Progettare l`IRC in riferimento alle Indicazioni didattiche della nuova
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Progettare l`IRC in riferimento alle Indicazioni didattiche della nuova
Progettare l’IRC in riferimento alle Indicazioni didattiche della nuova Intesa nei Centri di Formazione Professionale Roberto Rezzaghi - Bergamo, 2 settembre 2013 Il documento “Linee guida per l’insegnamento della religione cattolica nell’istruzione e formazione professionale” (2012), oggetto della nostra riflessione, fa riferimento al decreto legge 226/05, all’articolo 18, comma 1, dove si legge: “Allo scopo di realizzare il profilo educativo culturale e professionale [ dell’alunno] (…) le Regioni assicurano, quali livelli essenziali dei percorsi” alcune cose, tra le quali, alla lettera “c” “L’insegnamento della religione cattolica come previsto dall’Accordo che apporta modifiche al concordato lateranense e al relativo protocollo addizionale, reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, e dalle conseguenti intese, e delle attività fisiche e motorie”. Resta da capire che senso possa avere un insegnamento confessionale della religione nelle scuole di istruzione e formazione professionale, e in che modo possa davvero concorrere alla realizzazione del Pecup (profilo educativo culturale e professionale). Per rispondere a questi interrogativi possiamo certamente muovere da ciò che dice il documento stesso, e lo faremo; ma non è meno importante capire il contesto all’interno del quale siamo chiamati a declinarne le indicazioni didattiche. Certamente è importante misurarci con quello concreto, pratico, che per noi in Italia consiste nel passaggio dal vecchio ordinamento, ancora sperimentale, al nuovo, sancito dal Decreto Interministeriale dell’11 novembre 2011, che ha recepito l’Accordo in sede di Conferenza StatoRegioni del 27 luglio 2011. Ma ancor di più, a mio avviso, è importante misurarci con l’attuale contesto di pedagogia scolastica, cioè con il pensiero che intende tracciare le caratteristiche ideali di riferimento per l’azione didattica nella scuola odierna. A questo livello, è a tutti noto come ormai non sia possibile eludere il riferimento europeo, che orienta le riforme scolastiche nazionali e trascina anche quella che si sta compiendo in Italia. L’influsso del contesto europeo Per la formazione professionale, in particolare, è d’obbligo il riferimento alla dichiarazione di Copenaghen del 2002, e alla strategia europea da essa avviata per una maggiore cooperazione in materia. Più di recente, su quella scia, i ministri europei per l'Istruzione e la formazione professionale (IFP), delle parti sociali e della Commissione europea competente, il 7 dicembre 2010, a Bruges hanno definito le priorità strategiche per il periodo 2011-2020. Tra altre, in particolare, sei obiettivi principali, che i sistemi dei singoli governi dovrebbero impegnarsi a perseguire entro il 2020. Li richiamo: ¾ rendere l’IFP iniziale un’opzione di apprendimento attrattiva; ¾ promuovere l’eccellenza, la qualità e la pertinenza dell’IFP ai fini del mercato del lavoro. ¾ rendere più flessibili le condizioni d’accesso alla formazione e alle qualifiche, incoraggiando anche la partecipazione all’IFP continua; ¾ promuovere la mobilità internazionale nell’IFP, potenziando per questo anche l’apprendimento delle lingue; ¾ promuovere innovazione, creatività e imprenditorialità, nonché l’uso delle nuove tecnologie; ¾ rendere l’IFP inclusiva, aumentando il contributo alla lotta contro la dispersione scolastica con la capacità di raggiungere e coinvolgere le persone e i gruppi “a rischio”. Qui non possiamo se non limitarci alla enunciazione degli obiettivi, rimandando gli interessati al testo integrale. La sua lettura farà comprendere in modo più chiaro ciò che già dai titoli si intravede: se per un verso c’è una positiva attenzione alla persona, al suo coinvolgimento, alla educazione delle sue motivazioni al lavoro, alla sua crescita continua, per altro verso ci si rende conto che gli interessi europei sono tendenzialmente appiattiti sul livello pragmatico e materiale, dominato dal lavoro, dal profitto e dall’efficienza. Chi viene dalla nostra tradizione italiana di scuola professionale, - pensiamo a quella salesiana ispirata da don Bosco, a quella degli artigianelli di Giovanni Battista Piamarta o altro ancora, non può non avvertire un vuoto d’aria. Non solo per l’assenza di un riferimento al religioso cristiano, che certo non si poteva pretendere nei documenti di una europa, che nella sua carta costituzionale ha rifiutato di riconoscere le radici cristiane; ma già per la povertà del riferimento antropologico. La persona di cui si sta parlando è identificata tendenzialmente con l’individuo produttivo, il lavoratore, e l’educazione che si privilegia assomiglia molto all’“addestramento”. All’interno di questo quadro ideale c’è da chiedersi veramente se abbia senso, e quale senso possa eventualmente avere una disciplina di insegnamento religioso. La scuola italiana, ancorata a un Concordato che non solo la vincola all’offerta di un insegnamento della religione, ma anche a quella di un insegnamento confessionale cattolico, cerca di darsene una ragione. Nelle Linee guida per l’IRC, si afferma che il nostro insegnamento “risponde all’esigenza di riconoscere nei percorsi scolastici il valore della cultura religiosa e il contributo che i principi del cattolicesimo offrono alla formazione globale della persona e al patrimonio storico, culturale e civile del popolo italiano”. Per quel che riguarda la formazione della persona, poi, precisa come “la concezione cristianocattolica del mondo e della vita” possano “qualificare anche l’esercizio professionale”. Non sfugga quell’ “anche”. Il testo dà per scontato che il lavoro sia una dimensione della vita umana, certamente importante, ma prima del lavoratore viene l’uomo, la persona, il soggetto in crescita. Egli non ha solo bisogno di un posto di lavoro, ma prima di un motivo per cui lavorare, anzi prima ancora di un motivo per cui vivere; e ha bisogno che questo motivo sia coerente con le sue aspirazioni umane più autentiche, in rapporto alle quali è impegnato a costruirsi un progetto di vita, non limitato alla carriera professionale. Ma questo, a mio avviso, è ciò che resta in ombra nei documenti europei. Così alla fine anche la dimensione economica finisce per essere stravolta nel suo significato originario. Il termine “economia”, infatti, com’è a tutti noto, deriva dal greco e rimanda alla regola (nòmos) per gestire la casa (oikía), in modo che tutti i suoi membri abbiano i mezzi che servono per la vita personale, relazione, familiare e sociale. Nei documenti europei, invece, sembra che l’economia sia finalizzata alla carriera, alla produttività e al profitto, non al benessere della persona o della sua famiglia. Si veda, tra gli obiettivi da privilegiare – solo per fare un esempio - quello della mobilità, che certo non va d’accordo con la vita di famiglia, che invece ha bisogno di stabilità. Così i mezzi finiscono per diventare fini. In questa ottica, il citato documento europeo, già in apertura, parlando delle “attuali sfide”, identifica due obiettivi prioritari per l’IFP: quello di “contribuire all'occupabilità e alla crescita economica” e quello di “promuovere la coesione sociale”, evitando che giovani ed adulti corrano “il rischio di essere esclusi dal mercato del lavoro”. In realtà, se vogliamo ben guardare, il lavoro non è sufficiente neppure per salvaguardare l’integrazione sociale. Lo devono ammettere, non senza imbarazzo, proprio i paesi europei che hanno conosciuto più massicciamente il fenomeno dell’immigrazione, ed hanno usato in passato il lavoro come strumento di integrazione sociale. In Germania ha fatto scalpore un libro stampato nel 2010, dal titolo “La Germania si disfa, (Deutschland schafft sich ab), con sottotitolo “Come abbiamo messo a rischio il nostro paese”. In esso l’autore, Thilo Sarrazin, si mostra preoccupato per le conseguenze che potrebbero derivare alla Germania dalla combinazione tra il calo dei tassi di natalità e dell'immigrazione di operai da paesi a maggioranza musulmana, ai quali evidentemente non basta dare un buon posto di lavoro perché diventino integrati. I dati rilevati dai sociologi gli danno ragione: più del 50% dei tedeschi tollera poco i musulmani, oltre il 35% ritiene che la Germania sia "sommersa" dagli stranieri e il 10% pensa che dovrebbe essere governata "da una mano ferma". Nell’ottobre 2012, a Potsdam, durante un congresso dei giovani del suo partito A.Merkel ha candidamente ammesso che il modello di integrazione interculturale tedesco è "totalmente fallito".. Ma pensiamo anche a ciò che avviene in Francia, in particolare alle rivolte del 2005 nelle banlieues cittadine, ad opera non tanto degli immigrati quanto di giovani figli di immigrati, cittadini francesi a tutti gli effetti, nati in Francia da genitori nati in Francia, che quindi si potevano immaginare pienamente integrati Ritenere che dare un lavoro sia sufficiente per operare l’integrazione culturale e sociale è una debole illusione. Indubbiamente il lavoro è importante, aiuta l’integrazione, ma da solo non la realizza. Ecco perché nelle Linee guida per l’IRC si legge “Nell’attuale contesto multiculturale, il percorso formativo proposto dall’Irc favorisce la partecipazione ad un dialogo aperto e costruttivo, educando all’esercizio della libertà in una prospettiva di promozione della giustizia e della pace in vista di un inserimento responsabile nella vita sociale e nel mondo del lavoro”. Anche qui non ci sfugga che il riferimento all’inserimento nel mondo del lavoro è all’ultimo posto. Prima viene la capacità di dialogo, la libertà, la promozione della giustizia e della pace. Tutto ciò è in vista innanzitutto dell’inserimento nella più ampia vita sociale, che però deve essere “responsabile” e dunque non supina, vittima acritica delle molte forme di pressione alla conformità, e poi, come parte certo importante di questo processo, viene l’inserimento nel mondo del lavoro. Nel nostro documento potremmo dire di trovarci i fronte ad una sorta di impostazione logica capovolta, rispetto alla pedagogia scolastica dominante: l’inserimento nel mondo del lavoro è visto insieme all’inserimento nella vita sociale, e questa, a sua volta, è l’esito di una maturazione personale che trova il suo cuore in una parola ancora taciuta nell’introduzione, ma già sottintesa, e ripetutamente esplicitata poi, in grassetto, nelle indicazione delle competenze, messa sempre al primo posto, sia nel biennio, sia nella qualifica professionale, sia nel Diploma professionale: quella dell’ “identità” personale e culturale, che l’incontro con la proposta confessionale cristiana ha il compito di far maturare. Questa è un’affermazione forte e coraggiosa del documento, in netta controtendenza nei confronti del pensiero dominante nell’attuale pedagogia scolastica, per la quale avere una identità forte renderebbe incapaci di dialogo e quindi di integrazione, perché esporrebbe al rischio del’integralismo e del fondamentalismo. Umberto Galimberti, autorevole esponente della cultura laica italiana, auspica che i giovani siano liberati da quella che chiama la rigida prigionia alienante dell’appartenenza alla propria tradizione culturale. A suo dire, “in questa clausura (…) possono crescere solo individui ignoranti e perciò intolleranti, perché non hanno mai assaporato il relativismo della propria cultura, della propria fede, delle proprie convinzioni, delle proprie persuasioni” (1). Secondo questo modo di pensare, oggi diffusissimo, si dovrebbe abdicare a ogni confessionalità, e anche l’IRC dovrebbe diventare un insegnamento etico i cui contenuti dovrebbero essere i valori etici socialmente condivisi, che però sono sempre mutevoli. E’ questo l’equivoco che si nasconde anche dietro a una certa enfasi sulla “educazione alla legalità”: infatti, non tutto ciò che è legale è necessariamente morale. Al cuore del problema La povertà di cui soffrono i nostri giovani, prima che economica è culturale: prima che la mancanza di lavoro, è quella dei valori e dei significati sui quali fondare la propria identità personale e di conseguenza il proprio progetto di vita. Senza affrontare seriamente questo tema, di sapore esistenziale, nessun lavoro basterà né al benessere personale né all’integrazione sociale, che vanno di pari passo. Riflettiamo un attimo. Ci si lamenta della crisi economica, che impedisce ai nostri giovani di sposarsi e fare figli; ma si dimentica che la crisi della famiglia occidentale e la denatalità in europa sono iniziate molto prima della crisi economica che oggi sta mordendo. Si dice anche che la crisi economica è la causa della disoccupazione giovanile, ma si trascura il fatto che l’Italia è comunque terra di immigrazione, dove continuano a venire e a trovare lavoro stranieri, che riempiono di figli i nostri gradi scolastici inferiori, e, per quel che ci riguarda più direttamente, i nostri centri di formazione professionale. Nel Mantovano – ma sono sicuro che la cosa avvenga anche altrove - ci sono famiglie con i figli disoccupati, che pagano colf, badanti dei paesi dell’est, indiani per accudire il bestiame e africani per curare le coltivazioni, perché i loro figli non si adattano a fare questi lavori, anche se le moderne tecnologie li rendono ormai poco faticosi e non di rado ben remunerati. Ovviamente, non è giusto generalizzare e nessuno può negare l’esistenza di una dolorosa crisi economica, ma prima o poi bisognerà anche aver il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e ammettere che non siamo solo vittime di un sistema finanziario ed economico che ci strangola, ma anche di una cultura, che ha trasformato i mezzi per vivere in fini per cui vivere. Non è coltivando queste convinzioni in ambito educativo che contribuiremo a risolvere il problema. Qui non si tratta di fare del moralismo a buon mercato, ma di renderci seriamente conto che nell’ultimo mezzo secolo, un’europa alimentata da scuole di “pensiero debole”, ha prodotto pedagogie scolastiche deboli, povere di proposte di senso, perché prima povere di certezze e di valori esistenziali, irretite dal relativismo più volte denunciato da Benedetto XVI, un papa non a caso di cultura mitteleuropea. Per cercare di capire la nostra fragilità e impreparazione di fronte alla crisi economica, prendo le mosse dall’ultimo libro di Chantal Delsol, filosofa e storica delle idee politiche, editorialista di “Le figaro”: una cattolica che ha costruito il suo pensiero politico sul “principio di sussidiarietà” della dottrina sociale della Chiesa: si intitola l’ “età della rinuncia”. In esso afferma testualmente: “Vediamo sotto i nostri occhi mettere in discussione (…) ciò che era stato costruito all’origine del nostro cosmo culturale: per cominciare, l’intuizione dell’idea di verità, che (già con i presocratici) aveva rimpiazzato i miti (dell’antichità)” (2). Questo terremoto, ancora in atto, sarebbe stato innescato dall’Illuminismo, che per passi successivi avrebbe orientato a sostituire l’idea di “verità” con quella di “utilità”, e - in ambito di cultura 1 ) U.GALIMBERTI, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009, p. 379. 2 ) CHANTAL DELSOL, L’âge du renoncement, Cerf, Paris 2011, p. 9. cristiana - l’idea di “storia della salvezza” con quella più laica di “progresso”, concetto pragmatico e materiale. Da questo appiattimento nell’orizzonte utilitaristico, a suo parere, deriverebbe il ritorno a un cosmo culturale, non più costruito attorno alla domanda “perché” si vive, che senso ha la vita; ma all’interrogativo “come” vivere (3), qual è il “protocollo” da seguire. Anche Benedetto XVI, il 24 maggio 2012, rivolgendosi all’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana, lamentava che “Il patrimonio spirituale e morale in cui l’Occidente affonda le sue radici e che costituisce la sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore profondo, al punto che più non se ne coglie l’istanza di verità”. Da questo processo deriva una metamorfosi semantica che investe concetti fondamentali del nostro pensare pedagogico e del nostro operare educativo, soprattutto nell’ambito professionale. Mi limito a considerarne tre: il “lavoro”, la “crescita” e la “solidarietà”. Si tratta di categorie mentali da “rievangelizzare”, cioè da ricomprendere alla luce di una antropologia teologica, capace di arricchirne i contenuti educativi. Primo concetto: il lavoro. Nella concezione cristiana il lavoro umano ha due dimensioni principali, che ci intrecciano. Una è quella penitenziale, e deriva da Gn 3,17ss. Dopo il peccato originale Dio caccia Adamo ed Eva dal paradiso terrestre e dice ad Adamo “Maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita… Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra”. La seconda dimensione è positiva: il lavoro dell’uomo è visto come una collaborazione all’atto creatore di Dio. Nel lavoro, che rende il mondo più umano, la persona esprime la propria genialità, creatività, e in ciò anche il suo essere a immagine e somiglianza di Dio, a differenza di tutti gli altri viventi sulla terra. Negli ultimi tempi, una cultura che ha progressivamente emarginato Dio, visto come antagonista dell’uomo inteso e valorizzato soprattutto come “homo faber”, ha trascinato certa riflessione teologica e la prassi cristiana a enfatizzare questa seconda dimensione del lavoro a scapito della prima. Quante volte, anche noi cristiani, abbiamo sposato la tesi che il lavoro dà dignità alla persona. E’ vero, ma non dimentichiamo che insistendo troppo su questo aspetto, e mettendo in ombra l’altro, finiamo per lasciare intendere che allora chi non lavora, e soprattutto non produce reddito, non ha dignità. Così, ad esempio, non ha dignità il portatore di handicap, che per questo, non a caso, abbiamo sentito il bisogno di definire il “diversamente abile”; non ce l’ha il malato terminale, non il bambino non nato, non la donna che lavora in casa e non prende uno stipendio. Cito, non a caso, temi che sono oggetto di pubblico dibattito, perché nervi scoperti della nostra cultura sociale. In quest’ottica, ovviamente, anche il lavoratore che perde il lavoro o l’imprenditore che vede fallire l’impresa, sono spinti a considerarsi dei falliti: senza dignità. E quando la persona non vede più socialmente riconosciuta la propria dignità, può cadere nella disperazione, e qualcuno può anche essere indotto a compiere gesti estremi. Non sono necessariamente dei pazzi coloro che si suicidano per la perdita del lavoro o il fallimento dell’azienda, come spesso si è tentati di credere, ma casomai vittime di una mentalità culturale impazzita, che può produrre vittime. 3 ) Cfr. Ibid. p. 291. La fede, in realtà, ci insegna che la dignità dell’uomo dipende dal suo rapporto con Dio, non solo e non tanto dal suo lavoro. In un’ottica cristiana, quindi, nessun uomo può essere ridotto a un bancomat per i bisogni materiali, che se si smagnetizza può essere gettato. Ecco, dunque, un primo importante criterio per far fronte alla crisi: la dignità umana va culturalmente ripensata nelle sue forme e nei suoi fondamenti. Il credente è chiamato a farlo muovendo dalla fede; ma anche il non credente può convergere nella direzione di una riqualificazione della dignità umana, anche sulla base di considerazioni puramente sapienziali, di buon senso. E’ evidente a tutti, infatti, che se il lavoro esprime la creatività umana, manifesta anche le sue fragilità ed è motivo di sofferenza: lo è quando il lavoro c’è ed è faticoso; lo è quando c’è ed è usurante, lo è quando c’è ed è mal retribuito; lo è quando non c’è o lo si perde, ma lo è anche quando c’è ed è troppo, al punto da assorbire tutte le energie della persona a danno delle relazioni familiari, amicali, sociali, specie se impegna anche i giorni festivi. Secondo concetto da ripensare: la “crescita”. L’aver trasformato l’idea cristiana di salvezza in quella laica e pragmatica di progresso, ci ha indotto a pensare che le cose debbano costantemente cambiare sempre in meglio, e a intendere il meglio in modo materiale e consumistico. In una pubblicità, che circolava qualche mese fa, si diceva una cosa affascinante: “noi abbiamo vissuto meglio dei nostri genitori e i nostri figli dovranno vivere meglio di noi”. L’affermazione potrebbe essere condivisa; ma che cosa si intende con quel “meglio”? E’ facile intuirlo: maggior produttività, maggior profitto e maggiore ricchezza. Ma è vero che questo basta ai nostri giovani per vivere meglio? Oggi la cronaca è molto attenta ai suicidi legati al mondo del lavoro; ma quelli giovanili sono diffusi da molto più tempo: ad essi ci siamo quasi abituati. Com’è noto, il paese che compete per i primi posti nella triste classifica dei suicidi giovanili, è la Svizzera, icona della ricchezza e del benessere, seguita da altri paesi, tra i quali il nostro, che si fregiano dell’aggettivo “ricchi”. Ma ricchi di che cosa? Certamente di beni materiali, ma non di valori esistenziali capaci di motivare la vita dei loro giovani. Se al suicidio accostiamo la diffusione della droga, lo sballo e le morti del sabato sera, il bassissimo livello di procreazione delle coppie giovani in questi paesi, e quindi la mancanza di speranza e di fiducia nel futuro, abbiamo un quadro sconfortante della nostra società occidentale, della “qualità” di vita che offre e del tipo di “crescita” che insegue. Non ci pensiamo molto, ma prima di esser in recessione economica, il nostro è un paese in recessione demografica. Ciò significa che è anche in recessione etica: non sa più motivare alla vita i suoi giovani. Il nostro patrimonio storico, sociale, economico rischia di essere lasciato in eredità ad altri, agli extracomunitari, che oggi sono più poveri di beni materialmente, ma spesso più ricchi culturalmente, perché attrezzati di motivazioni forti, e per questo meno disorientati, intimoriti e scoraggiati di fronte all’austerità. Il loro approccio mentale li rende più capaci di adattamento alla crisi. Anche su questo punto è dunque urgente un cambio di mentalità. Bisognerà essere capaci di dare un contenuto nuovo alla parola “crescita”, così ricorrente: non può essere solo quella economica, dovrà essere anche quella spirituale ed etica, il cui indebolimento sta all’origine di quella economica. Terzo concetto da rivedere: la “solidarietà”. Contrariamente a quanto molti pensano, il termine “solidarietà” non è biblico, ma filosofico, giuridico e sociologico. È categoria specifica dello “stato sociale” moderno, figlio dell’illuminismo. Nel Nuovo Testamento si parla più propriamente di amore di carità (“agàpe”), che non riguarda tanto il fare, quanto l’essere. Giovanni (1Gv 4,16) dice che “Dio è amore” (“o zeòs agàpe estín”) e Paolo ci ricorda che “se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato ma non ho la carità (“agàpen”), non mi giova a nulla” (1Cor 13,3). Dunque, nel Nuovo Testamento, e di conseguenza nella tradizione della Chiesa, la carità è innanzitutto la partecipazione alla vita di Dio, attraverso l’esperienza spirituale e sacramentale. E’ lui, con la sua grazia, che poi trasforma le persone e le rende capaci di amare il prossimo. Per questo Giacomo può dire “mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2,18). In un contesto come quello odierno, in cui Dio è stato progressivamente emarginato, e la fede è diventata debole, l’ amore di “agàpe” è stato trasformato in “solidarietà”, concetto che rimanda esclusivamente ai rapporti umani e orizzontali, con attenzione soprattutto ai bisogni materiali delle persone. Ma la tradizione della Chiesa trasmette una verità diversa. Nella catechesi la carità era abitualmente insegnata declinando le “opere di misericordia” (4), che per i Padri della Chiesa erano un importante commento di alcuni passi biblici, in particolare quello del giudizio universale (Mt 25,31-46) dove si dice “avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ecc.”. Non ci sfugga che qui a parlare è “Il figlio dell’Uomo”, cioè Cristo: nel povero il credente vede il volto di Cristo, che resta il destinatario ultimo dell’atto di amore. Solo così si vive l’ “agàpe”. Per questo non stupisce che già S.Agostino distingua tra opere di misericordia “corporale” (5) e altre, non corporali. Ai tempi di S.Tommaso, esse sono già nettamente gerarchizzate. L’Aquinate non esita a sostenere che le opere di misericordia spirituale sono superiori a quelle corporali, e che tra tutte le spirituali, la preghiera per chi è nel bisogno, è l’opera di misericordia più importante (6). Se confrontiamo questo insegnamento tradizionale della Chiesa con il modo di pensare odierno, è facile costatare come questa piramide sia stata capovolta. Ai vescovi italiani, Benedetto XVI, sempre nel discorso del 24 maggio2012, ha ricordato “il nostro primo, vero e unico compito rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e ultimo. Gli uomini vivono di Dio”. Operare questa conversione nella Chiesa, dalla solidarietà alla carità, significa riscoprire il primato di Dio e della dimensione spirituale della vita, senza la quale il pane materiale, per abbondante che sia, non sarà mai sufficiente. Gesù ce lo ha detto in modo chiaro: “Non di solo pane vive l’uomo” (Mt 4,4: Lc 4,4); “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33). L’IRC: una via per la riscoperta dello spirituale e dell’umano Alla luce di questi chiarimenti, e a prescindere dalle interpretazioni diverse che pure circolano in modo talora dominante, credo sia importante riscoprire la portata culturale della confessionalità cattolica, come via concreta di accesso al recupero dei fondamentali valori umani e spirituali. 4 ) Ricevute dalla tradizione ebraica, esse erano state arricchite nel Nuovo Testamento dalla novità di Cristo, che ha donato ai suoi discepoli un amore capace di superare i confini angusti dell’appartenenza etnica, caratterizzando in tal senso la vita della Chiesa fin dalle sue origini, chiamata a un amore universale. Paolo può scrivere ai Galati: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 26-28). 5 ) In riferimento a Mt 25 afferma: “Chi compie per Cristo, non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona (…) egli è servo di Cristo” (Omelia 51, 12) 6 ) San Tommaso distingue le opere di misericordia corporale (dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gl’ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gl’infermi, riscattare i prigionieri, seppellire i morti) e le opere di misericordia spirituale (insegnare agli ignoranti, consigliare i dubbiosi [entrambe comprese nel verbo “consule”], consolare gli afflitti, correggere i peccatori, perdonare le offese, sopportare le persone moleste e pregare per tutti. Cfr. Summa Theologiae, II-IIae q. 27-33. Sul primato della preghiera cfr anche II-II, q. 83 E’ ciò che, senza tentennamenti, orienta a fare il documento “Linee guida per l’IRC nell’IeFP”. Trattando delle competenza, dopo aver considerato il confronto con il messaggio cristiano un vettore importante per la scoperta della propria identità personale, e l’elaborazione del proprio progetto di vita, - come già abbiamo visto - il documento auspica, ad un secondo livello di riflessione, che al termine di ogni percorso scolastico si colga il potenziale culturale e morale del contributo cristiano alla vita sociale, muovendo dal quale illuminare di senso anche il mondo del lavoro. ¾ .Al termine del primo biennio il testo dice che “l’allievo è messo in grado di (…) valutare il contributo sempre attuale della tradizione cristiana allo sviluppo della civiltà umana, anche in dialogo con altre tradizioni culturali e religiose”. ¾ Con il conseguimento della qualifica professionale “l’allievo sarà messo in grado di (…) cogliere i segni del cristianesimo e il loro significato nella cultura e nelle tradizioni in relazione alla propria figura professionale”; ¾ Con il conseguimento del diploma professionale “l’allievo sarò messo in grado di (…) cogliere la presenza e l’incidenza del cristianesimo nella storia e nella cultura, per una lettura consapevole del mondo del lavoro ed ella società contemporanea”. Il terzo livello di competenze, poi, riguarda i contenuti specifici della confessionalità cattolica: la conoscenza della bibbia, di Gesù Cristo e del linguaggio religioso cristiano (Primo biennio); i principi del vangelo e della dottrina sociale della chiesa (Qualifica professionale); le fonti del cristianesimo e i suoi contenuti, interpretati nel confronto con il mondo del lavoro e della professionalità (Diploma professionale). Avendo chiari questi riferimenti, le conoscenze e le abilità elencati nel documento potranno essere usate all’interno di percorsi di apprendimento progettati, come dice il testo, “anche attraverso possibili collaborazioni con gli altri formatori”. E’ compito del singolo insegnate, che solo conosce la peculiarità delle diverse figure professionali della scuola in cui opera e le opportunità che ha disposizione, valutare “con chi”, “come” e “con quali didattiche” operare. Durante il suo viaggio aereo verso l’ultima GMG papa Bergoglio esortava: “Non isoliamo i giovani (…) Quando li isoliamo facciamo un'ingiustizia, togliendo loro l'appartenenza a una patria, una cultura, una famiglia». Ma è proprio di questa cultura dell’isolamento che soffrono oggi i nostri giovani: l’isolamento da ciò che è vero, buono e bello. L’auspicio è che il nostro insegnamento sia capace di contribuire a scardinare questa solitudine, che rende i nostri giovani sempre più ripiegati su loro stessi, facilmente strumentalizzabli, più sudditi obbedienti che cittadini responsabili.