Italia-Germania scontro sulla vendita dei tesori di Akragas

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Italia-Germania scontro sulla vendita dei tesori di Akragas
LA SICILIA
18.
ggi
GIOVEDÌ 24 LUGLIO 2014
Cultura
SCAFFALE/1
SCAFFALE/2
Libere evocazioni del ricordo
Caravaggio, profeta nell’arte
E’ un sussurro plasmato dal silenzio dell’urgenza. E’ un frastuono lieve di
evocazioni libere nella rimembranza. E’ un battito che si dissolve nel fremere
remoto di occasionali percorsi o di durevoli tragitti. E’ un intrecciarsi fantastico di
sguardi mutevoli e di fremiti del cuore. E’ “Minime” (Puntoacapo, pp. 35) di
Roberto Agostini. Giornalista, scrittore, ha firmato numerose pubblicazioni come
romanzi, manuali per ragazzi, guide artistiche e opere enciclopediche. Ha
lavorato nell’ambito teatrale, nel mondo dell’editoria, e, inoltre, dirige la scuola
di scrittura omonima presente su Facebook. E in questa, come nelle precedenti
raccolte poetiche, l’autore milanese suggella la sua poesia con uno stile forte, pur
nella delicatezza del verso. Brevi i componimenti dove affiora il sentimento
affettivo tra immagini dettate da un alito di vento leggero, lo stesso che
accompagna i tratti poetici segnati da una pulsante luminosità e da una brevità
espressiva che nulla toglie al fascino del contenuto. “Mi sono visto chiudere. / Ho
chiuso le inferriate, ho serrato le inferriate, la porta è stata chiusa, / è stata già
chiusa. / Il cancello. / I cancelli. / Il racconto: le forme dei racconti. / Sono in cielo,
disponibili e disposte in cieche/ periferie. / Prima della bocca, / pensiero, /.
Pensiero, / per un attimo vicino, / contati gli anni e chiodati.
“La verità di Caravaggio” (Nomos edizioni) è l’ultimo saggio di Giuseppe Fornari. Quale
“nuova” verità da un professore di Storia della Filosofia su un tema, ormai da tempo, ricco
oltre che di approfondite analisi critiche anche di luoghi comuni e approssimazioni?
Ebbene, l’autore non realizza un’incursione filosofica sul pittore e le sue opere ma delinea,
come afferma egli stesso, un percorso di storia del pensiero artistico, pensiero che si è
condensato e tradotto in immagini artistiche. Michelangelo Merisi, in passato bistrattato e
non capito ed oggi troppe volte snaturato in un “artista maledetto”, viene sapientemente
analizzato in questo scritto. Fornari sviluppa la sua ricerca articolandola su alcuni punti
cruciali del percorso artistico e personale del Caravaggio. Da buon intenditore d’arte, con
un approfondito apparato fotografico, non trascura le grandi tesi critiche e polemiche di
Longhi, Berenson, Bologna e Calvesi, delineando i confronti e le influenze artistiche fino ad
arrivare al tragico nodo di vita e opere dell’artista. Ma dalla lettura del saggio emerge che
per comprendere il vero animo, il vero dramma dell’artista, occorre ricercarlo nei suoi
quadri. È un invito, quello di Fornari, a ritornare a guardare, in modo non superficiale,
l’opera stessa, scoprendo come, dopo Caravaggio nulla è rimasto come prima, un dono
tremendo lo ha colpito infliggendogli le sventure di un profeta, ma dandogli del profeta
anche l’irriducibile forza, la capacità di evocare dal Nulla la presenza di Dio.
RITA CARAMMA
ESTER MUSUMECI
Nel 1824 la famosa collezione
Panitteri, 47 vasi greci, fu venduta
a Ludwig di Baviera. Subito dopo i
Borbone proibirono l’esportazione
di reperti archeologici
M CITAZI O N I M
Leopardi
e il “pensare
parlando”
per analogie
FABIO RUSSELLO
ra già Italia-Germania, quando ancora l’Italia – o una parte di essa – si chiamava Regno
delle Due Sicilie e quando ancora la Germania – o parte di essa – si
chiamava Regno di Baviera.
Ed è all’ombra di questo derby
d’Europa, che si dipana tra i secoli,
che si sviluppa la storia simbolo che
poi spinse i Borboni (purtroppo solo
dopo) a emanare severissime leggi
per impedire l’esportazione all’estero di reperti archeologici. Una legge
da cui poi prese anche spuntò quella
emanata dal Regno d’Italia dopo l’unificazione.
La storia comincia da Agrigento
nei primi decenni dell’Ottocento, tra
il 1824 e il 1825 e vede come protagonisti il ciantro (un religioso che
aveva un ruolo nell’ambito del capitolo della cattedrale) Panitteri, agrigentino, e Raffaello Politi, artista siracusano, agrigentino d’adozione nelle
vesti di venditori e il principe Ludwig
I di Baviera che comprò la famosa
collezione Panitteri composta da 47
vasi greci tutti di splendida fattura e
tutti ritrovati tra le rovine di Akragas.
Oggi 35 di quei vasi sono ancora in
parte esposti nella Staatliche Antikesammlungen sulla Koenigsplatz a
Monaco di Baviera. Dodici invece sono andati irrimediabilmente perduti durante la Seconda Guerra Mondiale.
La vicenda - come raccontano le
cronache e anche un ricco carteggio
epistolare conservato negli archivi
storici di Monaco di Baviera – prese il
via nel 1824 quando l’architetto di
corte del principe di Baviera, Leo von
Klenze cominciò il suo viaggio nell’Italia meridionale con un unico incarico: comprare, a nome del principe
Ludwig I di Baviera, reperti archeologici. Forse Ludwig doveva essere rimasto folgorato dai racconti del suo
illustre conterraneo, Wolfgang
Goethe, che solo pochi anni prima
aveva dato alle stampe il suo resoconto del “Viaggio in Italia”.
Bastò che von Klenze arrivasse ad
Agrigento che lo stesso ciantro Panit-
E
ZINO PECORARO
Italia-Germania
scontro sulla vendita
dei tesori di Akragas
teri fiutò l’affare. Era infatti noto negli ambienti «accademici» dell’epoca
che l’architetto bavarese era in cerca
di «materiale» per il suo principe ereditario. E infatti la trattativa venne
avviata agli inizi del 1824, e fu lo
stesso ciantro Panitteri a proporre la
vendita della sua collezione a von
Klenze. Il ciantro Panitteri propose la
vendita della sua collezione a 1600
onze, concedendo persino uno sconto fino a 1400 onze.
Addirittura Ludwig I che, nonostante la sua condizione, non era ricchissimo e che non riuscì ad ottenere un aiuto finanziario dal padre Leopoldo di Baviera, decise di rinunciare all’acquisto di alcuni rilievi egizi
pur di accaparrarsi i vasi agrigentini.
Un’altra offerta per acquistare la
collezione arrivò, denaro alla mano,
anche dal principe di Campo Franco,
ma, secondo le cronache dell’epoca, i
bavaresi infuriati, temendo di perdere l’affare si servirono della mediazione di Raffaello Politi e di Pietro
Bellotti, figlio del console di Baviera a
Napoli.
Raffaello Politi era un pittore siracusano, agrigentino d’adozione, amico di Alessandro Dumas, e che in seguito fu anche nominato console
onorario di Baviera (e i fascisti gli intitolarono – e lo è ancora – un istituto superiore di Agrigento). L’unico a
opporsi all’affare con i bavaresi era
stato Giuseppe Lo Presti, avvocato e
giudice, e dal 1802 pure intendente
alle antichità. La trattativa d’acquisto
si chiuse però ben presto grazie ap-
punto a Bellotti e Politi che costrinsero Panitteri a rispettare i patti.
Il contratto di vendita venne firmato il 23 ottobre del 1824. La spedizione fu effettuata nel marzo del 1825
con un vascello di guerra austriaco.
Una vicenda che fece scalpore non
solo ad Agrigento, ma anche a Palermo. Il ciantro Panitteri fu minacciato
d’arresto più volte dalle autorità borboniche per avere venduto all’estero
la sua collezione. In carcere però non
ci andò mai. Arrivò invece dai Borboni, subito dopo, una legge severissima. Ma nel frattempo i vasi erano
già nelle teche della famiglia reale
bavarese mentre a Giuseppe Lo Presti non rimase che il dispiacere e l’intitolazione di un cortiletto nel centro
storico di Agrigento.
“Aneddoti & Curiosità”
La fiction che narra
la storia del West
La letteratura è stata ed è anche
un modo efficace per raccontare
snodi fondamentali della storia
dell’umanità, cogliere il senso
profondo degli eventi. La fiction
contemporanea degli States,
autentica narrativa post-moderna,
fa rivivere anche la storia.
Abbiamo già raccontato lo
straordinario successo della
miniserie tv “Hatfields & McCoys”
con Kevin Costner. Vi è un’altra
fiction (di più lunga durata) che
merita di essere analizzata per la
sua originalità e per il ritmo
narrativo. Si tratta di “Hell on
Wheels”, una fiction creata da
Tony e Joe Gayton. Ambientata
nella seconda metà
dell’Ottocento, la serie narra una
storia drammatica e non facile: la
vita dura degli operai che
costruirono la grande ferrovia
transcontinentale, destinata a
cambiare il volto degli States, a far
sviluppare l’industria, a porre le
basi per la modernità. La fiction
racconta di operai e padroni,
pistoleri e avventurieri, di scontri e
accordi con gli indiani, di miserie e
conquiste. L’inventiva narrativa
della fiction illumina la storia...
SALVO FALLICA
“LA TRAVERSATA DEL DESERTO” DI MARINETTE PENDOLA
La vita sospesa degli emigrati italiani a Tunisi
È
LA COPERTINA DEL LIBRO
hi ha un minimo di esperienza
con gli scrittori e i poeti del passato prova stupore, ogni volta
che, leggendo il loro pensiero,
si imbatte nella straordinaria e imprevedibile capacità di intuire situazioni, processi, comportamenti, mentalità che troveranno nel tempo successivo la loro
piena consacrazione. Sembra, in certi
momenti, che lo stesso scritto sia criptico anche nella stessa formulazione, oltre
che visionario nel contenuto, quasi che
possa essere compreso e attualizzato
con una semplice sostituzione di parole.
Nell’esperienza di lettura della Zibaldone di Leopardi questa sensazione si
coglie frequentemente. L’altezza d’ingegno del Recanatese, maturata con lo studio “matto e disperatissimo”, produce in
lui una singolare capacità di individuazione di analogie: dal passato al presente; dal lontano al vicino; dal logico al visionario; dal visibile all’invisibile; dal
brutto al bello e viceversa. In questo passo dello Zibaldone, basandosi sulla sua
personale esperienza di studioso e di
infallibile conoscitore delle lingue sia
classiche che moderne, verifica con chiarezza di analisi e con puntualità conoscitiva che il pensiero formulato nella mente acquista perspicuità espressiva e compiutezza semantica, se trova un efficace
corrispondente linguistico. Ma la lingua
deve essere quella che meglio delle altre
comprende la possibilità di denotare con
la parola tutta la potenzialità di significato: pensare in latino, in greco o in francese, per potere esprimere il pensiero con
efficacia. “Il posseder più lingue dona
una certa maggior facilità e chiarezza di
pensare seco stesso, perché noi [95] pensiamo parlando. Ora nessuna lingua ha
forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl’infiniti particolari del pensiero. Il posseder più lingue
e il potere perciò esprimere in una quello che non si può in un’altra, ci dà una
maggior facilità di spiegarci seco noi e
d’intenderci noi medesimi, applicando la
parola all’idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella
nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il
significato chiaro e già noto per l’uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e
ben determinata e circoscritta”. (G. Leopardi, Lo Zibaldone, Einaudi, p. 128).
Il “pensare, parlando” è un gesto molto comune nel nostro tempo – anche se
talvolta nel sentire certi improvvisati
parlatori in pubblico sembra che “il parlare” abbia la prevalenza sul “pensare”.
La moltiplicazione del pensiero, basata
sulla procedura della analogia, crea sempre una vasta mole di idee. Più ampio è
lo spettro conoscitivo, più vasto è il bagaglio linguistico, specie nel nostro tempo,
in cui tutti i fenomeni e le manifestazioni della conoscenza trovano una sintesi
linguistica primaria nella lingua inglese,
ma anche altre lingue contribuiscono a
fornire settorialità espressive. Nella Recherche di M. Proust certe parole sono
usate nel testo francese in lingua italiana,
specie se riferite alla moda o alla pittura.
Il grande scrittore francese “pensava” in
italiano, come sostiene Leopardi.
C
A fianco Saffo e
Alceo del V secolo
avanti Cristi; più a
destra il Ratto
della Marpessa
del 480 avanti
Cristo con le
figure rosse
(Apollo e Idas)
il 31 luglio 1962 quando una famiglia
di sei persone d’origine italiana s’imbarca da Tunisi per raggiungere l’Italia,
dove reinventarsi una vita vicino ad
alcuni parenti. Con sé, porta le quattromila lire
assegnate dal Consolato e pochi oggetti scelti tra
i più cari ed essenziali. Dal 1956, raggiunta l’indipendenza dall’occupazione francese, la Tunisia
del presidente Bourguiba aveva ridefinito progressivamente i diritti civili riservandoli ai locali ed escludendo gli immigrati europei, catapultati in una situazione generale di subalternità e
precarietà lavorativa. L’attacco più duro, nel 1964
con la nazionalizzazione delle terre appartenenti agli stranieri.
L’esodo dalla Tunisia verso Italia e Francia, costituisce una pagina di storia dimenticata che la
studiosa italo-tunisina Marinette Pendola riapre
ne “La Traversata del deserto” (Arkadia, 2014),
biografia romanzata della sua famiglia. La memoria storica è il principale merito di un testo che ha
inevitabili e interessanti rimandi all’attuale
emergenza degli sbarchi
Imbarcati su una grande nave dopo essere stati ridotti allo stato di barboni, il viaggio si rivela
un’odissea. La prima tappa è presso il porto di Palermo. Nonno Francesco, emigrato con Nonna
Marina dalla Sicilia a fine Ottocento, ricorda a
malapena il capoluogo visitato l’ultima volta nel
1916, in occasione della guerra. Della Sicilia e
dell’Italia ancor meno sanno la figlia e il genero,
coi bambini nati e cresciuti a Tunisi. Analogamente la consuocera e la nipote. La lingua e la
cultura francese avevano imperato in Nord Africa, ragione per cui ogni aspetto della cultura italiana che emerge in viaggio risulta loro estraneo,
bizzarro e persino angosciante. Dopo Palermo, lo
sbarco a Napoli, da cui sono temporaneamente
destinati ad Alatri, al Centro Raccolta Connazionali Profughi del Nord Africa. Cruciale, per comprendere il senso di sradicamento di questi conterranei al rientro in Italia, uno dei capitoli finali
in cui si legge la loro visione della campagna
emiliana - una delle più floride al tempo - nel raggiungere Bologna, definita «grigia», spenta, triste.
Condizione atipica quella dei protagonisti, emigrati e immigrati allo stesso tempo, parzialmente stranieri in Nord Africa e totalmente stranieri
in Italia, pur terra d’origine. Uno status che, insieme all’incerto percorso e allo sconosciuto futuro,
proietta i protagonisti in una condizione di grande angoscia. Non è geofisico il deserto attraversato durante la loro fuga, cui si riferisce il titolo del
libro, quanto identitario. Deserto, è qui «lo spazio
simbolico dell’abbandono e della solitudine, del
viaggio e della vita sospesa dell’emigrante».
LUCIA RUSSO