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Giovedì 23 maggio 2013 L’iniziativa ALLA RICERCA DEL SENSO CONDIVISO di Stefano CRISTANTE* I l corso di studi in Scienze della Comunicazione dell'Università del Salento è, tra le altre cose, un luogo di iniziativa culturale. Da quando esistiamo (più di un decennio, dall'anno accademico 2000-2001) abbiamo dato vita a convegni, seminari, concorsi, riviste, rassegne, blog e webtv. Al di là dell'efficacia delle singole intraprese, ciò che risulta interessante a noi che lavoriamo all'interno del corso è lo spirito della collaborazione di cui c'è bisogno per ideare eventi. SPECIALE I I film visti e commentati dai ragazzi di Scienze della Comunicazione di Unisalento C inema Continua a pag. II Il progetto IL CORAGGIO DI ALLARGARE LO SGUARDO di Giovanni SCARAFILE* Q uando il critico cinematografico esce da un cinema, non sa cosa pensare di ciò che ha appena visto». Questa indicazione, rinvenibile nello scritto I sette peccati capitali della critica cinematografica (1955) di François Truffaut, riassume forse nel modo più efficace la difficoltà insita nel lavoro del critico. Da un lato, infatti, è vero che l’esperire del cinema possiede una tale immediatezza da consegnare a chiunque la possibilità di esprimere opinioni su un film appena visto. Continua a pag. III Gli studenti alla prova con la critica attraverso la scrittura giornalistica FILM COMMISSION La Puglia è tutta da girare Puglia, scenes to explore Scienze della omunicazione SPECIALE II Giovedì 23 maggio 2013 Il film & la recensione I dettagli I punti di forza sono le scelte tecniche e quelle stilistiche di Tiziano RAPANÀ Il grande Gatsby, capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, è stato oggetto in più di una occasione di una trasposizione cinematografica. Fu rappresentato per la prima volta nel 1926 da Herbert Brenson, famoso per aver diretto alcuni anni prima la prima trasposizione cinematografica di Peter Pan ed interpretato dal celebre attore Warner Baxter. Di questa prima trasposizione muta e in bianco e nero non vi sono più tracce. Bisognerà aspettare 23 anni per una nuova versione, diretta dall’attore e regista Elliott Nugent. Impreziosita da un cast di ottimo livello, con in testa l’eroe dei film western Alan Ladd, nel ruolo di Gatsby, e caratteristi del calibro di Shirley Winters che interpreta tra l’altro la moglie di Alberto Sordi in “Un borghese piccolo piccolo” e di Barry Sullivan, che ha interpretato, tra le altre pellicole, “Napoli Violenta” (1976). La critica nei confronti della pellicola fu abbastanza fredda. La versione più celebre è senza dubbio quella del 1974, che vede nei ruoli di Gatsby e Daisy, le due superstar Robert Redford e Mia Farrow. Scritto da Francis Ford Coppola, diretto da Jack Clayton e prodotto dalla Paramount Pictures, il film è considerato come la trasposizione più fedele del romanzo. Rispetto alle due precedenti versioni che duravano circa un’ora e mezza, questo film dura ben 144 minuti. Lodato dalla critica, ebbe due candidature all’Oscar, per i costumi a Theoni V. Alderge e per la colonna sonora a Nelson Riddle. La versione più controversa e certamente criticata dalla stampa è quella attuale di Baz Luhrmann, celebre regista di Moulin Rouge (2001), che ha dato una versione originale dell’opera, senza però tradirne lo spirito. Servendosi dell’uso della tecnica del 3D e dell’interpretazione di star del calibro di Leonardo DiCaprio e Tobey Maguire, sta riscuotendo un ottimo successo di botteghino, nonostante le critiche non siano lusinghiere. Il film è stato presentato all’apertura del festival di Cannes. (in collaborazione con il Cine Data Base della Fondazione Ente dello Spettacolo www. cinematografo.it) Il ritorno nelle sale di Leonardo DiCaprio con la regia di Luhrmann thos della storia contribuendone all’intensità). Nella primavera del 1922 il giovane Nick Carraway (Tobey Maguire), aspirante scrittore, abbandona il Midwest e si trasferisce a Long Island in un cottage confinante con la villa di un misterioso milionario che è solito organizzare feste grandiose, Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio). Sulla sponda opposta della baia vive sua cugina Daisy (Carey Mulligan), moglie di un ex giocatore di polo, appartenente a una ricchissima famiglia, l’ex scapolo d’oro Tom Buchanan (Joel Edgerton). Quando Nick viene a sapere che Gatsby e Daisy hanno condiviso in passa- to una storia d’amore, nata cinque anni prima e interrotta per l’origine umile del ragazzo, accetta di fornire il pretesto affinché i due possano incontrarsi di nuovo, assistendo al tramonto di vite costruite su falsità e denaro. Il futuro si ritira e il passato avanza: la figura di Daisy, un tempo compagna di Gatsby, e ora sposata con il milionario Tom Buchanan diventa il fine di tutte le azioni del protagonista (le feste che tiene Gatsby nella sua reggia rappresentano il luogo ideale di un possibile incontro). L’arrivo, che Gatsby intravede dal suo castello, è segnalato da un faro verde: lì c’è la sua amata, il suo passato-futuro. Ed è qui che la dimensione temporale converge in quella spaziale: tra le due abitazioni (quella di Gatsby posta nella West Egg, la zona dei nuovi ricchi e quella di Tom e Daisy nell’Est Egg, ricchi storici) c’è una baia da attraversare, una distesa d’acqua che alimenta il sogno di rivedere e riavere al proprio fianco Daisy. Ma nell’incontro il mistero viene svelato, il sogno più che esaudito si scontra con la consistenza del presente. Ogni simbolo che componeva la sovrastruttura del mondo onirico di Gatsby, perde l’eccedenza di significato: il faro verde è solo un’icona. Nella contesa di Daisy con il marito Tom, Gatsby (l’uomo sem- IL CLASSICO RIVISTO ste esclusive da lui stesso organizzate nella sua sfarzosissima villa. Tutti si chiedono delle origini del grande Gatsby, chi sia veramente e quale sia il segreto del suo successo infinito, causando fascinazione e invidia da parte dell’alta classe di Long Island, fatta di donne svampite e uomini all’apparenza moralisti e puritani. La ricchezza sfrenata di questo raffinato milionario e l’amore che prova per Daisy sono i motivi che mettono in luce la civiltà sordida e tanto decantata da Terry Buchanan, il marito di Daisy, interpretato da un Bruce Dern che sa farsi odiare per la sua abilità nell’interpretare un personaggio decisamente me- schino. È notevole come gli attori riescano ad esprimere il vero stato d’animo che si cela dietro la compostezza che la classe sociale conferisce ai personaggi. Mia Farrow ne dà dimostrazione, lasciando trasparire l’insicurezza e l’insoddisfazione sessuale di Daisy Buchanan mentre ostenta un’aria sbarazzina e disinvolta con patetici stacchetti da ragazzina spensierata. Un imbambolato Sam Waterston si cala nei panni di Nick Carraway, voce narrante della storia, un pacato impiegato (aspirante scrittore), proveniente dal West Side, dalla fronte sempre umida di sudo- Robert Redford nel 1974 ! C’è sempre un filo di suspense prima dell’ingresso del protagonista re che ci guiderà verso la conoscenza di un Jay Gatsby distaccato dalla mondanità delle sue memorabili feste. Proprio per questo un filo di suspence accompagna la parte iniziale del film fino all’entrata in scena del Gatsby-Redford, il che attira ancor di più l’attenzione dello spettatore. La scenografia è letteralmente spettacolare e l’esagerata fortezza da film colossal di Jay Gatsby simboleggia la solitudine del facoltoso abitante e contestualmente la sua inarrivabilità. Ma l’elemento scenografico che più coinvolge l’occhio, trasmettendo una certa idea di divario sociale, è l’alternarsi delle fastosità degli ambienti altolocati di Gatsby e della famiglia di daisy con la fatiscente officina del signor George Wilson, la cui moglie è l’amante di Terry Buchanan. Ambienti così diversi sembrano costruiti proprio per ospitare una esplosione di violenza che ha le sue radici nelle enormi disuguaglianze sociali del periodo, solo temporaneamente attutite dai ritmi frenetici delle feste di Gatsby. Segue dalla copertina E questo spirito si fonda su una grande semplicità. Un gruppetto di nostri docenti o di nostri studenti propone qualcosa da fare motivandone le ragioni, si discute nei nostri organismi e si mette il progetto in programmazione. Naturalmente bisogna che i costi dell’iniziativa siano compatibili con le nostre non ingenti risorse, oppure che si trovino partner in grado di aiutarci a sostenerli. La sostenibilità è da tempo un fattore indispensabile per le istituzioni, e noi non facciamo eccezione. È più o meno in questo modo che ha preso forma il progetto i cui primi frutti avete tra le mani. Scrivere di cinema è stata la proposta rivol- “La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie”. Queste parole del drammaturgo Hofmannsthal ci suggeriscono una prospettiva capace di farci scorgere e cogliere la complessità e l’interezza del film “Il Grande Gat- sby”. Già, perché è proprio in ciò che è visibile, sotto gli occhi di tutti che si cela l’essenza delle cose, il loro significato più recondito. Luhrmann rimane fedele alla trama del romanzo di Fitzgerald, cercando la sua personale caratterizzazione, in determinate scelte tecniche (numerosi i travelling e i primi piani, l’uso del 3D che permette allo spettatore di stare dentro e fuori, incantato e respinto) e stilistiche (le melodie hip-pop che si mescolano agli assoli jazz di tromba e a quelli d’organo, le scenografie che cromaticamente seguono il pa- Il grande GATSBY Il fascino di Jay Su milionario oscuro Prima del regista Baz Lurhmann fu Jack Clayton ad offrire una trasposizione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerlald “Il Grande Gatsby”. Il grande Gatsby del 1974 è testimonianza di un cinema d’altri tempi rispetto alla più vivace versione del 2013, sebbene non ci spostiamo dal mondo del glamour. Un elegante Robert Redford rappresenta il mondo hollywoodiano di allora interpretando il ruolo di Jay Gatsby, un ricco milionario dall’aria malinconica e dolce, avvolto da un alone di mistero ribadito dalle sua vistose assenze nelle fe- di Pierfrancesco GATTO e Salvatore MENNA pre perfetto) si lascia andare a uno scatto di collera: ciò sancisce l’uscita definitiva da un mondo, quello dei ricchi veri, cui Gatsby si era solo avvicinato nel corso della sua esistenza, imitandolo e non potendo mai farne parte per via delle sue umili origini. Più che la celebrazione del mito americano, sembra andare in scena la tragedia di un uomo che pur raggiungendo il successo materiale, smarrisce se stesso. La baia con la sua estensione lascia nel finale il posto a una piscina di marmo, dove galleggia, a mezz’acqua, il sogno di Gatsby. ATTRICI Nelle foto accanto, Elizabeth Debicki e Carey Mulligan ieri e oggi di Federico OLIVA III Il 3D e le scenografie, tutto fa pathos STAR Nella foto a sinistra, l’attore Leonardo DiCaprio, protagonista del film “Il grande Gatsby”, attualmente sul grande schermo Dal romanzo al cinema in quattro occasioni SPECIALE Giovedì 23 maggio 2013 Giù Troppe forzature rispetto al libro di Gabriele CAVALERA Ogni volta che si decide di vedere un film tratto da un grande libro bisogna assumersi la responsabilità del rischio di rimanere delusi. Soprattutto se si è particolarmente affezionati al libro, soprattutto se il libro in questione è una delle più alte espressioni della letteratura americana nel ventesimo secolo. È il caso de Il Grande Gatsby. Nel 1974 Jack Clayton, regista inglese, ha trasposto il libro di Francis Scott Fitzgerald in un film con Robert Redford e Mia Farrow. Sia il libro che il film sono ambientati negli anni venti del XX secolo. È la storia di Jay Gatsby, giovane miliardario che negli ultimi anni ha vissuto con un unico sogno: quello di riconquistare Daisy, donna di cui si era innamorato cinque anni prima. Gatsby sa pensare in grande, vive in funzione del suo scopo pur di risvegliare l’amore che Daisy provava per lui. Quest’amore non è mai morto, sebbene Daisy sia sposata con un altro uomo. Ogni donna nel film viene rappresentata come una stupida. È comprensibile il fatto che l’immagine della donna negli anni venti fosse diversa rispetto a quella cui siamo abituati oggi. Ma Jack Clayton eccede, decisamente. L’entusiasmo che Daisy pro- va per la vita viene descritto nel film come qualcosa di profondamente infantile. Daisy è bellissima, ma è completamente vuota, patetica, banale. Bisognerebbe chiedersi come sia possibile che un uomo affascinante e ricco come Jay Gatsby sia disposto a tutto pur di riconquistarla. Non c’è neanche un buon motivo per il quale i due debbano stare insieme. Qui sta una delle grandi incongruenze del film, ed uno dei punti di massima distanza dal libro. Con poche battute, per mezzo di alcuni dialoghi ridicoli, il regista fa a pezzi l’eleganza stilistica di Fitzgerald, e svuota completamente i personaggi del loro fascino. Mia Farrow nel 1974 ! Ogni tentativo di assoluta fedeltà al testo originale è stato un fallimento L’incontro tra Daisy e Gatsby, dopo cinque anni dall’ultima volta in cui si erano visti, è sconfortante. Considerata la magnificenza della storia, del personaggio e del contesto, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una scena che ha come scopo principale quello di commuovere, tra l’altro senza riuscirci. In alcuni momenti si ha l’impressione di guardare un film melodrammatico. Ci si annoia nel vedere e nell’ascoltare questi due protagonisti innamorati che si incontrano dopo tanti anni. Durante le due ore e mezza, si nota il fallimentare tentativo del film di voler essere fedele ad ogni costo al libro. Nulla più di questo tentativo allontana il film dalla magia del libro di Fitzgerald. E’ certamente meglio affidarsi alla spettacolare versione del 2013 di Baz Luhrmann con Leonardo DiCaprio. Ma la scelta più coraggiosa che si possa fare, prima di vedere uno dei due film o entrambi, è una sola: andare in libreria e comprare “Il Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald. Segue dalla copertina Alla ricerca del senso... ta da un nostro giovane docente ai nostri studenti. Imparare cioè a vedere film e a condividerne i significati, entrambe operazioni assai più complesse di come appaiano nella vita quotidiana. Per meglio dire, nella vita di tutti i giorni non ci rendiamo sempre conto del fatto che andare al cinema e poi parlarne con altri sia un’immersione in quel magma di significati che chiamiamo “immaginario collettivo”. Non semplici immagini, PROIEZIONE Nella foto, una sala cinematografica ma immaginario: qualcosa che dà senso al nostro mondo, cioè al mondo che supera la dimensione individuale. All’appello del prof. Scarafile, fatto proprio dal corso di studi, ha risposto una ventina di studenti, che sono poi stati addestrati attraverso incontri con vari tipi di esperti. La maggior parte li abbiamo reperiti attraverso il Nuovo Quotidiano di Puglia e l'Apulia Film Commission, due soggetti molto conosciuti sul territorio che hanno subito aderito al nostro progetto e lo hanno sostenuto, con grande soddisfazione e riconoscenza da parte nostra. Ora è il momento della verifica. Gli studenti devono dimostrare i propri talenti e di aver acquisito competenze, parlando di cinema attraverso la scrittura giornalistica, un linguaggio formalizzato che consente la descrizione ma anche la critica, il suggerimento e l’interpretazione. Con il nostro progetto cerchiamo di rendere un servizio a una comunità più larga di quella uni- versitaria, ma soprattutto al cinema, che sta vivendo un periodo difficile (anche a Lecce, dove hanno chiuso in pochi anni alcune sale storiche, colpite dalla crisi economica). Cerchiamo, con progetti come questo, di prestare attenzione a un linguaggio universale e di mettere la sua comprensione al centro di un programma di educazione ai media, focalizzandolo sulle conoscenze teoriche e sulle esperienze dirette. Un altro piccolo passo avanti per qualificare un ambito di studi che, al suo esordio, sembrava fondarsi su una moda passeggera. E che è invece divenuto parte integrante della formazione di tanti studenti nei nostri atenei. Stefano Cristante *presidente del Corso di laurea in Scienze della Comunicazione Dall’altro lato, è anche vero che l’accesso appropriato alle significazioni dischiuse dal dispositivo cinematografico necessita di competenze specifiche, studi complessi, visioni plurime e soprattutto di ragioni espresse sotto la forma di argomentazioni fondate. La posizione del critico va dunque colta all’interno di una tale tensione bipolare: il costante avvertimento a non scadere nella banalità e contestualmente il non trincerarsi all’interno di linguaggi iniziatici ad excludendum. Ci sono, ovviamente, alcune note dolenti che già Truffaut segnalava: il critico deve conoscere la storia del cinema, deve conoscerne la tecnica, deve aver coscienza dei propri limiti. Tuttavia, nemmeno se ipotizzassimo il perfetto conseguimento di tutte queste prerogative, potremmo essere certi di aver raggiunto l’identikit del perfetto critico. Il coraggio di allargare... Quale percorso seguire nel delineare un corso di formazione per critici in erba? Abbiamo ritenuto che una chiara indicazione potesse essere rinvenuta nelle parole dei primi testimoni dell’avvento del cinematografo. I primi critici (molto spesso, studiosi e psicologi di chiara fama), infatti, si erano resi conto che solo l’implicazione di più discipline poteva rendere conto della specificità significazionale della nuova arte, definita non a caso “settima”, proprio per la sua originalità non riconducibile a nessuna delle arti precedenti. RIPRESE Sopra, il set per un film girato in esterna Oggi come allora, parlare – a ragion veduta, argomentando – di cinema implica la necessità di ragionare non solo di singoli aspetti di una corrente o della poetica di un cineasta. Procedere lungo tali direttrici non è sbagliato, ma rischia di far ricadere all’interno di quello specialismo tanto sofisticato quanto incomu- nicabile lamentato in precedenza. Si tratta, invece, di avere il coraggio di allargare lo sguardo, provando a ragionare (logos) sul principio (arché) del cinema. Una tale archeologia non può essere attuata da alcuna disciplina singolarmente, ma solo all’interno di un effettivo dialogo tra i saperi in cui sia prima di tutto praticato l’ascolto dell’altro. In questa prospettiva, il recupero della fonte dell’esperienza cinematografica permette così di risemantizzare i discorsi, allargando auspicabilmente l’ambito di riferimento di una critica avveduta alla filosofia, alla storia della fotografia, alla psicologia, al giornalismo, alla sociologia dei media. Gli studenti hanno provato a mettere in pratica questi intendimenti, senza nulla togliere all’immediatezza della loro scrittura e al fatto che si tratta di debuttanti, consapevoli loro per primi della difficoltà di passare da un apprendimento teorico a una serie di tentativi che possano dare vita a contributi via via più convincenti. In questi mesi, il dialogo cui mi riferisco - che oggi dà luce a questo Supplemento Cinema ha sostenuto il Corso di introduzione alla critica cinematografica organizzato dal Corso di laurea in Scienze della Comunicazione, a cui va riconosciuto il merito di aver creato un’occasione progettuale con Apulia Film Commission (e in particolare con il suo vice presidente Gigi De Luca) e Nuovo Quotidiano di Puglia. Ai docenti del Corso, agli interlocutori e, non ultimi, agli studenti che hanno condiviso questo percorso va il mio più sentito ringraziamento per aver reso possibile questa iniziativa. Giovanni Scarafile *docente di Cinema, fotografia e televisione SPECIALE IV Giovedì 23 maggio 2013 Nel film di Soderbergh c’è gran cura dei particolari ma la partecipazione emotiva dello spettatore è esclusa Quei freddi “effetti collaterali” “Effetti collaterali” di Steven Soderbergh inizia e termina con due inquadrature speculari: una ripresa aerea che parte dallo skyline newyorkese per arrivare alla finestra di un enorme edificio, e un’altra che, al contrario, parte dalla finestra di un edificio per poi spostarsi e mostrarci la città. La scelta non è casuale e va a inserirsi all’interno del leitmotiv del film: un continuo ribaltamento di ruoli e situazioni. Rooney Mara interpreta Emily, una ragazza che, dopo un tentato suicidio, segue la cura di antidepressivi prescritta dallo psichiatra Jonathan Banks (Jude Law). Ma uno degli effetti collaterali del medicinale è il sonnam- bulismo: durante uno di questi attacchi Emily uccide a coltellate il marito, appena uscito dal carcere. Questo è l’iniziale punto di svolta della trama, che sposta la direzione del film da una prima parte a sfondo sociale, la crescente depressione di Emily, a una seconda caratterizzata da precise e calcolate atmosfere da thriller. Il film si rifà agli stilemi del classico thriller complottistico hitchcockiano, ma sem- NELLE SALE Accanto, due fotogrammi del film “Effetti collaterali” di Steven Soderbergh bra più vicino alle derive sociali che negli anni ’70 registi come Sidney Pollack e Alan Pakula avevano dato al genere. Lo sceneggiatore Scott Z. Burns riesce ad aggiornare perfettamente il ge- nere allargando alla diffusione di psicofarmaci, fenomeno che in tutto l’Occidente, ma soprattutto negli Stati Uniti, ha assunto dimensioni preoccupanti. Purtroppo, però, tutto ri- mane in superficie e l’atmosfera complottistica non viene mai avvertita. Tutto nel film, dalla sceneggiatura alla regia, passando per la fotografia e il montaggio, è studiato fin nei minimi particolari con una precisione maniacale, ma l’eccessiva cerebralità tende a escludere la partecipazione emotiva dello spettatore: il film comunica una certa freddezza. Non mancano tocchi ironici nei confronti dei personaggi, espressi soprattutto nel prolungato finale, portando lo spettatore ad interrogarsi su quanto si è visto precedentemente. A mio avviso, però, l’ironia del film non è che un modo con il quale il regista prende le distanze dai suoi protagonisti, quasi con rassegnazione nichilistica, e questo è una delle cause della sua freddezza. Non si tratta quindi di un capolavoro, ma di un buon thriller dalla tenuta un po’ troppo controllata. A.D.B. Il leitmotiv I richiami Un ribaltamento continuo di ruoli e di situazioni La mente va agli stilemi del classico thriller alla Hitchcock Il regista Alvarez punta piuttosto in alto ma mancano gli elementi di tensione di Andrea DI BELLO Il cinema fantastico per sua natura ci mostra mondi e situazioni inverosimili cercando la complicità dello spettatore; e nel farlo, a seconda degli intenti dell’autore, si possono adottare differenti soluzioni. L’horror, in particolare, permette ai realizzatori di seguire due vie: possono raccontare una storia fino a trasformarla in allegoria, oppure possono puntare semplicemente all’innalzamento dell’adrenalina dello spettatore. In entrambi i casi, la paura deve essere il motore che tiene viva l’anima del film. Nel 1981 in America, un giovane regista esordiente di nome Sam Raimi cambia le carte in tavola e gira un film che non punta più semplicemente sulla paura ma sullo shock visivo derivato dall’esposizione senza censure di litri di sangue e di interiora. Il film era “La Casa”: una compagnia di cinque ragazzi che, con l’idea di trascorrere un disimpegnato weekend in una casa nel bosco, cadeva vittima di una possessione demoniaca. Quel film funzionava perché la semplicità della trama rispecchiava l’onestà di un regista che, conscio dei propri limiti narrativi, si limitava a colpire lo spettatore stupendolo con strabilianti invenzioni registiche. Con il remake, il regista “La casa”, il remake non riporta il brivido uruguayano Fede Alvarez punta decisamente in alto: riportare in vita quel cinema selvaggio di cui Sam Raimi fu il capostipite, partendo dall’uso di effetti speciali dal vivo senza l’ausilio della grafica computerizzata, per arrivare a mostrare al pubblico livelli di splatter inusitati. In realtà, alla luce della visione del film, tutto, a partire dalle dichiarazioni del regista, suona falso. Il precedente La critica Il lungometraggio del 1981 si rivelò un grande successo La paura non riesce ad essere il motore del sequel del 2013 La regia, fin dall’inizio del film, simula una tensione inesistente: al regista infatti non interessa affatto provocare tensione nello spettatore quanto stupirlo con un tripudio splatter che, oltre ad essere in alcuni momenti (fortunatamente pochi) spudoratamente computerizzato, non viene neanche mostrato nella sua interezza, probabilmente per evitare la censura. Inoltre il regista, insieme al co-sceneggiatore Rodo Sayagues, dona ai personaggi caratterizzazioni psicologiche (Sam Raimi nel film originale le aveva accuratamente tralasciate) che non hanno alcuna funzione se non quella di dare una parvenza di complessità che il film in realtà non possiede. Il motivo per il quale i cinque ragazzi si trasferiscono nella casa è forse eccessivamente didascalico: se nel film originale volevano semplicemente divertirsi, qui decidono di aiutare un’amica con un programma di disintossicazione. I limiti del film in questo caso non sono dunque riconducibili alla sfera tecnica, ma alla superficialità con la quale tutta l’operazione è stata pensata. L’horror è forse il genere cinematografico che più di tutti va “sentito”, dai realizzatori in primis e poi dagli spettatori, ma se gli autori sono i primi a non crederci, perché dovremmo farlo noi?