Una crisi che si allarga. Il caso della Siria

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Una crisi che si allarga. Il caso della Siria
 UNA CRISI CHE SI ALLARGA. IL CASO DELLA SIRIA Il recente MigraMed meeting di Roma ha dato l’opportunità alle Caritas del Mediterraneo di scambiarsi importanti informazioni ed esperienze in merito all’attuale crisi nord africana e medio orientale. Oltre al resoconto circa le attività svolte da Caritas Francia, Caritas USA e Caritas Libano al confine libico, in particolare durante la prima fase del conflitto, si è avuta anche l’opportunità di approfondire un nuovo fronte di crisi ovvero quello siriano. Attraverso le testimonianze dei colleghi di Caritas Turchia e di Caritas Libano, direttamente interessati dalle vicende siriane, in quanto paesi confinanti dove si sono rifugiati migliaia di persone provenienti dalla Siria, si è riusciti ad avere un quadro conoscitivo più chiaro sulla realtà di quest’area del Mediterraneo. Il contesto di riferimento A marzo di quest’anno, gli echi della primavera dei gelsomini sono arrivati anche in Siria dove la miccia da cui è partita la protesta è stata innescata da giovani studenti della città di Daraa. Il 18 marzo 2011 in questa città del sud della Siria, divenuta poi epicentro della protesta contro il regime di Bashar Al Assad, alcuni studenti, ispirati dalle vicende accadute prima in Tunisia e successivamente in Egitto, hanno dipinto i muri della loro scuola con slogan inneggianti la rivoluzione. A seguito del loro arresto la popolazione locale ha iniziato una protesta per la liberazione dei giovani, usando slogan contro Assad. Le forze di sicurezza, secondo un copione ormai noto, hanno aperto il fuoco contro i manifestanti, ferendone molti e uccidendone altri. Nei giorni successivi la protesta è andata avanti con la polizia che non ha esitato a sparare sui manifestanti e i manifestanti che dal canto loro hanno iniziato a dare alle fiamme diversi edifici pubblici. Anche in Siria l’oggetto del contendere è, evidentemente, la voglia di libertà da un regime che per troppo tempo ha tenuto 1
sotto giogo un’intera popolazione. Il paese ha vissuto in stato di emergenza per alcuni decenni (dal 1962), in una situazione che di fatto sospendeva la maggior parte dei diritti costituzionali dei cittadini. Dal 1963 la Siria è sotto il controllo del partito Ba’ath. Nei trent’anni di regime del presidente Hafez al‐Assad (padre dell’attuale presidente) è stato censurato qualsiasi partito di opposizione ed è stata condotta una feroce politica di regime che si è abbattuta contro la comunità musulmana sunnita. L’ascesa di Bashar al‐Assad è stata connotata da promesse di modernizzazione e sviluppo per il suo paese che, però, hanno faticato ad arrivare. Ed è in questo contesto di profonda incertezza economica, politica e sociale che sono iniziate le proteste contro un regime appartenente alla minoranza degli Alauiti, una propaggine dell’Islam sciita con una presenza nel paese stimata tra il 6 e il 12% della popolazione siriana. La maggioranza dei siriani, invece, è costituito dai musulmani sunniti (circa i ¾ della popolazione totale) che per anni hanno tentato di ribellarsi al potere dei sciti. Ribellione spesso repressa in maniera feroce. Basti ricordare come ad Hama, una roccaforte dell'Islam sunnita radicale a nord della capitale, nel febbraio del 1982 il centro storico della città fu quasi completamente raso al suolo e le sue moschee furono bombardate dall'aviazione e dall'artiglieria del regime, che riuscì in questo modo, dopo sei anni di confronto armato, a schiacciare la ribellione dei Fratelli musulmani. Le organizzazioni umanitarie internazionali denunciarono un conto delle vittime altissimo, circa 20.000 morti, ma la cifra non è mai stata confermata. Peraltro nel paese vi è una situazione di particolare tensione anche con la minoranza curda, che in tutti questi anni ha avanzato richieste autonomistiche e che nel 2004 è stata protagonista di rivolte contro il governo presso la città di Al‐Qamishli nel nord est del paese, al confine con la Turchia, con l’inevitabile carico di vittime. Le rivolte Dopo un primo tentativo fallito di protesta nel mese di febbraio, dal 15 marzo in Siria si organizzano manifestazioni anti‐regime che iniziano a Dar’a, città della Siria meridionale dove il 18 marzo si verificano proteste di massa represse con la forza dai militari del regime. Intanto nelle settimane successive la protesta si allarga ad altre città tra cui Latakia, centro portuale nel nord ovest del paese dove, il 30 marzo, rimangono uccise 25 persone. Nel mese di aprile si registrano scontri e morti in tutto il paese: a Latakia, Homs, Damasco e Aleppo. Intanto il 21 aprile Bashar al‐Assad, annuncia alla tv di stato siriana il termine dello stato d’emergenza in vigore dal 1963 e pone fine all’esistenza della Corte per la sicurezza dello Stato. Nonostante ciò, a fine aprile la repressione avviene attraverso l’utilizzo di carri armati, polizia e armi pesanti. Anche Fonte: wikipedia durante il mese di maggio le proteste proseguono in tutto il paese con scontri violenti e morti che, all’inizio di giugno, sono già oltre mille. Secondo alcuni analisti il regime siriano ha messo in campo ogni mezzo per destabilizzare il precario equilibrio di questa area ed in particolare contro Israele. Il 15 di maggio, proprio in occasione della rievocazione della "Naksa" (in cui si celebra la disfatta delle forze arabe durante la guerra dei sei giorni del 1967), profughi palestinesi presenti in Siria sono stati “spinti” a superare il confine israeliano del Golan. Questo è stato il motivo per cui i soldati Fonte: Limes 2
israeliani hanno sparato contro questi dimostranti palestinesi che manifestavano alla frontiera, nei pressi delle alture del Golan. In quindici sono rimasti uccisi. Un episodio simile si è ripetuto venti giorni dopo, il 5 giugno, in cui oltre 20 persone vengono uccise dai soldati israeliani nella terra di nessuno tra la Siria e le Alture occupate da Israele. La fuga Con l’aggravarsi della repressione da parte del regime siriano, sono iniziati i primi spostamenti verso il confine turco, a nord del paese, e a sud verso quello Libanese. Il flusso di profughi che continuano ad affluire in Turchia dalle zone comprese tra la cittadina di Jisr al‐Shughur e la frontiera, distante una ventina di chilometri, aumentano con il passare delle settimane. Peraltro dalla stampa si apprende che “i carri armati siriani, appoggiati da reparti di fanteria, hanno circondato alcuni villaggi, tra cui quello di Khirbat al‐Juz. Obiettivo dei tank e dei soldati sarebbero anche i ripari provvisori costruiti dai profughi a ridosso del confine turco” (Il Fatto Quotidiano). In Turchia sono oltre 10mila i rifugiati accolti nelle tendopoli allestite dalla Mezzaluna rossa turca nella provincia di Hatay. Il governo di Erdogan ha deciso di lasciare le frontiere aperte per permettere ai profughi di fuggire dalla Siria. L’esercito siriano, però, per evitare queste fughe si è appostato presso i villaggi di confine con mitragliatrici pesanti. Lungo la frontiera sono stati registrati movimenti di blindati e carri armati siriani attorno a Khirbat al‐Juz, con l’intento di bloccare la fuga dei profughi e sorvegliare il confine. Intanto il governo turco si sta preparando presso il villaggio di Guvecci, al confine con la Siria, per rispondere ad eventuali provocazioni del governo siriano. Anche il Libano è diventato meta di migliaia di profughi che fuggono dalla repressione del regime siriano. Soprattutto a seguito dei controlli serrati alle frontiere turche, il numero di coloro che hanno deciso di attraversare la frontiera libanese è aumentato. La zona interessata è quella di Akkar, una regione a nord del Libano, nei pressi di Wadi Khaled. Molti hanno attraversato il confine verso il villaggio libanese di Kneiseh e provenendo dal villaggio siriano di al‐Quseir. Per impedire le fughe verso il Libano, l’esercito siriano ha iniziato a controllare anche qui il confine. Peraltro il governo libanese ha affermato di non avere grandi possibilità di accogliere questi profughi e per questo ha chiesto alla Croce Rossa Internazionale e alla Mezzaluna rossa di allestire delle tendopoli al confine, anche per paura che i flussi si spostino verso altre città del Libano. Le risposte della Caritas Turchia A metà giugno la Caritas Turchia ha effettuato una missione presso la provincia di Hatay dove sono stati allestiti i campi per i profughi provenienti dalla Siria. In loco vi è stata la possibilità di incontrare il responsabile della Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni internazionali presenti fra cui UNHCR e Amnesty International. La prima impressione è che il governo turco abbia affrontato questa emergenza in maniera più organizzata rispetto al 1991 quando ci furono numerosi arrivi dall’Iraq. Al 15 giugno erano presenti divrersi campi: 3
Altınözü: (25 km da Hatay): Si tratta del primo campo allestito presso una ex fabbrica di tabacchi. Ci sono 260 tende e circa 1.650 persone ospitate. Il 60% sono minori, il 30% donne e il resto uomini. Boynuyoğun: (30 km da Hatay): Sono state allestite 572 tende che ospitano 3.465 persone. E’ possibile entrare nel campo ma non parlare con gli ospiti a cui è permesso di incontrare i parenti che vengono da fuori. Il numero crescente degli arrivi ha richiesto di allestire un ulteriore campo a Reyhanli. Yayladağı: (49 km da Hatay): si trova ad appena 5 km dal valico di frontiera di Yayladağı. Ci sono 2 campi tra loro vicini di cui uno di 3.700 persone e 400 tende e l’altro di 500 tende ma vuoto al momento della visita di Caritas Turchia. Nei campi vengono assicurati servizi di vitto, alloggio, distribuzione di materiale igienico, attività sociali, istruzione e interpretariato. L’assistenza medica è prevista al confine attraverso un servizio di ambulanze. Nei campi ci sono tende dedicate all’assistenza sanitaria mentre i casi più gravi vengono trasportati negli ospedali locali. Nonostante questa prima convincente risposta del governo turco, che non sembra peraltro volere dar seguito alle pressioni del Ministro degli esteri siriano che ha chiesto di far rientrare i profughi in Siria, rimangono all’orizzonte problemi legati all’accoglienza prolungata in strutture non idonee quali sono le tendopoli. Caritas Turchia esprime preoccupazione per questa situazione e registra già i primi arrivi di famiglie siriane ad Istanbul presso la sede della Caritas dove si sono rivolti anche immigrati africani e asiatici che si trovavano in Siria per motivi di lavoro.
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