto Cognome: Nome: Sesso: Data di nascita: / Recapito telefonico: / / Diagnosi: Data diagnosi: / / Fase di malattia: Assetto Ag/Ab per Epatite B e C Medico proponente: Indicazione all’AUTO: Tipo di AUTO: MO CVC già posizionato: NO ❏ ❏ SP SI ❏ ❏ Breve sintesi della precedente storia clinica e terapeutica del paziente: Evento: Data Note: Data presentazione richiesta al reparto: / / Firma Data ricovero: / / Firma E 6 M A T O L O G I A / / / / / / / / / / / / / / / / / / disporre di un’autotrasfusione in occasione del prelievo. Questa procedura può avere una scarsa rilevanza nei pazienti con leucemia acuta, che hanno per lo più ricevuto un elevato numero di emocomponenti durante i trattamenti chemioterapici prima dell’autotrapianto; ma può essere significativa in pazienti con linfomi o con mielomi che hanno ricevuto poche, a volte nessuna, trasfusioni prima del trapianto e che potrebbero riceverne pochissime dopo. 2.5 IL CATETERE VENOSO CENTRALE A questo proposito, possono verificarsi diverse situazioni: 1. il paziente non ha un catetere venoso centrale (CVC) e fa il trapianto con cellule staminali midollari: il CVC va inserito prima del ricovero, in modo da avere un intervallo di tempo (48-72 ore) sufficiente a verificare che sia perfettamente funzionante e che non vi siano complicanze conseguenti all’inserimento 2. il paziente non ha un CVC e fa il trapianto con cellule staminali periferiche: deve essere pianificata la scelta di un CVC che possa, eventualmente, essere utilizzato anche per eseguire le aferesi, in modo da ottimizzarne l’impiego 3. il paziente ha già un CVC. In questo caso va verificata l’idoneità del tipo di catetere con il centro trapianti. Ad esempio, un catetere Porth-Cat non è utilizzabile per l’autotrapianto, perché può presentare problemi durante la reinfusione; quasi sempre conviene estrarlo e ri-posizionare un CVC convenzionale. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 7 2 LE CELLULE STAMINALI Le cellule da reinfondere possono essere ottenute o da midollo osseo o da sangue periferico dopo mobilizzazione con chemioterapia e/o fattori di crescita emopoietici. Il prelievo di midollo osseo ha rappresentato per anni l’unica procedura per ottenere le cellule emopoietiche staminali da utilizzare per l’autotrapianto. L’esistenza, nel sangue periferico, di cellule staminali in grado di garantire una ricostituzione emopoietica completa era già stata dimostrata, ma la possibilità di ottenerne quantità adeguate per garantire un attecchimento dopo terapia mieloablativa è emersa solo alla fine degli anni ’80, quando si è osservata la comparsa di quantità elevate di cellule CD34 + nel sangue periferico di pazienti al momento della ripresa emopoietica dopo chemioterapia da sola o associata a fattori di crescita. Pertanto, sul finire degli anni ’80 e nel corso dei primi anni ’90, si è andato sempre più diffondendo l’autotrapianto con cellule staminali periferiche (CSP) che ha rapidamente dimostrato, in tutte le patologie ematologiche e non, di essere associato a un netto vantaggio in termini di ripresa emopoietica, con riduzione della tossicità del trapianto e riduzione dei tempi di ricovero. La decisione sul tipo di cellule staminali da utilizzare per l’autotrapianto può essere legata al tipo di malattia (oggi la quasi totalità degli autotrapianti nei linfomi e nei mielomi viene effettuata con cellule da sangue periferico), ma anche alle condizioni cliniche del paziente considerando che le CSP permettono un attecchimento più rapido e quindi un più breve periodo “a rischio” correlato all’aplasia terapeutica. Riassumendo, i progenitori emopoietici utilizzabili nell’autotrapianto possono essere ottenuti tramite le seguenti metodiche: • prelievo di midollo osseo: si esegue in anestesia generale o spinale; quindi è indispensabile attivare una sala operatoria. I rischi sono essenzialmente connessi all’anestesia generale. Il prelievo si esegue prevalentemente dalle creste iliache posteriori, più raramente da quelle anteriori e solo raramente dallo sterno; • aferesi dopo mobilizzazione con chemioterapia e/o fattori di crescita. Negli ultimi anni l’impiego delle cellule ottenute da sangue periferico si è rapidamente diffuso, tanto che nei linfomi e nei mielo- A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 9 3 mi questa procedura ha sostituito quasi completamente l’impiego del midollo osseo. I vantaggi sono quelli legati alla possibilità di non dover ricorrere al prelievo in sala operatoria e alla più rapida ripresa emopoietica con riduzione dei tempi di ricovero e dei rischi di complicanze soprattutto infettive. La procedura di mobilizzazione oggi può essere attuata secondo diverse modalità: la più classica è l’associazione della ciclofosfamide con un fattore di crescita; in altre condizioni viene impiegato il fattore di crescita da solo, o associato a un ciclo di chemioterapia eseguito nell’ambito del protocollo di trattamento prima dell’autotrapianto. Attualmente viene utilizzato quasi esclusivamente il prelievo da sangue periferico in tutte le patologie a eccezione delle leucemie acute mieloidi, dove ancora esiste qualche incertezza sulla sicurezza terapeutica dei fattori di crescita e delle CSP. Al riguardo è in corso uno studio internazionale prospettico randomizzato nei pazienti in prima remissione completa (RC). E 10 M A T O L O G I A IL CONDIZIONAMENTO La terapia di condizionamento è ovviamente il momento fondamentale nella procedura autotrapiantologica. Infatti, mentre nel trapianto allogenico una componente significativa dell’azione antitumorale è legata alla cosiddetta “reazione del trapianto contro la leucemia” (graft versus leukemia - GvL), nel trapianto autologo l’azione immunomediata è molto meno definita, e la massima attività contro la malattia resta affidata al condizionamento. Questo concetto è tanto più valido quando si effettua una procedura di purificazione in vitro (il “purging”), poiché il ruolo del purging verrebbe annullato dall’impiego di un condizionamento poco efficace nell’eradicazione della malattia. Il ruolo del condizionamento sarebbe pertanto quello di giungere a una eradicazione della malattia attraverso l’uso di farmaci attivi a dosaggi più elevati di quanto si usi nella terapia convenzionale. In realtà oggi sappiamo che, nella maggior parte dei casi, non è possibile ottenere una vera e propria eradicazione della malattia, bensì una condizione definita di malattia minima residua. Per questo la possibilità di modulare un’attività immunologica nei confronti delle cellule tumorali residue dopo il trapianto ha acquistato negli ultimi anni un ruolo molto rilevante e il tentativo di provocare una GvL è tuttora tra gli obiettivi più ambiti della ricerca biologica e clinica nell’autotrapianto. Comunque, l’eradicazione della malattia con il condizionamento è un obiettivo da perseguire in alcune patologie come: le leucemie acute, in cui l’autotrapianto si esegue in remissione completa, e probabilmente alcuni tipi di linfomi, quando la terapia ad alte dosi si fa per consolidare o per completare un trattamento chemioterapico convenzionale. Probabilmente diverse sono le considerazioni da tenere presenti in patologie quali le leucemie linfoidi croniche, i mielomi, la leucemia mieloide cronica, i linfomi a basso grado, patologie nelle quali l’obiettivo dell’eradicazione della malattia non può essere preso in considerazione nemmeno sul piano teorico. Qui il condizionamento ha realmente lo scopo di provocare una citoriduzione massima nei confronti della massa tumorale, con la conseguenza di favorire una ripresa dei cloni cellulari “sani” rispetto a quelli patologici e di prolungare la sopravvivenza. Ancora diverso è il ruolo della terapia di condizionamento nel trattamento delle malattie in fase “florida”; in questi casi la terapia viene eseguita con lo scopo di ottenere una risposta completa o parziale, spesso nell’ambito di un programma che prevede una terapia posttrapianto, quale un secondo autotrapianto, o una immunoterapia. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 11 4 In questi casi la scelta del condizionamento va valutata tenendo in considerazione anche la tollerabilità e la tossicità dei farmaci alla luce della successiva terapia programmata, spesso a breve distanza. Recentemente, alcuni gruppi stanno utilizzando schemi terapeutici basati su cicli di chemioterapia seguiti da reinfusione di CSP somministrati in sequenza a breve distanza; la reinfusione di CSP permette una più precoce risalita dei granulociti e quindi consente di ridurre i tempi di intervallo tra un ciclo e l’altro. Queste procedure sono convenzionalmente definite “trapiantino”, e non vengono considerate come un autotrapianto vero e proprio. Il condizionamento va scelto sempre considerando attentamente gli effetti collaterali in termini di tossicità extra-ematologica, poiché deve consentire la somministrazione di diversi farmaci in un intervallo di tempo relativamente breve senza tossicità proibitiva. Un’ultima considerazione tra quelle di carattere generale riguarda l’inclusione della irradiazione corporea totale (TBI). Storicamente, il condizionamento per il trapianto autologo è derivato da quello dell’allogenico, basato quindi sull’associazione della TBI con la ciclofosfamide (Cy). Successivamente un gruppo americano di Baltimora ha utilizzato, nelle leucemie acute mieloidi, uno schema basato sull’uso del busulfano (Bu) al posto della TBI. Questo schema, successivamente modificato con riduzione della Cy da 200 a 120 mg/kg allo scopo di ridurre la tossicità, ha l’indubbio vantaggio di permettere il trattamento autotrapiantologico anche a centri che non hanno la possibilità di eseguire la TBI. Anche in patologie come i linfomi non Hodgkin (LNH) e il mieloma multiplo (MM), in cui l’autotrapianto viene eseguito più frequentemente, l’impiego o meno della TBI ha rappresentato per anni un elemento di valutazione e di discussione importante specialmente in età pediatrica, dove i danni delle radiazioni sono più rilevanti, e nell’età più anziana. In realtà, se si escludono forse le leucemie linfoidi acute (LLA), non esistono studi prospettici che abbiano dimostrato una superiorità di un trattamento di condizionamento in rapporto all’impiego o meno della TBI. Al contrario, le valutazioni eseguite fino a oggi, in particolare nella leucemia mieloide acuta (LMA), hanno permesso di documentare che non ci sono differenze rilevanti, tanto che in quasi tutti gli studi cooperativi pluricentrici il condizionamento suggerito è quello con BU + Cy. Nei linfomi non Hodgkin ad alto grado (eccetto il linfoma linfoblastico) e nel morbo di Hodgkin, la TBI nel condizionamento non trova quasi mai indicazione, poiché può compromettere la possibilità di impiegare una successiva radioterapia di consolidamento su una massa residua o in una zona di malattia “bulky”. E 12 M A T O L O G I A LEUCEMIE ACUTE 5.1 5 LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA Con i moderni schemi di polichemioterapia e le migliorate terapie di supporto, è oggi possibile ottenere percentuali di RC in circa il 70% dei pazienti di età inferiore a 60 anni e in circa l’80% dei bambini con LMA. Tuttavia, la remissione non significa guarigione e la terapia postremissionale rappresenta un presidio fondamentale per ottenere l’eradicazione della malattia e la possibile guarigione del paziente. Quale sia la miglior terapia post-remissionale è tuttora materia di discussione; in particolare non è ancora perfettamente chiarito il ruolo delle procedure trapiantologiche e della chemioterapia nella strategia terapeutica globale della LMA. I risultati di studi retrospettivi, basati su esperienze di singoli centri o di gruppi cooperativi, hanno suggerito una superiorità terapeutica delle procedure trapiantologiche nei confronti della chemioterapia soprattutto in termini di rischio di recidiva, ma le procedure trapiantologiche, in particolare l’allotrapianto, sono associate a un rischio di mortalità particolarmente elevato e quindi, in ultima analisi, la sopravvivenza libera da malattia (SLM) determinata dalle diverse terapie post-remissionali non è significativamente diversa. Tutto ciò ha portato negli ultimi anni a diversi studi prospettici internazionali nell’ambito di gruppi cooperativi, che a random valutavano le diverse terapie post-remissionali, nel tentativo di identificare il trattamento migliore e/o gruppi di pazienti che potessero beneficiare delle diverse terapie. Fondamentalmente gli studi sono stati strutturati in maniera abbastanza simile nel senso che dopo la RC tutti i pazienti eleggibili per età che avevano un fratello compatibile venivano avviati ad allotrapianto, mentre gli altri venivano randomizzati ad autotrapianto e/o chemioterapia e/o sospensione del trattamento. Globalmente i risultati di questi studi sia negli adulti sia nei bambini hanno dimostrato quanto già suggerito dagli studi retrospettivi: l’allotrapianto è sicuramente la terapia che offre maggiori possibilità di guarigione ed è associato a un basso rischio di recidiva, l’autotrapianto presenta un rischio di recidiva superiore a quello dell’allotrapianto, ma sicuramente inferiore a quello della chemioterapia convenzionale. Anche tenendo conto di questi dati, non si deve però sottovalutare la possibilità di poter curare un paziente dopo la recidiva, possibilità che è estremamente remota nei pazienti che hanno già effettuato un trapianto, a differenza di quanto si può ottenere nei pazienti che hanno ricevuto solo chemioterapia. Pertanto, nella scelta della migliore terapia post-remissionale nei pazienti con LMA in prima RC di età <60 anni non si può prescindere A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 13 dall’analisi dei risultati che con il trapianto non solo allogenico, ma anche autologo, si possono ottenere in seconda RC: più del 30% dei pazienti trapiantati in seconda RC ha la possibilità di divenire lungosopravvivente libero da malattia. In conclusione, il ruolo dell’autotrapianto nei pazienti in prima RC di età <60 anni è tuttora in valutazione; in particolare si sta cercando, sia attraverso metanalisi sia con nuovi studi prospettici, di identificare dei criteri utili per selezionare i pazienti che possono beneficiare di terapie diverse in base a diversi fattori di rischio. Al contrario, nei pazienti in seconda o successiva RC l’autotrapianto è considerato la terapia di scelta in assenza di donatore compatibile nei pazienti <60 anni e risultano sinora improponibili e impossibili studi di confronto con la chemioterapia. La problematica più attuale nell’ambito della procedura autotrapiantologica nella LMA, soprattutto considerando la tossicità ancora legata alla procedura, è rappresentata dalla valutazione dell’impiego di precursori emopoietici prelevati da midollo o da sangue periferico. Negli ultimi anni, grazie all’impiego dei fattori di crescita emopoietici, sono state messe a punto tecniche di mobilizzazione che hanno permesso un sempre più ampio impiego delle CSP come supporto dopo terapie ad alte dosi. Il vantaggio delle CSP nei confronti delle cellule staminali midollari è rappresentato essenzialmente dalla loro capacità di determinare un più veloce attecchimento con rapida ripresa dell’emopoiesi e conseguente riduzione della tossicità e della durata dell’ospedalizzazione. Mentre nelle malattie linfoproliferative acute e croniche è ormai codificato l’impiego di CSP, nelle LMA il loro impiego è ancora raccomandato nel contesto di studi clinici controllati di confronto con il midollo nei pazienti di età inferiore a 60 anni. Sulla base di dati retrospettivi del Gruppo Europeo di Trapianto di Midollo (EBMT) è emerso come anche nelle LMA l’impiego delle CSP determini una più rapida ripresa dell’emopoiesi, ma ancora non si può sicuramente affermare che non sia associato a un aumentato rischio di re cidiva. Pertanto la validità dell’impiego delle CSP nei confronti del midollo deve essere analizzata sulla base di studi randomizzati, quale quello attualmente in corso dell’EORTC-GIMEMA (protocollo AML10). Nei pazienti di età superiore a 60 anni, l’utilizzazione delle CSP può permettere l’estensione dell’indicazione alle alte dosi di chemioterapia in pazienti altrimenti non eleggibili a procedure di autotrapianto. 5.2 LEUCEMIA ACUTA PROMIELOCITICA La leucemia acuta promielocitica (LAP), fino a pochi anni fa considerata la forma più grave di LMA sia negli adulti sia nei bambini, è oggi, E 14 M A T O L O G I A grazie all’introduzione nei protocolli chemioterapici dell’acido retinoico, la leucemia mieloide in cui si hanno non solo le percentuali più elevate di remissioni complete, ma anche le maggiori probabilità di sopravvivenza libera da malattia, tanto che circa il 70% dei pazienti di nuova diagnosi trattati ha la possibilità di guarire. La scelta della migliore terapia post-remissionale nella LMA promielocitica, sia in prima che in seconda RC, è legata alla persistenza o meno dell’alterazione genetica che è alla base della malattia e quindi risulta indispensabile il monitoraggio molecolare della malattia minima residua. Risultati di numerosi studi hanno chiaramente dimostrato come la persistenza o la ricomparsa, durante la remissione morfologica della malattia, della positività del test con la metodica della polymerase chain reaction (PCR) per il gene ibrido PML/RARa è predittiva di recidiva ematologica entro breve tempo, mentre la ripetuta negatività di tale test si associa con lunghe sopravvivenze libere da malattia e quindi guarigioni. Al momento attuale, il raggiungimento e il mantenimento di una biologia molecolare negativa è universalmente riconosciuto come il principale obiettivo terapeutico nei pazienti con LAP. Tenendo conto di questi risultati, quando il trapianto allogenico e il trapianto autologo trovano indicazione nei pazienti con LMA promielocitica? In un primo momento sembrava logico indirizzare alle procedure trapiantologiche (allotrapianto se presente un fratello compatibile e autotrapianto in assenza di donatore): a. tutti i pazienti in prima RC nei quali persisteva l’alterazione molecolare alla PCR; b. tutti i pazienti in seconda RC indipendentemente dalla persistenza o meno della positività del test. Recentemente, da uno studio del nostro gruppo, è nuovamente emersa la necessità delle indagini di biologia molecolare nell’indirizzare la strategia non solo terapeutica ma anche trapiantologica nei pazienti con LAP in seconda RC. Nella nostra esperienza i pazienti con biologia molecolare positiva al momento dell’espianto sono tutti recidivati; pertanto l’autotrapianto in tale situazione non trova indicazioni. Viceversa, in presenza di una biologia molecolare negativa e di fattori di rischio per tossicità, anche in presenza di un fratello compatibile, l’autotrapianto dovrebbe dare risultati clinici migliori rispetto all’allotrapianto. 5.3 LEUCEMIA LINFOIDE ACUTA Nella LLA le procedure autotrapiantologiche trovano indicazione inferiore rispetto alla LMA. Complessivamente, più del 70% dei bambini e circa il 40% degli adulti ha, con gli attuali schemi di polichemioterapia, A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 15 5 la possibilità di diventare lungo-sopravvivente libero da malattia, mentre nei pazienti “ad alto rischio” (prime RC con caratteristiche prognostiche negative, recidive precoci e soprattutto pazienti resistenti, sia bambini sia adulti), solo l’allotrapianto offre qualche probabilità di guarigione, con circa il 20–30% di lungo-sopravviventi. Recentemente un gruppo francese ha condotto uno studio prospettico avviando i pazienti in seconda RC con donatore compatibile ad allotrapianto e randomizzando gli altri ad autotrapianto o a chemioterapia. La sopravvivenza globale a 5 anni è stata del 48% per i pazienti allotrapiantati contro il 35% per gli altri, con nessuna differenza tra autotrapianto e chemioterapia. Anche nei pazienti ad alto rischio (presenza del cromosoma Philadelphia (Ph), elevato numero di globuli bianchi, età >35 anni, RC tardiva) il vantaggio dell’allotrapianto nei confronti dell’autotrapianto (e della chemioterapia) è stato particolarmente evidente: rispettivamente, 44% di sopravvivenza verso 20%. Nella LLA l’autotrapianto trova sempre meno indicazione anche nei bambini. Nei pazienti in prima RC i dati di studi retrospettivi o prospettici non mostrano una superiorità rispetto a moderni schemi di polichemioterapia. Pochi studi hanno valutato il ruolo della strategia trapiantologica nella terapia post-remissionale, ma sempre più si tende ad avviare i bambini con caratteristiche di rischio all’esordio [quali le traslocazioni (9;22) o (4;11)] ad allotrapianto. Anche nei pazienti in seconda o successiva RC, se la recidiva è precoce, è indicato il trapianto allogenico, poiché con l’autotrapianto si ha un elevatissimo rischio di recidiva; solo nei pazienti recidivati dopo una lunga prima RC, schemi di chemioterapia intensiva associati o meno ad autotrapianto possono risultare in sopravvivenze non significativamente inferiori. Anche in tale situazione mancano però studi controllati prospettici tra autotrapianto e chemioterapia. Finora risultati promettenti con l’autotrapianto sono stati ottenuti solo nelle recidive isolate extraematologiche in particolare meningee, soprattutto nei bambini. E 16 M A T O L O G I A 6 LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA La leucemia mieloide cronica (LMC) è a tutt’oggi una delle patologie in cui la guarigione definitiva può essere raggiunta solo con l’impiego del trapianto allogenico. Esistono però delle indicazioni molto precise a tale procedura e la possibilità di ricorrere ai donatori non familiari (da registro) e al sangue da cordone ombelicale (SCO) ha solo di poco aumentato la proporzione di pazienti che possono essere considerati eleggibili per tale terapia. Pertanto, anche se l’interferone (IFN) ha profondamente modificato la strategia terapeutica “non trapiantologica” delle LMC, resta l’attenzione a percorrere strade alternative per i casi in cui il trapianto di midollo osseo (TMO) allogenico non è fattibile. Una di queste è l’autotrapianto, che va comunque considerato come una terapia sperimentale, e come tale va eseguita nell’ambito di protocolli di studio prospettici ben pianificati. Il primo impiego dell’autotrapianto nelle LMC risale a oltre 19 anni fa, quando questa procedura è stata utilizzata in pazienti in crisi blastica con lo scopo di ottenere una seconda fase cronica. Dopo un certo entusiasmo iniziale, però, è presto emerso che la durata della seconda fase cronica era sempre breve, con un vantaggio terapeutico assolutamente non apprezzabile. Anche tentativi sperimentali di doppio autotrapianto, il primo per ottenere la seconda fase cronica e il secondo per consolidare il risultato, si sono rivelati deludenti, sia per l’elevato prezzo in termini di tossicità sia per la durata della seconda fase cronica, comunque breve. Pertanto, allo stato attuale delle conoscenze, la crisi blastica di LMC non può essere considerata una indicazione per l’autotrapianto. Altri gruppi hanno poi valutato il trapianto autologo in prima fase cronica, sia all’esordio sia dopo un periodo di trattamento con IFN. I risultati sono stati incoraggianti, e vengono riportate lunghe durate di fase cronica, seppure in piccoli gruppi di pazienti. In realtà però non esistono studi prospettici, controllati o randomizzati che abbiano verificato l’effetto dell’autotrapianto nei confronti di trattamenti standard (quali l’IFN); pertanto non disponiamo oggi di dati sufficienti per valutare il ruolo dell’autotrapianto anche in questa fase di malattia. Un approccio particolare è stato seguito dal gruppo di Genova, che ha valutato la possibilità di mobilizzare e prelevare cellule Ph negative con un trattamento chemioterapico (eseguito anche con scopo citoriduttivo), per eseguire successivamente un autotrapianto con cellule Ph negative. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 17 Questo progetto ha confermato la possibilità di prelevare cellule Ph negative da un paziente con LMC, tanto più efficacemente quanto più il trattamento viene eseguito precocemente dopo la diagnosi; peraltro questa osservazione era già stata documentata in passato da altri gruppi. L’efficienza di un simile approccio, in termini di sopravvivenza e di durata di fase cronica, non è però ancora documentata. In conclusione, l’impiego dell’autotrapianto nelle LMC resta a tutt’oggi da considerare un trattamento fattibile, ma non di provata efficacia e dovrebbe essere eseguito solo nell’ambito di protocolli clinici sperimentali, possibilmente cooperativi e multicentrici di fase III. Attualmente, nell’ambito dell’EBMT, è iniziato uno studio prospettico di confronto tra autotrapianto ± IFN e IFN da solo. E 18 M A T O L O G I A 7 LEUCEMIA LINFOIDE CRONICA Le esperienze finora riportate in letteratura non sono numerose e riguardano piccoli numeri di pazienti. Sono state utilizzate alte dosi di chemioterapia e/o radioterapia e cellule staminali da midollo o da sangue periferico. Quale sia il migliore condizionamento è ancora materia di discussione anche se si tende a evitare l’impiego della TBI in pazienti già gravemente compromessi per la malattia di base. Sono state utilizzate varie metodiche di purificazione, con utilizzazione, nei pazienti autotrapiantati con cellule midollari, di anticorpi monoclonali specifici e con l’impiego, su sangue periferico, di sofisticate apparecchiature che permettono la selezione in negativo o in positivo dei precursori emopoietici. Il trapianto autologo nel paziente con leucemia linfoide cronica (LLC) non è ancora una strategia terapeutica ben codificata; esso deve essere considerato solo nel contesto di studi clinici controllati in pazienti giovani che, per caratteristiche di rischio, sono trattati aggressivamente e ottengono una buona risposta alla terapia. Particolarmente deludenti viceversa sono i risultati dell’autotrapianto nei pazienti refrattari. Il problema più importante rimane attualmente quello dell’identificazione dei pazienti che, senza correre rischi di tossicità proibitiva, possono trarre vantaggio da una procedura ancora non obiettivamente giustificata sulla base dei risultati disponibili derivati da piccoli studi pilota. L’obiettivo terapeutico principale è quello di ottenere un aumento della durata di sopravvivenza nei confronti di altre terapie nuove e non ablative con le quali l’approccio trapiantologico deve integrarsi in una strategia terapeutica globale. Sarebbero pertanto di estremo interesse studi prospettici cooperativi con una corretta stratificazione dei pazienti in base ai diversi fattori prognostici non solo clinici, ma anche biologici; questo eviterebbe il proliferare di piccoli studi che, sebbene possano portare a risultati molto promettenti, non permettono di definire la validità terapeutica del trapianto nella LLC. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 19 LINFOMI NON HODGKIN A ISTOLOGIA AGGRESSIVA Nei linfomi non Hodgkin (LNH) a istologia aggressiva l’impiego dell’autotrapianto è particolarmente esteso, tanto che il numero complessivo degli autotrapianti per LNH riportato dal registro nazionale italiano del GITMO rappresenta circa il 30% del totale degli autotrapianti per tutte le patologie, compresi i tumori solidi. Sempre nei linfomi ha avuto luogo, tra il 1994 e il 1995, la più significativa “rivoluzione” nel campo dell’autotrapianto: il passaggio dall’impiego quasi esclusivo del midollo osseo all’utilizzazione quasi esclusiva di CSP. Le indicazioni per l’autotrapianto nei linfomi a istologia aggressiva sono state studiate molto accuratamente negli ultimi anni: pertanto è ormai possibile fornire delle linee guida sufficientemente definite in questa patologia, differenti in rapporto alle diverse fasi di malattia. 8.1 LINFOMI IN RECIDIVA Negli anni ’80, i risultati ottenuti da singoli centri con l’autotrapianto nei pazienti in recidiva si sono dimostrati presto incoraggianti rispetto a quanto si otteneva con la terapia convenzionale, in particolare nei casi in cui la malattia conservava la sua chemiosensibilità (recidive “chemiosensibili”). L’approccio metodologico utilizzato, su base internazionale, per valutare l’efficacia dell’autotrapianto, può senz’altro essere considerato un modello esemplare di metodologia clinica sperimentale: dopo le prime indicazioni positive, provenienti da piccole esperienze di singoli centri, sono stati condotti studi retrospettivi molto ampi, con lo scopo di verificare i primi risultati su casistiche più numerose e meno selezionate. I dati emersi da questi studi retrospettivi confermavano l’ipotesi di efficacia dell’autotrapianto e sono stati la base per progettare uno studio prospettico randomizzato internazionale, in cui l’autotrapianto è stato valutato nei confronti di un trattamento con chemioterapia convenzionale. Al termine di questo studio, durato A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 21 8 diversi anni, è stato possibile concludere che l’autotrapianto, in questa determinata categoria di pazienti, LNH in recidiva chemiosensibile, permette di ottenere risultati migliori della chemioterapia impiegata, il DHAP, in termini di sopravvivenza globale e di sopravvivenza libera da eventi. Acquisito questo come un dato “certo”, gli studi attuali sono indirizzati più che altro al miglioramento delle procedure: 1. identificazione di schemi terapeutici più efficaci e tollerabili per: a. ottenere la migliore risposta possibile prima del trapianto, b. ampliare i criteri di eleggibilità al trattamento; 2. valutazione dell’immunoterapia dopo il trapianto per il controllo della malattia minima residua; 3. impiego di metodiche di purging con l’obiettivo di eliminare o quanto meno ridurre ulteriormente la malattia minima residua. 8.2 LINFOMI REFRATTARI E RECIDIVE NON CHEMIOSENSIBILI Minore chiarezza esiste sulle indicazioni nei pazienti refrattari o in recidiva non più rispondenti alla chemioterapia. Anche se i risultati dei diversi studi indicano sempre una probabilità di sopravvivenza libera da eventi oscillante tra il 10 e il 20%, questo non può comunque essere considerato un dato soddisfacente. Gli attuali orientamenti, in assenza di alternative valide, sono diretti a identificare criteri di rischio che permettano di decidere anticipatamente l’indicazione all’autotrapianto in pazienti in prima RC prima della recidiva, oppure a valutare farmaci sperimentali con l’obiettivo di modulare la multi-drug resistance responsabile della resistenza al trattamento, nel tentativo di ristabilire una sensibilità alla chemioterapia. 8.3 LINFOMI CON RISPOSTA PARZIALE DOPO LA PRIMA LINEA Questa categoria di pazienti è considerata ad “alto rischio” e fa parte di quel gruppo in cui si ritiene indicato attuare una intensificazione della terapia senza attendere una progressione di malattia. Studi retrospettivi hanno suggerito che l’impiego precoce dell’autotrapianto può essere utile. Però, contrariamente a quanto è accaduto nei pazienti in E 22 M A T O L O G I A recidiva chemiosensibile, gli studi prospettici non hanno confermato in modo univoco queste indicazioni. In due studi randomizzati l’autotrapianto non si è dimostrato superiore alla chemioterapia, mentre in un terzo studio comparativo esso è associato a una maggiore probabilità di sopravvivenza. L’interpretazione di questi dati è difficile, sia per l’eterogeneità dei pazienti, sia perché resta il problema della valutazione della risposta parziale in pazienti con residuo di malattia di fatto “inattivo”, ma valutati solo con parametri clinico-radiologici, senza accertamento istologico. Attualmente si ritiene che la valutazione della risposta alla terapia di prima linea deve essere condotta utilizzando le tecniche di diagnostica per immagini più sofisticate, quali la risonanza magnetica nucleare e la scintigrafia con il Gallio68 e che la dimostrazione di un residuo attivo di malattia rappresenti l’indicazione all’intensificazione della terapia e a trattamenti sperimentali, anche associati all’autotrapianto. 8.4 LINFOMI IN PRIMA REMISSIONE Con gli attuali schemi di polichemioterapia un LNH a grandi cellule è guaribile nel 50-60% dei pazienti, con risultati ancora più positivi in determinate categorie di pazienti. Bisogna pertanto ritenere che, allo stato attuale delle conoscenze, la terapia ad alte dosi non ha un ruolo in questa fase di malattia tanto che, se applicata indiscriminatamente quale “consolidamento” della prima linea, rischia di portare solo a un incremento della tossicità e della mortalità. Il ruolo della ricerca clinica va pertanto indirizzato a identificare, nell’ambito di questa categoria, i pazienti con un rischio di recidiva più elevato, nei quali l’intensificazione con le alte dosi può essere associata a un vantaggio terapeutico. Nella Tabella 1 sono indicati i fattori prognostici negativi identificati in diversi studi per il LNH. Recentemente, l’International Prognostic Index ha contribuito fortemente a standardizzare la classificazione in gruppi prognostici di questi pazienti; naturalmente però con il tempo emergono altri fattori che possono acquistare un peso rilevante per valutare le probabilità di risposta a lungo termine. In conclusione, in questa categoria di pazienti l’autotrapianto non andrebbe considerato una terapia di prima scelta, e va eventualmente utilizzato solo in selezionate categorie di pazienti nell’ambito di protocolli clinici sperimentali, sulla base di criteri prognostici ben definiti. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 23 8 “International Prognostic Index” (aggiustato per l’età) Tabella 1 Fattori prognostici significativi prima della terapia in 1274 pazienti di età ²60 anni: • Stadio (I o II vs III o IV) • ECOG performance status (0 o 1 vs >1) • LDH (normale vs aumentata) Classe di rischio Distribuzione (%) RC (%) SLM a 5 anni in pazienti in RC (%) Sopravvivenza a 5 anni (%) Basso (0-1 fattori di rischio) 22 92 86 83 Basso-intermedio (1 fattore) 32 78 66 69 Alto-intermedio (2 fattori) 32 57 53 46 Alto (3 fattori) 14 46 58 32 E 24 M A T O L O G I A LINFOMA FOLLICOLARE 9 Solo negli ultimi anni l’impiego della terapia ad alte dosi è stato considerato anche nei linfomi cosiddetti a “basso grado”, intendendo in particolare i linfomi follicolari. Questo perché la storia naturale del linfoma follicolare permette lunghe sopravvivenze e normale qualità di vita in una buona parte dei casi, e la valutazione rischio/beneficio era difficilmente considerata favorevole all’impiego dell’autotrapianto in questa categoria di pazienti. Negli ultimi anni però l’impiego delle CSP e il miglioramento nella terapia di supporto, con riduzione di morbilità e mortalità, hanno portato a considerare l’autotrapianto anche per una patologia “cronica” quale i linfomi follicolari. Peraltro anche nell’ambito di questa patologia, caratteristica dell’anziano, esiste una percentuale di pazienti relativamente giovani che per caratteristiche di rischio ha una prognosi particolarmente sfavorevole. Così, negli anni ’90, sono iniziati programmi terapeutici di alte dosi anche nei pazienti con linfoma a basso grado di malignità. Le problematiche più rilevanti sono illustrate nella Tabella 2. La principale è legata ai criteri di identificazione dei pazienti eleggibili; non possiamo dimenticare infatti che i pazienti con stadio I e II hanno una probabilità di sopravvivenza a lungo termine superiore al 70% anche con trattamenti convenzionali e sarebbe pertanto non etico impiegare in questa categoria un trattamento che va comunque considerato sperimentale. Inoltre, anche la valutazione dell’efficacia di un approccio rispetto a un altro, se valutato solo in termini “clinici” (sopravvivenza, sopravvivenza libera da malattia) in assenza di “marker” biologici di Tabella 2 Terapia ad alte dosi nei linfomi follicolari: problematiche • Selezione dei pazienti • Fase di malattia • Cellule staminali - Sangue periferico - Midollo osseo - Trattamento in vitro • Valutazione dei risultati A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 25 malattia, sarebbe pressoché impossibile, dovendosi confrontare con sopravvivenze dell’ordine di molti anni anche con terapia tradizionale. Per questi motivi, sin dalle prime esperienze, l’autotrapianto nei linfomi follicolari è stato utilizzato in pazienti con fattori di rischio ben identificabili, legati all’estensione della malattia (stadio avanzato, localizzazione extra-linfonodali, LDH elevato, compromissione del midollo osseo) o al suo comportamento con la terapia convenzionale (non risposta alla terapia convenzionale). I primi risultati hanno dimostrato comunque una scarsa attività nei pazienti in fase molto avanzata (seconda recidiva e oltre), mentre risultati soddisfacenti venivano riportati in pazienti trattati in fase più precoce (risposte parziali alla prima linea, seconda remissione, completa o parziale). La Tabella 3 riassume, attraverso gli studi più significativi, l’evoluzione delle indicazioni all’autotrapianto nei linfomi follicolari. Terapia ad alte dosi nei linfomi follicolari: studi clinici Tabella 3 Bastion, 1995 • No in fase avanzata • La malattia midollare residua non influenza la prognosi Haas, 1996 • Migliore resa e composizione delle CD34 • Maggiore sensibilità alla terapia in prima RC Freedman, 1996 • In prima linea per pazienti in fase avanzata a cattiva prognosi • PCR negativa dopo il purging: fattore prognostico favorevole Bierman, 1997 • Il numero di linee di chemioterapia precedenti influenza la prognosi Tarella, 1997 • Fattibilità in prima linea • Alta percentuale di PCR negativi dopo alte dosi in prima linea prima del trapianto (purging in vivo) • Le aferesi PCR positive devono essere purgate In questa patologia un ruolo significativo è rappresentato dalla presenza del riarrangiamento BCL2, presente alla diagnosi in una proporzione elevata di pazienti. Lo studio del riarrangiamento nelle varie fasi di malattia permette di monitorare la malattia residua. Recentemente, inoltre, è stato dimostrato che la scomparsa alla PCR della positività E 26 M A T O L O G I A al riarrangiamento dopo purging ex vivo è associata a una sopravvivenza libera da malattia più elevata. Questo ha portato a intensificare gli sforzi per mettere a punto metodiche di purificazione sui precursori emopoietici prelevati nei pazienti con linfoma follicolare, prima di procedere alla reinfusione dopo la terapia mieloablativa. Le diverse metodiche di purging sono illustrate in Tabella 4, ma vanno ancora considerate solo nell’ambito di protocolli sperimentali. Tabella 4 9 Terapia ad alte dosi nei linfomi follicolari: tecniche di purging • Immunologico, anti-B • Immunomagnetico, anti-B • Selezione positiva cellule CD34+ • Doppia selezione cellule CD34+/CD19– In conclusione, negli ultimi anni l’impiego dell’autotrapianto è stato valutato anche nei linfomi follicolari, con lo stesso razionale con cui è stato introdotto nel trattamento di altre patologie meno aggressive rispetto a quelle trattate negli anni ’80. Oggi possiamo dire che esso va considerato senz’altro tra le scelte terapeutiche da utilizzare nei pazienti dopo la prima recidiva, e che l’impiego delle cellule da sangue periferico va preferito al midollo osseo, come peraltro in tutti i linfomi. Restano aperti diversi punti: il purging, che sembra certamente indicato sulla base dei risultati clinici disponibili, ma per il quale si è ancora lontani dal mettere a punto una metodica “standard”, il condizionamento, in particolare per il ruolo che potrebbe avere la TBI; e infine il suo impiego in fasi più precoci di malattia, in categorie di pazienti molto ben selezionate in base ai fattori di rischio e alle condizioni cliniche. Su questi aspetti solo studi prospettici pluricentrici, in grado di arruolare numeri adeguati di pazienti, potranno fornire una risposta. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 27 10 LINFOMA DI HODGKIN Nel linfoma di Hodgkin (LH) i moderni schemi di polichemioterapia a dosi “convenzionali” permettono oggi di ottenere brillantissimi risultati, sia in termini di RC (raggiunte ormai nella quasi totalità dei casi) che di sopravvivenza libera da malattia (>90% negli stadi più favorevoli e oltre il 60% in quelli più avanzati). Pertanto il ruolo della terapia ad alte dosi con reinfusione di cellule staminali emopoietiche (CSE) è limitato, come peraltro abbiamo già visto nei LNH, a particolari categorie di pazienti “ad alto rischio”, nei quali gli schemi terapeutici a dosi “convenzionali” hanno elevate probabilità di fallimento. Il razionale, in questi casi, è quello di utilizzare le alte dosi quando la malattia non è ancora così avanzata e/o il carico terapeutico ricevuto non è così elevato da compromettere i risultati dell’autotrapianto per rischi da tossicità troppo elevati. A partire dagli anni ’80, l’autotrapianto è stato utilizzato nei casi in recidiva, in particolare in quelli con una durata breve di prima RC, e nei casi refrattari alla prima linea, quelli cioè che non avevano mai ottenuto una RC, per lo più dopo un trattamento di seconda linea con schemi di polichemioterapia convenzionali. Le analisi dei risultati sia degli studi di singoli gruppi sia dei pazienti registrati all’EBMT hanno permesso ben presto di dimostrare che nei pazienti pesantemente trattati prima dell’autotrapianto la tossicità e la mortalità trapiantologiche erano eccessivamente elevate, senza peraltro ottenere una maggiore efficacia terapeutica in termini di percentuali di risposte o in termini di EFS (sopravvivenza libera da eventi). Questo ha portato, in queste categorie di pazienti, ad anticipare l’impiego dell’autotrapianto a fasi più precoci, per utilizzare questa procedura in un momento più favorevole riducendone la tossicità. Invece, nei pazienti recidivati dopo una “lunga” (>1 anno) prima RC, è indicato eseguire una chemioterapia convenzionale con l’obiettivo di ottenere una nuova RC o quantomeno una risposta parziale prima dell’autotrapianto, perché la tossicità in questi casi rientra in limiti accettabili (mortalità trapiantologica non superiore al 5%) e i risultati della terapia ad alte dosi sono migliori con una massa di malattia già ridotta. Resta comunque il fatto che anche nel LH, come nei LNH, i pazienti autotrapiantati in recidiva chemiosensibile hanno una prognosi migliore rispetto a quelli chemioresistenti. Anche nel LH vengono ormai utilizzate per l’autotrapianto quasi esclusivamente le CSP. Per ciò che riguarda la scelta del condizionamento, lo schema di riferi- A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 29 mento è quello che è stato più frequentemente impiegato negli USA, costituito dall’associazione di ciclofosfamide, BCNU ed etoposide (CBV). Da esso sono derivati numerosi altri schemi, con modifiche nel dosaggio dei farmaci, nei tempi di somministrazione, nella durata del trattamento, senza peraltro ottenere significativi miglioramenti nei risultati terapeutici. Un altro schema di condizionamento “classico” è l’associazione di BCNU, etoposide, ARA-C e melphalan (BEAM), con il quale recentemente sarebbero stati ottenuti risultati migliori rispetto al CBV. Peraltro, va sempre ricordato che ogni confronto dell’efficacia di uno schema di condizionamento, in assenza di uno studio prospettico randomizzato fatto “ad hoc”, resta condizionato dalla impossibilità di confrontare due casistiche omogenee per tutti gli altri fattori di rischio, di cui alcuni certamente ancora sconosciuti, che entrano in gioco. Il ruolo della TBI è controverso; tuttavia, è certamente meglio risparmiare la tossicità dell’irradiazione corporea totale per poter poi eseguire una radioterapia mirata sulle sedi residue o sulle sedi “bulky” della malattia. Ancora analogamente a quanto dibattuto nei LNH, la problematica dell’autotrapianto in prima RC per pazienti ad altissimo rischio è a tutt’oggi irrisolta. L’obiettivo perseguito da diversi gruppi negli ultimi anni è stato quello di definire i fattori di rischio in base ai quali identificare i pazienti da trattare con terapia ad alte dosi già dopo l’ottenimento della prima RC. Alla luce di ciò, alcuni Autori propongono di utilizzare l’autotrapianto nell’ambito del trattamento di prima linea in pazienti che presentino almeno due delle caratteristiche elencate in Tabella 5. In realtà, nonostante gli enormi sforzi compiuti, non c’è ancora un consenso complessivo sui criteri prognostici da utilizzare, pertanto non è possibile affermare che esista un sistema per decidere quali pazienti con LH in prima RC indirizzare all’autotrapianto. Proposta di fattori prognostici nei LH in prima RC Tabella 5 • Sintomi sistemici associati a malattia che evidenzi aggressività locale o extra-nodale (³ 2 sedi) • LDH >400 U/l • VES >50 prima ora • Masse “bulky” E 30 M A T O L O G I A MIELOMA MULTIPLO 11 Nel mieloma multiplo (MM) la terapia convenzionale permette di ottenere una percentuale di risposte del 40–60%, con una sopravvivenza mediana non superiore ai tre anni; nessun paziente è candidato alla guarigione, neanche utilizzando schemi polichemioterapici più intensivi rispetto alla classica associazione di melphalan e prednisone. Pertanto, negli ultimi anni la terapia mieloablativa seguita da reinfusione di CSP è stata ampiamente valutata anche in questa patologia. Come in altre patologie, i primi studi sono stati effettuati in fase avanzata di malattia, per verificare l’attività e la tossicità della procedura; più recentemente sono stati trattati pazienti precocemente dopo la diagnosi. Poiché la tossicità si è confermata accettabile (<5% di decessi per il trattamento) e l’attività antitumorale rilevante, sono stati pianificati studi randomizzati per verificare l’effettivo vantaggio rispetto a un trattamento convenzionale. Uno degli studi prospettici randomizzati più importanti è stato condotto dall’IFM (Intergruppo Francese Mieloma), che ha dimostrato, senza i bias legati alla selezione di pazienti più giovani o comunque in migliori condizioni generali, una superiorità della terapia ad alte dosi nei confronti di una terapia convenzionale considerata estremamente efficace, sia in termini di sopravvivenza globale (probabilità a cinque anni del 52% verso 12%) che di sopravvivenza libera da eventi (probabilità a cinque anni del 28% verso 10%). Dopo questa esperienza, la terapia ad alte dosi nel MM è divenuta una delle procedure terapeutiche essenziali nel trattamento dei pazienti di età inferiore a 60–65 anni, anche se il suo impiego non sembra in condizione di portare a reali probabilità di guarigione. Quando? Poiché si tratta di una procedura ormai scarsamente rischiosa e associata senz’altro a migliori risultati rispetto alla chemioterapia, si ritiene corretto avviare precocemente ogni paziente di età <60 anni ed eleggibile per le condizioni generali alla terapia ad alte dosi. Poiché uno dei fattori prognostici più rilevanti è rappresentato dalla risposta dopo il trapianto, nel senso che chi ottiene una RC ha maggiori probabilità di lunga sopravvivenza, la strategia terapeutica prevede l’impiego di una chemioterapia “standard”, quale l’associazione vincristina, adriblastina e desametasone (VAD) prima del trapianto, per ottenere una citoriduzione della massa neoplastica e avere maggiori probabilità di raggiungere la RC dopo l’autotrapianto. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 31 Il condizionamento. Anche nel MM non è possibile definire in via definitiva la superiorità di un regime di condizionamento rispetto a un altro. L’obiettivo, ovviamente, è sempre duplice: ottenere un’elevata citoriduzione della massa neoplastica e non provocare una tossicità extra-ematologica troppo marcata. I regimi più impiegati prevedono essenzialmente l’impiego del melphalan, da solo o associato alla TBI. Poiché, peraltro, la TBI comporta diversi svantaggi, sia sul piano logistico sia sul piano della tossicità in una popolazione mediamente anziana, viene sempre più frequentemente utilizzato uno schema di monochemioterapia, con melphalan ad alte dosi (200 mg/m2 ). 11.1 IL DOPPIO TRAPIANTO L’autotrapianto comunque, benché più efficace della chemioterapia tradizionale, non permette di ottenere più del 30% di RC, peraltro transitorie e non associate a guarigioni. È stato pertanto proposto di intensificare il trattamento con uno schema basato su un doppio trapianto, eseguito in successione nell’ambito della stessa strategia di attacco. Anche se i primi risultati disponibili sembrano indicare che questo approccio, estremamente intensivo, è fattibile e tollerabile, i risultati clinici in termini di sopravvivenza e sopravvivenza libera da eventi nei confronti dell’autotrapianto singolo non sono ancora definitivi. 11.2 I PRECURSORI EMOPOIETICI La maggior parte dei protocolli utilizzati prevede ormai l’impiego delle cellule ottenute da sangue periferico e l’uso del midollo osseo viene eventualmente riservato solo a pazienti che non riescono a mobilizzare e raccogliere un numero adeguato di cellule con le aferesi. 11.3 IL PURGING Il midollo osseo può presentare un’elevata percentuale di infiltrazione da cellule mielomatose anche dopo una prima linea di chemioterapia citoriduttiva, e le metodiche di biologia molecolare hanno permesso di dimostrare che progenitori di cellule mielomatose circolano anche nel sangue periferico. Esiste pertanto un razionale che supporta l’indicazione al purging; peraltro, va ricordato che il ruolo del purging è sempre secondario nella prevenzione della recidiva se l’eradicazione in E 32 M A T O L O G I A vivo della malattia non è adeguata. Recentemente, sono state messe a punto metodiche estremamente complesse e costose per eseguire il purging sul sangue periferico dopo aferesi, ma non c’è ancora una dimostrazione definitiva della effettiva efficacia clinica di queste procedure. 11.4 TERAPIA DOPO IL TRAPIANTO Il MM è una delle patologie in cui l’efficacia dell’IFN-a nel mantenere una risposta ottenuta con la chemioterapia è stata dimostrata per prima. Pertanto, questa citochina viene utilizzata come terapia di mantenimento abbastanza diffusamente, iniziando non appena la ripresa emopoietica è stata raggiunta. Nonostante ciò, la ricaduta di malattia resta quasi certa nei pazienti affetti da MM; pertanto sono in studio nuovi approcci terapeutici, che hanno l’obiettivo di controllare la malattia minima residua, raggiunta con la chemioterapia mieloablativa. Tra loro, oltre la chemioterapia di mantenimento, l’IL-2, le immunotossine dirette contro le cellule B, i retinoidi. 11.5 CONCLUSIONI L’autotrapianto è oggi indicato nell’ambito del trattamento di prima linea del paziente con MM di età <60-65 anni. La sua efficacia nei confronti della terapia tradizionale sembra dimostrata, anche se nessun paziente può essere considerato candidato alla guarigione. Pertanto, è indispensabile valutare il ruolo della terapia di mantenimento con l’obiettivo di esercitare un vero controllo sulla malattia minima residua che persiste dopo il trattamento ad alte dosi. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 33 11 12 MIELODISPLASIE In queste patologie, i risultati della chemioterapia sono particolarmente deludenti non tanto per la possibilità di ottenere la RC quanto per la probabilità di ottenere lunghe sopravvivenze libere da malattia. Pertanto l’allotrapianto rappresenta la terapia di scelta, ma l’età mediana dei pazienti è estremamente avanzata e quindi anche tenendo conto della difficoltà di trovare un donatore compatibile solo una piccola parte dei pazienti si può giovare di tale procedura. Recentemente la dimostrazione, con studi di clonalità, che non sempre è la cellula staminale totipotente a essere colpita dal processo leucemico; che è possibile ottenere con schemi di chemioterapia simili a quelli impiegati nelle leucemie acute remissioni complete di “buona qualità”; e che è possibile mobilizzare con l’impiego di fattori di crescita, precursori emopoietici nel sangue periferico; ha portato all’impiego dell’autotrapianto anche in questa patologia. Le casistiche riportate in letteratura sono limitate, ma i risultati di uno studio retrospettivo pubblicato da De Witte mostrano come anche i pazienti con mielodisplasie (MDS) possano beneficiare della terapia ad alte dosi e che tale procedura è fattibile soprattutto se si utilizzano le CSP. Possibilità di lunghe sopravvivenze libere da malattia sono riportate in più del 30% dei pazienti. È attualmente in corso uno studio prospettico dell’EORTC/GIMEMA che confronta l’impiego di un secondo ciclo di chemioterapia contro l’autotrapianto con CSP nei pazienti con mielodisplasia che ottengono la remissione completa dopo chemioterapia intensiva. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 35 DOPO L’AUTOTRAPIANTO: L’IMMUNOTERAPIA La causa più frequente di insuccesso terapeutico nei pazienti autotrapiantati è rappresentata dalla recidiva della malattia, dovuta sia alla mancata eradicazione del clone leucemico da parte della terapia di condizionamento, sia all’incapacità del sistema immunitario del paziente di distruggere le cellule tumorali residue. Il potenziamento dell’immunocompetenza, soprattutto nella condizione di malattia minima residua che si ha dopo l’autotrapianto, potrebbe teoricamente portare a un miglioramento dei risultati clinici con un aumento delle probabilità di guarigione. L’impiego di citochine esogene ad attività antitumorale è basato sulla loro capacità di modificare il sistema immune del paziente aumentando l’attività citotossica dei suoi effettori cellulari nei confronti della neoplasia senza provocare alterazioni nelle cellule normali. 13.1 INTERFERONI Sono stati impiegati in numerose malattie ematologiche. La loro attività è duplice in quanto non solo presentano un effetto citotossico diretto sulle cellule tumorali, ma agiscono anche indirettamente potenziando gli effettori citotossici. Dati estremamente promettenti sono stati riportati nel mieloma multiplo e nella leucemia mieloide cronica dove è ormai dimostrata la possibilità di mantenere e/o indurre conversioni citogenetiche. Dopo autotrapianto l’IFN viene utilizzato a completa ricostituzione emopoietica con dosaggi inizialmente bassi che vengono aumentati e modulati in base alla tolleranza clinica ed ematologica del paziente. 13.2 INTERLEUCHINA 2 Dopo autotrapianto la produzione di IL-2 è scarsa, tuttavia i linfociti del paziente possiedono il recettore per l’IL-2 (CD25) e hanno la capacità di rispondere alle somministrazioni della citochina. L’IL-2 prodotta dai linfociti T corregge difetti funzionali degli stessi linfociti, attiva le A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 37 13 cellule natural killer (NK) e i linfociti T conferendo loro attività LAK (lymphokine activated killer), potenzia la citotossicità dei monociti e promuove la produzione di altre citochine ad attività antineoplastica come il TNF (tumor necrosis factor) e l’IFN-g. Anche la produzione dei fattori di crescita come il granulocyte macrophage colony stimulating factor (GM-CSF) e l’IL-3 è influenzata dalla somministrazione di IL-2 dopo autotrapianto con vantaggio sulla ripresa emopoietica. Studi di fase I e II dopo autotrapianto sono stati effettuati in diverse malattie ematologiche (LNH, LLA, LMA, MM, MDS). I risultati di questi studi pilota hanno dimostrato la fattibilità della terapia con IL-2 dopo autotrapianto, soprattutto se si impiegano dosaggi bassi, e sono stati ottenuti risultati biologici estremamente interessanti ma finora nessuno studio è riuscito a dimostrare un vantaggio clinico nell’impiego dell’IL2 e/o a identificare pazienti che possano beneficiare di tale trattamento. Studi randomizzati sono attualmente in corso nelle LMA e nei linfomi per cercare di definire il ruolo dell’IL-2. Fino a quando i risultati di questi studi non saranno disponibili, l’impiego dell’IL-2 dopo autotrapianto non è raccomandato se non nel contesto di studi clinici controllati. 13.3 CICLOSPORINA L’induzione dopo autotrapianto di una sindrome tipo graft versus host disease (GvHD) potrebbe potenzialmente determinare un effetto GvL. Studi in modelli animali hanno dimostrato la capacità della ciclosporina (Cya) di provocare una sindrome tipo GvHD dopo trapianto autologo. La Cya può indurre un fenomeno autoimmune laddove i linfociti T citotossici sono resi capaci di distruggere cellule bersaglio che presentano l’antigene Ia (HLA-DR). Dal momento che numerose cellule di leucemia o linfoma possono esprimere anche l’antigene Ia, l’impiego della Cya potrebbe essere di vantaggio in tali malattie. Nonostante ciò, pochi studi clinici hanno impiegato la Cya dopo trapianto autologo. Tuttavia, anche se pazienti affetti da LNH, MM e LMA che hanno neoplasie che presentano l’antigene Ia potrebbero essere i candidati ideali per tale terapia, l’impiego della Cya non è raccomandato al di fuori di studi clinici controllati. E 38 M A T O L O G I A 14 LE MALATTIE AUTOIMMUNI Numerosi dati sperimentali in vitro e in modelli animali hanno dimostrato che varie patologie autoimmuni possono essere curate o, viceversa, trasferite, mediante il trapianto di cellule staminali emopoietiche. In letteratura vengono riportati casi aneddotici di pazienti affetti da patologie neoplastiche associate a forme autoimmuni trattati e guariti da ambedue le forme con il trapianto di midollo. Recentemente, le terapie ad alte dosi seguite da reinfusione di progenitori emopoietici midollari o meglio periferici sono sempre più utilizzati per il trattamento di patologie autoimmuni refrattarie ai trattamenti convenzionali. Vengono prese in considerazione per tali trattamenti malattie come il lupus eritematoso, la sclerosi sistemica, l’artrite reumatoide, ma la patologia in cui sono stati effettuati più autotrapianti è rappresentata dalla sclerosi multipla dove pionieristica è stata l’esperienza del gruppo greco nelle forme progressive. I risultati di questo studio hanno dimostrato che la procedura è fattibile e che un 50% dei pazienti può ottenere un miglioramento. L’approccio trapiantologico nelle malattie autoimmuni è considerato ancora altamente sperimentale e riservato a centri estremamente specializzati. Per tali motivi si è recentemente costituito un gruppo europeo che sta cercando di stabilire delle linee guida per la selezione dei pazienti e dei protocolli terapeutici da adottare nelle diverse fasi di trattamento. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 39 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 15 L’autotrapianto in alcune patologie ha oggi raggiunto uno standard così elevato, da poter essere considerato parte integrante di numerosi protocolli di trattamento. Per questo motivo non è più corretto valutarlo come trattamento a sé stante, bensì va considerato nell’ambito di una strategia terapeutica complessiva pianificata con l’obiettivo di guarire o comunque di prolungare significativamente la sopravvivenza dei pazienti ematologici. Tutto ciò ha una diretta conseguenza anche sul piano strettamente clinico, poiché porta a una diversa modalità di valutazione dei risultati. I risultati da valutare diventano infatti quelli ottenuti con la strategia terapeutica complessiva, che comprende l’autotrapianto in una determinata fase piuttosto che in un’altra, nei confronti di protocolli che non comprendono questa procedura. In altre parole, conoscere e valutare i risultati, in termini di sopravvivenza globale o libera da malattia, dal momento del trapianto, sta sempre più perdendo significato nella ricerca clinica, mentre sempre più importante risulta la valutazione dell’impatto complessivo di una data strategia terapeutica in una determinata patologia. Nonostante ciò, conoscere i risultati dell’autotrapianto di per sé trova ancora un significato quando andiamo a valutare un approccio sperimentale nuovo sul piano metodologico, per confrontare tossicità e fattibilità di procedure diverse, quali sono ad esempio l’impiego delle CSP verso cellule ottenute da midollo osseo, oppure l’impiego del purging. Inoltre, questi dati stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante e destinato a crescere in futuro, per fornire informazioni concrete al singolo paziente che desidera conoscere, in un dato momento e per una data patologia, quali siano le problematiche, i rischi e, possibilmente, le probabilità di successo della terapia che deve affrontare. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 41 BIBLIOGRAFIA GENERALE 16 CAPITOLO 3. LE CELLULE STAMINALI • Craig JIO et al., Blood Rev 6: 59-67; 1992. • Elliott C and McCarthy D, Bone Marrow Transplant 14: 419-423; 1994. • Gianni AM et al., J Clin Oncol 8: 768-778; 1990. • Gianni AM et al., Lancet ii: 580-585; 1989. • Muus P et al., Proc. Eight International Symposium on Autologous Marrow and Blood Transplantation, Arlington, USA, August 18-21, 1996. • Reiffers J et al., Bone Marrow Transplant 7 (Suppl. 2): 144; 1991. • Watts MJ and Linch DC. Vox Sanguinis 73: 135-142; 1997. CAPITOLO 4. IL CONDIZIONAMENTO • • • • • • Bensinger WI, Bone Marrow Transplant 21: 113-115; 1998. Bjorkstrand B et al., Bone Marrow Transplant 15: 367-371; 1995. Champlin R. Blood 81: 277-280; 1993. Falkenburg JH et al., Immunol Rev 157: 223-230; 1997. Ringden O et al., Br J Haematol 93: 637-645; 1996. Tutschka PJ et al., Blood 7: 1387-1388; 1987. CAPITOLO 5 (5.1). LEUCEMIA MIELOIDE ACUTA • • • • • • • Burnett AK et al., Lancet 351: 700; 1998. Dini G et al., Bone Marrow Transplant 18 (Suppl. 2): 4-7; 1996. Mandelli F et al., Blood 90: 1014-1021; 1997. Meloni G et al., Blood 90: 1321-1325; 1997. Meloni G et al., Bone Marrow Transplant 18: 693-698; 1996. Silverman LB and Weinstein HJ, Curr Op Oncol 9: 26-33; 1997. Zittoun R et al., New Engl J Med 332: 217-223; 1995. CAPITOLO 5 (5.3). LEUCEMIA LINFOIDE ACUTA • Fiere D et al., J Clin Oncol 11: 1990-2001; 1993. • Liesner R and Goldstone AH, J Int Med (Suppl. 740): 29-36; 1997. A U T O T R A P I A N T O D I C S E N E L L E E M O L I N F O P A T I E 43 • Messina C et al., Bone Marrow Transplant 21: 1015-1021; 1998. • Uderzo C et al., J Clin Oncol 3: 352-358; 1995. CAPITOLO 6. LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA • • • • • • • • • • Buckner CD et al., Exp Hematol 6: 96; 1978. Capria S et al., Haematologica 81: 349-351; 1996. Carella AM et al., Br J Haematol 100: 445-448; 1998. Goldman JM et al., Br Med J 1:1310; 1979. Haines ME et al., Br J Haematol 58: 711-721; 1984. Hoyle C et al., Br J Haematol 86: 76-81; 1994. McGlave PB et al., Lancet 343: 1486; 1994. Meloni G et al., Bone Marrow Transplant 4 (Suppl. 4): 92-94; 1989. Papa G et al. Proc ASCO 4: 157; 1985. Reiffers J et al., Bone Marrow Transplant 14: 407-410; 1994. CAPITOLO 7. LEUCEMIA LINFOIDE CRONICA • • • • Dreger P et al., Br J Cancer 77: 2291-2297; 1998. Kouri IF et al., J Clin Oncol 12: 748-758; 1994. Meloni G et al., Haematologica 83: 660-662; 1998. Rabinowe SN et al., Blood 82: 1366-1376; 1993. CAPITOLO 8. LINFOMI NON HODGKIN A ISTOLOGIA AGGRESSIVA • • • • • • • • • • • • • • • • • • • Capria S et al., Leuk Lymph 23: 147-151; 1996. Gianni AM et al., New Engl J Med 336: 1290-1297; 1997. Gryn J et al., Bone Marrow Transplant 19: 221-226; 1997. Guglielmi C et al., J Clin Oncol 16: 3264-3269; 1998. Haioun C et al., Ann Oncol 9 (Suppl. 1): S5-S8; 1998. Haioun C et al., J Clin Oncol 5: 1131-1137; 1997. Martelli M et al., J Clin Oncol 14: 534-542; 1996. Milpied N et al., Bone Marrow Transplant 22: 645-650; 1998. Perry AR and Goldstone AH, Ann Oncol 9 (Suppl. 1): S9-S14; 1998. Peterson FB et al.; J Clin Oncol 8: 638-647; 1990. Philip T et al., New Engl J Med 316: 1493-1498; 1987. Philip T et al., New Engl J Med 333:1540-1545; 1995. Phillips GL et al., Blood 75: 831-838; 1990. Rapoport AP et al., Bone Marrow Transplant 19: 883-890; 1997. Santini G et al. J Clin Oncol 16: 2796-2802; 1998. Stoppa AM et al., J Clin Oncol 15: 1722-1729; 1997. Takvorian T et al., New Engl J Med 316: 1499-1505; 1987. Verdonck LF et al., New Engl J Med 332: 1045-1051; 1995. Vose JM, Ann Oncol 9 (Suppl. 1): S1-S3; 1998. E 44 M A T O L O G I A CAPITOLO 9. LINFOMA FOLLICOLARE • • • • • • • • • • • • Algarra SM and Armitage JO, FORUM (Genova) 5: 599-606; 1995. Armitage JO, Sem Oncol 20 (Suppl. 5): 136-142; 1993. Bastion Y et al., Blood 86: 3257-3262; 1995. Bierman PJ et al., J Clin Oncol 15: 445-450; 1997. Corradini P et al., Blood 89: 724-731; 1997. Freedman A and Nadler LM. Marrow Transplant 2: 33-38; 1992. Freedman AS et al., Blood 88: 2780-2786; 1996. Freedman AS et al., Leuk Lymph 28: 219-230; 1998. Lazarus MH, Leuk Lymph 17: 199-210; 1995. Haas R et al., Bone Marrow Transplant 17: 149-155; 1996. Moos M et al., Leukemia 12: 1971-1976; 1998. Morel P et al., Leukemia 9: 576-582; 1995. CAPITOLO 10. LINFOMA DI HODGKIN • • • • • • • • • • Bradley SJ et al., Leuk Lymph 15 (Suppl. 1): 51-53; 1995. Canellos GP et al., New Engl J Med 327: 1478-1484; 1992. Carde P, Leuk Lymph 15 (Suppl. 1): 31-40; 1995. Carella AM et al., Leuk Lymph 21: 63-70; 1996. Carella AM and Congiu AM, In: Chemioterapia ad alte dosi nelle emo-linfopatie maligne, vol. 2, Franco Mandelli (Ed.) pp. 4-23, Archimedica Editori in Torino, 1996. Gianni M et al., Ann Oncol 2: 645-653; 1991. Linch DC et al., Lancet 341: 1051-1054; 1993. Longo DL et al., J Clin Oncol 10: 210-218; 1992. Phillips GL et al., Blood 73: 2086-2092; 1989. Sweetenham JW et al., Bone Marrow Transplant 20: 745-752; 1997. CAPITOLO 11. 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