La guerra dei mondi possibili * (ancora sul caso Montalbano

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La guerra dei mondi possibili * (ancora sul caso Montalbano
La guerra dei mondi possibili *
(ancora sul caso Montalbano)1
Gianfranco Marrone
1. Incongrui riconoscimenti
All’inizio de La luna di carta di Andrea Camilleri, ultimo romanzo (al momento) della
fortunata serie con protagonista Salvo Montalbano, c’è una giovane donna che si reca in
commissariato per denunciare la scomparsa del fratello. Il dialogo fra la donna e il
commissario comincia così:
“Mi dica signora…”.
“Signorina, Michela Pardo. E lei è il commissario Montalbano, vero?”
“Ci siamo conosciuti?”
“No, però l’ho vista in televisione”.
“L’ascolto”. (Camilleri 2005, p. 17)
Molto più avanti, nel corso dell’indagine il commissario entra in una banca, e
accade praticamente la stessa cosa:
“Buon giorno, vorrei parlare col direttore. Il commissario…”.
“Montalbano sei!”, fece il cinquantino darrè lo sportello.
Il commissario lo taliò strammato.
“Non ti ricordi di mia, ah, non ti ricordi? (…) Perché sei venuto in banca, commissario? Ti ho visto qualche volta in televisione”.
“Ho bisogno di un’informazione”. (Camilleri 2005, pp. 210-212)
Così, non solo vari personaggi (letterari) lo riconoscono come un noto eroe televisivo, ma – soprattutto – il commissario non sembra essere particolarmente turbato per
questo. Vi è talmente abituato da non farvi più caso: e passa subito, nel corso dei due
interrogatori, al dunque. Il problema è che nelle sue varie e numerose storie il personaggio letterario del commissario di Vigàta non è affatto un eroe televisivo: talvolta usa i
media per i suoi obiettivi tattici (far sapere qualcosa all’assassino, amplificare una messinscena…), qualche altra volta viene intervistato dai giornalisti circa il caso su cui sta
lavorando, raramente si parla di lui come vittorioso risolutore di avvenimenti di cronaca
nera. C’è insomma, diremmo col suo linguaggio, “qualcosa che non quatra”. Come mai
questo tipo di riconoscimenti, incongrui secondo una tradizionale logica della verosimiglianza narrativa? che cosa vedono quei personaggi nel protagonista del loro medesimo
mondo possibile? e come mai il commissario sembra essersi abituato a tutto ciò?
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Relazione al convegno “Remake-rework: sociosemiotica delle pratiche di replicabilità”, Urbino, Centro di semiotica, 14-16 luglio 2004.
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Possiamo trovare una parziale risposta a queste domande nel romanzo precedente dello stesso Camilleri, La pazienza del ragno (2004), dove per la prima volta
Montalbano viene esposto a questo genere di curiosi riconoscimenti – e ancora ne stupisce. Qui il commissario va a interrogare una certa Tina Lofaro (“una vintina laiduzza,
di vascia statura, nìvura come un corvo, grassoccia e con l’occhiali spessi”), cercando,
per ragioni interne all’indagine, di prenderla alla sprovvista:
E la pigliata alla sprovvista funzionò. Ma funzionò arriversa.
“Il commissario Mon…”.
“.. talbano è” fece Tina con un sorriso che le spaccava la facci da una grecchia
all’altra. “Maria che bello! Non ci speravo di conoscerla! Che bello! Tutta sudata
sono per l’emozione! Che felicità!”.
Montalbano parse addivintato un pupo senza fili, non arrinisciva a cataminarsi.
Constatava, strammato, un fenomeno: la picciotta, davanti a lui, aveva principiato a evaporare, un vapore acqueo la stava contornando. Tina si stava squagliando come un panetto di burro esposto al sole d’estati. […] Appresso restò
davanti a lui estatica, muta, la facci russa come un’anguria matura, le mani congiunte a prighera, l’occhi sparluccicanti. Per un attimo, il commissario si sentì
come la madonna di Pompei. […]
“Appena m’è comparso davanti in carne e ossa a momenti svenivo. Come sta? Si
è rimesso? Che bello! Io la vedo sempre quando appare in televisione, sa? Io
leggo molti romanzi gialli, ma lei, commissario, è molto meglio di Maigret, di
Poirot, di…” (Camilleri 2004, pp. 43-44).
Si tratta di un’evidente parodia dei fenomeni di culto mediatico. La ragazza riconosce nel commissario un eroe del genere poliziesco, sia televisivo sia letterario, e dichiara di apprezzarlo ben più dei celebri personaggi di Georges Simenon e Agata Christie. Incontrandolo “in carne e ossa”, e per giunta inaspettatamente (“non speravo di conoscerla”), Tina non riesce a trattenere una gioia estrema, che si manifesta sia verbalmente (“che bello!”, “che felicità”), sia somaticamente (“la facci russa come un’anguria
matura, le mani congiunte a prighera, l’occhi sparluccicanti”), sia verbalizzando le reazioni somatiche (“tutta sudata sono per l’emozione!”). Se il corpo della donna reagisce
all’evento estetico con tale intensità ed estensione, agli occhi attenti del commissario
(“costatava”) l’esistenza empirica della sua fan tende però a scomparire: la “picciotta”
sembra quasi evaporare, squagliare come burro al sole, al punto da perdere, se non proprio la carne, senz’altro il suo involucro (“un vapore acqueo la stava contornando”).
Resta il fatto che, nei romanzi di Camilleri (come del resto nelle fiction televisive che a essi si sono incrociate) la figura di Montalbano non è affatto quella di un eroe
mediatico tale da suscitare questo genere di reazioni caricaturali; ma soltanto quella di
un commissario di provincia, particolarmente caratterizzato sul piano pragmatico, cognitivo e passionale, comunque nei limiti di un soggetto sociale ordinario, troppo umano nei piaceri e nelle idiosincrasie, nelle difficoltà e nei successi. Ciò che Tina riconosce
“in carne e ossa”, pertanto, non è un personaggio, per così dire, al primo grado, l’attore
umano che abita il suo stesso mondo possibile, ossia il commissario di Vigàta. Tina vede nella persona che bussa inaspettatamente alla sua porta un personaggio al secondo
grado, ossia l’eroe mediatico Montalbano che, nel nostro mondo possibile di inveterati
consumatori dell’universo mediatico, nutre ormai da diversi anni uno straordinario successo – al punto da suscitare reazioni passionali e somatiche analoghe a quelle vissute,
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appunto, dalla “laiduzza, grassoccia ventina”. Se il commissario si sente trasformato
nella “madonna di Pompei” è proprio per via di questo atteggiamento ricettivo quasisacrale che, come è noto, i media destinanti tendono a infondere ai propri legittimi destinatari.
Appare chiaro, pertanto, che in questa scena giocano, si intersecano e si confondono due diversi mondi possibili: quello, inglobato, della fiction romanzesca, dove Tina
e il commissario sono due precisi attori narrativi con una serie di caratteristiche interne
alla serie poliziesca (manifestata sotto soprattutto forma di testi letterari e televisivi);
quello, inglobante, dell’universo mediatico, dove Montalbano è un personaggio di successo e Tina una dei suoi innumerevoli fan. A fare da connettore isotopico fra questi due
mondi possibili è il doppio rovesciamento che apre la scena: da una parte, il commissario vuole prendere alla sprovvista la ragazza, ma in effetti è lui a essere “strammato”
dalla reazione di lei; d’altra parte, l’espressione antonomastica con cui Montalbano usa
farsi riconoscere, al punto da diventare un vero e proprio tormentone che circola nella
semiosfera (“Montalbano sono”), viene completata dalla “picciotta” (“Mon...”,
“…talbano è”) che se ne assume in tal modo la totale responsabilità enunciativa. Il
commissario sta per presentarsi alla ragazza, ed è anticipato da lei, che lo ha perfettamente riconosciuto; ma questo riconoscimento ha luogo giusto con la risemantizzazione
strategica del tormentone mediatico. I due mondi possibili sono entrambi presenti e attivi nel testo, creando quel gap ricettivo che, se da un lato fa “strammare” il commissario
(il quale finirà comunque per rassegnarsi a situazioni del genere), dall’altro rivendica
surrettiziamente il potere autoriale dell’enunciatore (il quale vuol mantenere – e manifestare – la gestione di quei “fili” che il suo “pupo” potrebbe altrimenti perdere).
In questo senso, nella scena in questione è leggibile il movimento tipico di una
favola proppiana. C’è un Danneggiamento: Montalbano è perduto nell’universo complesso della parola e dell’immagine mediatiche, dove la rete intertestuale, interdiscorsiva e intermediatica finisce per cancellare ogni possibile ancoraggio identitario al soggetto dell’enunciazione; al punto che la gente non lo riconosce più per quel che è al
primo grado (un immaginario commissario dell’immaginaria cittadina di Vigàta), ma
per quel che è divenuto al secondo grado (una star televisiva a tutti gli effetti, che ha
forzatamente barattato la propria identità narrativa stabile in nome del successo a tutti i
costi). E c’è la Risoluzione di tale Danneggiamento: l’enunciatore-eroe Camilleri riprende in mano le redini del discorso narrativo, inserendo il mondo possibile inglobante
all’interno di quello inglobato, schiacciando l’essere mediatico nel personaggio letterario, e risemantizzando l’inevitabile gap comunicativo come una gag comica interna al
suo testo. E c’è, fra le righe, la Sanzione finale: operando questa risemantizzazione,
l’eroe dà prova di tutta la propria competenza affabulatoria, manifestando un saper dire
e un poter fare che trionfano persino nell’universo spersonalizzante dei rumors mediatici. È per questo che, ne La luna di carta, il commissario non sarà più turbato da questo
genere di continui, incongrui riconoscimenti: non è più un pupo senza fili, ma è tornato
a essere, al quadrato, un personaggio di romanzo. (E se è “strammato” nel corso
dell’incontro col direttore di banca, non è per il riconoscimento operato da questi nei
suoi confronti, ma per l’ uso della seconda persona singolare, che denoterà, al primo
grado, una reciproca conoscenza pregressa di cui il commissario non ha alcuna memoria).
2. Due personaggi in cerca di sé
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C’è da chiedersi, a questo punto, dove e come l’enunciatore-eroe abbia acquisito questo
tipo di competenza affabulatoria, e soprattutto in che modo tale acquisizione lo porti a
intraprendere e a vincere una vera e propria guerra dei mondi possibili. Occorre cioè,
filando ancora la metafora proppiana, ritrovare e ricostruire il momento centrale della
Lotta.
Per farlo, basta andare in cerca dei luoghi e dei momenti in cui, sia nei testi letterari sia nella più ampia semiosfera mediatica, Camilleri ha in vario modo preso di petto
la questione della televisione e della trasformazione che, in essa e con essa, il (suo) personaggio di Montalbano ha subito. Camilleri sa bene infatti, come abbiamo mostrato
altrove (Marrone 2003), che la televisione – adoperando una sostanza espressiva di tipo
audiovisivo e vantando un assetto e degli obiettivi comunicativi molto diversi da quelli
del dominio letterario – ha profondamente modificato il commissario di Vigàta: lo ha
dotato di una faccia e di un corpo, dunque di una fisionomia e di un’estetica, così come
di una voce e di un’età, nonché di un ambiente visibile e di una morale generalisti che
non coincidono affatto con quelli della sua opera romanzesca e, in generale, narrativa. Il
Montalbano televisivo è visibilmente più giovane e più prestante del suo gemello letterario, i luoghi in cui vive e opera sono senz’altro più belli e struggenti, i personaggi che
lo circondano vantano una caratterizzazione siciliana stereotipa, la morale che regola i
suoi programmi d’azione è plasmata su quella del pubblico presupposto bigotto dalla tv
di massa. Le fiction televisive, per ovvie ragioni strategiche legate al mezzo, tendono
soprattutto a presentarci una figura tendenzialmente statica, tradizionalista ma comunque sempre identica a se stessa nelle sue idiosincrasie e nelle sue passioni.
Così, fra il personaggio letterario e il personaggio televisivo si danno strane forme di rivalità e di reciproca resistenza. Da una parte, la televisione afferma fortemente
una certa figura narrativa, riprendendola dal testo letterario e adattandola alle proprie esigenze, ossia ai presunti gusti del pubblico generalista. D’altra parte, Camilleri, in
quanto autore originario, cerca in tutti i modi di riappropriarsi della sua creatura, di
continuare a gestirla, decidendo dei suoi valori e delle sue passioni, e dunque anche
delle sue possibili trasformazioni. Più che gli ovvi problemi di adattamento audiovisivo
del testo letterario, si pone una questione inversa: quella di un riadattamento strategico
dello schermo alla pagina.
Lo ritroviamo in più luoghi. Innanzitutto, accade che Camilleri dichiari di non aver mai amato troppo il personaggio del commissario, di averlo creato un po’ per caso e
averne conservato la fisionomia grazie all’insperato successo e – un po’ come Conan
Doyle con Holmes o Collodi con Pinocchio – alle continue richieste del pubblico. Si
legga per esempio questo passo del libro-intervista dello scrittore siciliano al giornalista
Marcello Sorgi (2001: 76-77), dove stupore e compiacimento si intrecciano palesemente:
Siamo sempre all’uscita de La voce del violino. Elvira Sellerio mi dice: vieni a
presentarlo in due o tre librerie siciliane. Vado in un’enorme libreria di Catania
[...] Ero andato con mia moglie. Alla fine di questa presentazione si avvicinano tre
signore e si rivolgono a lei: “Permette che diciamo una parola a suo marito?”. La
escludono e m’inglobano. “Questo matrimonio non si deve fare! “, dichiara una in
dialetto. “Quale matrimonio?”. “Quello della genovese col commissario”. “E perché?”. “Ma che ci accucchia questa forestiera col commissario? Si guardi attorno:
“non ci sono belle ragazze qui da noi?”.
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Sul momento io la presi a ridere, mia moglie no. E con la sua tendenza a farmi
sentire la coda di paglia: “sei uno scrittore di telenovela” mi prese in giro. Non aveva torto, perché se la cosa veniva messa su questo piano, con questa forte personalizzazione, c’era un po’ da preoccuparsi. Questo Montalbano, in pratica, era
diventato una persona che io potevo in qualche modo manovrare, ma il pubblico, i
lettori mi dicevano come volevano che io lo manovrassi. Mi venne un pensiero
agghiacciante, derivato dal film Misery non deve morire. Se avessi un pubblico di
tre milioni di lettori e non quelli che ho, vuoi vedere che un pazzo lo trovo che mi
costringe a scrivere un libro in cui Montalbano ripudia Livia? Magari è possibile.
Questa calcolata attenzione ai gusti del pubblico è per certi versi palese nei romanzi camilleriani successivi alla fortuna delle prime fiction televisive (1999), dove
l’autore letterario sembra volere, o dovere, adeguare il suo personaggio a quello che gli
schermi televisivi hanno reso celebre. Se in un primo tempo, infatti, erano i lettori di
Camilleri a fare da bacino di utenza a un prodotto televisivo ben più alto della media, e
dunque apparentemente “difficile”, in seguito le parti si invertono: è il pubblico televisivo a leggere i libri di Camilleri, andando alla ricerca dello stesso personaggio che
hanno visto in azione sullo schermo. Così, l’orizzonte d’attesa del pubblico televisivo
finisce per essere attentamente tenuto in considerazione dall’autore letterario, che arriva
a invertire la direzione dell’adattamento: non più dal testo letterario allo schermo televisivo ma, appunto, da quest’ultimo alla pagina. La nozione di trasformazione del personaggio acquista, in questa prospettiva, tutt’altro senso: non più metamorfosi in un percorso dettato da logiche narrative, ma cambiamento legato a motivazioni sociosemiotiche di vario genere – non ultime quelle relative alla ricerca dell’audience (e dei lettori).
Si vedano a questo proposito i romanzi La gita a Tindari (2000) e L’odore
della notte (2001), nonché i racconti raccolti in La paura di Montalbano (2002). Nella
Gita a Tindari, per esempio, Montalbano sembra possedere un poter-fare che nei testi
letterari era precedentemente delegato ai suoi Aiutanti: è in grado di usare direttamente
un grimaldello (Camilleri 2000, p. 30) o un piede di porco (Camilleri 2000, pp. 239241) per introdursi in ambienti rigorosamente chiusi e proseguire da solo le indagini.
Per non parlare del fatto che, di contro all’Oppositore Bonetti-Alderighi, il prefetto di
Montelusa che parla del commissariato di Vigàta come di una “cricca di camorristi”, egli pensa ai suoi uomini – televisivamente – come a “una squadra unita, compatta, un
meccanismo bene oliato dove ogni ruotina aveva la sua funzione e la sua, perché no?,
personalità” (Camilleri 2000, p. 59, c.m.). Nell’Odore della notte, poi, è la televisione
stessa a venire tematizzata: implicitamente, con scene come quella della famiglia Manganaro, che non possono non ricordare una tipica situation comedy (Camilleri 2001, pp.
64-70); esplicitamente, citando trasmissioni precise come “Chi l’ha visto?” (Camilleri
2001, p. 23) e parlando dello stesso Montalbano come di un individuo che appare di
frequente sugli schermi tv, al punto da venire – già da allora – riconosciuto (Camilleri
2001, p. 46). In un racconto della Paura di Montalbano, “Ferito a morte”, la televisione
ha addirittura una funzione veridittiva, quella di rivelare la “vera faccia” di Grazia
Giangrasso, una ragazza apparentemente vittima dello zio ma in realtà sua crudele assassina. Tale funzione è comunque problematizzata, in quanto in questo caso la natura
della tv viene distribuita in modo, per così dire, dialogico fra diversi personaggi, ognuno dei quali rappresenta un differente punto di vista su di essa. Montalbano, innanzitutto, guarda un video amatoriale mandato in onda da un telegiornale locale dove Grazia
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appare diversa dal solito, ma – preso dai suoi ragionamenti – non sa spiegarsene la ragione:
Montalbano strammò. Dove l’avevano pigliato quel video? Non c’era sonoro, si
vedeva la picciotta che travagliava in una cucina che non era quella della casa di
Piccolo. Grazia aveva un vestito piuttosto elegante ed era ben truccata. Si muoveva però come sempre, pareva una gatta innervosita dalla presenza di un elemento
estraneo che poteva rivelarsi pericoloso. Poi la camera zummò sulla sua faccia e il
commissario s’addunò di quanto fosse bella, segretamente e pericolosamente bella. Per un attimo, la telecamera parse avere il potere di rivelare qualcosa di misterioso e invisibile a occhio nudo. Aveva gli stessi lineamenti di certe eroine di pellicole americane western, una fìmmina capace di difendersi a fucilate. Qualcuno
fuori campo le disse di sorridere e lei ci provò, ma le venne fora uno stiramento
delle labbra sui denti bianchissimi, piccoli e aguzzi. Una tigre che soffia minacciosamente. Poi ci fu un altro servizio e il commissario cangiò canale. Ma se qualcuno gli avesse spiato che cosa i suoi occhi stavano taliando, di certo non avrebbe
saputo arrispunnìri, troppo aveva la testa persa darrè a una domanda: come avevano fatto quelli di Televigàta a procurarsi quel materiale? (Camilleri 2002, p. 50)
La spiegazione della fidanzata Livia è stereotipicamente femminile: “vuol dire che
è molto fotogenica”, e accusa Salvo di vedere “la bellezza di una donna solo in fotografia” (Camilleri 2002, p. 51). Quando invece alla fine del racconto Montalbano racconta
ad Augello la vicenda, dicendogli anche del “fatto strammo” della ricezione di Grazia in
tv, il suo vice sostiene: “si vede che la telecamera ti ha rivelato la vera faccia di Grazia.
Da come me l’hai descritta, questa picciotta è proprio un diavolo. E quelli che se ne intendono parlano sempre della bellezza del diavolo” (Camilleri 2002, p. 100). E il testo
conclude: “Montalbano non credeva al diavolo e meno che mai ai luoghi comuni, alle
frasi fatte, alle idee ricevute. Ma per quella volta non protestò” (idib.). Qual è in questo
caso il luogo comune? quello della “bellezza del diavolo” o quello della “vera faccia”
rivelata dalla tv? Probabilmente entrambi, e il testo sembra mantenere appositamente
questa sorta di indecidibilità. In ogni caso, laddove Montalbano non fornisce alcuna
spiegazione al “fatto strammo” della ricezione televisiva, lasciando inespresso il suo
proverbiale potere d’amplificazione metamorfica, a indicarlo è il solito Mimì, ossia –
come risulta in più luoghi – la voce del senso comune.
Il riferimento più esplicito alla televisione, e in particolare alla fiction, si trova
comunque in conclusione all’Odore della notte, nel momento in cui, ricostruendo con
Augello e Fazio le vicende relative all’Antisoggetto ragionier Gargano, Montalbano definisce la sua ipotesi investigativa prima come “un romanzo” (Camilleri 2001, p. 178) e
poi come “uno sceneggiato televisivo” (Camilleri 2001, p. 184). Dice a un certo punto il
commissario ai due colleghi:
“Vogliamo continuare domani con la seconda puntata? Sapete, mi vado addunando strata facendo che più che un romanzo è uno sceneggiato televisivo. Se
l’avessi scritto o stampato, questo romanzo, qualche critico avrebbe sicuramente
detto accussì, macari aggiungendo ‘uno sceneggiato sì e non dei migliori’. Allora?”. La proposta di Montalbano suscitò la protesta dei due unici ascoltatori. Non
poteva lamentarsi dei risultati dell’auditel. Fu costretto ad andare avanti. (ibid).
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Al di là delle metafore interne all’enunciato (la storia di Gargano come romanzo o
sceneggiato), ci troviamo di fronte a una strana forma di metacomunicazione: è l’autore
Camilleri che prende in giro i suoi critici? lo sceneggiatore Camilleri che si vanta del
successo delle fiction tratte dai suoi libri? oppure il personaggio Montalbano che prende
coscienza del suo essere – direbbe sempre Valéry – “di carta” e dunque, in questo caso,
“di luce”? Ovviamente tutte e tre le cose, in quanto ci troviamo già, se pure all’interno
del testo letterario, nella rete traduttiva di tipo sociosemiotico in cui, come s’è detto sopra, non solo autore e personaggio sono sullo stesso piano finzionale (o, che è lo stesso,
reale), nello stesso mondo possibile, ma il personaggio letterario e quello televisivo finiscono per compenetrarsi a vicenda.
3. Un remake intratestuale
Nella Gita a Tindari, poi, c’è una scena in cui la trasformazione in senso televisivo del
personaggio del commissario è evidente. Montalbano, d’accordo col vecchio boss Balduccio Sinagra, deve recarsi in un casolare di campagna per sorprendere il latitante Japichinu, nipote di Sinagra e vicino alla “nuova mafia” che “usa indistintamente kalashinov e computer”. Bisogna cogliere, appunto, di sorpresa un uomo senza scrupoli, pronto
a difendersi e ad attaccare con mitra e bombe a mano. Potremmo immaginarci, data la
conoscenza pregressa del carattere del protagonista, che l’incompetenza del commissario e della sua “squadra” nel procedere a un’incursione venga qui descritta in modo
molto evidente. Ma non è affatto così: Montalbano, televisivamente uomo d’azione,
sembra comportarsi da tale anche in questo frangente letterario, assumendo in prima
persona il ruolo del protagonista nel corso della cattura.
Vediamo in dettaglio che cosa accade nel romanzo in questione. Va detto innanzitutto che la scena, annunciata abbastanza presto nel libro (cap. 7), viene procrastinata
parecchio (cap. 13), creando nel lettore una forte attesa, quasi una suspence. L’ansia
dell’attesa prende anche Montalbano, che addirittura sogna l’episodio prima ancora di
trovarvisi coinvolto. Con l’escamotage di un improvviso colpo di sonno, la scena viene
prima sognata da Montalbano, e subito dopo vissuta. E sia la suspence sia il raddoppiamento finiscono per accentuare il ruolo di eroe del commissario.
Nella prima versione dei fatti a essere sfortunato protagonista è infatti Augello,
che paga con la morte le conseguenze della sua eccessiva impazienza. Eccone il racconto:
Stavano appostati darrè una macchia di spinasanta, le pistole pronte a sparare. Patre Crucillà aveva indicato quella spersa casa colonica come il rifugio segreto di
Japichinu. Però il parrino, prima di lasciarli, ci aveva tenuto a precisare che bisognava andarci coi pedi di chiummo, lui non era certo che Japichinu fosse disposto
a consegnarsi senza reagire. Oltretutto era armato di mitra e in tante occasioni aveva dimostrato di saperlo usare.
Il commissario aveva perciò deciso di procedere secondo le regole, Fazio e Gallo
erano stati mandati darrè la casa.
“A quest’ora saranno in posizione” disse Mimì.
Montalbano non rispose, voleva dare ai suoi due òmini il tempo necessario a scegliere il posto giusto dove appostarsi.
“Io vado” disse Augello impaziente. “Tu coprimi.”
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“Va bene” acconsentì il commissario.
Mimì principiò lentamente a strisciare. C’era la luna, vasannò il suo procedere sarebbe stato invisibile. La porta della casa colonica, stranamente, era spalancata.
Stranamente no, a pinsarci bene: di certo Japichinu voleva dare l’impressione che
la casa fosse abbandonata, ma in realtà lui se ne stava ammucciato dintra, col mitra in mano.
Davanti alla porta si susì a mezzo, si fermò sulla soglia, sporse la testa a taliare.
Poi, con passo lèggio, trasì. Ricomparse doppo qualche minuto e agitò un braccio
in direzione del commissario.
“Qui non c’è nessuno” fece.
“Ma dove ha la testa?” si spiò nirbuso Montalbano. “Non capisce che può essere
sottotiro?”
E in quel momento, sentendosi aggelare per lo scanto, vide la canna di un mitra
nesciri fora dalla finestrella che stava a perpendicolo sopra la porta. Montalbano
balzò in piedi.
“Mimì! Mimì!” gridò.
E s’interruppe, perché gli parse di stare cantando la Bohème.
Il mitra sparò e Mimì cadde.
Lo stesso colpo che aveva ammazzato Augello arrisbigliò il commissario.
Era sempre stinnicchiato sopra i fogli dei giornale, sotto all’ulivo saraceno, assuppato di sudore. Almeno una milionata di formicole avevano pigliato possesso del
suo corpo. (Camilleri 2000, pp. 205-06)
Come è evidente, la scena è raccontata a partire da due diversi sguardi. All’inizio
è all’opera un osservatore esterno, non attorializzato, che vede e descrive le mosse del
commissario e dei suoi uomini nel corso di un appostamento organizzato “secondo le
regole”. Questo primo osservatore dice delle mosse dei vari personaggi, fornendo le necessarie coordinate spaziali per visualizzare la scena (“darrè una macchia di spinasanta”,
“darrè la casa”, “in posizione”, “il posto giusto”). In seguito – agevolato dalla presenza
di un informatore naturale qual è la luna – a vedere è lo stesso Montalbano, che, nascosto dietro il cespuglio, segue nervosamente le mosse avventate del suo vice. Augello,
attante pragmatico, agisce credendo vera la messinscena del latitante (“Japichinu voleva
dare l’impressione che la casa fosse abbandonata”); Montalbano, attante cognitivo, ne
coglie invece la falsità (“ma in realtà lui se ne stava ammucciato dintra, col mitra in mano”). Da qui l’esito cinematografico dell’episodio (“vide la canna di un mitra nesciri fora dalla finestrella che stava a perpendicolo sopra la porta”), nonché le sue conseguenze
passionali, sia sul commissario (“sentendosi aggelare per lo scanto”), sia sul lettore, non
ancora avvisato del carattere onirico dell’intera scena. La citazione pucciniana vela
d’ironia il tutto, senza modificarne però l’esito disforico generale.
Nonostante le dichiarazioni iniziali del testo (“poche [...] risultarono essere le
differenze tra il sogno e la realtà”), la seconda versione dei fatti è molto diversa, non
solo nell’esito finale ma nell’intera costruzione della scena. Ecco il racconto di ciò che
poi accade:
Poche, e a prima vista non sostanziali, risultarono essere le differenze tra il sogno
e la realtà. La spersa casuzza colonica che patre Crucillà aveva additato quale rifugio segreto di Japichinu, era la stessa che il commissario si era insognata, solo
che questa, invece della finestrella, aveva un balconcino spalancato sopra la porta
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macari essa aperta.
A differenza del sogno, il parrino non si era allontanato di prescia.
“Di me” aveva detto “può sempre esserci di bisogno.”
E Montalbano aveva fatto i debiti scongiuri mentali. Patre Crucillà, acculato darrè
una troffa enorme di saggina con il commissario e Augello, taliò la casuzza e tistiò, prioccupato.
“Che c’è?” spiò Montalbano.
“Non mi faccio pirsuaso della porta e del balcone. Le volte che sono venuto a trovarlo era tutto chiuso e bisognava tuppiare. Prudenza, mi raccomando. Non ci
posso giurare che Japichinu sia disposto a lasciarsi pigliare. Tiene il mitra a portata di mano e lo sa usare. “
Quando fu certo che Fazio e Gallo avevano raggiunto le posizioni darrè la casa,
Montalbano taliò Augello.
“Io ora vado e tu mi copri.”
“Cos’è questa novità?” reagì Mimì. “Abbiamo sempre fatto arriversa.”
Non poteva dirgli che l’aveva visto morire in sogno.
“Stavolta si cangia.”
Mimì non replicò, si chiantò col ventotto, sapeva riconoscere, dal tono di voce
del commissario, quando si poteva discutere e quando no.
Non era notte, ancora. C’era la luce grigia che precede lo scuro, permetteva di distinguere le sagome.
“Come mai non ha addrumato la luce?” spiò Augello indicando col mento la casa
al buio.
“Forse ci aspetta” disse Montalbano.
E si susì in piedi, allo scoperto.
“Che fai? Che fai?” fece Mimì a voce vascia tentando d’afferrarlo per la giacchetta e tirarlo giù. Poi, subitaneo, gli venne un pinsero che l’atterrì.
“Ce l’hai la pistola?”
“No.”
“Pigliati la mia.”
“No” ripeté il commissario avanzando di due passi. Si fermò, si mise le mani a
coppo attorno alla bocca.
“Japichinu! Montalbano sono. E sono disarmato.”
Non ci fu risposta. Il commissario avanzò per un pezzo, tranquillo, come se passiasse. A un tre metri dalla porta si fermò nuovamente e disse, con voce solo leggermente più alta del normale:
“Japichinu! Ora entro. Accussì possiamo parlare in pace.”
Nessuno rispose, nessuno si cataminò. Montalbano isò le mani in alto e trasì dintra la casa. C’era scuro fitto, il commissario si scansò tanticchia di lato per non
stagliarsi nel vano della porta. E fu allora che lo sentì, l’odore che tante volte aveva sentito, ogni volta provando un leggero senso di nausea. Prima ancora di addrumare la luce, sapeva quello che avrebbe visto. Japichinu stava in mezzo alla
cammara, sopra a quella che pareva una coperta rossa e invece era il suo sangue,
la gola tagliata. Dovevano averlo pigliato a tradimento, mentre voltava le spalle al
suo assassino.
“Salvo! Salvo! Che succede?”
Era la voce di Mimì Augello. S’affacciò alla porta.
“Fazio! Gallo! Mimì, venite!”
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Arrivarono di corsa, il parrino darrè a tutti, affannato.
Poi, alla vista di Japichinu, si paralizzarono. Il primo a cataminarsi fu patre Crucillà che s’inginocchiò allato all’ammazzato, incurante del sangue che gli allordava la tonaca, lo benedisse e principiò a murmuriare preghiere. Mimì invece toccò
la fronte al morto.
“Devono averlo ammazzato manco un due ore fa.”
“E ora che facciamo?” spiò Fazio.
“Vi mettete tutti e tre in una macchina e ve ne andate. A me lasciate l’altra, resto a
parlare tanticchia col parrino. In questa casa, non ci siamo mai stati, a Japichinu
morto non l’abbiamo mai visto. D’altra parte qua siamo abusivi, è fora del nostro
territorio. E potremmo avere camurrìe.”
“Però...” si provò a dire Augello.
“Però una minchia. Ci vediamo più tardi in ufficio.” (Camilleri 2000, pp. 207-09)
Il testo, di grande complessità, si presenta sin dall’inizio sotto il segno della doppiezza, se non addirittura della triplicità: (i) la casa è abbandonata; (ii) la casa non è abbandonata, ma Japichinu fa finta che lo sia; (iii) la casa è come se fosse abbandonata
perché, là dentro, Japichinu è già morto. C’è insomma un piano di apparenza (Japichinu
fa finta di non esserci, mentre invece c’è) e uno di realtà (Japichinu non c’è, o almeno è
come se non ci fosse). Ogni gesto, ogni pensiero, ogni passione descritti nel testo vanno
pertanto interpretati doppiamente, una volta sul piano dell’apparire e un’altra su quello
dell’essere, creando una serie di incastri e di sovrapposizioni fra segreti (essere e non
apparire), menzogne (apparire e non essere), falsità (non essere e non apparire) e verità
(apparire ed essere), incastri e sovrapposizioni sapientemente manipolati dal vecchio
boss Sinagra e alla fine sanzionati da Montalbano come roba da “tiatro” (Camilleri
2000, p. 212).
All’inizio è padre Crucillà – mediatore fra Sinagra e Montalbano, al tempo stesso
mendace e inconsapevole – a osservare la scena mostrandosi preoccupato; la intende
come una messinscena, ossia come una menzogna: la casa appare abbandonata mentre
in realtà è abitata. Questa prima interpretazione della situazione pone l’intera scena
sotto il segno di una tensione disforica che è destinata è crescere ulteriormente, e che
impone d’agire con prudenza. Il “parrino” resta in tal modo nascosto, non più dietro una
“macchia di spinasanta” ma “darrè una troffa enorme di saggina”, insieme a Augello e
Montalbano.
A quel punto, a guardare è il commissario, che non fissa però lo sguardo sulla casa bensì sul suo vice, al quale impone un cambiamento delle regole: andrà lui avanti e
Augello gli coprirà le spalle. Mimì, voce del banale senso comune, argomenta: “Abbiamo sempre fatto arriversa”; e Montalbano, voce della misteriosa saggezza, replica:
“Stavolta si cangia”: ad agire sarà il commissario, mentre Augello assumerà quel ruolo
di osservatore che nel sogno era ricoperto da Montalbano. Le ragioni che il testo fornisce di questo mutamento (“non poteva dirgli d’averlo visto morire in sogno”) si riveleranno alla fine errate, o quanto meno parziali. Tutte le azioni compiute da questo momento in poi dal commissario inducono infatti a credere che questi avesse sin dall’inizio
inteso la scena in modo diverso da quello di Crucillà: non tanto come una menzogna ma
come una falsità (Japichinu non appare poiché, molto semplicemente, non è), svelando
infine la verità dei fatti (la casa appare abbandonata e lo è) sapientemente costruita
dall’Antidestinante manipolatore Sinagra.
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Tutto il comportamento di Montalbano, se analizzato con attenzione e comparato
con quanto accade nel sogno, è diametralmente opposto a quello precedente di Augello.
Innanzitutto, l’informatore non è più la luna, che permetteva a Mimì di procedere e al
commissario di osservarlo, ma “una luce grigia che precede lo scuro”, la quale permette
a malapena “di distinguere le sagome”. Ma se per Augello questa mancanza di luce viene vissuta come un problema, al punto da domandarsi perché anche la casa ne sia priva
(“come mai non ha addrumato la luce?”), per Montalbano non lo è affatto: “prima ancora di addrumare la luce”, grazie all’attivazione efficace dell’olfatto (canale sensoriale da
lui prediletto in molteplici occasioni) egli sa già che cosa c’è dentro la casa: non Japichinu appostato col mitra ma il suo cadavere con la gola tagliata. In secondo luogo, laddove Augello strisciava, per sollevarsi proprio nel momento di massimo pericolo (“a
mezzo”, “sulla soglia”), Montalbano sin dall’inizio è in piedi e procede allo scoperto,
fermandosi ogni tanto per parlare con il latitante che si suppone sia nascosto all’interno
del casolare. In terzo luogo, Montalbano va avanti disarmato, rifiutando proprio la pistola di Augello (che possiamo inferire questi avesse durante la sua sortita). Ciò, in
quarto luogo, non impedisce al commissario di essere “tranquillo, come se passiasse”,
laddove nel sogno l’avanzare goffamente circospetto di Augello “impaziente” aveva
fatto “aggelare per lo scanto” il commissario che lo guardava. Ulteriore contrapposizione: dopo il ritrovamento del cadavere da parte di Montalbano – il cui percorso era stato
lento, tranquillo e ritmato da pause congiunturali –, gli altri giungono di corsa e affannati, per paralizzarsi però alla vista del cadavere. E Mimì tocca “la fronte al morto”,
contrapponendo ancora una volta all’olfatto del suo capo un ben più prosaico senso del
tatto.
Si comprende in tal modo come le due scene tendano a costruire una contrapposizione molto forte fra l’incapace Augello e l’efficace Montalbano. Ma con
un’inversione rispetto a molti altri luoghi dei romanzi camilleriani. Laddove di solito
Montalbano pensa e capisce mentre Augello, non capendo, si limita ad agire, qui sia la
dimensione cognitiva sia quella pragmatica sono di appannaggio pressoché esclusivo
del commissario; persino la dimensione passionale – entro cui gli altri due personaggi
(Crucillà “prioccupato”, Augello “atterrito”) pure si trovano a essere presenti – si rivela
molto debole, poiché legata a un’interpretazione dei fatti apparente e non reale.
Detto ciò, le azioni di Montalbano hanno nel testo un doppio significato, a seconda se vengono inserite sul piano dell’apparire o su quello dell’essere. Nel primo caso, quello dell’apparire, il commissario si rivela massimamente coraggioso, quasi temerario: entra da solo, disarmato e a testa alta nel casolare dove dovrebbero nascondersi
dei pericolosi malviventi, i cui precedenti penali non lasciano presagire alcuna benevolenza nei confronti della polizia. Fa cioè qualcosa di ben più pericoloso di quanto non
avesse fatto Mimì nel suo sogno. Lo fa perché è uomo d’azione? È così che, appunto,
appare, nel senso teatrale (o televisivo) del termine, e questa apparenza non può non
produrre nel lettore una fortissima suspence. Il momento in cui il commissario, in piedi,
a tre metri dalla porta, ossia praticamente sotto (possibile) tiro, parla a Japichinu è da
questo punto di vista il punto di massima tensione dell’intera scena. Anche se il fatto di
parlare “con voce solo leggermente più alta del normale” fa pensare che egli, in cuor
suo, sapesse già di star parlando da solo o – che è lo stesso – a un morto.
Così, anche se a posteriori, tale comportamento necessita di una seconda interpretazione, questa volta legata al piano dell’essere. C’è da ritenere che Montalbano sapesse già da prima, o quanto meno immaginasse, della triste fine di Japichinu. E che
dunque avesse in qualche modo accettato di recitare nel palcoscenico del “tiatro” che
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Sinagra aveva costruito per lui. La sua tranquillità nel percorrere lo spazio che unisce la
“troffa enorme di saggina” alla porta del casolare non si spiega altrimenti. L’odore del
cadavere (“che tante volte aveva sentito, provando ogni volta un senso di nausea”) è in
questo senso solo una conferma definitiva di quanto egli sostanzialmente già pensava.
Ma come faceva Montalbano a sapere? Il libro non lo dice, né in questa pagina
né altrove. Cosa abbastanza frequente nei libri di Camilleri, il momento clou
dell’agnizione sta in focalizzazione esterna, risultando di fatto inaccessibile al lettore. È
possibile formulare comunque un’ipotesi di risposta, mettendo in relazione le due scene
appena descritte con quella che le precede entrambe: il commissario, subito prima del
sogno, è disteso sotto l’ulivo saraceno dove va a rifugiarsi per riflettere. Quest’albero
(che nell’Odore farà una cattiva fine) ha un po’ la funzione delle passeggiate lungo il
molo di Vigàta o dello scoglio dove spesso Montalbano si ritira in solitudine: una specie
di idilliaco ripiegamento nella natura che, da un lato, lo isola dal contesto sociale e urbano in cui si trova ad agire mentre, dall’altro, gli garantisce una serie di felici intuizioni
circa gli eventi su cui sta investigando. I rami dell’ulivo sono intricati come le piste
dell’indagine, e proprio per questo permettono di guardarle tutte insieme, ricostruendone gli intrecci e le strade senza uscita. Ora, alla fine di due lunghe pagine descrittive,
leggiamo:
Probabilmente fu un leggero colpo di vento che smosse le foglie. Un raggio di
sole improvviso colpì gli occhi del commissario, accecandolo. Con gli occhi inserrati, Montalbano sorrise. Qualsiasi cosa gli avrebbe comunicato in serata De
Cicco, ora era certo che… (Camilleri 2000, p. 205, c.m.)
È insomma l’ulivo (o, meglio, la percezione somatica diffusa che Montalbano ne
ha) a fargli venirgli in mente le idee giuste, spesso addirittura la soluzione del caso di
turno. E qui scatta una certezza riguardante l’altra pista che – come in tutte le sue storie
– il commissario sta seguendo. Ma il raggio di sole che improvvisamente gli colpisce gli
occhi, facendogli chiudere le palpebre, non può non far pensare al suo capire senza vedere (cfr. la saggezza cieca di Edipo), al suo comprendere soprattutto grazie all’olfatto –
anzi, al suo fiuto –, il quale sia nella scena esaminata sia in tante altre scene agisce come
elemento risolutore della vicenda. Sorta di saisie esthétique rurale e forse stereotipa,
l’incontro fortuito fra il raggio di sole (momentaneamente soggetto) e il corpo del commissario (parzialmente oggetto) comporta un incremento cognitivo relativo all’indagine
in corso, ma soprattutto contribuisce a trasformare la figura attoriale del commissario da
personaggio troppo umano a superuomo di massa.
Resta comunque il fatto che, anche se era perfettamente a conoscenza degli eventi, o quanto meno li aveva già intuiti già al momento della siesta presso l’ulivo,
Montalbano si è comportato ben diversamente da altre scene di cattura presenti nei romanzi camilleriani, come per esempio quella di Tano u’ grecu nel Cane di terracotta –
esaminata dettagliatamente altrove (Marrone 2003). In quel caso il commissario si comportava in modo impacciato nel testo letterario e in modo disinvolto in quello televisivo.
Appare evidente che in questa scena – letteraria – si è preferito seguire il testo televisivo.
4. Battaglie con la tv
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Questa tendenza al riadattamento del personaggio letterario a quello televisivo è comunque bilanciata, in altri testi di Camilleri, da una tendenza pressoché opposta: una
specie di reazione alle fiction televisive, cui segue un tentativo di riappropriazione autoriale del personaggio. Il dialogo con la tv permane, ma è di segno inverso. Così, laddove
in televisione il personaggio di Montalbano, affidato all’icona Luca Zingaretti, appare
giovane e aitante, sempre nell’Odore della notte si insiste sui frequenti segni di invecchiamento del commissario, e per la prima volta se ne dà addirittura l’anno di nascita
(cosa che sinora era accaduta solo nel già citato libro-intervista a Sorgi). Ne viene fuori
un effetto di senso preciso: laddove in tv il tempo è come bloccato, e il commissario resta sempre grosso modo un “quarantino”, in questo testo letterario l’età di Montalbano
avanza, provocando un doppio effetto di senso: non solo (dal punto di vista testuale e
narrativo) si trasforma l’essere del personaggio, ma soprattutto (dal punto di vista intermediale e sociosemiotico) lo si distacca dal suo omologo televisivo.
È l’ispettore Fazio, nel corso dell’inchiesta, a darci indirettamente l’età precisa
del commissario: “La signorina Cosentino è sua coetanea dottore. È nata qua nel febbraio del 1950” (Camilleri 2001, p. 199). Cosa che deve trarci in sospetto. Fazio, infatti,
è un personaggio afflitto da quello che Montalbano (anche in questo preciso contesto)
chiama il “complesso dell’anagrafe”: fornisce informazioni precise e dettagliate ma sostanzialmente inutili, e il commissario deve ogni volta bloccarlo per chiedergli di riferirgli solo l’essenziale. Insomma, l’età di Montalbano non ci viene rivelata dal narratore
extradiegetico ma da un personaggio il cui ruolo narrativo specifico è quello di dire cose
prive d’importanza. Inoltre, questa informazione viene fornita, per dirla con Grice, in
modo non perspicuo, ossia senza essere stata richiesta: in quel contesto Montalbano è
interessato esclusivamente alla figura della Cosentino (la quale, fra l’altro, si rivelerà essere proprio il colpevole), mentre Fazio gli risponde parlandogli delle loro rispettive età
che, per puro caso, coincidono. Insomma, possiamo affermare che l’età del commissario
viene costruita dal testo come non pertinente poiché riferita da un soggetto
dell’enunciazione e in un contesto di comunicazione, appunto, non pertinenti. È come se
Montalbano, e con lui il suo autore per così dire ufficiale, volesse e non volesse invecchiare: da una parte accusando i segni di un corpo “non più picciotteddro”, e dall’altra
continuando imperterrito nelle sue imprese televisive (come immergersi solitario
nell’acqua ghiacciata del mare di gennaio).
L’opera che meglio si inserisce in questa specie di reazione camilleriana
all’imperio televisivo è il romanzo (intitolato non a caso) Il giro di boa (2003), nel
quale lo scrittore dà mostra di voler rivendicare tutta la sua autorialità manipolatoria. In
questo libro il commissario appare in modo diverso rispetto ai precedenti romanzi e racconti, non foss’altro perché cambia in maniera abbastanza evidente la sua natura di oggetto semiotico: assume infatti, se pure all’interno di una delle tante storie vigatesi, il
ruolo ormai invasivo di personaggio sociosemiotico, di eroe mediatico che circola fra
testi differenti con le sue intrinseche regole di passaggio dall’uno all’altro. È qui che
viene definitivamente assunto, all’interno della vicenda, il fatto che Montalbano è qualcuno che appare in televisione. Nei romanzi precedenti, partecipare a una conferenza
stampa era per il commissario un’atroce sofferenza, quasi una punizione, al punto che
dinnanzi alle telecamere non riusciva a non essere impacciato e ridicolo. Adesso invece,
per quanto involontariamente, le due prime performance in cui appare nel romanzo vengono regolarmente riprese dalle televisione, mandate in onda, viste e commentate da una serie di telespettatori. La prima volta, il commissario trova un cadavere in mare, lo
lega con il cordoncino del costume da bagno e lo trascina a riva; arriva nudo sulla
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spiaggia e, senza avvedersene, viene fotografato da qualcuno che cede l’immagine a
“Televigàta”, la quale manda in onda la foto sbeffeggiandolo. La seconda volta, mentre
assiste al drammatico sbarco di una nave di immigrati e cattura un bambino che sta
scappando, Montalbano viene ripreso dalle telecamere e riappare nel notiziario della
medesima emittente locale. Quel che è interessante, dal nostro punto di vista, non è però
soltanto il fatto che le azioni del commissario vengano costantemente, per così dire, televisizzate, ma anche e soprattutto il fatto che il testo di Camilleri descriva una dopo tre
versioni dei fatti – quella effettivamente accaduta, quella ricostruita in televisione,
quella raccontata dai telespettatori –, mostrando la rete traduttiva che costituisce la semiosfera mediatica.
Il testo descrive (i) il recupero del cadavere in termini quasi drammatici, sottolineando gli sforzi fisici e lo sdegno morale del commissario; poco dopo (ii) descrive invece il modo in cui questi fatti vengono artificialmente rimontati dalla tv e da lui stesso
visti (“era completamente nudo, la bocca spalancata, l’occhi strammati, la mano a coppa
a cummigliarsi le vigogne”, ibid. p. 31); dopo ancora (iii) racconta come diversi personaggi – Pasquano (ibid. p. 40), Ingrid (ibid. p. 45), Catarella (ibid. p. 48) – in modi
molto diversi gli riferiscono d’aver assistito alla scena e la interpretano variamente. È
altrettanto significativo, inoltre, il fatto che sia in questa occasione sia nell’altra, quella
dello sbarco degli immigrati, ad assistere alla televisione sia giusto Catarella, lo stupido
mediatico per antonomasia (è centralinista, ma senza capire o farsi capire), al punto che
Montalbano gli rimprovera: “Catarè, ma tu passi il tuo tempo libero a guardarmi in televisione?” (ibid. p. 72). Montalbano, insomma, non solo è un personaggio televisivo, ma
ha personale, piena contezza di tale mezzo di comunicazione.
Parecchie volte, del resto, nel Giro di boa la figura del commissario viene esplicitamente presentata non come un personaggio fittizio che “imita” una persona reale,
ma direttamente come un personaggio artificialmente costruito all’interno di un qualche
mondo possibile. Se nella scena finale dell’appostamento alla villa sul mare Montalbano
è descritto all’opera come un James Bond o un Indiana Jones, in molte altre occasioni
questi rinvii letterari e cinematografici sono del tutto espliciti: è un “personaggio da romanzo” (ibid. p. 209), un “protagonista da film comico a tempi accelerati” (ibid. p.
231), “pariva una scena di un film di Quentin Tarantino” (ibid. p. 250), sembra un “lupo
di mare” (ibid. p. 257), si muove come “Gatto Silvestro” (ibid. p. 260), fa “cento passi”
(ibid. p. 261). Al punto che lui stesso, con evidente autoironia, pensa di sé: “In fondo in
fondo, questo tanto criticato culto della personalità non era poi accussì malvagio” (ibid.
p. 246). E Augello – voce del senso comune, quindi della verità mediatica – a un certo
punto esclama: “Ma lo sai che sei un personaggio?” (ibid. p. 169).
A questo livello metasemiotico corrisponde, sul piano dell’enunciato narrativo,
un’evidente trasformazione del personaggio o, meglio, un’intensificazione dei suoi tratti
passionali e una messa in evidenza di quelli somatici, nonché soprattutto un’ipertrofia
del suo ruolo di moralizzatore. Già dalla prima scena del risveglio il commissario appare sdegnato per le notizie che apprende dal telegiornale nazionale, relative ai fatti di Genova e al comportamento degli agenti di polizia in quella occasione, al punto da volersi
dimettere dal corpo di polizia. Il tratto passionale costante di tutto il libro, poi, non è più
l’essere “nirbuso”, come negli altri libri, ma addirittura la “raggia” (ibid. pp. 10, 11,
114, 139, 162). In generale, nel Giro di boa Montalbano appare incattivito, è più violento nei modi, sia verso le cose sia verso le persone, e assume il ruolo del giustiziere
solitario che, al di là di qualsiasi regola o etichetta istituzionali, compie una serie di indagini e scopre i colpevoli, in questo libro più malvagi che mai (importano bambini dal
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terzo mondo per rivenderli, interi o… a pezzi). Alla fine, addirittura, è quasi impazzito,
totalmente fool: “Curri, pi carità, curri. Non lo vedi che il dottore non ci sta più con la
testa?”, dice Fazio a Gallo mentre portano il commissario verso il più vicino ospedale
(ibid. p. 267). (Da cui
Sembra insomma che con questo libro Camilleri abbia voluto rispondere alla
messa in scena televisiva, che fa di Montalbano un ragazzone siciliano pacioso e simpatico, bonario e comprensivo delle stranezze altrui, riappropriandosi del personaggio e
assumendosi, per così dire, la responsabilità della sua trasformazione al tempo stesso
passionale ed etica. Ciò non lo porta, è chiaro, del tutto al di fuori degli schemi (e degli
schermi) televisivi – si pensi alla tematica “buonista” del libro: i bambini –, ma sicuramente va interpretato come la mossa strategica di un autore che rivendica la paternità, e
dunque la personalità, di un personaggio che da tempo non può più, per forza di cose,
gestire in toto.
* Di prossima pubblicazione in: Remake /remix, a cura di N. Dusi e L.Spaziante, Roma, Meltemi 2006.
Bibliografia
Camilleri, Andrea, 2000, La gita a Tindari, Palermo, Sellerio.
Camilleri, Andrea, 2001, L’odore della notte, Sellerio, Palermo.
Camilleri, Andrea, 2002, La paura di Montalbano, Mondadori, Milano.
Camilleri, Andrea, 2003, Il giro di boa, Palermo, Sellerio.
Camilleri, Andrea, 2004, La pazienza del ragno, Palermo, Sellerio.
Camilleri, Andrea, 2005, La luna di carta, Palermo, Sellerio.
Marrone, Gianfranco, 2003, Montalbano. Affermazioni e trasformazioni di un eroe mediatico, Roma,
Nuova Eri/Vqpt.
Sorgi, Marcello, 2000, La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri, Palermo, Sellerio.
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