[02_lecce - i] qtdn/lecce

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[02_lecce - i] qtdn/lecce
Giovedì 23 maggio
2013
L’iniziativa
ALLA RICERCA
DEL SENSO
CONDIVISO
di Stefano CRISTANTE*
I
l corso di studi in
Scienze della Comunicazione dell'Università del Salento è,
tra le altre cose, un luogo
di iniziativa culturale. Da
quando esistiamo (più di
un decennio, dall'anno accademico 2000-2001) abbiamo dato vita a convegni, seminari, concorsi, riviste, rassegne, blog e
webtv. Al di là dell'efficacia delle singole intraprese, ciò che risulta interessante a noi che lavoriamo all'interno del corso è
lo spirito della collaborazione di cui c'è bisogno
per ideare eventi.
SPECIALE
I
I film visti
e commentati
dai ragazzi
di Scienze della
Comunicazione
di Unisalento
C inema
Continua a pag. II
Il progetto
IL CORAGGIO
DI ALLARGARE
LO SGUARDO
di Giovanni SCARAFILE*
Q
uando il critico cinematografico esce
da un cinema, non
sa cosa pensare di
ciò che ha appena visto».
Questa indicazione, rinvenibile nello scritto I sette
peccati capitali della critica cinematografica (1955)
di François Truffaut, riassume forse nel modo più
efficace la difficoltà insita
nel lavoro del critico.
Da un lato, infatti, è vero che l’esperire del cinema possiede una tale immediatezza da consegnare
a chiunque la possibilità
di esprimere opinioni su
un film appena visto.
Continua a pag. III
Gli studenti
alla prova
con la critica
attraverso
la scrittura
giornalistica
FILM COMMISSION
La Puglia è tutta da girare
Puglia, scenes to explore
Scienze della
omunicazione
SPECIALE
II
Giovedì 23 maggio
2013
Il film
& la recensione
I dettagli
I punti di forza
sono le scelte tecniche
e quelle stilistiche
di Tiziano RAPANÀ
Il grande Gatsby, capolavoro di Francis Scott Fitzgerald,
è stato oggetto in più di una
occasione di una trasposizione
cinematografica. Fu rappresentato per la prima volta nel
1926 da Herbert Brenson, famoso per aver diretto alcuni
anni prima la prima trasposizione cinematografica di Peter
Pan ed interpretato dal celebre
attore Warner Baxter. Di questa prima trasposizione muta e in bianco e
nero non vi sono più
tracce.
Bisognerà aspettare 23 anni per una
nuova versione, diretta dall’attore e regista
Elliott Nugent. Impreziosita da un cast di
ottimo livello, con in
testa l’eroe dei film
western Alan Ladd,
nel ruolo di Gatsby, e
caratteristi del calibro
di Shirley Winters che interpreta tra l’altro la moglie di Alberto Sordi in “Un borghese piccolo piccolo” e di Barry Sullivan, che ha interpretato, tra le
altre pellicole, “Napoli Violenta” (1976). La critica nei confronti della pellicola fu abbastanza fredda.
La versione più celebre è
senza dubbio quella del 1974,
che vede nei ruoli di Gatsby e
Daisy, le due superstar Robert
Redford e Mia Farrow. Scritto
da Francis Ford Coppola, diretto da Jack Clayton e prodotto
dalla Paramount Pictures, il
film è considerato come la trasposizione più fedele del romanzo. Rispetto alle due precedenti versioni che duravano circa un’ora e mezza, questo film
dura ben 144 minuti. Lodato
dalla critica, ebbe due candidature all’Oscar, per i costumi a
Theoni V. Alderge e per la colonna sonora a Nelson Riddle.
La versione più controversa e certamente criticata dalla
stampa è quella attuale di Baz
Luhrmann, celebre regista di
Moulin Rouge (2001), che ha
dato una versione originale dell’opera, senza però tradirne lo
spirito. Servendosi dell’uso della tecnica del 3D e dell’interpretazione di star del calibro
di Leonardo DiCaprio e Tobey
Maguire, sta riscuotendo un ottimo successo di botteghino,
nonostante le critiche non siano lusinghiere. Il film è stato
presentato all’apertura del festival di Cannes.
(in collaborazione con il Cine Data Base della Fondazione Ente dello Spettacolo www.
cinematografo.it)
Il ritorno
nelle sale
di Leonardo
DiCaprio
con la regia
di Luhrmann
thos della storia contribuendone
all’intensità).
Nella primavera del 1922 il
giovane Nick Carraway (Tobey
Maguire), aspirante scrittore, abbandona il Midwest e si trasferisce a Long Island in un cottage
confinante con la villa di un misterioso milionario che è solito
organizzare feste grandiose, Jay
Gatsby (Leonardo DiCaprio).
Sulla sponda opposta della baia
vive sua cugina Daisy (Carey
Mulligan), moglie di un ex giocatore di polo, appartenente a
una ricchissima famiglia, l’ex
scapolo d’oro Tom Buchanan
(Joel Edgerton). Quando Nick
viene a sapere che Gatsby e
Daisy hanno condiviso in passa-
to una storia d’amore, nata cinque anni prima e interrotta per
l’origine umile del ragazzo, accetta di fornire il pretesto affinché i due possano incontrarsi di
nuovo, assistendo al tramonto di
vite costruite su falsità e denaro.
Il futuro si ritira e il passato
avanza: la figura di Daisy, un
tempo compagna di Gatsby, e
ora sposata con il milionario
Tom Buchanan diventa il fine di
tutte le azioni del protagonista
(le feste che tiene Gatsby nella
sua reggia rappresentano il luogo ideale di un possibile incontro). L’arrivo, che Gatsby intravede dal suo castello, è segnalato da un faro verde: lì c’è la sua
amata, il suo passato-futuro. Ed
è qui che la dimensione temporale converge in quella spaziale:
tra le due abitazioni (quella di
Gatsby posta nella West Egg, la
zona dei nuovi ricchi e quella di
Tom e Daisy nell’Est Egg, ricchi storici) c’è una baia da attraversare, una distesa d’acqua che
alimenta il sogno di rivedere e
riavere al proprio fianco Daisy.
Ma nell’incontro il mistero viene svelato, il sogno più che esaudito si scontra con la consistenza del presente. Ogni simbolo
che componeva la sovrastruttura
del mondo onirico di Gatsby,
perde l’eccedenza di significato:
il faro verde è solo un’icona.
Nella contesa di Daisy con il marito Tom, Gatsby (l’uomo sem-
IL CLASSICO RIVISTO
ste esclusive da lui stesso organizzate nella sua sfarzosissima villa. Tutti si chiedono
delle origini del grande Gatsby, chi sia veramente e quale sia il segreto del suo successo infinito, causando fascinazione e invidia da parte dell’alta classe di Long Island,
fatta di donne svampite e uomini all’apparenza moralisti
e puritani. La ricchezza sfrenata di questo raffinato milionario e l’amore che prova per
Daisy sono i motivi che mettono in luce la civiltà sordida
e tanto decantata da Terry Buchanan, il marito di Daisy, interpretato da un Bruce Dern
che sa farsi odiare per la sua
abilità nell’interpretare un
personaggio decisamente me-
schino.
È notevole come gli attori
riescano ad esprimere il vero
stato d’animo che si cela dietro la compostezza che la
classe sociale conferisce ai
personaggi. Mia Farrow ne
dà dimostrazione, lasciando
trasparire l’insicurezza e l’insoddisfazione sessuale di
Daisy Buchanan mentre
ostenta un’aria sbarazzina e
disinvolta con patetici stacchetti da ragazzina spensierata.
Un imbambolato Sam Waterston si cala nei panni di Nick Carraway, voce narrante
della storia, un pacato impiegato (aspirante scrittore), proveniente dal West Side, dalla
fronte sempre umida di sudo-
Robert Redford nel 1974
!
C’è sempre
un filo di suspense
prima dell’ingresso
del protagonista
re che ci guiderà verso la
conoscenza di un Jay Gatsby
distaccato
dalla
mondanità delle sue memorabili feste. Proprio per questo un filo di suspence accompagna la parte iniziale
del film fino all’entrata in
scena del Gatsby-Redford, il
che attira ancor di più l’attenzione dello spettatore.
La scenografia è letteralmente spettacolare e l’esagerata fortezza da film colossal di Jay Gatsby simboleggia la solitudine del facoltoso
abitante e contestualmente la
sua inarrivabilità. Ma l’elemento scenografico che più
coinvolge l’occhio, trasmettendo una certa idea di divario sociale, è l’alternarsi delle
fastosità degli ambienti altolocati di Gatsby e della famiglia di daisy con la fatiscente
officina del signor George
Wilson, la cui moglie è l’amante di Terry Buchanan.
Ambienti così diversi sembrano costruiti proprio per
ospitare una esplosione di
violenza che ha le sue radici
nelle enormi disuguaglianze
sociali del periodo, solo temporaneamente attutite dai ritmi frenetici delle feste di Gatsby.
Segue dalla copertina
E questo spirito si fonda su
una grande semplicità. Un
gruppetto di nostri docenti o
di nostri studenti propone
qualcosa da fare motivandone
le ragioni, si discute nei nostri organismi e si mette il
progetto in programmazione.
Naturalmente bisogna che i
costi dell’iniziativa siano compatibili con le nostre non ingenti risorse, oppure che si
trovino partner in grado di
aiutarci a sostenerli. La
sostenibilità è da tempo un
fattore indispensabile per le
istituzioni, e noi non facciamo eccezione.
È più o meno in questo
modo che ha preso forma il
progetto i cui primi frutti avete tra le mani. Scrivere di cinema è stata la proposta rivol-
“La profondità va nascosta.
Dove? Alla superficie”. Queste
parole del drammaturgo Hofmannsthal ci suggeriscono una prospettiva capace di farci scorgere
e cogliere la complessità e l’interezza del film “Il Grande Gat-
sby”. Già, perché è proprio in
ciò che è visibile, sotto gli occhi
di tutti che si cela l’essenza delle cose, il loro significato più recondito. Luhrmann rimane fedele alla trama del romanzo di Fitzgerald, cercando la sua personale caratterizzazione, in determinate scelte tecniche (numerosi i
travelling e i primi piani, l’uso
del 3D che permette allo spettatore di stare dentro e fuori, incantato e respinto) e stilistiche
(le melodie hip-pop che si mescolano agli assoli jazz di
tromba e a quelli d’organo, le scenografie
che cromaticamente seguono il pa-
Il grande
GATSBY
Il fascino di Jay
Su milionario oscuro
Prima del regista Baz Lurhmann fu Jack Clayton ad
offrire una trasposizione cinematografica del romanzo di
Francis Scott Fitzgerlald “Il
Grande Gatsby”.
Il grande Gatsby del 1974
è testimonianza di un cinema
d’altri tempi rispetto alla più
vivace versione del 2013, sebbene non ci spostiamo dal
mondo del glamour. Un elegante Robert Redford rappresenta il mondo hollywoodiano di allora interpretando il
ruolo di Jay Gatsby, un ricco
milionario dall’aria malinconica e dolce, avvolto da un alone di mistero ribadito dalle
sua vistose assenze nelle fe-
di Pierfrancesco GATTO
e Salvatore MENNA
pre perfetto) si lascia andare a
uno scatto di collera: ciò sancisce l’uscita definitiva da un mondo, quello dei ricchi veri, cui Gatsby si era solo avvicinato nel
corso della sua esistenza, imitandolo e non potendo mai farne
parte per via delle sue umili origini. Più che la celebrazione del
mito americano, sembra andare
in scena la tragedia di un uomo
che pur raggiungendo il successo materiale, smarrisce se stesso.
La baia con la sua estensione lascia nel finale il posto a una piscina di marmo, dove galleggia,
a mezz’acqua, il sogno di Gatsby.
ATTRICI
Nelle foto accanto,
Elizabeth Debicki
e Carey Mulligan
ieri
e oggi
di Federico OLIVA
III
Il 3D e le scenografie, tutto fa pathos
STAR
Nella foto a
sinistra, l’attore
Leonardo
DiCaprio,
protagonista del
film “Il grande
Gatsby”,
attualmente sul
grande schermo
Dal romanzo
al cinema
in quattro
occasioni
SPECIALE
Giovedì 23 maggio
2013
Giù Troppe forzature
rispetto al libro
di Gabriele CAVALERA
Ogni volta che si decide di vedere un film tratto
da un grande libro bisogna assumersi la responsabilità del rischio di rimanere delusi. Soprattutto se si è
particolarmente affezionati al
libro, soprattutto se il libro in
questione è una delle più alte
espressioni della letteratura
americana nel ventesimo secolo. È il caso de Il Grande
Gatsby. Nel 1974 Jack
Clayton, regista inglese, ha
trasposto il libro di Francis
Scott Fitzgerald in un film
con Robert Redford e Mia
Farrow. Sia il libro che il
film sono ambientati negli anni venti del XX secolo.
È la storia di Jay Gatsby,
giovane miliardario che negli
ultimi anni ha vissuto con un
unico sogno: quello di riconquistare Daisy, donna di cui
si era innamorato cinque anni
prima. Gatsby sa pensare in
grande, vive in funzione del
suo scopo pur di risvegliare
l’amore che Daisy provava
per lui. Quest’amore non è
mai morto, sebbene Daisy sia
sposata con un altro uomo.
Ogni donna nel film viene
rappresentata come una stupida. È comprensibile il fatto
che l’immagine della donna
negli anni venti fosse diversa
rispetto a quella cui siamo
abituati oggi. Ma Jack
Clayton eccede, decisamente.
L’entusiasmo che Daisy pro-
va per la vita viene descritto
nel film come qualcosa di
profondamente
infantile.
Daisy è bellissima, ma è completamente vuota, patetica, banale. Bisognerebbe chiedersi
come sia possibile che un uomo affascinante e ricco come
Jay Gatsby sia disposto a tutto pur di riconquistarla. Non
c’è neanche un buon motivo
per il quale i due debbano stare insieme. Qui sta una delle
grandi incongruenze del film,
ed uno dei punti di massima
distanza dal libro. Con poche
battute, per mezzo di alcuni
dialoghi ridicoli, il regista fa
a pezzi l’eleganza stilistica di
Fitzgerald, e svuota completamente i personaggi del loro
fascino.
Mia Farrow nel 1974
!
Ogni tentativo
di assoluta fedeltà
al testo originale
è stato un fallimento
L’incontro tra Daisy e Gatsby, dopo cinque anni dall’ultima volta in cui si erano visti, è sconfortante. Considerata la magnificenza della storia, del personaggio e del contesto, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una scena che
ha come scopo principale
quello di commuovere, tra
l’altro senza riuscirci. In alcuni momenti si ha l’impressione di guardare un film melodrammatico. Ci si annoia nel
vedere e nell’ascoltare questi
due protagonisti innamorati
che si incontrano dopo tanti
anni.
Durante le due ore e mezza, si nota il fallimentare tentativo del film di voler essere
fedele ad ogni costo al libro.
Nulla più di questo tentativo
allontana il film dalla magia
del libro di Fitzgerald. E’ certamente meglio affidarsi alla
spettacolare versione del
2013 di Baz Luhrmann con
Leonardo DiCaprio. Ma la
scelta più coraggiosa che si
possa fare, prima di vedere
uno dei due film o entrambi,
è una sola: andare in libreria
e comprare “Il Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald.
Segue dalla copertina
Alla ricerca
del senso...
ta da un nostro giovane docente ai nostri studenti. Imparare cioè a vedere film e a
condividerne i significati, entrambe operazioni assai più
complesse di come appaiano
nella vita quotidiana. Per meglio dire, nella vita di tutti i
giorni non ci rendiamo sempre conto del fatto che andare
al cinema e poi parlarne con
altri sia un’immersione in
quel magma di significati che
chiamiamo “immaginario collettivo”.
Non semplici immagini,
PROIEZIONE
Nella foto,
una sala
cinematografica
ma immaginario: qualcosa
che dà senso al nostro mondo, cioè al mondo che supera
la dimensione individuale. All’appello del prof. Scarafile,
fatto proprio dal corso di studi, ha risposto una ventina di
studenti, che sono poi stati addestrati attraverso incontri
con vari tipi di esperti. La
maggior parte li abbiamo reperiti attraverso il Nuovo
Quotidiano di Puglia e l'Apulia Film Commission, due
soggetti molto conosciuti sul
territorio che hanno subito
aderito al nostro progetto e lo
hanno sostenuto, con grande
soddisfazione e riconoscenza
da parte nostra.
Ora è il momento della verifica. Gli studenti devono dimostrare i propri talenti e di
aver acquisito competenze,
parlando di cinema attraverso
la scrittura giornalistica, un
linguaggio formalizzato che
consente la descrizione ma anche la critica, il suggerimento
e l’interpretazione. Con il nostro progetto cerchiamo di
rendere un servizio a una comunità più larga di quella uni-
versitaria, ma soprattutto al cinema, che sta vivendo un periodo difficile (anche a Lecce,
dove hanno chiuso in pochi
anni alcune sale storiche, colpite dalla crisi economica).
Cerchiamo, con progetti
come questo, di prestare attenzione a un linguaggio universale e di mettere la sua comprensione al centro di un programma di educazione ai media, focalizzandolo sulle conoscenze teoriche e sulle esperienze dirette. Un altro piccolo passo avanti per qualificare
un ambito di studi che, al suo
esordio, sembrava fondarsi su
una moda passeggera. E che
è invece divenuto parte integrante della formazione di tanti studenti nei nostri atenei.
Stefano Cristante
*presidente del Corso di laurea
in Scienze della Comunicazione
Dall’altro lato, è anche vero che
l’accesso appropriato alle significazioni dischiuse dal dispositivo
cinematografico necessita di
competenze specifiche, studi
complessi, visioni plurime e soprattutto di ragioni espresse sotto la forma di argomentazioni
fondate.
La posizione del critico va
dunque colta all’interno di una
tale tensione bipolare: il costante
avvertimento a non scadere nella
banalità e contestualmente il non
trincerarsi all’interno di linguaggi iniziatici ad excludendum.
Ci sono, ovviamente, alcune
note dolenti che già Truffaut segnalava: il critico deve conoscere la storia del cinema, deve conoscerne la tecnica, deve aver
coscienza dei propri limiti. Tuttavia, nemmeno se ipotizzassimo
il perfetto conseguimento di tutte queste prerogative, potremmo
essere certi di aver raggiunto l’identikit del perfetto critico.
Il coraggio
di allargare...
Quale percorso seguire nel
delineare un corso di formazione
per critici in erba?
Abbiamo ritenuto che una
chiara indicazione potesse essere
rinvenuta nelle parole dei primi
testimoni dell’avvento del cinematografo. I primi critici (molto
spesso, studiosi e psicologi di
chiara fama), infatti, si erano resi conto che solo l’implicazione
di più discipline poteva rendere
conto della specificità significazionale della nuova arte, definita
non a caso “settima”, proprio
per la sua originalità non riconducibile a nessuna delle arti precedenti.
RIPRESE
Sopra, il set per
un film girato in
esterna
Oggi come allora, parlare – a
ragion veduta, argomentando –
di cinema implica la necessità di
ragionare non solo di singoli
aspetti di una corrente o della
poetica di un cineasta. Procedere
lungo tali direttrici non è sbagliato, ma rischia di far ricadere all’interno di quello specialismo
tanto sofisticato quanto incomu-
nicabile lamentato in precedenza. Si tratta, invece, di avere il
coraggio di allargare lo sguardo,
provando a ragionare (logos) sul
principio (arché) del cinema.
Una tale archeologia non può essere attuata da alcuna disciplina
singolarmente, ma solo all’interno di un effettivo dialogo tra i
saperi in cui sia prima di tutto
praticato l’ascolto dell’altro. In
questa prospettiva, il recupero
della fonte dell’esperienza cinematografica permette così di risemantizzare i discorsi, allargando
auspicabilmente l’ambito di riferimento di una critica avveduta
alla filosofia, alla storia della fotografia, alla psicologia, al giornalismo, alla sociologia dei media. Gli studenti hanno provato a
mettere in pratica questi intendimenti, senza nulla togliere all’immediatezza della loro scrittura e al fatto che si tratta di debuttanti, consapevoli loro per primi
della difficoltà di passare da un
apprendimento teorico a una serie di tentativi che possano dare
vita a contributi via via più convincenti.
In questi mesi, il dialogo cui
mi riferisco - che oggi dà luce a
questo Supplemento Cinema ha sostenuto il Corso di introduzione alla critica cinematografica organizzato dal Corso di laurea in Scienze della Comunicazione, a cui va riconosciuto il
merito di aver creato un’occasione progettuale con Apulia Film
Commission (e in particolare
con il suo vice presidente Gigi
De Luca) e Nuovo Quotidiano
di Puglia. Ai docenti del Corso,
agli interlocutori e, non ultimi,
agli studenti che hanno condiviso questo percorso va il mio più
sentito ringraziamento per aver
reso possibile questa iniziativa.
Giovanni Scarafile
*docente di Cinema,
fotografia e televisione
SPECIALE
IV
Giovedì 23 maggio
2013
Nel film di Soderbergh c’è gran cura dei particolari ma la partecipazione emotiva dello spettatore è esclusa
Quei freddi “effetti collaterali”
“Effetti collaterali” di Steven
Soderbergh inizia e termina
con due inquadrature speculari: una ripresa aerea che parte dallo skyline newyorkese
per arrivare alla finestra di
un enorme edificio, e un’altra che, al contrario, parte
dalla finestra di un edificio
per poi spostarsi e mostrarci
la città. La scelta non è casuale e va a inserirsi all’interno del leitmotiv del film: un
continuo ribaltamento di ruoli e situazioni.
Rooney Mara interpreta
Emily, una ragazza che, dopo un tentato suicidio, segue
la cura di antidepressivi prescritta dallo psichiatra Jonathan Banks (Jude Law). Ma
uno degli effetti collaterali
del medicinale è il sonnam-
bulismo: durante uno di questi attacchi Emily uccide a
coltellate il marito, appena
uscito dal carcere.
Questo è l’iniziale punto
di svolta della trama, che
sposta la direzione del film
da una prima parte a sfondo
sociale, la crescente depressione di Emily, a una seconda caratterizzata da precise e
calcolate atmosfere da thriller.
Il film si rifà agli stilemi
del classico thriller complottistico hitchcockiano, ma sem-
NELLE SALE
Accanto, due
fotogrammi
del film
“Effetti
collaterali” di
Steven
Soderbergh
bra più vicino alle derive sociali che negli anni ’70 registi come Sidney Pollack e
Alan Pakula avevano dato al
genere. Lo sceneggiatore
Scott Z. Burns riesce ad aggiornare perfettamente il ge-
nere allargando alla diffusione di psicofarmaci, fenomeno che in tutto l’Occidente,
ma soprattutto negli Stati
Uniti, ha assunto dimensioni
preoccupanti.
Purtroppo, però, tutto ri-
mane in superficie e l’atmosfera complottistica non viene mai avvertita. Tutto nel
film, dalla sceneggiatura alla
regia, passando per la fotografia e il montaggio, è studiato fin nei minimi particolari con una precisione maniacale,
ma
l’eccessiva
cerebralità tende a escludere
la partecipazione emotiva
dello spettatore: il film comunica una certa freddezza.
Non mancano tocchi ironici nei confronti dei personaggi, espressi soprattutto nel
prolungato finale, portando
lo spettatore ad interrogarsi
su quanto si è visto precedentemente. A mio avviso, però,
l’ironia del film non è che
un modo con il quale il regista prende le distanze dai
suoi protagonisti, quasi con
rassegnazione nichilistica, e
questo è una delle cause della sua freddezza.
Non si tratta quindi di un
capolavoro, ma di un buon
thriller dalla tenuta un po’
troppo controllata.
A.D.B.
Il leitmotiv
I richiami
Un ribaltamento
continuo di ruoli
e di situazioni
La mente va agli stilemi
del classico thriller
alla Hitchcock
Il regista Alvarez punta piuttosto in alto
ma mancano gli elementi di tensione
di Andrea DI BELLO
Il cinema fantastico per
sua natura ci mostra mondi
e situazioni inverosimili cercando la complicità dello
spettatore; e nel farlo, a seconda degli intenti dell’autore, si possono adottare differenti soluzioni. L’horror, in
particolare, permette ai realizzatori di seguire due vie:
possono raccontare una storia fino a trasformarla in allegoria, oppure possono puntare semplicemente all’innalzamento dell’adrenalina dello spettatore.
In entrambi i casi, la paura deve essere il motore che
tiene viva l’anima del film.
Nel 1981 in America, un giovane regista esordiente di nome Sam Raimi cambia le
carte in tavola e gira un film
che non punta più semplicemente sulla paura ma sullo
shock visivo derivato dall’esposizione senza censure di
litri di sangue e di interiora.
Il film era “La Casa”: una
compagnia di cinque ragazzi
che, con l’idea di trascorrere
un disimpegnato weekend in
una casa nel bosco, cadeva
vittima di una possessione
demoniaca. Quel film funzionava perché la semplicità
della trama rispecchiava
l’onestà di un regista che,
conscio dei propri limiti narrativi, si limitava a colpire
lo spettatore stupendolo con
strabilianti invenzioni registiche.
Con il remake, il regista
“La casa”, il remake
non riporta il brivido
uruguayano Fede Alvarez
punta decisamente in alto: riportare in vita quel cinema
selvaggio di cui Sam Raimi
fu il capostipite, partendo
dall’uso di effetti speciali
dal vivo senza l’ausilio della
grafica computerizzata, per
arrivare a mostrare al pubblico livelli di splatter inusitati.
In realtà, alla luce della visione del film, tutto, a partire dalle dichiarazioni del regista, suona falso.
Il precedente
La critica
Il lungometraggio
del 1981 si rivelò
un grande successo
La paura non riesce
ad essere il motore
del sequel del 2013
La regia, fin dall’inizio
del film, simula una tensione inesistente: al regista infatti non interessa affatto
provocare tensione nello
spettatore quanto stupirlo
con un tripudio splatter che,
oltre ad essere in alcuni momenti (fortunatamente pochi) spudoratamente computerizzato, non viene neanche
mostrato nella sua interezza,
probabilmente per evitare la
censura. Inoltre il regista, insieme al co-sceneggiatore
Rodo Sayagues, dona ai personaggi caratterizzazioni psicologiche (Sam Raimi nel
film originale le aveva accuratamente tralasciate) che
non hanno alcuna funzione
se non quella di dare una
parvenza di complessità che
il film in realtà non possiede.
Il motivo per il quale i
cinque ragazzi si trasferiscono nella casa è forse eccessivamente didascalico: se nel
film originale volevano semplicemente divertirsi, qui decidono di aiutare un’amica
con un programma di disintossicazione.
I limiti del film in questo
caso non sono dunque riconducibili alla sfera tecnica,
ma alla superficialità con la
quale tutta l’operazione è stata pensata. L’horror è forse
il genere cinematografico
che più di tutti va “sentito”,
dai realizzatori in primis e
poi dagli spettatori, ma se
gli autori sono i primi a non
crederci, perché dovremmo
farlo noi?