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L`outsourcing del titolo esecutivo (e dei provvedimenti giudiziali in
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GIUSEPPE DELLA PIETRA
L’outsourcing del titolo esecutivo (e dei provvedimenti giudiziali in genere): si
parva licet componere magnis*
1. Il criticato arresto delle Sezioni Unite. – 2. Un caso emblematico. – 3. La sorte
del fascicolo d’ufficio e delle produzioni di parte. – 4. Inconciliabilità
dell’eterointegrazione del titolo esecutivo con la dispersione dei fascicoli: certa per
quelli di parte, non impossibile per quelli d’ufficio. – 5. Limiti alla motivazione per
relationem dei provvedimenti giudiziali.
1.- Fra le perle che la Cassazione ha largito in questi anni spicca quella in punto
di determinazione del comando dettato dal titolo esecutivo.
Hanno ritenuto le Sezioni Unite che “il giudice dell’opposizione all’esecuzione,
qualora il titolo esecutivo risulti generico e indeterminato non contenendo gli elementi
sufficienti a rendere liquido il credito con un calcolo puramente matematico (e, più in
generale, qualora vi siano incertezze nella sua formulazione), può fare riferimento a
elementi esterni ed extratestuali, non desumibili dal titolo, ma risultanti dagli atti delle
parti, dai documenti da esse prodotti, dalle relazioni degli ausiliari del giudice, se ne
siano stati introdotti nel processo in cui la sentenza (o altro titolo esecutivo) che ha
definito quel giudizio è stata pronunziata”1.
E così, nello spazio di un mattino, decenni di dibattito sull’autosufficienza del
titolo esecutivo, sulla netta cesura tra cognizione e esecuzione, sul compito meramente
attuativo degli organi esecutivi sono stati cancellati per far posto a un sistema in cui la
dialettica fra le parti può proseguire – sia pure a bocce ferme, e cioè a materiale di causa
acquisito – anche oltre il giudicato, con il creditore che quasi propone nel precetto una
lettura integrativa del titolo e il debitore che, se non l’accoglie, promuove
un’opposizione di merito di fatto riplasmata sul modello dell’art. 645 c.p.c.
Delineato lo schema, non hanno frapposto tempo le sezioni semplici a
raccogliere lo spunto offerto dalle Sezioni Unite2 e, se possibile, perfino a rilanciarlo.
* Questo scritto è destinato alla raccolta di Studi in onore di Romano Vaccarella
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Cass., sez. un., 2-7-2012, nn. 11066 e 11067: la prima in REF, 2012, 355 ss., e in GDir, 2012, 33/34, 52,
la seconda in FI, 2012, I, 3019, e in CorG, 2012, 1166. Si leggano anche l’ordinanza 14-12-2011, n.
26943, REF, 2011, 719 ss. (ivi anche la corrispondente relazione del Massimario), che, con la gemella n.
26944 di pari data, aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite (insieme con quella della rilevabilità
officiosa del difetto di titolo esecutivo), e i rilievi già critici di MAJORANO, Questioni controverse in tema
di poteri di rilevazione officiosa del giudice dell’opposizione all’esecuzione e di interpretazione del titolo
esecutivo, ivi, 2012, 159 ss., e di CAPPONI, Incerto diritto nell’incerto titolo, ibidem, 173 s.
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Se ne rinvengono applicazioni in Cass., 16-4-2013, n. 9161 e in Cass., 27-8-2013, n. 19587, e richiami
in Cass., 13-11-2013, n. 25532 e in Cass., 14-6-2013, n. 14932.
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Benché nel quadro di una pronuncia volta marcare il perimetro nel quale deve
contenersi l’attività d’integrazione, la III sezione ha vieppiù esteso il beneficio
accordato al creditore, prevedendo che l’attività di completamento, oltre che con atti del
processo, possa aver luogo anche “… in via ancora più eccezionale, con atti ad esso
estrinseci, purché idoneamente richiamati o presupposti nei primi …”3.
Non intendo qui rinnovare le critiche (tutte serrate, molte anche aspre) che
l’inopinato arresto ha perlopiù riscosso dalla dottrina4. Non avrei né migliori ragioni, né
più acconce parole per ripetere censure che mi hanno confortato nel sentimento di
perplessità che la sentenza della Cassazione aveva suscitato non solo in me già in prima
lettura.
Se alle dotte disquisizioni è lecito accostare un piccolo argomento, vorrei qui
aggiungere un motivo che rende non solo sconveniente, ma perfino impraticabile
l’eterointegrazione caldeggiata dalla Corte. Un argomento flebile e puramente pratico
(di bassa cucina, direbbe qualche studioso), ma che suona non meno decisivo per
invitare le Sezioni Unite a riflettere sulla novità patrocinata e – se possibile – a tornare
sui propri passi. Non senza profittare dell’occasione per lanciare un allarme al
legislatore che, nell’ansia di ridurre al minimo l’impegno dei giudici nella redazione
delle sentenze, rischia di cadere in un errore non diverso da quello in cui è incorsa la
Cassazione.
2.- Chi più del Maestro che qui intendo onorare ha saputo coniugare la
speculazione scientifica di raffinata trama con il patrocinio forense (e non solo) al più
elevato livello?
Non gli dispiacerà perciò (o almeno spero) se il discorso prenderà spunto da una
recente vicenda professionale: singolare quanto si vuole, ma sintomatica della deriva cui
può condurre l’imponderata apertura delle Sezioni Unite.
In sede di rinvio dalla Cassazione la corte d’appello condanna il convenuto ad
arretrare il proprio fabbricato fino a raggiungere la distanza di sei metri dal confine del
fondo avversario, in modo da sanare la violazione appurata dal consulente d’ufficio
oltre trent’anni prima.
L’attore domanda le modalità al giudice dell’esecuzione che, sull’opposizione
del convenuto, reputa indispensabile acquisire l’antica relazione. Alla sollecitazione del
g.e. la cancelleria risponde che “tentato l’adempimento, risultano essere inaccessibili i
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Cass., 17-1-2013, n. 1027, REF, 2013, 137, con nota (critica non di questa pronunzia, ma della sentenza
delle Sezioni Unite) di VACCARELLA, Eterointegrazione del titolo esecutivo e ragionevole durata del
processo.
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Si leggano i commenti di CAPPONI, Autonomia, astrattezza, certezza del titolo esecutivo: requisiti in via
di dissolvenza?, CorG, 2012, 1169 ss.; di SASSANI, ZUCCONI GALLI FONSECA, E. FABIANI, DELLE
DONNE e PILLONI, sotto il comune titolo Le Sezioni Unite riscrivono i requisiti (interni ed esterni) del
titolo esecutivo: opinioni a confronto intorno a Cass., S.U., n. 11067/2012, REF, 2013, 78 ss. Le uniche
voci favorevoli sono quelle di BELLÈ, ivi, 126 ss., di GENTILE, L’esecuzione forzata del titolo giudiziale
non numerario, FI, 2012, I, 3024 ss., e di CATTANI, Non sempre la forma è sostanza: le Sezioni Unite si
pronunciano sulla legittimità della integrazione del titolo esecutivo giudiziale mediante le risultanze
processuali, RIDL, 2013, 148 ss. Il contributo di E. Fabiani, in versione più asciutta sia nel testo che nelle
note, si legge anche in FI, 2013, I, 1282 ss., sotto il titolo C’era una volta il titolo esecutivo; quello di
Capponi in Commentario del Codice di procedura civile, diretto da COMOGLIO – CONSOLO – SASSANI –
VACCARELLA, VI, Torino, 2013, sub art. 474, 29 ss.
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locali in cui è custodito il relativo fascicolo”. Il giudice, forse sconcertato, ma
evidentemente deciso a non rimangiarsi la premessa sulla quale aveva ordinato
l’esibizione, accoglie l’opposizione, dichiarando non eseguibile l’obbligo di cui al titolo
azionato. La Cassazione, evocando testualmente l’arresto delle Sezioni Unite, conferma
la bontà del ragionamento del giudice5.
E così, grazie all’impraticabilità dell’archivio giudiziario (formula impensabile
per l’ufficio di una grande città, che da informazioni bonariamente assunte pare alludere
a un persistente allagamento che avrebbe distrutto la gran parte dei fascicoli) il prodotto
finale del processo è di fatto inutilizzabile, vanificando lo sforzo di chi (di padre in
figlio, per necessità di cose) aveva coltivato la causa per quasi quarant’anni.
Avranno pensato, i giudici delle Sezioni Unite, a eventualità di questo genere
quando hanno caldeggiato l’eterointegrazione del titolo esecutivo?
Si dirà che simili vicende sono eccezionali, e che la Cassazione deve esprimere
princìpi volti a regolare la normalità, senza poter scontare eventi patologici che devono
trovare rimedio in altre sedi e in altre forme.
Qui, però, si vuole mostrare l’opposto: e cioè che l’ipotesi per cui gli atti del
processo non sono più disponibili al tempo in cui si deve eseguire il comando giudiziale
è fattispecie tutt’altro che singolare, e ciò pur senza ricorrere a eventi straordinari come
quello evocato, in cui un archivio cittadino si trasforma in una palude inaccessibile al
punto da non poter attingere al suo contenuto.
3.- L’autosufficienza del titolo ai fini dell’esecuzione – per il cui fondamento si
rinvia alla dottrina che ha già acutamente criticato la svolta delle Sezioni Unite – trova
riscontro in talune regole, che non è detto riposino su criteri di mera organizzazione.
In virtù dell’art. 35, disp. att., c.p.c., “il cancelliere deve riunire annualmente in
volumi separati gli originali delle sentenze, dei decreti d'ingiunzione e dei processi
verbali di conciliazione, nonché le copie dei verbali contenenti le sentenze pronunciate a
norma dell'art. 281-sexies”. Gli artt. 15 ss., d.m. 264/2000, si preoccupano di garantire
l’esistenza di un archivio digitale dei provvedimenti che si affianca a quello
tradizionale. In sostanza, fra volume cartaceo ineliminabile e archivio informatizzato
perpetuo, dei provvedimenti giudiziali è assicurata la diuturna conservazione e la
costante reperibilità.
Per i fascicoli di causa il sistema non mostra pari preoccupazione. Qui la normacardine è l’art. 2961, 1° co., c.c.: “i cancellieri, gli arbitri, gli avvocati, i procuratori e i
patrocinatori legali sono esonerati dal rendere conto degli incartamenti relativi alle liti
dopo tre anni da che queste sono state decise o sono altrimenti terminate”.
Il dato sembra nitido: trascorso un triennio dalla definizione del giudizio, la
cancelleria non è più tenuta a conservare i fascicoli di causa, per cui delle due l’una: o li
ha trasmessi al giudice superiore (se vi è stata impugnazione), o può anche non
impegnarsi nella loro custodia, della quale più non risponde. Né la natura presuntiva di
questo tipo di prescrizione vale a circoscrivere l’esonero in favore degli operatori
giudiziari.
Si dirà che soccorre in tal punto la normativa in tema di archiviazione dei
documenti delle amministrazioni statali, che contempla la conservazione degli
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Sia pure ad abundantiam, a corredo di una pronunzia d’inammissibilità: Cass., 13-12-2012, n. 22916.
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incartamenti per quarant’anni presso gli archivi giudiziari, e poi presso l’Archivio di
Stato6. Ma, anche a non considerare che non sempre vi è immediata consecuzione fra lo
scadere del triennio e l’avvio dei documenti all’archivio di deposito, e che con il
passaggio di consegne e il trascorrere del tempo inevitabilmente l’impegno nella
custodia scolorisce (come mostra la vicenda che sopra ho narrato, e che riguarda un
numero indeterminato di fascicoli7), l’aspetto rilevante è soprattutto altro.
Pur supponendo che la conservazione degli incartamenti goda di lunghissima
durata e d’impeccabile esecuzione, è certo che la custodia concerne il fascicolo
d’ufficio, non i fascicoli di parte. E ciò anzitutto perché ciascun difensore può ritirare, al
termine di ogni grado, il proprio fascicolo e giammai restituirlo, perfino se il processo
dovesse proseguire con le impugnazioni. E se pure è verosimile che il fascicolo
ricomparirà nei successivi gradi, è certo che scomparirà definitivamente all’esito
dell’ultima pronuncia. Icasticamente può dirsi che il giudicato ha fra i suoi effetti
indiretti anche la progressiva dissolvenza dei fascicoli di parte, che prenderanno la
strada non delle cancellerie o degli archivi, ma degli studi dei difensori.
Né a miglior sorte sono destinati i fascicoli non ritirati dagli avvocati. Il web
pullula di avvisi delle cancellerie che, trascorsi i tre anni dell’art. 2961 c.c., invitano i
difensori a ritirare i propri fascicoli entro una certa data, pena la distruzione. Qualcuno,
più elegantemente, avverte che per gli incartamenti lasciati in giacenza si ricorrerà alla
procedura degli scarti d’archivio, ma la sostanza è sempre quella: la devoluzione alle
organizzazioni di volontariato o alla Croce Rossa, e di qui comunque al macero.
4.- Dopo essersi misurati con le alate ragioni dell’accorta dottrina, si soffermino
i giudici delle Sezioni Unite anche sul più pedestre dubbio che si va tentando di
suscitare in queste righe.
Pensano davvero che il sistema sia imperniato sull’integrazione del titolo
mediante atti e documenti presenti nel fascicolo d’ufficio o prodotti dalle parti? Sono
davvero certi che, ove l’esecuzione sia promossa a distanza di anni, quegli incartamenti
saranno ancora reperibili presso gli archivi? E se non si dovessero rinvenire (com’è più
probabile per gli atti di parte, ma non inverosimile, perlomeno in certe sedi, per quelli
d’ufficio), i processi esecutivi dovranno chiudersi con la pronunzia di ineseguibilità
attinta nell’esecuzione che sopra si è narrata? E questo esito cos’ha da dividere con la
durata ragionevole e l’istanza costituzionale di processo giusto?
Taluno opporrà che soccorre pur qui l’indirizzo della Cassazione che impone
alla parte, ove voglia avvalersi in fase d’impugnazione di documenti presenti nel
fascicolo avversario ritirato e non più depositato, di procurarsi per tempo la copia del
documento chiedendone il rilascio al cancelliere8 o, qualora non sia stata così accorta, di
chiederne l’esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c.9
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Art. 41, 1° co., d.lgs. 22-1-2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio).
E che non si profila neppure così eccezionale, se il Quotidiano di Bari del 19.9.2012 riferisce che quello
del tribunale barese è “… un archivio ormai saturo e insicuro, da chiudere, con le sue tubature che ogni
tanto sversano liquami che finiscono puntualmente su fascicoli e incartamenti”. L’articolo è leggibile
all’indirizzo
http://quotidianodibari.it/articoli/primo-piano/archivio-generale-del-tribunale-una-verabomba-car/#.Uujea6Nd5Ms.
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Cass., sez. un., 8-2-2013, n. 3033, FI, 2013, I, 819, e GI, 2013, 2593.
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Cass., 22-1-2013, n. 1462.
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Senonché, quantomeno per i documenti del fascicolo di parte, l’ordine di
esibizione è fuorigioco: trascorso il triennio, parte e difensore avranno vita facile a
opporre di aver mandato al macero l’incartamento. Quanto alle copie, l’adempimento si
profila di ardua praticabilità. Non potendo la parte conoscere a priori quali dei
documenti avversari gli potranno tornare utili per integrare il futuro titolo esecutivo,
dovrebbe a rigore farsi rilasciare copia di tutta la documentazione avversaria, con
aggravio non solo di costi per il richiedente, ma anche e soprattutto di lavoro per le
esauste cancellerie, che vedrebbero elevate a potenza le richieste di copia.
Vero è, allora, che il cuore del discorso non sta nelle empiriche soluzioni
additate dalla Cassazione.
Anche dall’angolo visuale della conservazione degli incarti processuali il
sistema appare ispirato ai principi della radicale autosufficienza del titolo esecutivo e
della sua naturale separatezza rispetto agli atti e ai documenti su cui è pur basata
l’emanazione del provvedimento. La tendenziale perpetuità della custodia delle
decisioni finali e l’acclarata temporaneità della conservazione dei sottostanti fascicoli
(di parte, ma non di rado anche d’ufficio10) rendono evidente, a mio avviso, che
l’autonomia del titolo esecutivo era ben chiara anche a chi disciplinò l’archiviazione.
Nell’assegnare un diverso regime a sentenze e fascicoli, l’autore di quelle regole non
tenne solo conto della diversa voluminosità, ma anche dell’opposto ruolo che nel tempo,
ai fini dell’esecuzione, avrebbero giocato le une e gli altri. O, se si vuole, prese spunto
proprio dal differente ingombro per stabilirne tempi e modi diversi di conservazione;
nel far ciò, non poté non postulare l’autosufficienza del titolo esecutivo negata oggi
dalle Sezioni Unite.
Non sarà mai detto abbastanza. L’argomento che fa leva sulla provvisoria
disponibilità dei fascicoli non si sovrappone a tutti quelli, ben più corposi, che la
dottrina ha sviluppato contro la pronunzia delle Sezioni Unite. Non parendomi, però,
addotto da nessuno, giunge qui di rincalzo, a suggellare in chiave teorica che i
codificatori non possono aver pensato all’eterointegrazione del titolo e,
contemporaneamente, alla dispersione nel tempo di atti e documenti di causa; sul piano
pratico, che il nuovo indirizzo può creare inique discriminazioni fra esecuzioni
promosse nell’immediatezza del provvedimento e esecuzioni che, iniziate a distanza di
qualche anno, potrebbero non trovare nelle cancellerie e negli archivi elementi necessari
all’operazione di completamento patrocinata dalla Cassazione. Il che mi pare un’altra,
se pur ultima, ottima ragione perché i giudici supremi tornino sui propri passi.
5.- Credo, però, che il vincolo che lega autosufficienza del titolo giudiziale,
conservazione delle sentenze e progressiva dispersione dei fascicoli (quelli di parte, in
special modo) si spinga anche oltre il pur ampio perimetro del processo esecutivo.
La diversa cura riservata alle decisioni del giudice, da un lato, e al resto
dell’incartamento, dall’altro, depone, a mio avviso, per il divieto di eterointegrazione
dei provvedimenti giudiziali in genere11.
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Ai casi sopra narrati si aggiunga quello risolto da Cass., 8-2-2013, n. 3055, in cui il giudice d’appello
aveva disposto la ricostruzione del fascicolo d’ufficio andato perso perché mandato al macero nelle more
del giudizio.
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Spunto in tal senso è già in CAPPONI, Incerto diritto nell’incerto titolo, cit., in partic. 174.
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Vanno perciò salutate con estremo sfavore disposizioni come l’art. 16, 5° co.,
seconda parte, d.lgs. n. 5/2003, che nell’abrogato rito societario prevedeva che “la
sentenza può essere sempre motivata in forma abbreviata, mediante il rinvio agli
elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni
di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi”. O il ritocco (poi espunto in sede
di conversione) che il d.l. n. 69/2013 aveva apportato all’art. 118, disp. att., c.p.c.: “La
motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del
codice consiste nella concisa esposizione dei fatti decisivi e dei principi di diritto su cui
la decisione è fondata, anche con esclusivo riferimento a precedenti conformi ovvero
mediante rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi o di altri atti di causa…”.
Passi per la succinta esposizione dei fatti di causa (concisa, ma ineliminabile, per
le stesse ragioni viste sopra); sia concesso l’esclusivo riferimento a precedenti conformi
(benché la sentenza ridotta a nudo repertorio non può che suonare povera di
motivazione); si ammetta anche il richiamo agli scritti difensivi (che a rigore sono
acclusi in copia al fascicolo d’ufficio, della cui malcerta conservazione ho peraltro già
detto); sono però dell’idea che, ferme le regole sull’archiviazione, il rinvio ad altri atti di
causa riesca vietato al legislatore, particolarmente se la locuzione dovesse intendersi come presumo - estesa anche ai documenti.
Da questo versante la sospirata liberazione dei giudici dal fardello della
motivazione dovrebbe passare giocoforza da un incremento d’impegno (e di correlativa
responsabilità) di avvocati, cancellieri e capi d’archivio. Occorrerebbe anzitutto vietare
alla parte di ritirare la propria produzione, o quantomeno imporle di ridepositarla intatta
in ogni grado. I cancellieri dovrebbero poi custodire non solo i fascicoli d’ufficio, ma
anche quelli di parte, e al termine del triennio trasmettere l’incartamento agli archivi
giudiziari, che ne dovrebbero curare l’integrità e la disponibilità con rigore ben diverso
da quello tenuto dall’ufficio coinvolto nella vicenda che sopra si è narrata.
All’esito di questa operazione ne riuscirebbe non solo emendato l’odierno
regime di archiviazione, non tanto alterato l’impianto del processo (che al momento
concede alla parte di ritirare e non restituire la propria produzione, e fors’anche singoli
documenti già esibiti), quanto enormemente aggravato il carico di lavoro di archivi e
cancellerie, costretti a conservare con tutt’altra cura rispetto all’attuale fascicoli ben più
voluminosi di quelli, già ingombranti, rimessi alla loro custodia.
Certo, il fascicolo telematico risolverà ogni cosa, ma nel frattempo? E, anche
quando sarà a regime, per il pregresso?
E’ il caso di concludere che il costo di una simile rivoluzione sarebbe di gran
lunga maggiore dell’ipotetico beneficio che ai giudici deriverebbe in punto di
motivazione. Un argomento in più per non ischeletrire oltremodo le decisioni giudiziali:
tanta carta in meno negli archivi, e qualche parola in più nelle sentenze, agli uni non
guasta, alle altre senza dubbio giova.
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