la gestione della diversità nel mondo aziendale

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la gestione della diversità nel mondo aziendale
LA GESTIONE DELLA DIVERSITÀ NEL MONDO AZIENDALE AMERICANO:
UN BUSINESS IMPERATIVE
1. Mi è capitato l’estate scorsa di leggere a mia figlia di 5 anni una delle Fiabe Sonore pubblicate
dalla RCS, e distribuite con il Corriere della Sera. Il numero 44 si intitola I Tre Cedri, e racconta la storia di
Vincenzo, un principe “bellissimo e molto intelligente” che, dietro insistenza del padre, decide
finalmente di prendere moglie, a patto che questa abbia la carnagione bianca come la ricotta e le labbra
rosse come il sangue. E così il principe si mette in cammino per il mondo alla ricerca della donna dei
suoi sogni. Dopo molto girare, sulla via del ritorno, il giovane trova finalmente il suo ideale: una
fanciulla dai capelli biondi, gli occhi azzurri, il colorito bianco-ricotta e le labbra rosse. Appena la vede,
Vincenzo ne rimane folgorato, le dichiara il suo amore e le chiede di aspettarlo sul ramo di un albero
che si specchia in una vicina fonte. Nel frattempo, egli andrà al palazzo reale per i preparativi delle
nozze. Ma, durante la sua pur breve assenza, molte cose accadono. Alla fonte viene ad attingere acqua
Lucia, una “servetta negra … nella speranza di vedere riflessa la propria immagine più bella e meno
nera di quanto fosse in realtà”. Ma l’immagine che Lucia vede riflessa nell’acqua quel giorno è quella
della fanciulla bianca sul ramo. Lucia la scambia per la propria immagine e ne rimane estasiata: “Oh
Lucia, Lucia fortunata! Tu così bella essere …” Lucia concepisce allora un piano audace, quello di
sostituirsi alla ragazza bionda e prenderne il posto accanto al principe. Per attuare questo progetto,
ricorre alla magia: conficca uno spillo stregato nella nuca della fanciulla bionda che per incantesimo si
tramuta all’istante in una colomba. Ad attendere il principe c’è ora Lucia. Al suo ritorno, il principe
rimane senza parole nel vedere così cambiata la sua promessa sposa. Ma, poiché è “uomo d’onore”,
porta comunque “la negretta” al palazzo. Nel vederla, il re rimane allibito: “Ma come … mio figlio
viaggia per mezzo mondo … e torna con questo pezzo di carbone? E, oltre a essere brutta, è anche
antipatica”! Ma il mistero ha breve durata: un cuoco del palazzo, accarezzando la nuca della colomba,
sente lo spillo e glielo sfila. L’incantesimo è rotto. La bionda fanciulla riappare. I due innamorati
potranno ora convolare a nozze1.
Mentre leggevo la storia a mia figlia, e mi trovavo nell’imbarazzo di dovere cambiare le parole e
le circostanze meno politically correct in tempo reale, immaginavo la reazione di altre mamme e in
particolare dei loro bambini (specialmente quelli di colore), mi domandavo: quale futuro può avere una
società i cui piccoli crescono con questi modelli? Che senso ha parlare di globalizzazione e di
multiculturalismo se il maggiore editore italiano pubblica materiale di questo tipo? D’accordo, la serie
delle Fiabe Sonore risale all’inizio degli anni ’60, quando il tema del politically correct ancora non era
diffuso (in Italia), ma possibile che un lettore di bozze della RCS nel 2004 non si sia accorto di quello
che andava in stampa?
Pur ipotizzando che la stessa cosa fosse successa negli Stati Uniti, non oso pensare quale
putiferio avrebbe scatenato. In Italia, è passata inosservata -o meglio - non ha suscitato alcunché oltre
all’imbarazzo di qualche singola mamma (e dei propri bambini). Ciò è grave.
Sarebbero molte le riflessioni da fare sul tipo di società che tollera, ai giorni nostri, pubblicazioni
di questo tipo. Ma vorrei invece parlare di società, come quella americana, che non le tollera; anzi, le
combatte. Da sempre un paese eterogeneo, gli Stati Uniti non hanno altra scelta che quella di vivere
prendendo atto delle diversità al loro interno. Il dialogo sulla diversità è tutt’altro che facile, si presta ad
eccessi spesso ridicoli e a mode passeggere, ma la cosa più importante è che esiste. In particolare vorrei
descrivere la gestione del politically correct e della diversità all’interno del mondo aziendale americano.
2. Il tema del politically correct in America ha suscitato sempre più interesse a partire dagli anni ’60,
con l’affermarsi del movimento dei diritti civili e di quello femminista (è del 1964 il Civil Rights Act, che
vietò la discriminazione di razza nelle assunzioni). Negli anni ’70 il dibattito era incentrato sui problemi
razziali e quelli dell’eguaglianza delle donne. Nonostante questi due gruppi siano rimasti i grandi
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I Tre Cedri, della serie Fiabe Sonore, RCS Libri S.p.A., Milano 2004.
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protagonisti di questo dibattito (che nel tempo ha subìto continue evoluzioni, tra cui anche quelle
semantiche: l’originario termine negroes venne sostituito da colored, che a sua volta cedette il passo a black,
per poi essere rimpiazzato dall’attuale afro-american; così come nativo americano ha preso il posto di indiano
americano) con il passare degli anni, nuovi gruppi e nuove tematiche hanno allargato ed articolato il
dibattito. Negli anni ’80 è stata la volta dei portatori di handicap e degli omosessuali, nel decennio
seguente sono subentrati i “baby boomers” e la comunicazione inter-culturale, mentre dal 2000 i nuovi
temi sono la tolleranza religiosa e i diritti degli anziani2.
L’evoluzione del dibattito nella società civile si è inevitabilmente riflessa in quella aziendale,
attraversando fasi alterne, man mano che le imprese sperimentavano approcci diversi al problema e
cercavano di destreggiarsi al meglio. Specialmente all’inizio, il dibattito interno all’azienda avveniva
spesso in un contesto ostile, in cui fioccavano denuncie e si susseguivano cause legali basate su presunte
discriminazioni. Le aziende si difendevano osservando “quote” di assunzione di impiegati appartenenti
a minoranze. Negli anni ’80 imbastirono corsi di formazione sul diversity training che spesso avevano un
carattere teso e di confronto diretto, specialmente verso l’impiegato bianco maschio. Negli anni ’90 le
aziende cambiarono rotta, adottando il cosiddetto approccio “kumbaya” (termine ripreso dalla famosa
canzone di Joan Baez, a sua volta tratta da uno spiritual degli schiavi americani), e virarono verso una
sorta di buonismo e di “volemosi bene”. Da pochi anni il dibattito è entrato in una nuova fase e sembra
aver trovato un assestamento “maturo”: la diversità non viene più gestita perché è la cosa giusta da fare
ma perché è diventata quello che il Wall Street Journal ha recentemente definito un business imperative3.
Dopo decenni dedicati al taglio dei costi e al miglioramento dei profitti, le aziende stanno
riscoprendo la necessità di migliorare i ricavi attraverso la ricerca di nuovi mercati e nuovi clienti, e la
creazione di nuovi prodotti e servizi, ovunque essi siano4. Una crescita di questo tipo è basata
sull’innovazione e la generazione di nuove idee, e questo richiede sempre maggiore creatività e
produttività da parte di chi lavora in azienda, nessuno escluso. La globalizzazione spinge le aziende a
crescere all’estero, mentre si fa di tutto per cercare nuove nicchie nei mercati interni. Tra le nicchie che
hanno assunto un nuovo rilievo negli USA vi è quella delle minoranze. Si stima che questo vasto ed
eterogeneo gruppo consumi prodotti per un valore di oltre 1,8 miliardi di dollari l’anno. Tra queste
minoranze, le donne (considerate per l’appunto una minoranza), stanno rivelandosi imprenditrici
agguerrite: la crescita delle aziende create da donne è doppia rispetto alla media nazionale, il tasso di
crescita del personale assunto da aziende gestite da donne è oltre il doppio rispetto alla media e anche i
profitti delle aziende al femminile (39%) è maggiore di quello della media (33,5%)5. Anche i dati relativi
alla crescita di aziende gestite da donne appartenenti a minoranze mostrano un boom di crescita6.
Ecco che, in quest’ottica, la diversità diventa un bene prezioso, un vantaggio competitivo da
ottimizzare. Man mano che i mercati si diversificano e la competizione aumenta, poter contare su un
bacino di dipendenti culturalmente ed etnicamente eterogenei che contribuiscono a far raggiungere
all’azienda il suo massimo potenziale, è diventato un obiettivo importante. I corsi aziendali di diversity
training oggi mirano a creare una comunità “inclusiva” dove la diversità viene vista come un bene
prezioso e le minoranze vengono incoraggiate ad esprimersi e ad essere propositive. La figura del
diversity officer, la persona responsabile della gestione della diversità all’interno dell’azienda, assume un
rilievo di primo piano, e spesso dipende direttamente dall’Amministratore Delegato.
3. La Pepsi Cola è all’avangardia nella gestione della diversità e la considera una delle “chiavi del
suo futuro”. Steve Reinemund, Amministratore delegato della società, uno dei manager più innovativi
negli USA, è un antesignano in questo campo. Come egli stesso spiega: “Un’azienda di beni di largo
consumo gestita prevalentemente da uomini bianchi, incontrerà dei grossi problemi. Sarà condannata a
pescare in acqua stagnante e non avrà le conoscenze per conquistare un mercato che, specialmente nel
Donna Gabaccia, Immigration and american diversity, Blackwell, 2002.
The new diversity, The Wall Street Journal, 14 novembre 2005.
4 The new organisation: a survey of the company, in The Economist , 21 gennaio, 2006.
5 Cfr. www.score.org/women e The Wall Street Journal, ibid..
6 Cfr. Minority women go it alone in starting their own businesses, USA Today, 22 ottobre, 2002. Cfr. www.score.org/minorities.
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caso americano, non può più considerarsi di massa, perché composto da più minoranze. Pensiamo solo
al fatto che un quarto della popolazione americana è ispanica e afro-americana, e che le donne
rappresentano la metà del paese”7.
La capacità di generare una continua innovazione interna che a sua volta dà vita a nuovi
prodotti mirati a raggiungere le nuove nicchie di questo mercato differenziato, è alla base del successo
della Pepsi Cola. Solo nel 2004, la società ha introdotto più di 200 nuovi prodotti, alcuni dei quali sono
variazioni di prodotti già esistenti. Alcuni esempi: le patatine Doritos al sapore di guacamole (prodotto
che vendette per 100 milioni di dollari nel 2003) e il nuovo Gatorade Xtreme, per i consumatori
ispanici; la bibita Mountain Dew Code Red, mirata ai gusti degli afro-americani (che nel suo primo anno
di lancio vendette 100 milioni di casse); una merenda al gusto di wasabi per clienti asiatici8.
I numeri sembrano dare ragione a Reinemund: della crescita dei ricavi pari all’8% conseguita
dalla Pepsi Cola nel 2004 rispetto all’anno precedente, l’1% (ben 2,3 miliardi di dollari) è riconducibile a
nuovi prodotti dovuti all’ottimizzazione della diversità all’interno dell’azienda9.
Da pochi anni Reinemund ha spalancato le porte della società e del suo management ai membri
delle minoranze, stabilendo che metà delle nuove reclute dovevano appartenere a minoranze, e
dovevano essere promosse allo stesso ritmo dei dipendenti non appartenenti a minoranze. Ai manager
che non rispettavano queste regole non veniva elargito il bonus di fine anno. Ha scelto quale presidente
nonché direttore finanziario del colosso americano Indra Nooyi, giovane e bella signora indiana (nata e
vissuta in India; tre lauree, tra cui due conseguite in India, carriera di successo presso ABB e Motorola),
che indossa il sari in ufficio. Dal 2000 al 2004 i dirigenti di colore in azienda sono passati dall’11% al
17% del management e le donne dal 24% al 29%10. Ma non si tratta solo di numeri. Reinemund spiega
che la vera sfida è quella di “creare un ambiente di lavoro dove chi appartiene ad una minoranza ha il
desiderio di contribuire al successo della società”11.
Altra società all’avanguardia nella gestione della diversità è IBM, simbolo storico del
conservatorismo e dell’establishment in America (basta ricordare che Big Blue, il soprannome con cui è
stata sempre conosciuta, specificava ai propri dipendenti come vestirsi: preferibilmente di blu e, in
alternativa, di grigio e nero). Da qualche anno ha avviato una profonda rivoluzione a tutti i livelli ed è
oggi considerata una delle aziende più innovative negli Stati Uniti. Da maggiore produttore di hardware
(ha venduto il proprio business di pc ai cinesi nel 2004), è passato ad essere uno dei maggiori fornitori
di servizi informatici al mondo. Ha abolito il suo ricchissimo piano pensioni (tradizionalmente uno dei
più generosi negli USA) ed ha introdotto un sistema di lavoro flessibile ed autonomo: il 40% dei
dipendenti IBM non ha una sede di lavoro fissa e il 50% è entrato in azienda meno di 5 anni fa12.
Tra i cambiamenti avviati, anche quello di ripensare i valori aziendali, per favorire una cultura di
collaborazione. Lou Gerstner, ex Amministratore delegato della società, fu specialmente deciso a voler
creare un team dirigenziale che rispecchiasse le realtà del mercato che la società voleva raggiungere
(IBM si vanta di essere stata una delle prima ad avere reso la diversità un “imperativo morale”)13. Essa così
iniziò una campagna di assunzioni di minoranze. In questi anni il numero di manager appartenenti a
diversi gruppi è triplicato, mentre il numero di donne manager è aumentato di cinque volte. Le donne
rappresentano il 30% della forza lavoro, un risultato che la stessa società definisce “ammirevole”,
specialmente considerando che si tratta del settore dell’information technology14. Oggi, oltre il 50% del
Worldwide Management Council della società, che aiuta a definire la strategia aziendale a livello globale,
A more diverse workforce is good for business, conferenza tenuta da Steven Reinemund alla Stanford Business School nel maggio
2004. Cfr.
http://www.gsb.stanford.edu/news/headlines/vftt_reinemund.shtml. Cfr. The Wall Street Journal, ibid.
8 Cfr. A more diverse workforce is good for business, ibid..
9 The Wall Street Journal, ibid..
10 Ibid..
11 A more diverse worforce is good for business, ibid..
12 Offering flerxible and remote working options at IBM, Strategic HR Review, nov.-dic. 2005. Cfr. “The new organisation: a survey of
the company”, ibid..
13 Nel sito internet della società, v. http://www.ibm.com/ibm/responsibility/people/diversity.
14 Ibid..
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è composto da donne. L’evoluzione di queste assunzioni, suddivisa per anno e per minoranza, è
documentata dettagliatamente nei bilanci di fine anno e nel sito internet della società15.
Sono proprio le donne uno dei target più interessanti per la società, che non si accontenta di
assumerle, ma si fa partecipe dei problemi delle donne che lavorano, che sono mamme, che
accudiscono persone anziane in famiglia e che, nonostante ciò, “vogliono avanzare nella loro carriera”16.
La società ha creato una miriade di iniziative, dagli asili aziendali ai fondi mirati all’assistenza agli
anziani. IBM fornisce addirittura un servizio di consulenza per le dipendenti che devono accudire
parenti anziani dando informazioni relative a servizi di ristorazione a domicilio specializzati, a servizi di
trasporto per anziani, a strutture e infermieri disponibili nella propria zona. Dal 2001 al 2006 IBM stà
investendo 50 milioni di dollari in un nuovo fondo che fornisce aiuti e consulenza alle dipendenti che
richiedono assistenza per i figli e gli anziani. Di questa somma, il 60% sarà speso a favore di dipendenti
donne che lavorano al di fuori degli Stati Uniti17.
Anche in questo caso i numeri sembrano dare ragione alla società: il business generato da
servizi forniti a minoranze e a donne nel 2001 (ultimo dato disponibile) è stato pari a 300 milioni di
dollari; tre anni prima era stato di 10 milioni di dollari18.
Stessa storia con Harley-Davidson, produttore delle famose motociclette, che alla fine degli anni
’90 si trovò assediato dai rivali giapponesi nel proprio mercato interno. L’unica alternativa per potere
sopravvivere era di trovare nuove nicchie rispetto al suo mercato tradizionale, rappresentato dal cliente
bianco, maschio, di mezza età. Jim Ziemer, Amministratore delegato della società (iniziò a lavorare in
azienda oltre trent’anni fa come operatore di ascensori), ha detto: “Capimmo che se volevamo entrare
in certi segmenti di mercato avremmo dovuto attrarre dipendenti donne e di colore, cosa che non
stavamo facendo”19. In dieci anni, donne e minoranze sono passati dal 5% al 25% del management della
società, con inevitabili benefici a livello di business: oggi il 10% dei clienti è composto da donne (era
appena il 2% dieci anni fa) e l’8% da persone appartenenti a minoranze (non esistono cifre storiche
riguardo all’incidenza di questo gruppo perché era insignificante)20.
Le storie qui riportate non rappresentano la totalità della realtà aziendale americana. Sono solo
tre i manager afro-americani a capo delle 100 maggiori società, le cosiddette Fortune 100 (in questa
classifica non compare nessuna donna), mentre sono 19 le donne a capo delle prime 500 società, e
continuano le cause legali da parte di membri di minoranze contro le loro aziende21. Ma sono
comunque storie di successo di aziende all’avanguardia di un trend che, inevitabilmente, diventerà
sempre più significativo, non solo perché è diventato un business imperative, ma perché la società
americana non ha altra scelta che quella di vivere prendendo atto delle proprie diversità.
4. La diversità è da sempre parte integrante del DNA americano e una delle maggiori ragioni per
le quali l’America rimane un paese aperto, dinamico e ottimista. Dal 1990 ad oggi, 14 milioni di nuovi
immigrati sono entrati negli USA. Sono 34 milioni gli americani nati all’estero (circa l’11% della
popolazione), il doppio rispetto a dieci anni fa 22. Alcuni studiosi vedono in questo continuo flusso di
Employment data for U.S. locations, 2000-2004”.
Ibid..
17 Ibid..
18 The Wall Street Journal, ibid..
19 Ibid..
20 Harley-Davidson: more than white middle-aged white men, in The Journal News, 18 aprile, 2005. Cfr. HispanicBusiness.Com, The
next generation, di Keith Rosenblum, dicembre 2005.
21 I manager afro-americani sono: Richard Parsons di Time-Warner, Kenneth Chenault di American Express e Stanley
O’Neal di Merrill Lynch. Cfr. www.fortune.com. Un recente sondaggio del National Urban League ha rivelato che circa la
metà dei 5,500 intervistati ritiene che l’azienda nella quale lavora ha una cultura che favorisce la diversità. Cfr. Statistics and
emotions clash in corporate bias cases, in The New York Times, 7 giugno 2005, e David A. Thomas, Breaking through: the making of
minority executives in corporate America, The Harvard Business School Press, 1999.
22 Cfr. l’eccellente articolo The americano dream, in The Economist, 14 luglio 2005. Tra l’altro, questo studio mette in risalto il
fatto che nel 1890, durante le grandi ondate di immigrazione italiana, ebrea e irlandese, la percentuale di americani nati
all’estero era pari al 15%.
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immigrazione una inevitabile fonte di disgregazione della società americana23. Ma le statistiche più
recenti mostrano che quella società, proprio grazie ad una riserva inestinguibile di immigrati giovani,
speranzosi e propensi al lavoro, continua a rinnovarsi con una rapidità straordinaria, mantenendo saldi
quei princìpi e valori che la caratterizzano da secoli24.
Primo tra questi, l’ottimismo. Un sondaggio a livello nazionale svolto dal New York Times nel
2005 mostra che, rispetto a 30 anni fa, il doppio degli intervistati è fiducioso di poter migliorare la
propria posizione sociale, la maggior parte dichiara di avere un tenore di vita più alto di quello dei
propri genitori, e ritiene che i propri figli miglioreranno ulteriormente la loro condizione25. La
popolazione cresce il doppio di quella dell’Unione Europea, con tassi paragonabili a quelli di paesi in via
di sviluppo. Gli americani lavorano 300 ore all’anno più degli europei e hanno metà della
disoccupazione dell’Italia, la Germania e la Francia. La società americana è più che mai dinamica,
mantenendo viva la tradizione della ricerca continua della “nuova frontiera”. Un esempio significativo:
negli ultimi 25 anni, città come Las Vegas hanno visto un incremento della popolazione pari al 250%26.
Un paese dinamico attrae nuovi immigrati e nuove energie, che a loro volta rafforzano la fiducia
e l’ottimismo nel futuro. Questo circolo virtuoso è alimentato da una cultura aperta alla diversità e
conscia che proprio la diversità è una delle chiavi del suo successo. Le recenti leggi americane contro il
terrorismo, che hanno ridotto i visti annui per gli immigrati qualificati da 195,000 nel 2001 ad appena
65,000 nel 2005, è un precedente allarmante che potrebbe minacciare la superiorità scientifica degli Stati
Uniti. Basta pensare che nel 2004 il 51% degli ingegneri in America e il 25% degli imprenditori e top
manager che lavorano nella Silicon Valley era nato all’estero27.
Michèle Favorite
Docente di comunicazione aziendale
alla John Cabot University, Roma
Samuel Huntington, Who are we? The challenges to America’s national identity, New York, Simon & Schuster, 2004 e dello stesso
autore The erosion of american national interest , in Foreign Affairs, Settembre 1997; George J. Borjas, Heaven’s door, Princeton
University Press, 2001; Robert Putnam, Bowling alone, Simon & Schuster, 2001; Charles Kupchan, The end of the american era,
Knopf, 2002. E’ interessante notare l’opinione di Robert Putnam riguardo all’effetto che l’attacco sulle Torri Gemelle ha
avuto sulla coesione della società americana: “Gli americani oggi sono più che mai aperti all’idea che persone provenienti da
diverse parti del mondo hanno il diritto di essere membri a pieno titolo della nostra comunità nazionale”. Citato in Bowling
together, in The American Prospect, 2 novembre 2002.
24 The americano dream, ibid.. Cfr. il pensiero del Premio Nober per l’economia Gary Becker in www.Becker-Posner-blog.com.
V., per es., il blog datato 31 luglio 2005. Cfr. anche Massimo Teodori, Benedetti americani, Mondatori, 2003, cap. 4.
25 The poll results, The New York Times, 15 maggio 2005.
26 Centrifugal forces, in The Economist, 14 luglio, 2005. Cfr. New immigrants in new places, Carnegie Reporter, autunno 2005.
27 L’anno che viene e il secolo cinese, in Il Mondo, 30 dicembre 2005 e Becker-Posner, ibid, 16 ottobre, 2005.
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