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NORME IN TEMA DI INDENNITA’ DI ESPROPRIO
E DI DISCIPLINA DELL’EDIFICAZIONE DEI SUOLI
Sommario:
1. Premessa .................................................................................................................... 2
2. La vicenda legislativa dell’indennità di esproprio................................................. 3
2.1. L'indennità di esproprio nella disciplina del testo unico. ................................... 5
2.1.1 La determinazione delle diverse indennità di esproprio. .............................. 6
2.1.2. L’indennità di esproprio di aree edificabili ................................................ 7
2.1.3. L’indennità di esproprio di aree legittimamente edificate. .......................... 8
2.1.4. L’indennità di esproprio di aree non edificabili........................................... 9
2.1.5. L’indennità ordinaria si applica anche all’occupazione appropriativa. ..... 9
3. Contenuti delle sentenze della Corte Costituzionale e della CEDU ................... 12
4. La proposta legislativa............................................................................................ 16
5. Testo Normativo...................................................................................................... 18
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1. Premessa
Il presente studio intende formulare una proposta normativa ragionata a seguito del
“vuoto” determinato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale (n. 348 e n. 349
del 2007) in materia di indennità di espropriazione.
La determinazione della misura dell'indennizzo, dovuto, ai sensi dell'art. 43 terzo
comma Cost., al proprietario espropriando è questione complessa e controversa perché
i diversi criteri nel tempo stabiliti dal legislatore sono stati giudicati incostituzionali
dalla Corte o hanno offerto risposte solo parziali alle necessità.
La stessa Corte Costituzionale, protagonista di una rilevante giurisprudenza in materia,
ha avuto una sua discutibile evoluzione: siamo passati dalle sentenze che definivano
l'indennità come « serio ristoro » o « quasi valore venale » o « equo indennizzo » alla
più modesta definizione (Corte Costituzionale sentenza n. 283/1993) secondo cui è
costituzionalmente sufficiente che l'indennità non si risolva in una misura « meramente
simbolica ».
Anche la normativa introdotta per adeguarsi ai dettami della Corte Costituzionale,
ossia l'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, aveva comunque natura
«transitoria» in attesa della definitiva ed organica disciplina della materia.
Si è così giunti alle soglie del T.U. Espropri senza aver risolto molti problemi tra cui in
particolare la questione della identificazione di criteri certi per distinguere le aree
edificabili rispetto a quelle agricole.
È chiaro infatti che, nell'uno o nell'altro caso, i valori da indennizzare sono molto
differenti.
Le recenti sentenze n. 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale , che travolgono
la misura dell’indennità di espropriazione in Italia, costituiscono nel contempo un
problema e un’opportunità di grande rilievo.
Il problema è dato dal fatto che gli effetti economici, come impatto del debito sul
bilancio pubblico, sono ingenti e non più trascurabili.
Non vi sono stime attendibili ma le sole cause dinanzi alla Corte Europea per i Diritti
dell’Uomo sono alcune centinaia (nella sola sentenza Scordino la stima del maggior
debito supera
il milione di euro) e sono migliaia i contenziosi in materia di
opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione innanzi le Corti d’Appello
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italiane mentre altrettanto numerose sono le controversie riguardanti l’istituto
dell’occupazione appropriativa (per illecito della P.A.).
Non si potrà continuare ad accumulare il debito sotto il tappeto perchè gli effetti delle
sentenze espressamente riguardano tutti i “procedimenti in corso”.
L’opportunità è quella offerta dall’urgenza a provvedere che costringerà il legislatore
ad intervenire in modo sollecito.
Sennonché, nell’affrontare il tema della riscrittura di un indennizzo satisfattivo del
valore di mercato del terreno espropriato, come impone la Corte, sarà utile non
limitarsi alla nuova determinazione del quantum dell’indennizzo ma invece regolare
anche il “contesto” dell’espropriazione, il concetto di “vocazione edificatoria”
dell’area, i vincoli, le forme possibili di compensazione, di perequazione, le misure
utili per marginalizzare le espropriazioni con piani urbanistici non sempre vincolanti e
conformativi: in altri termini, è utile e necessario stabilire norme sulla disciplina delle
proprietà e delle trasformazioni edilizie dei suoli.
Una tale “dimensione” dell’intervento è utile per tre ordini di ragioni.
In primo luogo, perchè non si può abbandonare alle regioni, neppure in epoca di
confuso federalismo, il regime civilistico delle proprietà trasformando la riserva di
legge statale, stabilita dall’art. 42 Costituzione, in “riserva di legge regionale”.
In secondo luogo, perchè è da tempo attesa una legge di principi sul governo del
territorio che invece è arenata al Senato.
In terzo luogo perchè le idee finiscono per rivendicare i loro diritti sulle ideologie e,
dopo decenni di estenuante scontro sul regime dei suoli, combattuto in nome di
opposte ideologie (liberali e socialiste), è tempo di addivenire a soluzioni postideologiche e concrete su una vexata quaestio che non può essere abbandonata solo
per comodità (o sfinimento) dei contendenti.
E’ necessario, in altri termini, stabilire i principi essenziali della misura dell’indennità
di espropriazione e delle nozioni di edificabilità dei suoli e dei relativi vincoli di
gestione.
2. La vicenda legislativa dell’indennità di esproprio.
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Il criterio per la determinazione dell’indennizzo contenuto originariamente nella legge
n. 2359 del 1865, secondo cui il valore di partenza per la determinazione
dell’indennità di esproprio doveva ritenersi quello di mercato, ha subito nel corso del
tempo solo marginali modificazioni fino all'entrata in vigore della legge 865/1971 e
della legge 1/1978.
In particolare, con l'art. 16 della legge 865/1971 il legislatore ha optato per una
radicale riforma dell’istituto attraverso l’introduzione del principio secondo cui il
valore delle aree non edificate doveva essere quello agricolo con la conseguente
applicazione di una stima espropriativa enormemente più bassa del reale valore di
mercato.
Con la nota sentenza n. 5 del 1980, la Corte Costituzionale ha abrogato l'art. 16,
sostenendo che il criterio generalizzato del valore agricolo si manifestava illegittimo in
quanto non vi si teneva conto dell'effettiva consistenza e valore del bene
specificatamente caduto in esproprio.
Negli anni successivi, in mancanza di nuove norme (fatta eccezione per la leggetampone 385/1980 che introduceva il criterio dell'anticipo e del conguaglio
dell'indennità, in seguito dichiarata incostituzionale con sentenza n. 223/1983) veniva
quindi sempre applicata la legge 2359/1865 che, come detto, connetteva l'indennità di
esproprio al «giusto prezzo che avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione».
Le successive disposizioni in tema di quantificazione dell'indennità sono state, infine,
introdotte con l'art. 5-bis della legge 359/1992 che, per espressa dichiarazione
contenuta nell'articolo medesimo, ha dato una soluzione della questione solo
temporanea in attesa che tutta la materia dello jus aedificandi e dell'espropriazione
trovasse una organica sistemazione legislativa.
L'art. 5-bis della legge 359/1992 stabiliva, infatti, che fino all'emanazione di
un'organica disciplina per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere
o interventi da parte o per conto dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni e
degli altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali, o comunque
preordinate alla realizzazione di opere o interventi dichiarati di pubblica utilità,
l'indennità di espropriazione per le aree edificabili fosse determinata a norma
dell'articolo 13, terzo comma della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, sostituendo in ogni
caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli
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articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto
del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. L'importo così determinato
veniva ridotto del 40 per cento.
In ogni fase del procedimento espropriativo il soggetto espropriato poteva convenire la
cessione volontaria del bene evitando così la riduzione del 40% (allo scopo di favorire
l'accordo bonario).
Per la valutazione della edificabilità delle aree si dovevano considerare le possibilità
legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell'apposizione del vincolo
preordinato all'esproprio.
La disciplina dell'art. 5-bis non si discostava di molto dalle soluzioni prospettate nei
disegni di legge degli anni passati (« ...media sul valore venale e sui fitti coacervati
dell'ultimo decennio... ») sicché l'indennità di esproprio risultava pari alla media tra il
valore reale del bene ed il reddito dominicale rivalutato.
La norma fu ripetutamente portata all'esame della Corte Costituzionale fino a quando,
con sentenza n. 283 del 10-16 giugno 1993, la Corte concluse per la sua legittimità.
Un ulteriore elemento, rilevante ancora sotto il profilo economico, consisteva nella
previsione dell'ulteriore abbattimento del venti per cento a titolo di prelievo fiscale
previsto dall'art. 11 della legge 413/1991 (« Disposizioni per ampliare la base
imponibile... ») il quale disponeva che gli enti eroganti, all'atto della corresponsione
delle somme dovute a titolo di indennità di esproprio, di occupazione e relativi
interessi, nonché per cessioni volontarie o per occupazione d'urgenza divenuta
illegittima (quindi a titolo di risarcimento del danno) dovevano operare una ritenuta a
titolo di imposta nella misura del 20 per cento.
2.1. L'indennità di esproprio nella disciplina del testo unico.
Il T.U. Espropri, recependo l’ampio dibattito giurisprudenziale sui criteri per la
determinazione del valore del bene e per la successiva stima dell’indennità, ha definito
chiaramente le regole generali per procedere alla predetta determinazione e recuperare
così il quadro di oggettiva incertezza esistente nel regime previgente.
Innanzitutto, il valore del bene (anche nel caso di espropriazione di un diritto diverso
da quello di proprietà o di imposizione di una servitù) deve essere determinato sulla
base delle sue caratteristiche al momento dell’accordo di cessione o alla data
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dell’emanazione del decreto di esproprio, valutando l’incidenza dei vincoli di qualsiasi
natura non aventi natura espropriativa e senza considerare gli effetti del vincolo
preordinato all’esproprio e quelli connessi alla realizzazione dell’eventuale opera
prevista. La determinazione del valore avviene, altresì, tenendo conto delle
costruzioni, delle piantagioni e delle migliorie esistenti tranne nel caso in cui risulti,
avuto riguardo al tempo in cui furono fatte e ad altre circostanze, che le predette
costruzioni, piantagioni e migliorie siano state realizzate dopo la comunicazione
dell’avvio del procedimento e, quindi, con la finalità di conseguire una maggiore
indennità (art. 32 T.U. Espropri).
Specifiche disposizioni vengono dettate dall’art. 33 del T.U. Espropri per le ipotesi di
esproprio parziale di un bene unitario. In tal caso, il frazionamento del bene e la
successiva realizzazione dell’opera possono determinare delle variazioni di valore che
possono andare a vantaggio o svantaggio sia del proprietario espropriato che
dell’autorità espropriante.
Per quanto concerne il regime fiscale, viene ribadita la previsione di una trattenuta del
venti per cento sull’indennità da corrispondere per l’esproprio di aree (mentre nulla
viene previsto per l’esproprio di immobili esistenti la cui indennità dovrà essere
valutata, ai fini fiscali, secondo il regime ordinario).
2.1.1 La determinazione delle diverse indennità di esproprio.
Il T.U. Espropri distingue diverse fattispecie di indennità prevedendo, per ciascuna di
esse, differenti modalità di calcolo in ragione delle peculiarità di ciascuna. Viene così
definitivamente abbandonata, anche sulla base della costante giurisprudenza
costituzionale, l’impostazione seguita nella legislazione precedente all’art. 5 della
legge n. 359 del 1992 che tendeva ad uniformare i criteri di determinazione
dell’indennità indipendentemente dal valore reale del bene.
Vengono previste tre diverse fattispecie di indennità riferite alle aree edificabili, a
quelle non edificabili ed a quelle edificate legittimamente. A queste se ne aggiunge
una quarta avente natura trasversale rispetto alle altre e relativa all’indennità per
l’esproprio di aree necessarie per la realizzazione di opere di pubblica utilità da parte
dei privati.
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2.1.2. L’indennità di esproprio di aree edificabili.
Occorre innanzitutto evidenziare che la determinazione della natura edificabile
dell’area oggetto dell’esproprio deve avvenire considerando le possibilità legali ed
effettive di edificazione valutate al momento dell’emanazione del decreto di esproprio
o dell’accordo di cessione escludendo ogni rilievo alle eventuali costruzioni ed opere
presenti sul fondo ma realizzate abusivamente.
Sebbene il T.U. Espropri preveda che i criteri e i requisiti per valutare l’edificabilità di
fatto dell’area dovranno essere puntualmente definiti con un apposito regolamento da
emanare con decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti, l’art. 37 detta a sua
volta specifici parametri i quali dovranno essere utilizzati dall’autorità espropriante
fino alla data di entrata in vigore del regolamento medesimo per le attività di verifica
della sussistenza delle possibilità effettive di edificazione.
Il quarto comma dell’art. 37 stabilisce infatti che, escludendo ogni rilievo ai vincoli
aventi genericamente natura espropriativa ed, in particolare, al vincolo preordinato
all’esproprio, non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l’area è
sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o
regionale o alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del
territorio, ivi compresi il piano paesistico, il piano del parco, il piano di bacino, il
piano regolatore generale, il programma di fabbricazione, il piano attuativo di
iniziativa pubblica o privata, anche per una parte limitata del territorio comunale per
finalità di edilizia residenziale o di investimenti produttivi, ovvero in base ad un
qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia precluso il rilascio di atti, comunque
denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata.
L’autorità espropriante, pertanto, dovrà determinare, in considerazione delle
caratteristiche oggettive dell’area, se sussistono le condizioni sia legali, derivanti dalle
previsioni degli strumenti urbanistici, che effettive di edificabilità dell’area medesima.
Compiuta la preliminare operazione di determinazione del valore dell’area, l’indennità
di espropriazione di un’area edificabile dovrà, quindi, essere determinata nella misura
pari all’importo, diviso per due e ridotto nella misura del quaranta per cento, pari alla
somma del valore venale del bene e del reddito dominicale netto, rivalutato ai sensi
degli articoli 24 e seguenti del decreto legislativo 22 dicembre 1986, n. 917, e
moltiplicato per dieci.
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Come visto in precedenza, la riduzione del quaranta per cento non si applica se
l’espropriato abbia accettato l’indennità provvisoria, se sia stato concluso l’accordo di
cessione o se esso non sia stato concluso per fatto non imputabile all’espropriato o,
infine, perché a questi sia stata offerta una indennità provvisoria che, attualizzata,
risulti inferiore agli otto decimi di quella determinata in via definitiva (quest’ultima
previsione consente, molto opportunamente, di non addebitare all’espropriato le
conseguenze dannose di una errata definizione dell’indennità provvisoria riconoscendo
la doverosità dell’opposizione alla stima per evitare un grave pregiudizio economico).
L’indennità è, altresì, ridotta ad un importo pari al valore indicato nell’ultima
dichiarazione o denuncia presentata dall’espropriato ai fini dell’imposta comunale
sugli immobili prima della determinazione formale dell’indennità nei modi stabiliti
dall’art. 20, comma 3 e dall’art. 22, comma 1, e dell’art. 22-bis qualora il valore
dichiarato risulti contrastante con la normativa vigente ed inferiore all’indennità di
espropriazione come determinata in base ai commi precedenti.
Infine, qualora l’area edificabile sia utilizzata a scopi agricoli, spetta al proprietario
coltivatore diretto anche una indennità pari al valore agricolo medio corrispondente al
tipo di coltura effettivamente praticato. La stessa indennità spetta al fittavolo, al
mezzadro o al compartecipante che, per effetto della procedura, sia costretto ad
abbandonare in tutto o in parte il fondo direttamente coltivato, da almeno un anno, col
lavoro proprio e di quello dei familiari.
2.1.3. L’indennità di esproprio di aree legittimamente edificate.
Nel caso di espropriazione di una costruzione legittimamente edificata, l’indennità è
determinata nella misura pari al valore venale del bene, a condizione che l’immobile
sia
stato edificato legittimamente ovvero sia comunque sanabile ai sensi delle
disposizioni vigenti (in tal caso, l’autorità espropriante, sentito il comune, accerta la
sanabilità ai soli fini della corresponsione delle indennità).
Infatti, qualora la costruzione (ovvero parte di essa) sia stata realizzata in assenza della
concessione edilizia o della autorizzazione paesistica, ovvero in difformità dai predetti
titoli, l’indennità è calcolata, secondo le regole previste per le aree edificabili, tenendo
conto della sola area di sedime in base all’articolo 37 ovvero tenendo conto della sola
parte della costruzione realizzata legittimamente.
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2.1.4. L’indennità di esproprio di aree non edificabili.
Nessuna variazione di rilievo si deve segnalare rispetto al sistema previgente per
quanto concerne la determinazione dell’indennità delle aree agricole la quale deve
essere valutata in modo differente nel caso di area effettivamente coltivata da quello di
area con vocazione agricola ma non coltivata.
Nel primo caso, l’indennità definitiva deve essere determinata in base al criterio del
valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del
valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio
dell’azienda agricola, senza valutare la possibile o l’effettiva utilizzazione diversa da
quella agricola.
Se, invece, l’area non è effettivamente coltivata, l’indennità è commisurata al valore
agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona ed al valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati.
In ogni caso, l’art. 40 del T.U. Espropri prevede che per l’offerta iniziale prevista
dall’articolo 20, comma 1, e per la determinazione dell’indennità provvisoria, si
applica il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura in atto
nell’area da espropriare.
Al proprietario coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale spetta
un’indennità aggiuntiva, determinata in misura pari al valore agricolo medio
corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticata.
Spetta, inoltre, una indennità aggiuntiva al fittavolo, al mezzadro o al compartecipante
che, per effetto della procedura espropriativa o della cessione volontaria, sia costretto
ad abbandonare in tutto o in parte l’area direttamente coltivata da almeno un anno
prima della data in cui vi è stata la dichiarazione di pubblica utilità.
2.1.5. L’indennità ordinaria si applica anche all’occupazione appropriativa.
L’indennità stabilita dall’art. 37 si applica anche all’istituto della cd. occupazione
appropriativa, per fatto illecito della P.A.
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La sentenza n. 349 della Corte Costituzionale travolge anche la misura dell’indennità
nei
casi
di
cosiddetta
“occupazione
appropriativa”,
istituto
di
origine
giurisprudenziale.
Con la nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 16 febbraio 1983,
n. 1464, la giurisprudenza ha introdotto in via pretoria l’istituto della cosiddetta
occupazione appropriativa aprendo così la strada ad una più compiuta definizione
normativa avvenuta però soltanto con il T.U. Espropri1.
Secondo la citata sentenza della Corte di Cassazione, successivamente confermata in
numerose pronunce (vedi Cass. n. 1754 del 1983; n. 2689 del 1984; n. 3118 del 1984
e, più recentemente, n. 1725 del 1994 e 3723 del 1995), nelle ipotesi in cui la pubblica
amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata e tale
occupazione sia illegittima, per totale mancanza di un provvedimento autorizzativo o
per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configurava legittima, la
radicale trasformazione del fondo — ove sia ritenuta dal giudice di merito
univocamente interpretabile nel senso dell'irreversibile destinazione di esso al fine
della costruzione dell'opera pubblica — da un lato comporta l'estinzione, in quel
momento, del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo
originario della proprietà del suolo in capo all'ente costruttore e, dall'altro, costituisce
un illecito (istantaneo ad effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere nel
termine prescrizionale di cinque anni, dal momento della trasformazione del fondo nei
sensi prima indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno (2) derivante
dalla perdita del diritto di proprietà mediante il pagamento di una somma pari al valore
che il fondo aveva in quel momento (oltre che del danno derivante dal mancato
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In realtà, il legislatore aveva provato anche in precedenza a disciplinare l’istituto senza però alcun intento sistematico. L'art. 1,
comma 65, della legge 549/1996 (legge finanziaria 1996), sostituendo il 6o comma dell'art. 5-bis della legge 359/1992, aveva espressamente
previsto che le disposizioni del medesimo articolo, aventi ad oggetto i criteri per la determinazione dell’indennità di esproprio, si dovevano
applicare a tutti i casi in cui, alla data di entrata in vigore della legge della medesima legge n. 359/1992 (ossia il 29 agosto 1992), non erano
stati ancora determinati in via definitiva il prezzo, l'entità dell'indennizzo e/o il risarcimento del danno. Con tale disposizione il legislatore
aveva di fatto equiparato gli effetti delle espropriazioni illegittime a quelle realizzate legittimamente, dato che sia l'indennità di esproprio che
il risarcimento del danno si sarebbero dovuti calcolare tenendo conto esclusivamente dei criteri stabiliti dal succitato art. 5-bis. Tale
equiparazione, indotta essenzialmente dalla necessità di risparmio della finanza pubblica, ha suscitato notevoli perplessità poichè eliminava
ogni differenza tra attività lecita e quella illecita della P.A. e ciò in evidente contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione. Ed infatti la
Corte Costituzionale, con sentenza 17 ottobre-2 novembre 1996, n. 369 ha avuto modo di dichiarare l'illegittimità di tale norma mantenendo
per le occupazioni appropriative il regime differenziato di origine giurisprudenziale. Successivamente, la legge 662/1996 (legge finanziaria
1997) ha nuovamente equiparato i due regimi riconoscendo un indennizzo maggiorato del dieci per cento rispetto al criterio dell'art. 5-bis ma
vanificando, di fatto, il principio di tutela del proprietario illegittimamente espropriato del suo diritto..
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Al fine della quantificazione del risarcimento del danno subito a causa della perdita della proprietà di un fondo oggetto di accessione
invertita, il giudice deve tenere conto della modificazione degli strumenti urbanistici intervenuta successivamente all'occupazione, ma prima
della perdita suddetta e, quindi, con riguardo ai terreni aventi destinazione edificatoria, deve valutare le conseguenze dei diversi indici di
edificabilità derivanti dalla sopravvenienza dell'art. 17, della legge 765 del 6 agosto 1967 che, relativamente ai Comuni all'epoca dotati di
piano regolatore generale, ma non di apposito piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata, ha fissato gli indici suddetti con
effetto vincolante anche per le zone in cui lo strumento generale consentiva la realizzazione di superiori volumetrie (Cass. civ., 20 novembre
1993, n. 11474).
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godimento del fondo nel periodo di occupazione illegittima anteriore all'estinzione del
diritto di proprietà privata, durante il quale l'illecito ha carattere permanente e la
prescrizione decorre da ciascun momento di esso), con la rivalutazione per l'eventuale
diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione; con
l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione per pubblica utilità del
fondo, intervenuto successivamente al momento dell'estinzione del diritto di proprietà
privata deve considerarsi del tutto privo di responsabilità da illecito.
Il diritto ad ottenere il risarcimento del danno, quindi, sorge e può essere fatto valere a
partire dal momento in cui siano presenti entrambi gli elementi costitutivi della
occupazione appropriativa, ossia l'illegittimità dell'occupazione e la irreversibile
trasformazione del fondo.
L’art. 43 del T.U. Espropri si è occupato di definire, anche sul piano amministrativo, la
fattispecie dell’occupazione appropriativa evitando così che la dinamica del rapporto
tra la pubblica amministrazione ed il proprietario rimanga limitato al profilo
giurisdizionale. Nel regime precedente, mancando totalmente una previsione
normativa in proposito, l’accertamento della proprietà del bene realizzato e,
soprattutto, la definizione del risarcimento del danno per il privato erano rimessi ad
una pronuncia giurisdizionale ma unicamente nel caso in cui il privato stesso avesse
deciso di agire in giudizio. Nessuna norma, infatti, obbligava specificamente
l’amministrazione a cercare di definire autonomamente gli aspetti connessi alla
occupazione illegittima.
Il citato art. 43 prevede ora che, valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza
un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed
efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre
che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano
risarciti i danni. Il passaggio del diritto di proprietà del bene avviene, conformemente
all’orientamento della consolidata giurisprudenza cui il T.U. Espropri ha fatto
riferimento, in conseguenza della trasformazione dello stesso per la realizzazione
dell’opera pubblica ma ad opera di uno specifico atto emanato dall’autorità
amministrativa. Si tratta di un provvedimento autoritativo di contenuto discrezionale
poiché è rimessa alla medesima autorità la valutazione sulla opportunità di procedere
alla acquisizione medesima del bene in questione.
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L’atto di acquisizione, il quale può essere emanato anche quando siano stati annullati
l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la
pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio, deve dare atto delle circostanze
che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area, indicando, ove risulti, la data
a partire dalla quale essa si è verificata e determinare, conseguentemente, la misura del
risarcimento del danno. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nelle ipotesi
appena esaminate, Il T.U. Espropri stabilisce altresì che il risarcimento del danno deve
essere determinato nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi
di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, tenendo conto
dei criteri, previsti dalle disposizioni di cui all’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7 del
medesimo T.U., per la definizione del valore del bene ai fini della determinazione
della indennità di esproprio. La sentenza n. 349/2007 è tranchant sul punto con
motivazioni assolutamente condivisibili (cui si rinvia nel merito)
3. Contenuti delle sentenze della Corte Costituzionale e della CEDU
Le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte Costituzionale sono state sollecitate
dalle numerose condanne dell’Italia da parte della Corte Europea per i diritti
dell’uomo.
In particolare nella causa Scordino contro Italia, la Corte di Strasburgo con decisione
del 29 marzo, ha stabilito i seguenti principi: a) un atto della autorità pubblica, che
incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze
dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli
individui; b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo
Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di
attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione,
nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla
base dell'espropriazione; c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma
che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la
mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra
non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale; d) in caso di
«espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale
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può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene; e) «obiettivi
legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di
giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato
effettivo». In sostanza, poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione
previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una
somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte europea ha
dichiarato che l'Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e
strutturale dell'art. l del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare
ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali
pendenti davanti alla Corte medesima
La Corte Costituzionale ha colto doverosamente questa occasione per un delicato
esame della natura delle norme della convenzione europea escludendo che esse
comportino, come le norme dei trattati europei, in cui si cede ad organizzazioni
sovranazionali parte della sovranità statale, ai sensi degli artt. 10 e 11 Costituzione, un
rango prevalente sulle norme interne e un obbligo di “adattamento automatico” anche
da parte del giudice e delle pubbliche amministrazioni nazionali, poichè pur sempre
norme di natura pattizia tra Stati che richiedono, in certa misura, norme interposte.
Tuttavia il particolare rilievo della Convenzione sui diritti fondamentali, la
riconosciuta autonomia giurisdizionale della Corte di Strasburgo in merito ad essi, e il
nuovo testo dell’art. 117, primo comma, che vincola lo Stato e le Regioni al rispetto
degli obblighi internazionali, comporta la competenza della Corte Costituzionale in
ordine alla compatibilità costituzionale dell’interpretazione (non della norma ex se)
con gli interessi costituzionalmente protetti.
Sulla base di questa competenza la Corte ha riletto la precedente propria
giurisprudenza, a partire dalla nozione di “serio ristoro” (sent. n. 5 del 1980),
soffermandosi sulla sentenza n. 283 del 1993 ove si affermò che «l’indennizzo
assicurato all’espropriato dall’art. 42, comma terzo, Cost., se non deve costituire una
integrale riparazione della perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del
privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare – non può
essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve
rappresentare un serio ristoro. Perché ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento, per
la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue
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caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso,
secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante
all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al
valore del bene».
Con la sentenza n. 348/2007 la Corte ricorda che in quella decisione ebbe ad affermare
che anche “una sfavorevole congiuntura economica” può conferire un diverso peso ai
confliggenti interessi oggetto di bilanciamento e che questa valutazione è stata
rilevante per concludere sulla non incostituzionalità dell’art. 5-bis legge 359 del 1992.
Come noto l’art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, prescrive, al primo comma, i criteri di
calcolo dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che
consistono nell’applicazione dell’art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n.
2892 (Risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati
dell’ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti
del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n.
917». L’importo così determinato è ridotto del 40 per cento. Il secondo comma
aggiunge che, in caso di cessione volontaria del bene da parte dell’espropriato, non si
applica la riduzione di cui sopra.
Ora però, a giudizio della Corte, la situazione economico-finanziaria del Paese, per
quanto gravata da un forte debito pubblico, non è più quella del 1993 e il diverso
contesto storico giustifica un adeguamento del “serio ristoro” del proprietario
espropriato che riporti la misura dell’indennizzo più vicina al valore venale del bene.
Al riguardo la Corte conclude nel senso che l’art. 5-bis ribadito nell’art. 37 T.V.
espropriazioni, che “prevede un’indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per
cento del valore di mercato del bene – non supera il controllo di costituzionalità in
rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il «serio ristoro» richiesto dalla
giurisprudenza consolidata di questa Corte. La suddetta indennità è inferiore alla soglia
minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in
considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari viene
ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale, la quale – come rileva il rimettente –
si attesta su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che può essere
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imposto in nome dell’interesse pubblico non può giungere sino alla pratica
vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà.
Tuttavia, a giudizio della Corte, si deve “riaffermare che il legislatore non ha il dovere
di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del
bene ablato. L’art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di
proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale». Quest’ultima deve essere posta
dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti i
cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale.
Livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad
essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela
effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra
gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture
necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.”
Ciò premesso, secondo la Corte, valuterà il legislatore se l’equilibrio tra l’interesse
individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e
uniforme, oppure, in conformità all’orientamento della Corte europea, debba essere
realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica
perseguiti. Certamente non sono assimilabili singoli espropri per finalità limitate a
piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma
economica o migliori condizioni di giustizia sociale. Infatti, l’eccessivo livello della
spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di questo
tipo; tale effetto non deriverebbe invece da una riparazione, ancorché più consistente,
per gli «espropri isolati», di cui parla la Corte di Strasburgo.
Con la sentenza n. 349 la Corte estende all’istituto dell’occupazione appropriativa la
censura di incostituzionalità aderendo ai rilievi della Corte di Strasburgo.
La Corte europea nel considerare specificamente la disciplina dell’occupazione
acquisitiva, ha anzitutto premesso e ribadito che “l’ingerenza dello Stato nel caso di
espropriazione deve sempre avvenire rispettando il «giusto equilibrio» tra le esigenze
dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell’individuo (Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982). Inoltre, con
riferimento allo specifico profilo della congruità della disciplina censurata, la Corte
europea ha ritenuto che la liquidazione del danno per l’occupazione acquisitiva
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stabilita in misura superiore a quella stabilita per l’indennità di espropriazione, ma in
una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la
violazione del diritto di proprietà, così come è garantito dalla norma convenzionale
(tra le molte, I Sezione, sentenza 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro s.a.s.; IV
sezione, sentenza 17 maggio 2005, Scordino; IV Sezione, sentenza 17 maggio 2006,
Pasculli); e ciò dopo aver da tempo affermato espressamente che il risarcimento del
danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal
provvedimento illegittimo (sentenza 7 agosto 1996, Zubani).”
In conclusione, secondo la Corte, l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333
del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto
dall’art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un ristoro integrale
del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica
amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto
con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU
e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione.
4. La proposta legislativa
La considerazione di partenza è costituita dalla non ulteriore procrastinabilità della
introduzione del principio di perequazione urbanistica, imposto dal rispetto delle
regole
costituzionali
della
uguaglianza
e
della
imparzialità
dell’azione
dell’amministrazione.
Tale principio, presente ormai in varie leggi regionali e nei piani regolatori più recenti,
pur in assenza di alcun supporto legislativo, richiede necessariamente un intervento
statale perchè la sua introduzione comporta una modifica del contenuto del diritto di
proprietà e del relativo regime di pubblicità.
L’idea guida della proposta è quella di collegare il nuovo criterio di determinazione
della indennità di espropriazione alla perequazione urbanistica, contrapponendo non
più aree agricole ad aree edificabili, ma aree agricole ad aree a vocazione edificatoria.
Queste ultime, infatti, in un sistema di perequazione hanno tutte una medesima
potenzialità edificatoria, derivante dall’accertata loro posizione rispetto all’abitato
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esistente e alle opere di urbanizzazione già realizzate; la effettiva edificabilità di
un’area è altra cosa e, derivando esclusivamente dalla scelta discrezionale
dell’amministrazione in sede di pianificazione del territorio, non giustifica un
indennizzo differenziato. È infatti per un verso del tutto ingiustificato e per altro verso
violativo del principio di eguaglianza che l’amministrazione corrisponda un maggior
indennizzo per un’edificabilità effettiva che essa stessa ha gratuitamente attribuito
all’area e al tempo stesso che il proprietario di altra area avente le medesime
aspettative oggettive di trasformabilità sia invece espropriato a valore agricolo sol
perchè il piano non lo ha incluso tra le zone da edificare.
Costituirà
ovviamente
oggetto
di
valutazione
esclusivamente
politica
la
determinazione concreta del contenuto minimo della proprietà delle aree a vocazione
edificatoria così come la previsione di un potere regionale in materia e la introduzione
o meno di un coefficiente di riduzione del valore ai fini della indennità di esproprio
(divisione per 1,3).
Per quel che riguarda i rapporti pendenti e soprattutto le opere già programmate, è
possibile prevedere una riduzione della indennità di esproprio giustificata con il
collegamento alla proposta riforma dall’indiscutibile carattere di grande riforma
economico-sociale. In tali sensi è la giurisprudenza della CEDU e la indicazione della
stessa Corte costituzionale.
Dunque in questi casi l’indennità può maggiormente discostarsi dal valore venale del
terreno utilizzando un diverso coefficiente di riduzione (1,9 quello proposto).
La presente proposta è completata dall’affermazione di alcuni principi fondamentali, a
nostro avviso, di sicuro rilievo sotto il profilo giuridico ed operativo.
In primo luogo, il principio di trasparenza e di pari opportunità concorsuale nella
negoziazione urbanistica, con particolare riguardo per i progetti di sviluppo di edilizia
intensiva.
Nei piani e nei programmi urbanistici devono essere indicati i criteri e i metodi per
l’individuazione dei corrispettivi richiesti nella negoziazione urbanistica e degli
eventuali indici premiali, in tal modo risolvendo l’attuale caotica prassi, priva di
regole, che determina incertezze e palesi sperequazioni nel planning game.
In secondo luogo si ritiene che l’utilizzazione di criteri estimativi univoci, definiti sulla
base di principi scientifici generalmente riconosciuti quali sono quelli richiamati nel
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Codice delle Valutazioni Immobiliari (Tecnoborsa, 2005), costituisca un ulteriore
fattore di perequazione e possa contribuire in misura determinante all’abbattimento del
contenzioso finalizzato alla determinazione di un « equo indennizzo ».
Per favorire il confronto concorrenziale è altresì proposto che il piano comunale debba
individuare le tipologie di interventi per i quali la determinazione degli oneri dovuti è
libera nel massimo ed è stabilita sulla base dell’effettivo valore dell’intervento
(planning gain), individuando tramite libera contrattazione di mercato, nell’ambito di
procedure di confronto concorrenziale.
Agli stessi fini, e per superare il vincolo della rendita di posizione nei casi sostenibili,
si stabilisce che i comuni hanno la prelazione, da esercitare nelle forme del codice
civile, nell’acquisto delle aree dichiarate di rilievo strategico nei piani urbanistici.
Si tende, anche in tal modo, a marginalizzare l’esproprio e a favorire il confronto di
mercato sulla qualità e sull’offerta economica nei progetti si sviluppo edilizio.
5. Testo Normativo
Nuove norme per la perequazione urbanistica e la determinazione dell’indennità
di esproprio.
Art. 1
La presente legge detta principi fondamentali in materia di perequazione urbanistica e
di indennità di espropriazione per pubblica utilità e determina il contenuto della
proprietà privata delle aree non edificate secondo il principio della perequazione
urbanistica.
Art. 2
1. Ai fini della presente legge si applicano le definizioni che seguono.
2. Area a vocazione edificatoria: terreno astrattamente idoneo alla edificazione,
inserito nel tessuto urbano e già dotato delle opere di urbanizzazione primaria.
3. Area fabbricabile: terreno destinato alla edificazione dal piano regolatore.
4. Area agricola: nozione di terreno non destinato alla edificazione dal piano
regolatore rilevante ai fini della indennità di espropriazione.
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5. Potenzialità edificatoria: densità edificatoria teorica spettante a tutte le aree a
vocazione edificatoria, utilizzabile soltanto su aree fabbricabili.
6. Edificabilità effettiva:volumetria effettivamente realizzabile sull’area in base alla
destinazione operata dal piano regolatore.
Art. 3
1. In attuazione dell’articolo 42, comma secondo, della Costituzione, il contenuto della
proprietà privata delle aree è determinato in funzione della inerente vocazione
edificatoria.
2. Sono aree a vocazione edificatoria quelle già legittimamente edificate, quelle non
edificate cui uno strumento urbanistico attribuisce, al momento della entrata in vigore
della presente legge, destinazione edificatoria nonché quelle in relazione alle quali, per
assenza di vincoli connaturali, per caratteristiche geo-morfologiche e per essere
inserite nel tessuto urbano e dotate delle opere di urbanizzazione primaria, il
proprietario ha acquisito una concreta aspettativa di trasformazione edificatoria. I
Comuni riconoscono la vocazione edificatoria delle aree urbane libere con proprio atto
tecnico di accertamento; la legge regionale può stabilire i presupposti specifici per
l’attribuzione della vocazione edificatoria.
3. Le aree a vocazione edificatoria già legittimamente edificate hanno, relativamente
all’area di pertinenza, una potenzialità edificatoria pari alla volumetria esistente.
4. Le aree a vocazione edificatoria illegittimamente edificate hanno la potenzialità
edificatoria determinata in generale dalla legge.
Art. 4
1. La potenzialità edificatoria delle aree urbane è pari a 0,3 metri cubi per metro
quadrato sia ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio sia ai fini
dell’attuazione del principio di perequazione.
2. Ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione le Regioni possono con legge
stabilire una maggiore potenzialità edificatoria delle aree urbane, comunque non
superiore alla misura di metri cubi 0,5 per metro quadrato.
Art. 5
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1. Nelle aree prive di vocazione edificatoria il proprietario può effettuare le sole
trasformazioni consentite dalle leggi statali di tutela nonché dal piano regolatore.
Art. 6
1. La localizzazione delle volumetrie consentite (edificabilità effettiva) è stabilita dal
piano regolatore.
2. La potenzialità edificatoria non direttamente utilizzabile dal proprietario può dallo
stesso essere trasferita nell’ambito dello stesso Comune su altra area propria o di altro
proprietario, per essere utilizzata fino a concorrenza della volumetria effettiva
attribuita dal piano regolatore.
3. In caso di comprovata impossibilità di acquisto della potenzialità edificatoria
occorrente per realizzare tutta la volumetria attribuita dal piano regolatore alla propria
area, il proprietario può ottenere la potenzialità mancante dal Comune mediante
acquisto a titolo oneroso. I criteri di determinazione del prezzo di acquisto sono
stabiliti dalla Regione in relazione alle caratteristiche dei vari Comuni.
4. La edificabilità effettiva attribuita dal piano regolatore può essere utilizzata solo
nella misura corrispondente alla potenzialità edificatoria di legge, eventualmente
integrata da quella acquisita ai sensi dei due commi precedenti.
Art. 7
1. In caso di variante o di nuovo piano ampliativi delle cubature previste dal piano
regolatore preesistente, la edificabilità effettiva è liberamente realizzabile, senza
necessità di acquisizioni di cubatura, fino a concorrenza della volumetria in
precedenza già attribuita alla medesima area.
2. Qualora la nuova previsione urbanistica sia più restrittiva, la edificabilità effettiva
soppressa viene riconosciuta come potenzialità edificatoria in favore del proprietario
dell’area.
Art. 8
1. Ai fini della determinazione della indennità di espropriazione per opere e interventi
pubblici, le aree si distinguono in aree agricole e aree a vocazione edificatoria.
Art. 9
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1. L’indennità di espropriazione di un’area a vocazione edificatoria è determinata in
misura pari al valore venale del bene, considerato come edificabile nella misura
corrispondente alla sua potenzialità edificatoria; nel caso di espropriazione per opere
pubbliche o per edilizia residenziale pubblica, il valore così ottenuto viene diviso per il
coefficiente 1,3. Con il consenso dell’espropriato, l’indennità può essere corrisposta
anche mediante attribuzione di potenzialità edificatoria da utilizzare su altre aree.
2. Il Ministro delle Infrastrutture determina con proprio regolamento criteri valutativi
vincolanti per la determinazione del valore di mercato delle aree utilizzando i principi
scientifici generalmente riconosciuti.
3. Nulla è innovato per quanto riguarda la indennità di esproprio delle aree agricole.
Art. 10
1. Per le opere e gli interventi di edilizia residenziale pubblica che, alla data di entrata
in vigore della presente legge di grande di grande riforma economico-sociale di
determinazione del contenuto della proprietà fondiaria, siano stati già oggetto di
dichiarazione di pubblica utilità o risultino già inseriti in piani o programmi approvati,
l’indennità di espropriazione è determinata in misura pari all’importo del valore venale
dell’area diviso per il coefficiente 1,9.
Art. 11
1. I procedimenti di negoziazione urbanistica sono retti dai principi di trasparenza e di
pari opportunità concorsuale. Nei piani e programmi sono indicati i criteri e i metodi
per l’individuazione dei corrispettivi richiesti nella negoziazione urbanistica e degli
eventuali indici premiali.
2. Al fine di favorire il confronto concorrenziale, il piano comunale individua le
tipologie degli interventi per i quali la determinazione degli oneri dovuti è libera nel
massimo ed è stabilita sulla base dell’effettivo valore dell’intervento individuato
tramite libera contrattazione di mercato, nell’ambito di procedure di confronto
concorrenziale.
3. I Comuni hanno la prelazione, da esercitare nelle forme previste dal codice civile,
nell’acquisto delle aree dichiarate di rilievo strategico nei piani urbanistici.
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