Serbi e albanesi in una terra senza stato
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Serbi e albanesi in una terra senza stato
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” Facoltà di Scienze Politiche Corso di laurea in Scienze Politiche Indirizzo politico-internazionale TESI DI LAUREA in Geografia Politica ed Economica “Serbi e albanesi in una terra senza stato” Tesi di laurea di: Daniele Senzanonna Relatore: Prof. Gianfranco Lizza Correlatore: Prof. Edoardo Boria A.A. 2004/2005 1 Ai miei genitori 2 INDICE Introduzione Capitolo primo Kosovo: “il crimine annunciato” 1. Il Kosovo sotto Tito: dallo “jugoslavismo omogeneo” alle proteste del 1981 2. Nazionalismo e panserbismo: l’ascesa di Milosevic 3. Reazione albanese: la strategia della non-violenza di Rugova 4. Dayton, un’occasione perduta. Nasce l’UÇK 5. Madeleine Albright: la mutazione genetica della Nato 6. Occidente, da mediatore a parte in causa 7. Il fallimento di Rambouillet: via libera all’intervento militare 8. La guerra dal cielo e sulla terra 9. Il mandato internazionale: la Risoluzione 1244 Capitolo secondo La gestione internazionale del “post-conflict” 1. Immediato dopoguerra: il rovesciamento dei rapporti di forza tra albanesi e serbi 2. Non solo serbi e albanesi: le numerose minoranze nel territorio kosovaro 3. Il mandato internazionale 4. Breve analisi della missione internazionale di sicurezza 5. L’architettura dell’intervento: i quattro pilastri A) Pilastro I: Assistenza umanitaria / Polizia e giustizia 3 B) Pilastro II: Amministrazione civile C) Pilastro III: Democratizzazione e institution building D) Pilastro IV: Ricostruzione e sviluppo economico Capitolo terzo Il problema dello “status”: l’approccio della Comunità internazionale e la soluzione secondo i principali attori locali 1. Comunità internazionale: “prima il rispetto della democrazia, poi il dialogo” 2. Scenario 1(federazione): Belgrado: “più autonomia, ma mai indipendenza” 3. Scenario 2 (indipendenza): Pristina: “indipendenza, unica soluzione accettabile” 4. Scenario 3: il progetto “pan-albanese” Capitolo quarto Gli scenari futuri secondo i principali osservatori internazionali 1. Il Kosovo nello scacchiere geopolitico internazionale 2. International Crisis Group: “Kosovo, indipendenza al più presto!” 3. L’appello di Transitions Online 4. L’Europa come chiave di volta (la proposta della Commissione Internazionale sui Balcani) 5. Una proposta di divisione 4 Conclusioni Allegati: 1. Risoluzione 1244 (Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) 2. Constitutional Framework for Provisional Self-Government 3. Standards for Kosovo Lista delle carte geografiche e degli schemi Lista degli acronimi Bibliografia 5 6 Introduzione La guerra del Kosovo del 1999 costituisce il drammatico epilogo della secolare rivalità serbo-albanese su questo territorio e, allo stesso tempo, l’ultimo episodio della cosiddetta “guerra dei dieci anni”, causata dalla dissoluzione dell’ ex Jugoslavia. L’incontro di questi due fenomeni è alla base dello scatenarsi di una crisi che si palesa a cominciare dagli anni ’80 e che - a distanza di più di cinque anni dall’intervento della NATO - non si è ancora conclusa. La rivalità serbo-albanese ha radici davvero lontane e la storia del Kosovo è stata oggetto di interpretazioni varie, che spesso oscillano tra due estremi: le tesi serbe e quelle albanesi. La storia ha giocato un ruolo fondamentale nel determinare il destino di questa regione, soprattutto perché si è trattato di una storia interpretata, mitizzata e infine utilizzata a vari fini. Il Kosovo, nella memoria nazionale del popolo serbo, costituisce la culla della cultura serba, in quanto nucleo del celebrato regno medievale e sede di numerose chiese, monasteri e soprattutto del patriarcato di Pec. Il Kosovo è inoltre la terra dove, nel 1389, si è combattuta – e si è persa – la battaglia della Piana dei Merli (Kosovo Polje), che segna il collasso dello stato medievale serbo e preclude alla sottomissione all’impero ottomano. Può apparire bizzarro che un popolo costruisca la propria identità su di una sconfitta, celebrando il giorno di san Vito - 28 giugno – come una festa nazionale. Ma, nella mitologia, questo momento fa per sempre dei serbi un popolo eletto. La leggenda narra infatti che il principe Lazar, al comando delle truppe serbe, fu raggiunto alla vigilia della battaglia da un falco (o dal profeta Elia, a seconda delle versioni) che gli chiese di scegliere tra vittoria sul campo e regno della terra o sconfitta e regno dei cieli. Lazar scelse quest’ultimo: in tal modo – sconfitto dal sultano Murad –consacrò il suo popolo ad un destino celeste. 7 Questo il mito. Numerosi studi hanno messo in luce aspetti capaci di “smitizzare” questi episodi (ad esempio il fatto che è assai probabile che molti albanesi fossero presenti nelle file di Lazar e, d’altra parte, non è escluso che alcuni serbi combattessero a fianco di Murad). Tuttavia ciò che ha pesato nelle vicende balcaniche non è stata la verità storica, ma la memoria mitizzata che di essa hanno avuto i popoli di queste terre. E così, con gli albanesi trincerati dietro la teoria che li fa discendere dagli illiri – rendendoli in quanto tali abitanti del Kosovo “da sempre” – lo scontro etnico, come risultato delle strumentalizzazioni del nazionalismo ottocentesco serbo, prima, e albanese, poi, diviene “atavico”. E l’interpretazione della storia di questa regione non si ferma alle vicende del XIV secolo. Tuttavia, pur nella consapevolezza dell’importanza che la memoria storiconazionale ha avuto nel determinare il destino e la crisi del Kosovo, in questa tesi si è deciso di non addentrarsi nel campo - per altro già largamente battuto – dell’analisi storica, privilegiando uno studio geopolitico della guerra del 1999 e soprattutto della realtà attuale, allo scopo di fare delle “previsioni” sul futuro di questa regione. Coerentemente con questa prospettiva e con l’idea che la crisi del Kosovo degli anni novanta si inserisce nel processo di dissoluzione della exJugoslavia, si è scelto di studiare le dinamiche di questa crisi partendo dalla condizione del Kosovo nella Jugoslavia di Tito. Il progetto di questa tesi nasce a seguito di un viaggio di studio fatto in Serbia nell’ottobre del 2003. Oggi, come allora, la crisi è tutt’altro che risolta. Nei primi anni del dopoguerra, la comunità internazionale ha tentato di affrontare le drammatiche conseguenze del conflitto con un approccio che tendeva a rimandare la soluzione del problema dello status. Tuttavia, tra gli osservatori internazionali prevale oggi la convinzione che lo status quo sia ormai insostenibile e che sia necessario avviare un processo capace di definire il futuro del Kosovo. 8 E’ in questa prospettiva che l’analisi geopolitica si pone oggi come la più adatta allo studio della “questione Kosovo”, perché capace di cogliere le molteplici sfaccettature di una crisi che vede coinvolti, oltre alle parti direttamente interessate, numerosi attori internazionali. Inoltre, è nella dimensione geopolitica che la tematica dello status del Kosovo appare in tutta la sua complessità. Per tre motivi: primo, perché si è convinti che sarà possibile trovare una soluzione duratura solo se si sarà capaci di avviare un processo che coinvolga il Kosovo come parte di un contesto regionale in equilibrio precario, quale è quello balcanico. Secondo, perché la possibilità di creare un assetto sostenibile dipenderà in modo sostanziale dall’abilità della Comunità internazionale di gestire un così difficile processo. Terzo, perché la dimensione geografica e lo studio del territorio costituiscono il dato di partenza per qualsiasi futuro assetto. Il lavoro di questa tesi è stato diviso in quattro capitoli. Nel primo capitolo si sono delineate le fasi principali della “questione Kosovo”, dagli anni della Jugoslavia di Tito all’intervento della NATO nel 1999. Alla fine degli anni ’80, le ambizioni autonomiste degli albanesi si scontrarono con l’ascesa al potere di Slobodan Milosevic, colui che fece del nazionalismo e del mito del Kosovo le leve di una spregiudicata politica di creazione del consenso. All’instaurazione di un regime di stampo coloniale, la reazione albanese – guidata da Ibraim Rugova – si attestò su una strategia della non-violenza. Tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, il Kosovo fu caratterizzato da un “equilibrio instabile”, fondato su una sorta di reciproco apartheid tra le due comunità. Tuttavia, nella seconda metà degli anni ’90, a seguito della conclusione degli accordi di Dayton, iniziò quel processo di escalation della tensione che portò prima allo scontro armato tra Belgrado e il neonato Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK), poi – attraverso varie fasi – all’intervento della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava. 9 Il primo capitolo si chiude con l’analisi della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, documento fondamentale che delinea il mandato dell’intervento collettivo internazionale in Kosovo. Il secondo capitolo si propone di analizzare la gestione internazionale del “post-conflict”, partendo da una descrizione delle dinamiche che si scatenarono nell’immediato dopoguerra (con particolare riferimento alla duplice ondata di violenza che ha visto vittime prima la popolazione albanese e poi quella serba). Dopo aver fornito una panoramica delle condizioni di vita delle numerose minoranze presenti sul territorio kosovaro, si passa al punto centrale di questo capitolo: l’analisi dell’intervento internazionale che ha fatto del Kosovo una sorta di protettorato internazionale. Vengono dunque analizzate la struttura e le funzioni svolte dalla missione internazionale di sicurezza (la KFOR) e soprattutto si propone un bilancio dell’azione compiuta dalla missione internazionale civile (l’UNMIK). Un’ampia sezione è dedicata proprio allo studio delle funzioni assunte dall’UNMIK, tentando di valutare i progressi fatti in ciascuno dei quattro pilastri che costituiscono l’architettura dell’intervento. Coerentemente con l’obiettivo di questa tesi, si è prestata particolare attenzione al processo di creazione di strutture di autogoverno e alle dinamiche del potere nel Kosovo del dopoguerra. Con il terzo e quarto capitolo, si entra nel cuore del tema di questa tesi: la soluzione della questione dello status del Kosovo. Prima di tutto, si è descritto l’atteggiamento assunto dalla Comunità internazionale, che – con un approccio sintetizzabile nella formula “standards before status” - ha scelto di condizionare l’apertura dei dialoghi al rispetto dei principi di democraticità tipici della società occidentale. In seguito, sono state esposte e comparate le posizioni assunte dai principali attori locali (serbi e albanesi) nel dibattito sullo status. Attraverso la lettura di risoluzioni, documenti ufficiali e di interviste ai protagonisti di questo processo politico, questa tesi presenta quelle che dovrebbero essere le argomentazioni da presentare al tavolo delle trattative. In tal senso, ciascuna 10 proposta descrive un diverso scenario per il futuro del Kosovo. Tra le diverse ipotesi spicca, per capacità di rivoluzionare l’assetto dell’intera regione balcanica, il progetto pan-albanese (al cui studio è stata dedicata una sezione a parte). Avendo descritto gli scenari prospettati dagli attori locali, il quarto capitolo è invece dedicato alle analisi e alle proposte lanciate dai principali osservatori internazionali. E così che, dopo aver ipotizzato quale potrebbe essere la collocazione geopolitica di un Kosovo indipendente nel prossimo futuro, si è scelto di esaminare le posizioni espresse da International Crisis Group, Transitions Online, Osservatorio sui Balcani, International Commission on the Balkans e da altri studiosi. Ovviamente, si è tentato di valutare quale possa essere la soluzione più auspicabile. Prima di chiudere questa introduzione, occorre fare ancora due considerazioni. Primo, per quanto riguarda le fonti utilizzate, esse sono costituite da vari tra testi di numerosi studiosi, documenti ufficiali prodotti dalle parti interessate, dossier e report pubblicati da vari gruppi di studio internazionali. Ulteriore fonte di notizie e di approfondimento, sono state alcune preziose interviste condotte dall’autore di questa tesi con vari studiosi e giornalisti italiani e stranieri, specializzati nelle problematiche dei Balcani. Un ultima precisazione, che attiene alla semantica. Nei Balcani l’uso della lingua assume un valore geopolitico imparagonabile rispetto a quanto accade nelle altre regioni d’Europa. Anche per quanto riguarda il Kosovo, l’opzione sul nome rischia di essere una scelta di campo. Per gli albanesi, è “Kosova” (trascrizione dell’albanese “Kosóvë”). Per i serbi è “Kosovo”, o meglio “Kosovo -Metohija” (spesso abbreviato in “Kosmet”), dove “Kosovo” vuol dire “merlo” (con riferimento alla Piana dei Merli, Kosovo Polje) e “Metohija” deriva dal greco “ta metocia”, termine che indica i beni ecclesiastici (nella fattispecie i vasti possedimenti del monastero patriarcale di Pec). In italiano, in passato, era in uso la dizione “Cossovo” (recentemente sostituita da “Kossovo”). In questa tesi, si è scelto di utilizzare la dizione “Kosovo” 11 semplicemente perché la più frequente nella pratica internazionale. Anche per quanto riguarda gli altri toponimi della geografia kosovara le opzioni sono, quanto meno, due e in ambito internazionale non si è ancora pervenuti ad una dicitura accettata da tutti. Pertanto, in questa tesi si è scelto di utilizzare di volta in volta le dizioni più comuni a seconda dei toponimi citati, preferendo non appesantire il testo con un dizione doppia. Ad ogni modo, la scelta non implica alcuna presa di posizione. 12 CAPITOLO PRIMO Kosovo: il crimine annunciato “Si dice spesso (e lo si dimentica ancor più spesso…) che la guerra nell’ex Jugoslavia è cominciata nel 1981 nel Kosovo. E che finirà nel Kosovo. Il Kosovo è dunque un crimine annunciato, e i crimini annunciati sono i più terribili di tutti”. Ismail Kadaré, Kosovo. “Le crime annoncé”, Esprit, giugno 1993 1. Il Kosovo sotto Tito: dallo “jugoslavismo omogeneo” alle proteste del 1981 All’indomani della seconda guerra mondiale, in Kosovo l’assunzione del potere da parte dei comunisti di Tito si rivelò problematica. Il Partito Comunista Jugoslavo (PCJ) non aveva raccolto grandi consensi in Kosovo, soprattutto a causa dell’ atteggiamento ambiguo assunto nei confronti della questione delle nazionalità. Di fatto, quando nell’autunno del 1944 la Wehrmacht abbandonò i Balcani, furono i nazionalisti albanesi del Balli Kombetar – e non i partigiani di Tito - ad assumere il controllo del Kosovo. Nell’inverno 1944-45, il Balli Kombetar organizzò una rivolta, con epicentro a Drenica, che le autorità comuniste riuscirono a soffocare solamente 13 instaurando l’amministrazione militare sull’intero territorio del Kosovo.1 Dopo alcuni mesi di violente battaglie e anche grazie all’aiuto dei partigiani albanesi di Enver Hoxha, i titini riuscirono ad assumere il potere nella regione. In questo contesto, i comunisti del Kosovo si erano trovati ai margini del sistema politico emergente: non essendo presenti alla riunione di Jajce, durante la quale furono gettate le basi del sistema federale jugoslavo, organizzarono - a cavallo tra il 1943 e il 1944 - una propria conferenza a Bujane, presso Prizren. Tale conferenza si concluse con l’approvazione di una storica risoluzione in cui si dichiarava che il Kosovo -Metohija era una regione abitata in maggioranza da albanesi che da sempre desideravano l’unione con l’Albania. La popolazione locale veniva così incitata ad intraprendere, in comune con gli altri popoli jugoslavi, la lotta contro gli invasori, invocando la facoltà di ciascun popolo di determinare il proprio destino, cioè il diritto all’autodeterminazione, incluso quello alla secessione.2 La risoluzione fu immediatamente contestata dal Partito Comunista Jugoslavo: lo stesso Tito la tacciò di “anti-jugoslavismo” e quarant’anni dopo fu addirittura dichiarata nulla per una serie di vizi di forma. Ad ogni modo, come sottolinea Marco Dogo, l’importanza di quest’atto stava nel fatto che per la prima volta fu data “voce in forma nobile – e, si direbbe, più ingenua che maliziosa – a motivi e orientamenti etnici spontanei tra i kosovari”3, tanto che proprio a questa risoluzione si sarebbe richiamato il governo provvisorio della “Repubblica Kosova” quando – nel 1991 – fece appello all’Unione europea per essere riconosciuta come repubblica4. Di fatto, Tito non prese mai in considerazione l’eventualità di una separazione del Kosovo dalla Jugoslavia e, nel gennaio del 1945, i governi jugoslavo e albanese firmarono un trattato che sancì il mantenimento del “Kosovo -Metohija” all’interno della Jugoslavia. Come già accaduto nel primo 1 Marco Dogo, “Kosovo. Albanesi e serbi: le radici del conflitto”, Marco Editore 1992, pag. 329 Thomas Benedikter, “Il dramma del Kosovo”, DATANEWS 1998, pag. 42 3 Marco Dogo, op. cit. pag. 328 4 Thomas Benedikter, op. cit. pag. 44 2 14 dopoguerra, questa decisione fu presa senza interpellare la popolazione locale.5 D’altra parte, allora si discuteva ancora dell’eventuale fusione di Albania, Jugoslavia e Bulgaria in una sorta di grande confederazione balcanica. Fu solamente nel 1948, in seguito alla rottura tra Stalin e Tito, che tale progetto divenne definitivamente irrealizzabile e la frontiera tra Kosovo e Albania si chiuse ermeticamente. Secondo le direttive della dirigenza comunista jugoslava, la costituzione del 1946 dette alla Jugoslavia socialista un assetto federale. Sebbene la struttura dello stato come federazione di sei Repubbliche fosse stata decisa dalla dirigenza comunista già nel 1943, la decisione sullo status del Kosovo risultò più problematica. Nel settembre del 1945 l’“Assemblea del popolo” della Serbia varò due leggi con cui furono istituite la “provincia autonoma della Vojvodina” e la “Regione autonoma del Kosovo”. Tale decisione fu poi recepita dalla costituzione del gennaio 1946. La differenza tra regione (“oblast”) e provincia (“pokrajina”) non fu mai chiarita in termini giuridici, ma di fatto si può dire che la prima fosse gerarchicamente inferiore alla seconda. Con riguardo al Kosovo, la storia della Jugoslavia titina può essere analizzata in due fasi distinte, identificando il momento di svolta negli anni ’60. Una volta assunto il potere in Kosovo, la dirigenza comunista volendo dimostrare di aver rotto con la politica della “Grande Serbia” che aveva caratterizzato il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, vietò con un decreto provvisorio il rientro in Kosovo ai coloni serbi e montenegrini immigrati in questa regione prima della guerra e poi fuggiti durante l’occupazione fascista. In realtà, Tito fece presto marcia indietro, promulgando un altro decreto secondo cui “tutti i coloni potevano ritornare”, tranne che in alcuni casi 5 Nel primo dopoguerra, la conferenza degli ambasciatori di Londra raggiunse un accordo in base al quale il Kosovo sarebbe rimasto all’interno della Serbia e i confini albanesi sarebbero stati lasciati sostanzialmente invariati. Tali decisioni, compresa quella riguardante le zone della Macedonia abitate in maggioranza da albanesi, erano state prese senza consultare la popolazione locale. Thomas Benedikter, op. cit. pag. 36 15 eccezionali.6 Tuttavia, nonostante fosse stato in vigore solo due settimane e nonostante che il numero dei “non-rientrati” costituisse una minoranza, questo decreto rimase nell’immaginario collettivo serbo come il simbolo della grave ingiustizia di cui molti serbi e montenegrini erano stati vittime. In principio, il regime comunista avviò alcune misure a favore della popolazione albanese, in particolare nel campo dell’educazione, aprendo centinaia di scuole elementari e medie con insegnamento in lingua albanese. Tuttavia, un evento di politica internazionale - la rottura tra Tito e Stalin venne ad interrompere il tentativo di instaurare un clima di convi venza pacifica in Kosovo. Quando, nel 1948, la Jugoslavia fu espulsa dal Cominform, l’Albania si schierò contro di essa. Da allora, la dirigenza jugoslava iniziò a sospettare Enver Hoxha di organizzare operazioni di sabotaggio, inviando in Kosovo propri agenti e gruppi armati. Di conseguenza, in Kosovo fu instaurato un regime di terrore poliziesco affidato agli ufficiali della polizia segreta jugoslava (l’UBDA), gestita dal Ministro degli Interni Alexander Rankovic. Essendo per la stragrande maggioranza composta da serbi e montenegrini, l’UBDA riversò il proprio potere contro la popolazione kosovaro-albanese, avviando le c.d. “operazioni di disarmo”: in sostanza i villaggi albanesi erano perquisiti alla ricerca di armi e gli uomini venivano a tal punto maltrattati e picchiati che molte famiglie albanesi finirono per acquistare armi al solo scopo di consegnarle alla polizia. Va notato che questa campagna di disarmo mirò anche ad umiliare l’onore degli uomini albanesi, per i quali le armi avevano da sempre un forte valore simbolico. Ovviamente un simile regime spinse molti albanesi ad emigrare verso i paesi limitrofi. Il governo jugoslavo inoltre tentò di favorire tale tendenza adottando misure particolarmente energiche per consentire alla popolazione del Kosovo (e della Macedonia) di dichiarasi di nazionalità “turca”. Il senso di tale politica 6 In particolare, secondo quanto riportato da Noel Malcolm, fu vietato il ritorno ai coloni che “avessero preso in origine la loro terra a contadini che la coltivavano o avessero acquisito le proprietà di emigrati politici (alcuni erano comunisti), o fossero stati ufficiali della gendarmeria o avessero vissuto di rendita lontani dalla terra”. Noel Malcolm, “Storia del Kosovo”, Bompiani 1998, pag. 357 16 fu palese quando la Jugoslavia si accordò con la Grecia e la Turchia, per permettere una emigrazione su larga scala di “turchi” jugoslavi verso la stessa Turchia: in sostanza, si trattava di una misura finalizzata a modificare la composizione demografica della regione.7 A parte queste misure eccezionali, negli anni ‘50 e nella prima metà degli anni ’60, il regime socialista fu caratterizzato in Kosovo da un fortissimo squilibrio etnico di cui faceva le spese la maggioritaria popolazione albanese, emarginata o quanto meno sottorappresentata nelle gerarchie del partito e dello stato. La svolta avvenne nel corso degli anni ‘60, quando Tito abbandonò l’approccio finalizzato alla creazione di uno “jugoslavismo omogeneo” per incoraggiare elementi di autogestione nazionale, il che comportò - per il Kosovo - una serie di concessioni alla popolazione albanese. Il processo di decentramento ebbe inizio nel 1963: in un primo momento tale svolta ebbe conseguenze negative per il Kosovo, che pur se elevato a livello di “provincia autonoma”, si ritrovò parte di una Repubblica Serba ancora più potente proprio in virtù del decentramento avviato dalla dirigenza comunista. Gli effetti positivi di questo processo per il Kosovo si ebbero dal 1966, anno della fondamentale riunione di Brioni, nel corso della quale non solo furono delineate le linee guida del nuovo corso del sistema federale jugoslavo, ma lo stesso Ministro degli Interni, il famigerato Rankovic, fu improvvisamente silurato. Da questo momento, come riporta Marco Dogo, “il tasso di autoritarismo scese ovunque nella società jugoslava, e nel Kosovo si riaprì un dialogo nazionale appena abbozzato nei primi anni postbellici. Dell’autonomia provinciale fu valorizzata la rispondenza al carattere specifico della popolazione, mista sì, ma a maggioranza albanese”8. 7 In Kosovo il termine “turco” era stato spesso utilizzato come sinonimo di “musulmano” e, in questo senso, tale politica avrebbe potuto esercitare una speciale attrazione nei confronti degli elementi più devoti della popolazione albanese musulmana. Noel Malcolm, op. cit. pag. 360 8 Marco Dogo, op. cit. pag. 331-332 17 Queste aperture coincisero con le prime violente manifestazioni studentesche del 1968, volte all’ottenimento dei diritti linguistici e al potenziamento dell’autonomia etno-nazionale albanese. A parte l’inevitabile condanna iniziale, l’atteggiamento delle autorità fu in seguito piuttosto conciliante, come dimostra la creazione di una Università di Pristina, distaccata da quella di Belgrado, e lo stanziamento di alcuni fondi per le attività editoriali e culturali albanesi, permettendo inoltre – nel contesto del riavvicinamento tra governo jugoslavo e albanese - i contatti culturali tra Kosovo e Albania. La logica di fondo di tale linea politica moderata era di rimediare a quelle che si consideravano le cause del malessere studentesco, il sottosviluppo economico e l’arretratezza culturale, attraverso iniezioni di risorse finanziarie a sostegno della crescita materiale e il conferimento della piena autonomia di ricerca al pensiero nazionale albanese.9 Tuttavia, la storia ha dimostrato che – nonostante i propositi - i risultati concreti sul fronte dello sviluppo economico furono piuttosto fallimentari. Tale processo di decentramento raggi unse il suo culmine, almeno dal punto di vista giuridico, con la costituzione del 1974, elaborata da Kardelj, “l’ideologo del regime”10, il cui scopo era di risolvere il problema del peso eccessivo della Serbia rispetto alle altre repubbliche. A tal fine la nuova costituzione attribuiva ampie autonomie interne non solo alle sei repubbliche ma anche alle due province, che venivano in sostanza ad acquisire uno status per molti aspetti equivalente alle prime. Dal punto di vista istituzionale, infatti, ottenevano un’assemblea parlamentare provinciale e la rappresentanza presso il parlamento serbo, nonché, dopo la morte di Tito, la partecipazione separata (“separete membership”) alla presidenza collettiva a rotazione. Inoltre, e soprattutto, veniva fondato un partito comunista provinciale, che in Kosovo assunse il nome di Lega dei comunisti del Kosovo. Ulteriore fonte di 9 Ivi, pag. 333 Pirjevec, “Serbi,croati, sloveni. Storia di tre nazioni”, Il Mulino 1995, pag. 66 10 18 autonomia era la creazione di una banca centrale e un sistema educativo e giudiziario propri.11 Tale riforma dell’ordinamento federale suscitò grande sdegno tra i serbi, che la recepirono come una punizione. D’altronde proprio il timore di quella che sarebbe potuta essere la reazione serba indusse la dirigenza jugoslava a non assegnare alle due province lo status di vere e proprie repubbliche. A questo timore, per quanto riguarda il Kosovo, si aggiungeva quello di scatenare spinte separatiste, che avrebbero potuto trovare un punto di riferimento nell’Albania di Enver Hoxha e coinvolgere la popolazione albanese della Macedonia. Il rifiuto alle rivendicazioni di un “Kosova repubblica” veniva giustificato sul piano ufficiale con la teoria delle nazioni e delle nazionalità: una nazione era “potenzialmente un’unità costituente uno Stato e pertanto conservava un estremo diritto di secessione quando costituiva una repubblica in una federazione. Una nazionalità, invece, era un pezzo staccato di una nazione, la cui parte principale viveva altrove: non poteva essere una nazione costituente in una federazione e non poteva avere, di suo, un’unità federale”. 12 In sostanza gli albanesi erano da considerarsi nazione costituente in Albania e semplice minoranza nazionale in Jugoslavia. Inoltre, si aggiungeva che, con la riforma costituzionale del 1974, il Kosovo era di fatto già equiparato ad una repubblica. Ad ogni mo do, fino alla morte di Tito, nel 1980, le tensioni latenti nella provincia del Kosovo riuscirono ad essere ingabbiate in una sorta di equilibrio provvisorio. Morto Tito, tali tensioni, aggravate da una drammatica crisi economica, risultarono incontenibili e - volendo identificare un momento in cui ebbe inizio la crisi che sfocerà nella guerra della fine degli anni ’90 questo è rappresentato dalla protesta albanese del 1981. L’11 marzo di quell’anno, una contestazione spontanea di alcune centinaia di studenti che chiedevano migliori condizioni igieniche per l’università si 11 12 Report OSCE: “Human rights in Kosovo: As seen, As told. Vol. 1, October 1998 - June 1999” Noel Malcolm, op. cit. pag. 366 19 trasformò, nel giro di poche ore, in una vera e propria sommossa politica che durò qualche giorno. Dichiarato lo stato d’emergenza, le autorità risposero con la violenza: il bilancio ufficiale fu di 9 dimostranti ed un poliziotto uccisi. Quello informale di circa 1000 morti.13 Il dato importante è che per la prima volta i manifestanti richiesero con forza lo status di piena repubblica per il Kosovo.14 E’ un momento fondamentale, perché “gli scontri del 1981 provocarono la divisione della popolazione della provincia lungo linee etniche”.15 13 Ivi, pag. 373 “La parola d’ordine riecheggiante nelle dimostrazioni (fu) Kosovo-Repubblica”, M. Dogo, op. cit. pag. 336 15 G. Scotto, E. Arielli, “La guerra del Kosovo. Anatomia di un’escalation”, Editori Riuniti 1999, pag. 31 14 20 2. Nazionalismo e panserbismo: l’ascesa di Milosevic Le proteste del 1981, che esprimevano l’aspirazione della popolazione albanese ad ottenere una posizione migliore all’interno società kosovara, minacciavano lo status privilegiato di cui la componente serba aveva fino ad allora goduto nell’ambito della federazione e soprattutto della provincia. Il risultato fu la diffusione di un vittimismo pericoloso, di una “sindrome del tutti contro di noi, accompagnata dall’inat, una rabbiosa volontà di resistenza contro il mondo intero”.16 Nel concreto ciò significò l’avvio da parte serba di una campagna propagandistica tesa ad evidenziare i presunti “soprusi” di cui essi erano vittime in Kosovo. In primo luogo furono riesumati i miti del nazionalismo serbo, come quello del principe Lazar e della battaglia della Piana dei merli (Kosovo Polje), miti che il nazionalismo ottocentesco aveva posto alla base dell’autocoscienza storica di questo popolo. Pertanto si riprese, con maggior vigore, a pensare il Kosovo come la leggendaria terra d’origine, la culla della civiltà e dell’ortodossia serba, sede di numerose chiese e di importanti monasteri. La propaganda nazionalista si concentrò inoltre su due fenomeni: il calo demografico della popolazione serba nella provincia e le violenze sessuali subite dalle donne serbe da parte di uomini albanesi. Per quanto riguarda il primo, le migrazioni che in quegli anni vedevano i serbi spostarsi dal Kosovo alla Serbia centrale furono descritte come “un fiume che scorre senza sosta”17 e portate a testimonianza delle oppressioni di cui essi erano vittime. Inoltre l’aumento della popolazione albanese veniva interpretato come una vera e propria strategia, finalizzata ad ottenere la dominazione etnica. 16 Pirjevec, “Serbi, croati, sloveni. Storia di tre nazioni”, Il Mulino 1995, pag. 66 G. Marcon, “Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace”, Aterios editore, 2000, pag. 26 17 21 In realtà entrambi gli aspetti del fenomeno demografico avevano delle spiegazioni diverse e più oggettive: prima di tutto le migrazioni erano elemento comune a tutte le realtà della Jugoslavia socialista ed la loro causa era per lo più economica. Il flusso andava sempre dalle zone più arretrate, come il Kosovo appunto, a quelle più ricche, come la Serbia centrale; era del tutto naturale che in quegli anni tali migrazioni assumessero direttrici etniche. Ad ogni modo, quello dei serbi del Kosovo non si presentava come un caso isolato: dalla Bosnia Erzegovina i croati si spostavano in Croazia e i serbi in Serbia, e così via. D’altro canto l’aumento della popolazione albanese è stato spiegato in termini di “transizione demografica ritardata all’equilibrio tra bassi tassi di natalità e di mortalità tipici delle società industrializzate”. Ciò significa che in quegli anni, mentre il tasso di mortalità diminuiva rapidamente grazie alle migliori condizioni igienico-sanitarie e alla fine delle grandi faide, quello di natalità continuava ad essere elevato, perchè la tradizione delle famiglie numerose rimaneva forte. Quindi si può dire che questo sia “un caso di attribuzione di intenzionalità ad un fenomeno che ha cause storiche, sociali e culturali”18 Rispetto all’altro tema strumentalizzato dai media serbi, quello degli stupri, le accuse si dimostrarono esagerate. Una seria indagine svolta negli anni ‘90 ha infatti dimostrato come in Kosovo i casi di violenza carnale fossero meno numerosi che nel resto della Jugoslavia e che, in ogni caso, la percentuale di violenze “inter-etniche” rimanesse decisamente inferiore a quella tra appartenenti allo stesso gruppo (71%).19 Di fatto, però, la percezione di tali eventi era talmente distorta che ogni caso di violenza veniva avvertito come il simbolo dello “stupro” che la nazione serba subiva da parte albanese. Altro esempio del drammatico clima di esaltazione generale creatosi tra la popolazione serba in quegli anni è il “caso Martinovic”, che riempì le pagine di 18 19 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 31 Noel Malcolm, op. cit. pag. 377 22 vari giornali nel maggio 1985. Al di là della veridicità o meno della drammatica violenza subita da questo agricoltore serbo di 56 anni 20, il fatto saliente è che a questo caso fu dedicato un libro di 485 pagine stampato in prima edizione in ben 50.000 copie! In realtà oggi è accertato che in quegli anni la popolazione serbo-kosovara fu sottoposta ad alcune discriminazioni 21; il problema fu però il grado di estremizzazione con cui queste furono percepite. In questo clima di eccitazione generale, ruolo fondamentale ebbe una parte del mondo intellettuale serbo. Nel 1987 cominciò a circolare in forma anonima il “Memorandum su questioni sociali attuali nel nostro paese” dell’Accademia serba delle scienze e delle arti, che, rappresentando la prima formulazione compiuta del “problema Kosovo”, divenne in poco tempo il testo base del nazionalismo serbo. Questo scritto sviluppava il tema della discriminazione del popolo serbo nella Jugoslavia socialista, indicandone come aspetti fondamentali: il ritardo economico della Repubblica serba rispetto alle più sviluppate Slovenia e Croazia; la tripartizione del suo territorio come conseguenza della riforma costituzionale del 1974 (la soluzione proposta era l’abolizione tout court dell’autonomia della due province); il genocidio fisico, politico, giuridico, culturale dei serbi del Kosovo 22. D’altra parte una discussione seria, affrontata senza pregiudizi, appariva impossibile: il caso del professore croato Horvat, economista di fama internazionale ed intellettuale moderato, è emblematico. Questi nell’aprile del 1988 fu costretto ad abbandonare una conferenza stampa indetta per la presentazione del suo nuovo libro intitolato “Questione del Kosovo”, in cui 20 Martinovic nel maggio 1985 “fu ricoverato d’urgenza all’ospedale di Pristina, dove gli fu tolta dall’ano una bottiglia di birra, che rompendosi gli aveva procurato gravi lesioni. Dichiarò di essere stato aggredito (…) da due albanesi che l’avevano legato e sottoposto a quella violenza, aggiungendo che il probabile motivo era di obbligarlo ad andarsene dal distretto, per portargli via la terra”. Malcolm, op. cit. pag. 376 21 Secondo il racconto di Thomas Benedikter, dell’Associazione per i popoli minacciati, avendo gli albanesi assunto la maggior parte dei posti amministrativi, “gli slavi non furono trattati con i guanti di velluto”. G. Marcon, op. cit. pag. 26 22 Il Corriere della sera 27-4-1999 23 analizzava le cause della ghettizzazione economica e culturale dei kosovari 23, perché alcuni ascoltatori gli tolsero la parola al grido di “ustascia, fascista, amico degli albanesi”24. E’ in questo modo che verso la fine degli anni ’80 la questione albanese si trasformò nel suo opposto: “la questione serba”.25 Elemento centrale nello scatenarsi dei due nazionalismi paralleli è la gravissima crisi economica e politica che colpì la Jugoslavia socialista degli anni ‘80. Dal punto di vista economico il sistema perse capacità produttiva e gli scambi tra le repubbliche diminuirono drasticamente; dal punto di vista politico si assistette alla progressiva erosione del potere federale. Tale crisi “pose alle elite delle singole repubbliche il problema del mantenimento delle proprie posizioni di potere”. La risposta della dirigenza di Belgrado fu triplice: • “blocco del processo di riforma, • attacco alle strutture federali del paese, • adesione a una ideologia nazionalista”26 E chi fece del nazionalismo la risorsa strategica per la propria ascesa al potere fu Slobodan Milosevic! Egli strumentalizzò l’appartenenza etnica per costruirsi una immagine e un ruolo. All’interno della Lega dei Comunisti della Serbia, la corrente dura degli integralisti contrari non solo al processo di liberalizzazione ma anche all’assetto federale così come allora strutturato prevalse progressivamente sulla componente moderata favorevole a riforme sul modello di quelle di Gorbaciov. E tra coloro che volevano basare tutto sul panserbismo e sul nazionalismo vi era proprio Slobodan Milosevic. 23 Per maggiori dettagli vedere M. Dogo op. cit. pag. 337 e seguenti G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 13 25 F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, “La pace intrattabile, Kosovo 1999/2000: radiografia del dopo-bombe”, Asterios Editore 2000, pag. 20 26 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 34 24 24 L’episodio che lo portò alla notorietà fu casuale. Il 24 aprile del 1987 Milosevic, allora vice presidente del partito serbo, si recò, come sostituto del presidente Stambolic, a Kosovo Polje per incontrare alcuni serbo-kosovari che rivendicavano una maggiore attenzione per le loro condizioni nella provincia27. Mentre era a colloquio con alcuni dei portavoce locali, all’esterno del palazzo scoppiò una rissa (in realtà organizzata proprio dai leader locali) tra polizia e folla serba. A quel punto Milosevic uscì fuori e disse di fronte alla folla e alle telecamere della televisione: “nessuno dovrebbe osare picchiarvi”28. Ed è proprio su queste parole che Milosevic costruì la propria carriera politica. Dopo questo episodio, infatti, egli assunse la leadership del governo e del partito serbo, essendo eletto presidente della Lega dei Comunisti della Serbia. Aveva vinto la linea dura. Ciò dimostra come l’ascesa di Milosevic sia legata indissolubilmente al problema del Kosovo e spiega anche, almeno in parte, l’intransigenza da questi posta nell’affrontare tale questione. Salito al potere, il nuovo leader avviò una politica di creazione del consenso basata su due pilastri: • il rifiuto del sistema federale -così come allora strutturato- in quanto considerato responsabile della debolezza economica della Serbia, rispetto alle repubbliche del nord, e della frammentazione di fatto del territorio in tre entità; • il mito del Kosovo come terra d’origine da recuperare alla totale sovranità di Belgrado. A tal fine Milosevic iniziò a preparare il terreno per la rimozione dell’autonomia delle due province, servendosi principalmente di due mezzi propagandistici: la televisione di stato di Belgrado e la mobilitazione di massa. 27 Stambolic inviò il suo vice in quanto non vicino alle posizioni di quei nazionalisti serbi. A quanto sostiene Malcolm, prima d’allora neanche Milosevic aveva mai manifestato un particolare interesse per il Kosovo. Fu proprio quell’evento a far mutare il suo atteggiamento. Noel Malcolm, op. cit. pag. 379 28 “No one should dare to beat you!”, Report OSCE: “Human rights in Kosovo: As seen, As told. Vol. 1, October 1998 - June 1999” 25 In sostanza in tutta la Serbia fu dato avvio ad un movimento organizzato dall’alto e in seguito detto “rivoluzione antiburocratica”29, con il leader serbo che sosteneva ormai apertamente “Ogni nazione ha un amore che in eterno ne riscalda il cuore. Per la Serbia è il Kosovo.”30 Nell’autunno del 1988, Milosevic costrinse alle dimissioni dal partito comunista kosovaro due esponenti albanesi molto popolari, Vllasi e Jashari 31, che furono sostituiti con uomini fedeli alla linea di Belgrado. All’inizio del 1989 l’assemblea serba iniziò l’elaborazione degli emendamenti alla costituzione della Repubblica che avrebbero limitato drasticamente i poteri provinciali. A nulla valse la forte reazione albanese culminata in uno sciopero dei minatori della Trepca, che in circa 7.000 si chiusero all’interno dei pozzi, dove la temperatura poteva raggiungere i 50°. Milosevic dichiarò lo stato d’emergenza e fece arrestare numerosi esponenti politici albanesi. L’approvazione di tali riforme da parte dell’assemblea del Kosovo, necessaria secondo la costituzione allora ancora vigente, fu ottenuta con un colpo di mano. Il 23 marzo 1989 si tenne un’anomala riunione dell’Assemblea provinciale che accolse gli emendamenti riducendo l’autonomia del Kosovo ad un puro simbolo32. L’anomalia stava nel fatto che il palazzo fu circondato dalle forze dell’Armata federale, con tanto di carri armati, mentre all’interno del palazzo alcuni “ospiti” garantirono il passaggio della riforma. Di nuovo la reazione albanese fu immediata e forte, con una serie di proteste culminate in scontri con la polizia. Come in ogni regime poi, il bilancio delle 29 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 39 Noel Maolcolm, op. cit. pag. 381 31 Precedentemente aveva compiuto la stessa operazione con il segretario della Lega dei Comunisti della Vojvodina. 32 Nelle mani di Belgrado passava di fatti “il controllo sulla polizia, sui tribunali, sulla difesa civile e su questioni come la politica sociale ed economica, la politica educativa, il potere di emanare disposizioni amministrative e la scelta di una lingua ufficiale” Noel Malcolm, op. cit. pag. 381 30 26 vittime fu di una ventina di morti, secondo le autorità, e di molte più, secondo i manifestanti 33. Milosevic, sordo a tali proteste, confermò il programma di abolizione dell’autonomia della provincia e di riorganizzazione del sistema federale in modo da favorire i serbi. In Kosovo lo smantellamento del potere provinciale proseguì con una serie di nuove misure dal titolo orwelliano di “Programma per la realizzazione della pace e della prosperità in Kosovo”34. Anche il sistema scolastico fu adeguato alle esigenze serbe, limitando drasticamente l’insegnamento della lingua e della cultura albanese. Infine nel giugno 1990 furono eliminate le ultime vestigia dell’autonomia con lo scioglimento dell’assemblea e del governo provinciali.35 In sostanza al Kosovo fu imposto un regime di stampo coloniale caratterizzato da un clima di terrore in cui le ispezioni domestiche, gli arresti di massa erano all’ordine del giorno e non rare le morti violente a causa delle torture subite durante gli interrogatori.36 Tra i crimini che la follia nazionalista puniva con la carcerazione sommaria fino a due mesi vi era, ad esempio, il “delitto verbale” inteso come insulto ai “sentimenti patriottici” dei cittadini serbi!37 33 “Il settimanale indipendente sloveno Mladina riportò che solo all’obitorio di Pristina si contavano 180 cadaveri”. G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 41 34 Noel Malcolm, op. cit. pag. 384 35 Report OSCE: “Human rights in Kosovo: As seen, As told. Vol. 1, October 1998 - June 1999” 36 Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi 2001, pag. 554 37 Noel Malcolm, op. cit. pag. 388 27 3. Reazione albanese: la strategia della non-violenza di Rugova Nella Jugoslavia socialista, caratterizzata da un regime a partito unico, la difesa politica degli interessi albanesi fu inizialmente affidata alla Lega dei Comunisti del Kosovo. Quando tale sistema a partito unico cominciò a perdere colpi, due associazioni assunsero un ruolo politico, l’Associazione dei filosofi e dei sociologi e l’Associazione degli scrittori; in seguito fu la seconda a svolgere la funzione di vera e propria guida politica, trasformandosi in Lega Democratica del Kosovo (LDK), il cui capo carismatico ed indiscusso divenne Ibrahim Rugova (già presidente dell’associazione originaria). Va notato come l’LDK, che da allora iniziò “a funzionare, un po’ alla stregua di Solidarnosc in Polonia, come un incrocio tra un partito e un movimento di massa”38, scelse di seguire la via dell’accentuazione del carattere nazionale della propria politica, a differenza per esempio dell’ Unione per un’iniziativa democratica jugoslava (Uidj) zagabrese che aveva optato per la difesa del sistema federale. Di fronte al vigore del nazionalismo serbo, non sembrerebbe azzardato sostenere che si trattò di una scelta obbligata. Nella fase iniziale, lo scopo dell’LDK non fu l’indipendenza totale ma semplicemente il ripristino di una piena e reale autonomia; solo in un secondo momento, e più precisamente in seguito alle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia del giugno 1991, la sua azione fu finalizzata all’indipendenza politica. La strategia politica di Rugova è passata alla storia per la scelta non-violenta, fondata sul metodo della disobbedienza civile e della resistenza passiva. Più nello specifico tale tattica si sviluppò lungo tre linee di fondo: • Evitare l’uso della violenza: si trattava in parte di una scelta dettata dalla sproporzione delle capacità belliche tra movimento albanese e 38 Noel Malcolm, op. cit. pag. 386 28 forze serbe. Nell’opinione di Rugova difatti una rivolta armata avrebbe portato solo ad un bagno di sangue albanese. Non fu facile ottenere questa astinenza dalla violenza in una società, quella albanese, tradizionalmente bellicosa e con un passato colmo di ribellioni armate. Proprio in questo contesto si inserì l’opera dell’intellettuale albanese Anton Çetta che avviò la c.d. “riconciliazione nazionale”: egli in sostanza promosse un processo di riconciliazione delle famiglie dilaniate da faide decennali, cercando di sostituire il “perdono del sangue” all’obbligo, prescritto dall’arcaico codice comportamentale chiamato Kanun, di vendicare la morte di un parente “riprendendone il sangue versato”.39 • Internazionalizzare la questione del Kosovo : Rugova voleva in tal modo negare l’atteggiamento della dirigenza di Belgrado che vedeva il Kosovo come un problema elusivamente interno alla Serbia stessa. Al contrario il leader dell’LDK puntava molto sull’appoggio occidentale e, in un certo senso, con la strategia della non-violenza sperava di ottenere la simpatia internazionale. In questo senso l’LDK si impegnò in una campagna diplomatica volta ad ottenere consenso all’estero: il capo del governo in esilio Bukoshi si stabilì a Stoccarda, dove gestì, tra le altre cose40, la campagna propagandistica dell’LDK. In questo contesto si inserisce un fattore determinante per gli sviluppi futuri: pur cominciando il movimento nazionale albanese ad ottenere una certa simpatia da parte dei governi occidentali, questi furono sempre contrari ad una indipendenza totale del Kosovo, appoggiando solo il progetto minimalista di una autonomia simile a quella in vigore prima del marzo 1989.41 39 F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, op. cit. pag. 22 Dalla città tedesca, Bukoshi coordinava anche l’imposizione dell’tassa del 3% sui redditi dei connazionali emigrati, tassa che fu fondamentale nel sistema economico kosovaro-albanese. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi 2001, pag. 558 41 Malcolm svolge una interessante critica all’approccio occidentale che vale la pena riportare: egli sostiene che la riluttanza a pensare un Kosovo indipendente, dovuta alla paura di “costituire un 40 29 L’obbiettivo di Rugova era la trasformazione del Kosovo in una “entità” smilitarizzata e aperta nei suoi confini con la Serbia e la Macedonia, posta sotto il controllo e la protezione delle Nazioni Unite; tuttavia questa fase veniva intesa solamente come propedeutica alla indipendenza vera e propria. • Terzo e ultimo pilastro della strategia albanese: la negazione sistematica della legittimità del governo serbo che si concretizzava da un lato nel boicottaggio delle elezioni, dei censimenti e in generale della vita politica “ufficiale” (c.d. “tattica del jiu-jitsu politico”42), dall’altro nella creazione di un sistema parallelo. Il movimento nazionale albanese creò una sorta di stato ombra provvisto delle basilari strutture politiche, culturali, sociali, mediche e d’informazione. Coerentemente con questa strategia, il 2 luglio 1990 i 114 deputati albanesi del parlamento provinciale proclamarono la nascita della “Repubblica Kosova”, intesa come stato libero ed uguale, ma ancora facente parte della Federazione jugoslava. In seguito, anche sulla scia del processo di dissoluzione della Jugoslavia socialista che, con le dichiarazioni di indipendenza della Slovenia e della Croazia nel giugno 1991, veniva a privare il Kosovo di un importante contesto precedente”, poggiava “su un malinteso circa la natura dell’istanza del Kosovo , per il quale concedere l’indipendenza avrebbe significato non stabilire un nuovo precedente, ma seguirne uno antico, quello della Slovenia, della Croazia, della macedonia e della Bosnia, che acquisirono l’indipendenza nel 1991-1992”. Ancora secondo Malcolm, la commissione Badinter, incaricata dall’Unione europea di stabilire chi avesse il diritto al riconoscimento internazionale, non specificò quali fossero le unità costituenti della vecchia Jugoslavia; essendo quello in atto un processo non già di secessione, ma di dissoluzione dell’intera federazione jugoslava (non essendo possibile considerare la sedicente RFJ come la continuazione della Jugoslavia, ma solamente come uno stato nuovo), i governi occidentali semplicemente decisero di considerare unità costituenti “solo le sei repubbliche, trattando così il Kosovo da sussidiaria appartenente completamente alla Serbia”. Nonostante che a quel tempo l’autonomia del Kosovo fosse stata revocata da Milosevic, “il Kosovo era stato di fatto un’unità del sistema federale, dotato in pratica di tutti i poteri di una repubblica e con la propria rappresentanza negli organi federali. Pertanto (…) un Kosovo indipendente non avrebbe costituito alcun precedente. La sua istanza si basava su principi costituzionali, non sulla geografia etnica, e altri Paesi sarebbero stati suscettibili dell’applicazione di questo precedente solo se fossero Stati federali in un processo di completa dissoluzione (…)”. Noel Malcolm, op. cit. pag. XV e seguenti. 42 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 52 30 federale di riferimento, fu organizzato un referendum parallelo e clandestino in cui la scelta dell’indipendenza ottenne un risultato plebiscitario43. In linea con questo processo si svolsero le elezioni per il parlamento e Rugova fu eletto presidente della Repubblica, praticamente senza rivali. Dal punto di vista dell’organizzazione sociale albanese, i tre settori paradigmatici sono quello scolastico, quello sanitario e quello economico. La comunità si oppose alla “serbizzazione ” del sistema scolastico dando vita ad un insieme di scuole clandestine, gestite per lo più da insegnanti albanesi che erano stati licenziati in massa dalle autorità serbe e che qui potevano insegnare nella loro lingua a circa 400.000 bambini. Ovviamente, trattandosi di un sistema clandestino, le lezioni avvenivano in case private, in magazzini e, in generale, in condizioni di disagio 44. Anche per il sistema sanitario, colpito come gli altri settori della pubblica amministrazione dai licenziamenti del personale albanese, la reazione fu il boicottaggio di quello ufficiale e il conseguente avvio di una rete di ambulatori autogestiti. In questo caso i risultati furono in parte dannosi, perché la mancanza di macchinari e di medicinali provocò un generale peggioramento della salute della popolazione albanese. Rispetto all’apparato economico, la soluzione del problema dell’acquisizione delle risorse fu risolto con l’autotassazione degli albanesi del Kosovo e dei connazionali emigrati all’estero (3% sui loro redditi)45; in tal senso l’aiuto fornito dalla diaspora fu tutt’altro che marginale. Si creò un sistema di commerci e di attività economiche sostitutive piuttosto dinamico. Paradossalmente, quando l’economia della RFJ si trovò in gravi difficoltà a causa delle sanzioni internazionali e di una inflazione galoppante, la capacità di auto-sussistenza dell’economia kosovara fu maggiore proprio perché si 43 Circa l’87% degli aventi diritto andò a votare e l’indipendenza vinse praticamente all’unanimità. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi 2001, pag. 556 44 F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, op. cit. pag. 21 45 Gli emigrati kosovaro-albanesi sono concentrati in Germania e Svizzera. 31 trattava di attività e commerci in nero (particolarmente fruttuoso era il contrabbando con l’Albania) . 46 Per tutta la prima metà degli anni ’90, i due sistemi, quello ufficiale serbo e quello informale albanese, coesistettero in una sorta di regime di apartheid reciproco. Ad ogni modo la strategia non-violenta di Rugova, così strutturata, presentava alcuni limiti importanti: • In primo luogo si trattava di un movimento statico, non solamente perché agiva in forma di resistenza passiva, ma soprattutto perché poneva tutta l’attenzione sul proprio obbiettivo ultimo, l’indipendenza, senza strutturare un cammino fatto di una serie di traguardi intermedi. Inoltre tale tattica cozzava con l’atteggiamento dei governi occidentali: Rugova puntava tutto sull’aiuto della comunità internazionale, ma questa si rifiutava di appoggiare le ambizioni indipendentiste. In questo modo e soprattutto nel momento in cui l’attenzione della comunità internazionale veniva catalizzata dal fragore della vicenda bosniaca, il movimento nazionale albanese condannava se stesso ad una sorta di limbo in cui i due sistemi convivevano “più o meno” pacificamente. Ed è proprio tale apparente tranquillità a far si che i governi occidentali non si sentissero obbligati ad interessarsi seriamente alla questione. • Inoltre la resistenza passiva, il boicottaggio della vita politica serba e l’astensionismo elettorale finivano per fare il gioco di Milosevic che in questo modo restava libero di concentrarsi sulle questioni croata e bosniaca. • La richiesta di una mediazione internazionale come condizione per qualsiasi trattativa ha comportato la mancanza di contatti con l’opposizione democratica in Serbia. In particolare tale atteggi amento ha causato sicuramente la perdita di una buona occasione di dialogo quando fu eletto presidente del Consiglio federale jugoslavo Milan 46 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 58 32 Panic. Questo “zio d’america”, cioè un emigrante serbo diventato miliardario negli Stati Uniti come proprietario di una casa farmaceutica dagli affari poco chiari47, durante la crisi bosniaca divenne primo ministro e entrò in contrasto con Milosevic, tentando di ostacolare il nazionalismo di quest’ultimo e di avviare contatti perfino con Rugova, per convincere gli albanesi a non boicottare le elezioni e contribuire alla sconfitta elettorale del vozd48. 47 “Sembra che si fosse arricchito producendo Orange, un gas ricco di diossina, usato dagli americani nel Vietnam come defogliante”, Pirjevec, “Le guerre jugoslave, 1991-1999”, Einaudi 2001, pag. 174 48 La vicenda politica di Panic ebbe comunque fine quando Milosevic fu riconfermato alle elezioni presidenziali del 19 dicembre 1992. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi 2001, pag. 225 33 4. Dayton, un’occasione perduta. Nasce l’UÇK Come detto, la prima metà degli anni novanta fu caratterizzata dall’equilibrio precario tra autorità serbe e resistenza non-violenta albanese. L’immobilismo in cui sembrava piombata la soluzione del problema del Kosovo fu scosso dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina. Nella frettolosa necessità di concludere una pace, i governi occidentali non portarono la questione del Kosovo al tavolo delle trattative. Di fatto, gli Accordi di Dayton non fecero altro che un accenno al problema: vi si sosteneva solamente un generico impegno delle parti alla soluzione del conflitto con gli albanesi e si poneva tale soluzione come condizione per la partecipazione della RFJ alle organizzazioni internazionali (c.d. “parete esterna”). Gli accordi di pace chiusero per il movimento nazionale albanese la fase di attesa di una qualche presa di posizione da parte dell’Occidente, e la chiusero con una forte delusione. Lo sconforto albanese derivava da vari motivi: • In primis la strategia non-violenta da essi portata avanti per anni apparve incapace di ottenere dei risultati concreti. Al contrario la comunità internazionale, dividendo la Bosnia Erzegovina in due entità (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica serba), sembrava premiare “la politica di odio etnico perseguita dai serbo-bosniaci anzitutto, e dalle loro controparti croata e musulmana in seconda battuta”49 • In secondo luogo l’Unione europea apparve piuttosto conciliante con i serbi, riconoscendo la Repubblica Federale Jugoslava 50 e ringraziando Milosevic per i suoi sforzi di pacificazione 51. 49 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 74 “Per premiarla di avere a sua volta riconosciuto la Macedonia”, Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi 2001, pag. 559 51 “(…)dicendogli anche che lo consideravano una forza costruttiva nella regione, la cui eliminazione avrebbe portato all’instabilità”, Noel Malcolm, op. cit. pag. 392 50 34 • Terzo ed importante punto: la RFJ si mostrava gravata da una forte crisi economica che minacciava la capacità di tenuta della stessa leadership di Belgrado. In tal senso, mentre le sanzioni economiche erano state abolite già nel 1996, la “parete esterna” era stata prevista dagli accordi di pace come uno strumento di pressione su Milosevic , in quanto, impedendo alla RFJ di far parte delle organizzazioni internazionali, le proibiva l’accesso ai crediti delle istituzioni finanziarie internazionali, primo fra tutti il Fondo Monetario internazionale. L’incongruenza, in questa vicenda, sta nel fatto che proprio negli anni 1996 e 1997 i paesi occidentali, mentre formalmente applicavano tale politica di pressione economica, fecero ottimi affari con il regime di Milosevic52. Il problema è che i soldi ottenuti da tali affari servirono, almeno secondo le accuse dell’opposizione belgradese, alla ripresa del regime del vozd e al riarmo delle forze di polizia e dell’esercito. Tutti questi elementi portarono alla progressiva perdita di adesione popolare alla linea moderata dell’LDK. Per il Kosovo , l’eredità più grave lasciata dagli accordi di Dayton fu il senso di frustrazione popolare di fronte all’incapacità di Rugova di ottenere un qualsiasi riconoscimento degli interessi albanesi da parte della comunità internazionale. E proprio tale frustrazione determinò la nascita di un movimento violento noto con il nome di Esercito di Liberazione del Kosovo o, secondo l’acronimo in lingua albanese, UÇK (Ushtria Çlirimtare es Kosoves). In sostanza l’UÇK sembrò aver imparato la lezione: se gli sforzi civili della popolazione kosovara non avevano indotto la diplomazia ad agire con incisività nei confronti di Belgrado, allora sarebbe stato l’uso della violenza a indurre la comunità internazionale a diventare parte integrante del conflitto53. 52 Le aziende italiane non restarono al di fuori di queste attività: nel 1997 Milosevic riuscì a vendere il 49% di Telekom-Serbia a Telekom-Italia e all’OTE greco. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi 2001, pag. 554 53 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 88 35 Gli anni 1996-1997 rappresentarono un’occasione perduta per la soluzione del conflitto. L’unico risultato, almeno in origine positivo, fu ottenuto dalla c.d. “diplomazia dietro le quinte”: la Comunità di Sant’ Egidio riuscì infatti a mediare la firma da parte dei due leader di un accordo in base al quale alcuni edifici scolastici e universitari sarebbero stati forniti al sistema educativo parallelo.54 Ad ogni modo, l’intesa non fu mai applicata e anche questo fallimento contribuì al declino della credibilità di Rugova. Dopo aver rivendicato decine di attentati contro serbi e albanesi “collaborazionisti”, il sedicente Esercito di Liberazione del Kosovo fece la propria prima apparizione pubblica il 28 novembre 1997 in occasione dei funerali di un insegnante albanese, Halit Gecaj, assassinato da un poliziotto serbo. Durante la cerimonia, cui presero parte circa 20.000 persone, tre guerriglieri incappucciati con indosso tute mimetiche rappresentanti l’aquila a due teste su fondo rosso, stemma dell’Albania, annunciarono l’avvio della lotta armata per l’indipendenza del Kosovo. L’UÇK assunse nel tempo una struttura composita, con un vertice costituito da militari e poliziotti della ex Jugoslavia e un numero di adepti per lo più studenti o ex studenti, attivi nella lotta alla dirigenza serba già dagli anni ’80. Altra componente fondamentale fu quella delle associazioni di difesa nate in alcune regioni del Kosovo, che si ispiravano alla tradizione dei “kaçak”, i banditi di cui la storia dei Balcani è piena. Di fronte all’emergere di questa nuova, violenta forma di lotta, Rugova oscillò tra l’incapacità di comprendere l’entità del fenomeno e il tentativo di esorcizzarne l’importanza, dichiarando tra l’altro che si trattava di una invenzione dei Servizi segreti serbi a giustificazione dell’aumento della repressione. Infatti in quegli anni si assistette ad una rapi da escalation del conflitto: l’UÇK riuscì ad ottenere una gran quantità di armi in seguito allo “scandalo delle piramidi” che aveva portato l’Albania al collasso e causato violentissime 54 Da notare che si parlava di edifici, ma non di stipendi. Noel Malcolm, op. cit. pag. 393 36 manifestazioni popolari, durante le quali molte caserme furono saccheggiate e le armi contrabbandate con il Kosovo. Nel 1997 l’UÇK compì ben 14 attentati contro serbi e collaborazionisti albanesi. La reazione serba – ed è qui l’escalation - fu durissima: forte delle dichiarazioni dell’inviato speciale di Clinton nei Balcani, Robert S. Gelbard, che prima definì “terroristiche le azioni dell’UÇK” e poi sottolineò che “l’indipendenza (del Kosovo) non era una opzione accettabile”, Milosevic avviò le operazioni belliche che culminarono nel massacro di Drenica55. Questa zona posta nel centro del Kosovo aveva una posizione geograficamente strategica, in quanto attraversata dalla strada principale che collega il Montenegro con la Macedonia. In questa regione le forze serbe compirono in poco più di una settimana due tremendi attacchi ad altrettanti villaggi: il primo tra il 28 febbraio e il 1° marzo 1998 nel villaggio di Qirez/Cirez dove caddero vittime 29 albanesi, per lo più vecchi, donne e bambini; il secondo, tra il 4 e il 7 marzo, a Prekaz i Ulet / Donje Prekaze e Llaushe / Lausa, con lo scopo di uccidere Adem Jashari, uno dei leader storici dell’UÇK, che fu infatti trucidato insieme alla famiglia. Bilancio: 58 morti e l’ascesa di Jashari a martire della causa nazionale. Noel Malcolm sostiene che in questa fase fu proprio la sproporzione della reazione serba agli attacchi dell’ UÇK a portare alla guerra vera e propria. 56 Di certo è che i massacri serbi ebbero un effetto controproducente, finendo per divenire il miglior metodo di reclutamento di nuove leve per il movimento armato che, in poche settimane, arrivò a contare tra le sue file circa 12.000 guerriglieri. Ad ogni modo, l’effetto principale della parabola ascendente della violenza fu l’internazionalizzazione del conflitto… esattamente ciò che Rugova non era riuscito ad ottenere in circa sette anni di resistenza non-violenta. 55 Per i dati relativi al massacro si è fatto riferimento a: Pirievec, “Le guerre jugoslave, 1991-1999”, Einaudi 2001, pag. 563; Noel Malcol, op. cit. pag. IV; G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 102 e seg. 56 “Altri Paesi europei avevano sperimentato episodi analoghi, su piccola scala, di violenza con motivazione politica e li avevano affrontati utilizzando i normali metodi di polizia”. Noel Malcol, op. cit. pag. IV 37 In questa prima fase l’atteggiamento della comunità internazionale fu piuttosto acquiescente: ai ribollimenti del neopromosso segretario di Stato Madeleine Albright, l’Europa - e soprattutto Mosca, Parigi e Roma, legate alla Serbia da una tradizionale simpatia, nonché da fruttuose relazioni economiche - risposero con freddezza. Il riattivato Gruppo di Contatto57 prima minacciò l’attuazione di sanzioni contro il governo serbo se non avesse ritirato dal Kosovo le proprie forze speciali, le c.d. “Unità per la lotta al terrorismo”, poi le rinviò di un mese, nonostante non ci fosse stato alcun ritiro, ma anzi nuove offensive. In linea con questo atteggiamento, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non prese una posizione netta e adottò il 31 marzo (1998) la Risoluzione 1160 con cui, biasimando l’uso eccessivo della forza da parte delle truppe governative ma anche condannando le azioni terroristiche dell’ UÇK, decretò l’embargo sulle armi nei confronti della RFJ, Kosovo incluso. Fu soprattutto la Russia a rifiutare qualsiasi misura più drastica. Nel frattempo, Milosevic, per rafforzare la propria leadership interna, formò un governo di unità nazionale chiamando a farne parte anche il politico nazionalista radicale Vojislav Seselj: per avere un idea della follia nazionalista che alimentava quest’uomo, basti pensare che egli aveva proposto pubblicamente l’agghiacciante “progetto di infettare gli albanesi del Kosovo con il virus dell’AIDS”58. Mentre l’Occidente dibatteva sul da farsi, il conflitto proseguì con l’offensiva serba di primavera. La tattica usata dalle forze serbe era quella della terra bruciata: “poiché la guerriglia si muove tra la popolazione locale come un pesce nell’acqua, si tratterà di togliere l’acqua al pesce”59. Concretamente ciò comportò una serie di azioni militari in due aree: nella 57 Nell’aprile del 1994, Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania dettero vita al Gruppo di Contatto, un’associazione ad hoc avente per scopo la soluzione della crisi dell’ex-Jugoslavia. Nella versione attivata per la crisi del Kosovo, il Gruppo di Contatto vede tra i suoi membri: USA, UK, Francia, Germania, Italia e rappresentanti dell’UE. 58 Noel Malcolm, op. cit. pag. IV 59 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 104 38 regione centrale di Drenica (Kosovo centrale) e lungo l’area sud-occidentale da Pec a Giacova, che segna il confine con l’Albania. In questa seconda zona, lo scopo dell’azione era quello di impedire il contrabbando di armi in arrivo dall’Albania60. In ogni villaggio incontrato gli abitanti erano costretti alla fuga, le case venivano saccheggi ate e poi tutto veniva distrutto, raccolti e bestiame compresi. Mentre la ferocia delle operazioni serbe cominciò ad avere eco nei media occidentali, la diplomazia internazionale attivò i propri canali e, su richiesta del cancelliere tedesco Kohl, Eltsin invitò Milosevic ad un incontro al Cremlino. Grazie alla tradizionale vicinanza tra i due paesi e soprattutto all’assicurazione che la Russia avrebbe posto il proprio veto all’interno del Consiglio di Sicurezza a un eventuale proposta di intervento della Nato, il presidente russo riuscì ad ottenere l’impegno per iscritto del vozd a ritirare le unità speciali di polizia dal Kosovo e ad avviare un approccio pacifico per la soluzione del problema. Milosevic inoltre promise di consentire la visita della provincia da parte dei diplomatici accreditati presso Belgrado; prontamente Holbrooke 61 approfittò della situazione per creare una vera e propria Missione di osservatori diplomatici, la Kosovo Diplomatic Observer Mission (KDOM), che operò come fonte d’informazione preziosa in una regione dove ai giornalisti non era permesso l’accesso. L’inaspettata moderazione del vozd non condusse comunque alla fine del conflitto. Infatti, l’UÇK approfittò della sospensione parziale delle operazioni belliche serbe dando avvio ad una nuova serie di offensive. Tuttavia la guerriglia albanese sopravvalutò le proprie capacità e coordinò male le azioni. Così in luglio riprese la controffensiva serba che nel giro di poco tempo riconquistò le terre “liberate” dagli albanesi, compresa la zo ne confinante con l’Albania, e fece crollare uno ad uno i capisaldi dell’Esercito di Liberazione 60 Anche se Noel Malcolm sostiene che dietro allo sistematica distruzione di case e mezzi di sussistenza vi fosse necessariamente anche uno scopo demografico: “lo sradicamento permanente di una notevole percentuale della popolazione rurale del Kosovo” Noel Malcolm, op. cit. pag. VI 61 Vice segretario di Stato statunitense per gli Affari europei. 39 del Kosovo , l’ultimo dei quali – Junik - cadde il 15 agosto. Solo il 17 agosto, la KDOM riuscì ad ottenere un cessate il fuoco per soccorrere le migliaia di profughi. Un aspetto tremendo di questa guerra, combattuta anche contro la popolazione civile, fu difatti proprio quello dei profughi. Secondo le stime dell’UNHCR e della Croce Rossa internazionale, circa 160.000 persone furono costrette a fuggire dai loro villaggi di fronte alla furia devastatrice degli scontri. Di queste, circa 50.000 ripararono nei boschi “vagando per giorni, spesso senza acqua né cibo”; altri, almeno 40.000, passarono le frontiere verso l’Albania, il Montenegro e la stessa Serbia. La vita di coloro che erano rimasti in Kosovo era minacciata da carestie ed epidemie difficili da scongiurare in un territorio drammaticamente pieno di cadaveri insepolti, carogne e gente ammalata. Tutto ciò si andava ad aggiungere alle devastazioni già avute durante gli scontri: il bilancio secondo lo Human Rights Watch era di circa 1.500 kosovari e 100 serbi uccisi e poco meno di 500 villaggi incendiati.62 E’anche di fronte alla gravità di questa situazione che cominciò a prendere corpo l’idea di una pressione NATO. 62 Pirievec, “Le guerre jugoslave, 1991-1999”, Einaudi 2001, pag. 575 40 5. Madeleine Albright: la mutazione genetica della Nato Proprio mentre in Kosovo infuriava l’offensiva della primavera-estate, in seno all’amministrazione Clinton cominciò a farsi strada l’idea di un maggiore e più diretto impegno degli Stati Uniti attraverso l’Alleanza atlantica, anche per scongiurare il pericolo di una estensione del conflitto alla Macedonia dove una consistente minoranza albanese era già sul piede di guerra con il proprio governo. Il dibattito vide come protagonisti - e rivali nell’opera di convinzione del presidente Clinton - da una parte la decisa Madeleine Albright, segretario di Stato, e dall’altra il segretario alla Difesa William Cohen e i vertici militari del Pentagono. La dottrina della Albright si basava fondamentalmente su tre argomentazioni: • Una di carattere umanitario e personale: di origine ebraica, la Albright non voleva ripetere l’errore compiuto dalle democrazie europee, quando avevano ceduto al diktat di Hitler alla conferenza di Monaco. • Una di politica interna: nel contesto dei difficili rapporti tra l’esecutivo e il Congresso, la crisi del Kosovo sembrava una buona occasione per dimostrare alla maggioranza repubblicana le capacità di leadership del Presidente. • Una di politica estera: il crollo dell’URSS agli inizi degli anni novanta, pur rappresentando una vittoria, anzi “la vittoria” del sistema occidentale, aveva posto le basi per una crisi di identità del Patto atlantico. Venuta a mancare la ragion d’essere stessa dell’Alleanza e della sua organizzazione militare, la NATO, era ora necessario trovarle un nuovo scopo, in modo da evitare che divenisse uno strumento anacronistico. La NATO, creata come una organizzazione di tipo “esclusivo”, cioè che per sua natura non può essere aperta a 41 tutti, ha bisogno di una controparte (il Patto di Varsavia). Nel momento in cui questa controparte venne a mancare, la NATO intraprese un’ opera di “mutazione genetica” che durò molti anni e che nella guerra del Kosovo vide, almeno agli occhi del segretario di Stato americano, una occasione da non perdere. Da Alleanza militare con basi politiche la NATO avrebbe dovuto ora trasformarsi in “un’alleanza politica su basi militari” e per far accettare agli alleati europei questo cambiamento “la crisi del Kosovo sembrava fatta a posta, in quanto offriva l’opportunità di un intervento della NATO fuori dall’area per garantirne la stabilità e la sicurezza dell’intera sfera geopolitica in cui si collocava”63 Nata come alleanza difensiva, la NATO avrebbe visto i propri compiti estesi non più solo alla difesa collettiva prevista dall’articolo 5 del suo trattato, ma a più generiche “operazioni in difesa della pace”. In questo processo, la novità dell’intervento NATO nel Kosovo, rispetto ai precedenti in Bosnia, sarebbe stata che mentre nel primo caso si trattava di interventi coperti da un esplicito mandato delle Nazioni Unite, nel secondo sarebbe stata l’Organizzazione stessa ad auto-legittimare la propria azione 64. Oltre a tutto ciò, non può essere sottovalutato il carattere economico e geopolitico degli interessi in gioco, vista l’importanza strategica del controllo delle vie di comunicazione dei Balcani sud-orientali. Da un punto di vista prettamente economico, le rotte del petrolio proveniente dal Caucaso e dal Mar Nero passano proprio per l’area in questione; dal punto di vista militare, “la direttrice del corridoio n. 8 (Albania, Macedonia, Bulgaria) traccerebbe 63 Pirievec, le Guerre jugoslave, Einaudi 2001, pag. 571 Su quest’ultimo punto si inserisce l’analisi di Giulio Marcon relativa agli interessi internazionali nella guerra del Kosovo. Egli sostiene che uno degli scopi della politica degli Stati Uniti fosse quello, non dichiarato, “di colpire il processo di costruzione dell’Unione Europea – dopo l’inaugurazione della stagione dell’euro – e di emarginare l’ONU come sede istituzionale per la risoluzione dei conflitti”. Alle critiche di questo tipo, l’amministrazione americana ha più volte obiettato che fu proprio l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad obbligare gli Stati Uniti e la NATO ad un intervento unilaterale per salvare la popolazione kosovara da un’inevitabile genocidio. Giulio Marcon, “Dopo il Kosovo: La guerra nei Balcani e la ricostruzione della pace”, Asterios editore, 2000, pagg. 51 e seg. 64 42 una linea di demarcazione e di separazione dalla Serbia e soprattutto dalla Federazione Russa. Il controllo dell’Albania, della Macedonia e del Kosovo in questo quadro è determinante”65 Il dato concreto, al di là dell’analisi degli scopi della politica americana, è che Madeleine Albright riuscì a convincere il presidente Clinton ad appoggiare la sua linea politica. 65 Ibidem, pag. 52 43 6. Occidente, da mediatore a parte in causa I primi effetti del nuovo corso della politica della Casa Bianca si manifestarono nel mutato atteggiamento americano nei confronti dell’UÇK. Da “organizzazione terroristica”, quale era stato bollato alcuni mesi prima da Gelbard, l’UÇK si trasformò in interlocutore politico con cui dialogare per trovare una soluzione alla crisi. La ripresa dell’offensiva serba in settembre spinse anche gli europei ad un atteggiamento più deciso e il 23 settembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottò, con il voto favorevole della Russia e l’astensione della Cina, la Risoluzione 1199. Con essa, le Nazioni Unite, denunciando la responsabilità delle forze militari e di polizia serbe di aver provocato una catastrofe umanitaria, chiedevano alle parti di stabilire un cessate il fuoco; a Milosevic di procedere, in base all’impegno precedentemente preso con Eltsin, al ritiro delle forze armate dal Kosovo e di concedere pieno accesso agli operatori umanitari per l’aiuto agli sfollati. Inoltre l’ONU minacciava il vozd di “ulteriori passi e misure aggiuntive”, se non avesse ottemperato a queste richieste. Nel frattempo gli Stati Uniti fecero la prima mossa prevista dalla strategia della Albright. Il 24 settembre, il comandante supremo della NATO Wesley Clark lanciò il c.d. Activation Warning, ovvero un di “avviso di attivazione” con cui l’organizzazione fece presente alla RFJ che le forze aree erano ormai poste in stato di allerta per una operazione “limitata” nel Kosovo. L’Activation Warning rappresentò il primo passo di quella “strategia della minaccia” che avrebbe caratterizzato la gestione americana della crisi da questo momento in poi. In senso tecnico militare, esso non costituiva ancora una vera e propria minaccia; era piuttosto un avvertimento con cui l’Organizzazione volle far sapere di essere pronta a minacciare.66 66 L’atto considerato minaccia in senso tecnico è l’Activation Order. G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 109 44 Di fronte al predominio che la NATO pareva assumere nella gestione del conflitto, Russia e Francia riattivarono il Gruppo di Contatto, che incaricò il diplomatico statunitense Holbrooke di condurre una missione a Belgrado per ottenere la piena accettazione della Risoluzione 1199. In sostanza furono presentate a Milosevic sei richieste: la fine delle ostilità nel Kosovo, il ritiro delle forze serbe, la libertà di accesso agli osservatori internazionali, la collaborazione con il tribunale dell’Aia per i crimini di guerra, il ritorno dei fuggiaschi alle loro case e l’inizio delle trattative di pace per la soluzione del conflitto sulla base di un progetto elaborato dal diplomatico statunitense Hill. L’accordo fu raggiunto il 12 ottobre. Il vozd si era impegnato a: • ridurre le proprie truppe dispiegate nel Kosovo ai livelli di prima di febbraio, quindi di prima dell’inizio degli scontri, e rimuovere le postazioni missilistiche antiaeree dalla provincia; • permettere il ritorno di tutti i rifugiati alle proprie case; • accettare la presenza di 2.000 osservatori dell’OSCE che avrebbero garantito l’implementazione dell’accordo e il sorvolo del territorio della provincia da parte di aerei della NATO, nell’ambito di una operazione chiamata “Eagle Eye” Pur salutato dal mondo politico come un successo, l’Accordo MilosevicHolbrooke nascondeva delle zone d’ombra. Difatti il diplomatico statunitense era stato costretto a cedere su alcuni punti non irrilevanti: prima di tutto il Kosovo veniva menzionato come parte della Serbia, e non della RFJ; in secondo luogo le parti erano invitate ad avviare un negoziato bilaterale, e non con la mediazione internazionale; infine sia gli osservatori OSCE che gli aerei NATO sarebbero stati disarmati. Ad ogni modo nell’ambito dell’amministrazione americana prevalse un certo scetticismo rispetto alle promesse fatte dal vozd. Probabilmente proprio per fare maggiore pressione su Belgrado, il 15 ottobre la NATO tramutò l’Activation Warning in Activation Order e fissò un ultimatum di 96 ore (poi rimandato di una decina di giorni) entro le quali le autorità serbe avrebbero 45 dovuto iniziare l’implementazione della Risoluzione 1199. Sottoposto alla pressione della NATO, il cui impegno appariva approvato dalla Risoluzione 1203 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Milosevic incominciò il ritiro delle truppe poche ore prima la scadenza dell’ ultimatum. 67 Negli stessi giorni, in attuazione della Risoluzione 1199 e dell’accordo Milosevic-Holbrooke, fu istituita la Kosovo Verification Mission (KVM), ossia la missione di verifica dell’OSCE avente compiti civili, quali facilitare il ritorno degli sfollati e compiti militari e di polizia, quali la sorveglianza del rispetto della tregua e il ritiro delle truppe serbe dalla provincia. Come capomissione fu nominato il diplomatico statunitense Wiliam Walker. Nonostante i limiti evidenti di tale missione 68, i primi segnali sembrarono positivi: la missione di verifica cominciò ad operare (anche se alla fine dell’anno erano presenti in Kosovo solo 600 osservatori 69), la maggior parte dei rinforzi delle truppe fu effettivamente ritirata e molti sfollati tornarono alle loro case. In tal modo, i mesi di ottobre e novembre furono caratterizzati da una sensibile de-escalation in Kosovo e dalla ripresa dell’attività diplomatica di Holbrooke e dell’ambasciatore statunitense in Macedonia, Hill. Tuttavia l’UÇK approfittò della quiete per avviare la ripresa delle posizioni tenute in precedenza dalle truppe serbe appena ritirate: in questa fase fu proprio la guerriglia albanese ad apparire come il più serio ostacolo alla pacificazione 70. Ad ogni modo la risposta non si fece attendere e tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999 il conflitto riprese secondo una logica perversa che vedeva un’azione dell’UÇK seguita da una reazione di violenza sproporzionata da parte delle forze serbe. Il momento più tragico, e più carico 67 “L’accordo tra Holbrooke e Milosevic prevede anche il ritiro dell’ ‘0rdine di attivazione’. Tuttavia quando Holbrooke si reca a Bruxelles per comunicare direttamente l’accordo agli ambienti NATO, la ‘disattivazione’ non avviene: è una prima violazione dell’accordo”. Roberto Morozzo della Rocca, “Kosovo. La guerra in Europa. Origini e realtà di un conflitto etnico”, Guerini e Associati, Milano 1999, pag. 96 68 G. Scotto e E. Arielli indicano in particolare: la mancanza di chiare competenze in materia di diritti umani; l’asimmetria delle parti rispetto agli accordi presi (in particolare l’UÇK non aveva firmato l’Accordo Milosevic-Holbrooke); la mancanza di un quadro certo di processo negoziale. G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 124 69 Noel Malcolm, op. cit. pag. VIII 70 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 129 46 di conseguenze, di questa spirale di attacchi si verificò il 15 gennaio quando le forze speciali serbe, come rappresaglia per l’uccisione di tre loro uomini, massacrarono nel villaggio di Reçak (Kosovo centrale) 45 civili albanesi, alcuni dei quali uccisi a distanza ravvicinata71. Il giorno successivo, Wiliam Walker si recò sul luogo e accusò dell’eccidio l’esercito e le forze speciali serbe. Ovviamente le autorità jugoslave replicarono sdegnate che si trattava di vittime di uno scontro con le forze di polizia, quindi di vittime armate, e dichiararono Walker “persona non gradita”, i n quanto incapace di imparzialità; in un primo momento, e con una decisone poi immediatamente revocata, Belgrado arrivò a chiedere l’espulsione dal paese del capomissione OSCE. In seguito, l’Unione europea affidò ad una commissione di patologi finlandesi il compito di indagare sul massacro di Raçak: le conclusioni di tale inchiesta sono ancora coperte dal segreto.72 Il massacro di Reçak rappresentò l’occasione per Madeleine Albright di convincere alla sua linea anche i più scettici e interpretò l’evento come una dimostrazione dell’insuccesso dell’Accordo Milosevic-Holbrooke. La soluzione per il segretario di Stato era di minacciare immediatamente Milosevic di bombardamenti aerei e di vincolare tale minaccia non già solamente ad un cessate il fuoco, ma all’avvio di trattative serie per la soluzione della crisi. In sostanza Milosevic avrebbe dovuto accettare l’autogoverno degli albanesi e questi ultimi il rinvio della istanza indipendentista. Tale quadro era rinforzato, nel piano della Albright, dal dispiegamento di truppe NATO in Kosovo, a garanzia del ritiro delle forze serbe e dell’attuazione di una reale autonomia per la provincia. Ad ogni modo, un rifiuto da parte di Belgrado avrebbe comportato un intervento aereo, mentre 71 Stando alle testimonianze, tra i primi 23 uomini giustiziati in massa, il più anziano aveva 99 anni e il più giovane 14. Pirievec, “Le guerre jugoslave,1991-1999” Einaudi 2001, pag. 583 72 Secondo Morozzo della Rocca, “c’è qualcosa che appare strano nelle modalità dell’eccidio: i serbi abitualmente uccidono senza procedere a mutilazioni. D’altra parte, la stessa commissione finlandese, nel corso di una conferenza stampa, accennò alla possibilità che tali mutilazioni fossero state provocate da “animali notturni nei giorni successivi all’eccidio oppure da proiettili che avrebbero seguito determinate traiettorie”. Roberto Morozzo della Rocca, op. cit. pag. 107-109 47 l’eventuale opposizione albanese avrebbe causato l’isolamento internazionale e quindi economico-militare della guerriglia. L’opposizione maggiore alla linea della Albright veniva dal Pentagono. I vertici militari americani restavano perplessi circa la necessità di un impegno bellico in un area fuori dalla tradizionale sfera degli interessi degli Stati Uniti; soprattutto, consideravano improbabile una vittoria ottenuta solo con i bombardamenti aerei e d’altra parte erano decisamente contrari all’eventuale invio di truppe di terra, se i bombardamenti non fossero bastati. Ad ogni modo, grazie ad un notevole sforzo diplomatico, il segretario di Stato riuscì ad ottenere l’assenso al proprio piano strategico non solamente del Pentagono, ma anche dei pur scettici alleati europei. In particolare, la Francia tentò di resistere chiedendo invano che l’impiego delle forze NATO in Kosovo fosse autorizzato dal Consiglio di Sicurezza e la Russia fu convinta da una specie di accordo tacito tra la Albright e il ministro degli Esteri Ivanov in base al quale sarebbe stato permesso a Mosca di “protestare pubblicamente contro Washington in caso di una operazione bellica, senza peraltro fare nulla per impedirne l’attuazione”73. A questo punto il Gruppo di contatto, riunitosi a Londra il 29 gennaio, decise di indire una conferenza internazionale per far approvare alle parti in lotta una amministrazione trilaterale provvisoria di tre anni. Nel frattempo il Segretario generale della NATO, Javier Solana, otteneva dal Consiglio della NATO l’autorizzazione a dare inizio ai bombardamenti “senza ulteriori procedure”. 73 Pirievec, le Guerre jugoslave, Einaudi 2001, pag. 587 48 7. Il fallimento di Rambouillet: via libera all’intervento militare Come sede delle Conferenza internazionale fu scelto, per compiacere lo sciovinismo francese, il lussuoso castello di Rambouillet, che avrebbe dovuto permettere un isolamento totale delle delegazioni.74 Per quanto riguarda i presenti, come mediatori furono inviati Christopher Hill, protagonista della c.d. “shouttle diplomacy” portata avanti l’anno precedente, Wolfgang Petrisch, in funzione di rappresentante dell’Unione europea, e Boris Majorsky per la Russia. Rispetto alle delegazioni delle due parti vi sono alcune considerazioni da fare: riguardo quella albanese, i suoi 16 membri comprendevano i leader politici dell’ UÇK, che in questo momento ottenevano la legittimazione internazionale, assurgendo dal ruolo di “gruppo terrorista” a quello di “movimento combattente per la libertà”75. La delegazione serba riuniva al contrario alcuni politici di secondo rango, che formavano una coalizione arcobaleno comprendente tutte le etnie presenti in Kosovo a dimostrare la presunta volontà del governo di Belgrado di proteggere tutte le minoranze.76 Milosevic non si presentò, perché temeva che un ordine di cattura nei suoi confronti fosse stato emesso segretamente dal Tribunale dell’Aia. In ogni caso era chiaramente lui a decidere. Il pacchetto presentato alle parti si basava su un “accordo interinale”, finalizzato a bloccare la situazione almeno per il momento e da sottoporre a revisione dopo tre anni. In questa fase intermedia, ottenuto il cessate il fuoco, il Kosovo sarebbe rimasto soggetto alla sovranità jugoslava, ma sottoposto alla 74 Anche se Pirjevec sottolinea l’uso frequente dei cellulari da parte delle due delegazione che, di tanto in tanto, informavano i giornalisti dell’andamento delle trattative. Pirjevec, “Le guerre jugoslave, 1991-1999”, Einaudi 2001, pag. 588 75 G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 134 76 Per l’elenco dettagliato dei partecipanti si veda “Le delegazioni di albanesi e serbi a Rambouillet”, Reuters 5 febbraio 1999 49 tutela della NATO, che avrebbe garantito l’effettività dell’autogoverno albanese e contemporaneamente la tutela della minoranza serba. Come già detto, sui negoziati gravava la minaccia di bombardamenti da parte della NATO, se Milosevic non avesse accettato l’accordo e lo stanziamento di truppe di terra sul territorio della provincia. In questo senso Rambouillet più che un negoziato appariva come la possibilità di accettare o meno un ultimatum. 77 Già dalle prime fasi della trattativa emersero due incompatibilità di fondo tra le parti: • quella tra serbi e albanesi sullo status finale del Kosovo: i primi rimanevano disposti a concedere al massimo l’autonomia, i secondi lottavano ormai da tempo per la piena indipendenza e richiedevano che al termine dei tre anni transitori fosse indetto un referendum sullo status del Kosovo. D’altra parte la delegazione serba, ferma nel non voler riconoscere l’UÇK come forza belligerante, si rifiutava perfino di firmare una tregua prima dell’inizio dei colloqui. • l’altra incompatibilità aveva carattere trasversale, opponendo da una parte Stati Uniti, Regno Unito e albanesi, dall’altra la RFJ e la Russia. L’elemento di discordia riguardava l’implementazione dell’accordo stesso, e fu questo punto a portare più di ogni altra cosa al fallimento della conferenza. Il quadro dell’implementazione era contenuto nell’ “Annesso B” che a detta di molti studiosi costituiva un vero e proprio diktat americano nei confronti della RFJ. Con esso si richiedeva l’assenso del governo di Belgrado all’occupazione del Kosovo da parte delle truppe NATO, che avrebbero goduto dell’immunità e della possibilità di accesso illimitato all’interno del territorio jugoslavo, incluso lo spazio aereo e le acque territoriali; inoltre la Nato avrebbe avuto diritto all’esenzione da qualsiasi pedaggio o tariffa di uso 77 Infatti dal punto di vista del diritto internazionale “nessun negoziato è possibile e valido sotto la minaccia del ricorso alla forza”, G. Marcon op. cit. pag. 39 50 per le infrastrutture del paese (strade, porti, aeroporti e ferrovie). Si trattava in sostanza della richiesta di uno status di forza di occupazione per la NATO. Era chiaro che un tale atto, oltretutto dichiarato non negoziabile, sarebbe stato rifiutato dalla delegazione serba. D’altronde l’impostazione data all’Annesso B, bollato dallo stesso Henry Kissinger come “un terribile documento diplomatico”, dimostrava come la strategia americana a quel punto fosse non tanto di tentare l’accordo tra le due parte, ma di convincere gli alleati europei alla necessità dei raid aerei.78 In un primo momento, tuttavia, non solo la delegazione serba, ma anche quella albanese rifiutarono di firmare l’accordo. La contrarietà albanese riguardava essenzialmente la richiesta di smilitarizzazione dell’UÇK e la conferma della sovranità jugoslava sul Kosovo. Tuttavia Madeleine Albright, sempre più ferma nella volontà di procedere militarmente, non poteva permettere che il negoziato fallisse per responsabilità anche albanese. Perciò si recò a Rambouillet per convincere i delegati albanesi ad accettare il pi ano così come formulato, annesso militare compreso. Secondo un articolo sul New York Times mai smentito la Albright avrebbe detto: “Firmare Rambouillet era cruciale per ottenere due cose nei confronti degli europei : portarli ad accettare l’uso della forza e schierare gli albanesi a favore di quest’accordo”79. Ancor più esplicito il discorso fatto dal segretario di Stato alla delegazione albanese e riportato da Pirjevec: “Non capite? Senza questo accordo non ci sarà l’intervento aereo NATO, non ci saranno truppe di terra della NATO e i serbi potranno massacrare il vostro popolo”. Inoltre lo stesso comandante supremo della NATO, Wesley Clark, si recò a colloquio con il capo politico dell’ UÇK, Thaçi, per assicuralo sulla veridicità del progetto di attacco alla RFJ. 78 Pirjevec, “Le guerre jugoslave, 1991-1999”, Einaudi 2001, pag. 591; G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 142 79 New York Times, 18/4/1999 51 Dopo una prima accettazione “condizionale” dell’accordo da parte della delegazione albanese 80, il prosieguo delle trattative fu rinviato al 15 marzo a Parigi, ufficialmente trattandosi di una semplice pausa. Nelle settimane che trascorsero, la Albright riuscì con una serie di lettere e di conversazioni a convincere Thaçi a dare il proprio assenso definitivo al piano. E’ fondamentale notare come esso si basasse sull’interpretazione di un passaggio tanto delicato quanto ambiguo del testo dell’accordo in cui si diceva che, trascorsi i tre anni transitori, sarebbe stata convocata una riunione internazionale per determinare la soluzione finale per il Kosovo “sulla base della volontà popolare”81. Il punto è che Thaçi interpretò quest’ultimo accenno alla volont à popolare come la garanzia che si sarebbe deciso sulla base di un referendum da sottoporre alla sola popolazione del Kosovo, e non di tutta la RFJ. Da parte del Dipartimento di Stato USA non arrivò alcuna smentita di tale interpretazione, mentre il Gruppo di contatto manteneva formalmente il punto del rispetto della sovranità jugoslava. In questo modo i negoziati si conclusero con la firma in calce all’accordo della delegazione albanese, ma non di quella serba. La responsabilità del fallimento dei negoziati ricadeva in tal modo interamente su Milosevic. Ricordando la minaccia NATO, ora tutto appariva pronto per la guerra. 80 In sostanza la delegazione aveva richiesto del tempo per discutere le proposte con i vari leader in Kosovo. Noel Malcolm, op. cit. pag. X 81 G. Marcon op. cit. pag. 40 52 8. La guerra dal cielo e sulla terra Nell’immediato l’esito negativo dei colloqui di pace fu seguito dal ritiro dei verificatori dell’OSCE, per evitare che fossero presi in ostaggio dalle truppe serbe, e dalla ripresa degli attacchi serbi contro l’ UÇK e la stessa popolazione civile. Il 24 marzo alle ore 20 locali, la NATO iniziò i bombardamenti, su ordine di Javier Solana che aveva autorizzato l’operazione “Allied Force”. Per la prima volta la Nato si impegnava in una azione offensiva violando così non solo la Carta dell’ONU 82, ma anche la sua stessa costituzione secondo la quale essa costituisce una organizzazione difensiva. In realtà non regnava un clima di entusiasmo bellicista, ma piuttosto la sensazione di aver fallito nell’impostare tutte le trattative sulla strategia della minaccia. 83 La guerra iniziò all’insegna di due presupposti errati e paralleli: da una parte i vertici politici dei paesi NATO credevano che sarebbero bastati pochi giorni di bombardamenti per obbligare Milosevic a cedere; oltretutto non solo un intervento di truppe di terra era escluso a priori perché avrebbe comportato costi umani troppo elevati, ma da parte del Pentagono vi era anche una certa riluttanza all’utilizzo dei preziosi e costosi aerei Apache. Dall’altra parte, Milosevic era convinto che l’Occidente si sarebbe limitato a due o tre giorni di bombardamenti dimostrativi, visto che ufficialmente continuava a sostenere la legittimità della sovranità jugoslava sul Kosovo. Entrambi i presupposti si rivelarono infondati. La guerra che si scatenò fu duplice, anche dal punto di vista geografico: 82 Anche se il governo americano sosteneva che un implicito sostegno all’intervento era già stato fornito dalle Risoluzioni 1160 e 1190 che si rifacevano al capitolo VII della Carta dell’ONU. 83 Di fondo la logica che sta dietro alla minaccia è quella di riuscire ad imporre un determinato comportamento solamente minacciando, appunto, la controparte di una certa punizione. Nel momento in cui l’avversario non rispetta l’ultimatum imposto, la strategia della minaccia è fallita, perché l’azione deve essere portata a termine. L’ex segretario alla difesa Frank C. Carlucci affermò: “Se il bluff è smascherato, allora bisogna prevalere, non c’è alternativa”. G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 145 53 • nella Serbia centrale e solo in minima parte in Kosovo si combatteva il conflitto altamente tecnologico tra NATO e RFJ: la tattica di Milosevic fu di rispondere il meno possibile ai bombardamenti e proprio per questo riuscì a conservare gran parte del suo arsenale (tra l’altro ricorrendo anche a ingegnosi artifici come la costruzione di carri armati in legno e tela da utilizzare come bersagli). D’altra parte l’attacco NATO inizialmente colpì esclusivamente obbiettivi militari; in seguito, quando l’operazione, priva di truppe di terra e condotta con aerei che volavano ad alta quota, risultò inadeguata ad intervenire in Kosovo, l’Organizzazione aumentò l’intensità e la gamma di obiettivi dei bombardamenti in risposta all’escalation della violenza serba contro gli albanesi. • In Kosovo veniva condotta con metodi decisamente più antichi, la guerra delle forze serbe contro l’UÇK e la popolazione civile. L’effetto immediato dell’inizio dei bombardamenti fu l’avvio di una campagna tremenda di distruzione da parte delle truppe serbe che, trovando la guerriglia albanese impreparata, si concentrò in tre zone: nel nord-est della provincia, a difesa di un corridoio lasciato aperto per i rinforzi; nella regione di Drenica, tradizionale baluardo dell’UÇK; nell’area di sud-ovest confinante con l’Albania. La strategia di tale attacco fu presto chiara: si voleva tentare la modifica dell’assetto demografico della provincia, costringendo alla fuga tutti gli albanesi e procedendo alla distruzione di qualsiasi prova della loro “jugoslavità”: furono sequestrati i passaporti e le carte d’identità, bruciati i registri anagrafici e del catasto, tolte le targhe delle auto in fuga. Tutto ciò aveva una sua logica sinistra: nel caso di sconfitta, si sarebbe potuto dire di accettare il rientro di tutti coloro che avrebbero dimostrato di essere cittadini jugoslavi. I profughi in fuga cercarono rifugio nei paesi confinanti: il bilancio della guerra ne vede 280300.000 in Albania, 115-120.000 in Macedonia e 35-70.000 nello 54 stesso Montenegro, il cui governo aveva preso le distanze dalla politica serba. Ovviamente l’esodo dei profughi portò gravi problemi ai paesi che li dovevano accogliere: la situazione risultava particolarmente esplosiva in Macedonia dove circa 65.000 persone rimasero bloccate al confine, presso Bllacë/Blace in seguito alla decisione del governo di Skopje di chiudere le frontiere. La gestione della crisi apparve più difficile del previsto per la NATO che si trovò anche ad essere accusata di non aver ascoltato le voci di chi aveva sostenuto che i bombardamenti avrebbero aumentato l’escalation della violenza nella provincia. L’organizzazione reagì in due modi: da un lato propose a Belgrado le cinque condizioni per cessare i bombardamenti (1. Fine della pulizia etnica; 2. Smobilitazione delle truppe; 3. Assenso ad dispiegamento di una forza NATO in Kosovo; 4. Rientro dei rifugiati; 5. Implementazione degli accordi di Rambouillet). Qui si pone la c.d. “questione del timing”, cioè del rapporto temporale tra cessazione della pulizia etnica da parte delle autorità serbe e fine dei bombardamenti. Entrambe le parti non erano disposte a cedere per prime 84. Dall’altro lato, inasprì i bombardamenti non solo moltiplicandone la frequenza, ma anche allungando la lista degli obbiettivi e includendovi edifici civili e infrastrutture. La conseguenza di questa scelta militare, unita al maggior uso di armi convenzionali, fu ovviamente un aumento drammatico di quelli che il cinico linguaggio militare chiama “danni collaterali”, sfruttati dalla propaganda serba per dare credito all’atteggiamento di vittima di un’aggressione assunto fin dall’inizio dal governo di Belgrado. Epilogo tragico di questa spirale di bombe-accuse- contraccuse, fu il bombardamento – il 23 aprile - da parte della Nato della sede della televisione del regime a Belgrado. Bilancio: sedici vittime tra giornalisti 84 G. Scotto ed E. Arielli sostengono che la riluttanza della NATO a smettere per prima i bombardamenti dipendesse anche dal fatto che ciò avrebbe avallato la relazione tra inizio dell’intervento NATO e avvio da parte serba di una pulizia etnica su vasta scala, relazione chiamata costantemente in causa dai detrattori dell’intervento. da G. Scotto, E. Arielli, op. cit. pag. 148 55 e tecnici. E ovviamente una serie di polemiche nell’opinione pubblica occidentale85. Parallelamente all’inasprimento dei bombardamenti, furono riattivati i canali diplomatici. Con l’intento di inserire anche la Russia, completamente marginalizzata dal processo decisionale, e che comunque portava avanti una politica piuttosto ambigua nei confronti della RFJ, il ministro degli Esteri tedesco Fisher il 14aprile lanciò il suo piano, che prevedeva una pausa di 24 ore nei bombardamenti per favorire il ritiro delle forze serbe, la creazione di una forza internazionale comprendente la Russia, che avrebbe agito sotto l’egida ONU e infine un piano di ricostruzione economica dei Balcani, sul modello del piano Marshall. Nell’immediato il “piano Fisher” non ottenne altro successo concreto che quello di convincere Madeleine Albright della necessità di inserire nel discorso diplomatico anche la Russia. Cogliendo l’opportunità presentatagli, Eltsin avviò una svolta nella diplomazia del Paese, nominando come suo rappresentante per i colloqui a Bruxelles, l’ex premier Viktor Cernomyrdin, noto per il suo atteggiamento filo occidentale e l’insofferenza per Milosevic. Dietro ai risultati ottenuti di lì a poco alla riunione del G8 di Petersberg è proprio l’azione diplomatica di Cernomyrdin, che riuscì a far accettare a Milosevic l’idea di una “presenza internazionale”, da dispiegare in Kosovo sotto egida ONU. D’altronde va aggiunto che la stessa amministrazione americana capì che era necessario fare qualche concessione a Milosevic, rispetto al piano di Rambouillet. Con queste premesse, al G8 fu raggiunto un accordo che sul modello del Piano Fisher proponeva la fine degli scontri, il rientro di tutte le forze serbe, militari e paramilitari, ma anche la 85 In questa vicenda vi sono due aspetti sinistri, l’uno riguardante la NATO, l’altro i serbi. Primo, fu il Centro Operativo Media, una sorta di organo per la “gestione” dell’informazione in campo occidentale durante la guerra, a suggerire ai vertici militari quell’attacco per liberarsi di una voce inopportuna. In particolare la tv serba era colpevole di aver fatto ampia propaganda della strage avvenuta vicino Decani dove un aereo NATO scambiò due colonne di fuggiaschi albanesi per un convoglio militare serbo, uccidendone 75. Secondo, il direttore della TV serba e alcuni suoi collaboratori, che erano stati avvertiti dai giornalisti occidentali dell’imminenza di quell’attacco, non avvisarono i “pesci piccoli” Pirievec, le Guerre jugoslave, Einaudi 2001, pag. 617-627. 56 smilitarizzazione dell’UÇK e, punto fondamentale, la creazione di una forza (di sicurezza) internazionale per il Kosovo, approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In un momento apparentemente tanto proficuo due fatti turbarono il delicato equilibrio delle trattative: il 9 maggio l’ambasciata cinese a Belgrado fu colpita da un bombardamento NATO, causando tre morti e una forte crisi diplomatica tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese; il 27 maggio il procuratore generale del tribunale dell’Aia Louise Arbour accusò Milosevic e quattro suoi collaboratori di crimini contro l’umanità e violazione delle leggi di guerra86. Ad ogni modo le trattative proseguirono avendo come protagonisti Cernomyrdin, il sottosegretario di Stato statunitense Talbott e il Presidente finlandese Ahtissaari, coinvolto per incarico dell’Unione europea, i quali elaborarono un piano largamente ricalcato sul progetto del G8. Quando tale piano fu presentato a Milosevic, questi lo accettò del tutto inaspettatamente. I principali elementi di differenziazione di questo piano rispetto a quello elaborato a Rambouillet consistevano nella mancanza di cenni relativi alla libertà di movimento delle truppe NATO in territorio jugoslavo (esclusa una fascia di cinque chilometri sulla frontiera tra il Kosovo e la Serbia) e nell’affermazione della centralità dell’ONU nella gestione del Kosovo del dopoguerra. I punti principali così come elencati nelle conclusioni dell’incontro del G8 di Petersberg prevedevano 87: 1. un’immediata e verificabile fine della violenza e della repressione in Kosovo; 2. il ritiro delle forze militari, di polizia e paramilitari da Kosovo, nonché la smilitarizzazione dell’ UÇK 86 Nonostante le polemiche sulla scelta di un simile passo proprio nel momento in cui i vozd appariva più moderato, Pirjevec sostiene che la Arbour avesse voluto evitare che un’eccessivo pragmatismo nelle trattative potesse portare a negoziare le concessioni di Milosevic con una specie di amnistia segreta per le sue colpe. Pirievec, le Guerre jugoslave, Einaudi 2001, pag. 634 87 Vedere l’Allegato 1 al testo della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza 57 3. lo spiegamento di due presenze internazionali, una civile e una militare, approvata e adottata dalle Nazioni Unite; 4. la creazione da parte del Consiglio di Sicurezza di un’amministrazione ad interim che garantisca le condizioni per una vita pacifica e normale per gli abitanti del Kosovo; 5. il libero e sicuro ritorno dei rifugiati e degli sfollati, nonché il libero accesso in Kosovo alla organizzazioni umanitarie di aiuto; 6. la transizione verso un assetto politico caratterizzato da un sostanziale autogoverno per il Kosovo, che tenga conto degli accordi di Rambouillet e del principio di sovranità e di integrità territoriale della RFJ Il 3 giugno 1999 il Parlamento serbo approvò l’accordo. Nel testo, un paragrafo menzionava la “consistente partecipazione della NATO” nelle truppe da inviare in Kosovo. In tal modo il ruolo centrale della NATO nella gestione della sicurezza del Kosovo postbellico trovava l’assenso della RFJ 88. Per quanto riguarda le ragioni che spinsero Milosevic ad accettare, premesso che si tratta solo di ipotesi, le argomentazioni sostenute sono varie e forse, sommate, possono concorrere a dare una spiegazione plausibile. Il vozd subì la pressione della minacciata invasione di terra del Kosovo e sentì ad ogni modo che se avesse continuato il suo stesso potere interno sarebbe stato messo in pericolo. D’altra parte c’è chi sostiene che esistesse un piano segreto tra Milosevic e i vertici militari russi, secondo il quale le truppe russe avrebbero occupato il nord della provincia permettendo poi al regime di Belgrado di mantenere la sovranità almeno su quella parte di territorio89. Ciò che di fatto accadde nei giorni seguenti l’approvazione del piano di pace da parte del Parlamento serbo fu che la NATO continuò a bombardare finché il 9 giugno non fu firmato a Kumanovo l’accordo per il ritiro delle forze serbe tra il generale Mike Jackson e i plenipotenziari jugoslavi. In seguito al 12 88 “The international security presence with substantial North Atlantic Treaty participation must be deployed under unified command and control and authorized to establish a safe environment for all people in Kosovo and to facilitate the safe return to their homes of all displaced persons and refugees”. Vedere Annesso 2 alla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. 89 Pirievec, le Guerre jugoslave, Einaudi 2001, pag. 637 58 giugno un contingente russo della SFOR, la Forza di Stabilizzazione in Bosnia Erzegovina, si mosse verso Pristina e ne occupò l’aeroporto: il piano di presa del Kosovo settentrionale fallì però perchè Ungheria, Romania e Bulgaria negarono il sorvolo del proprio territorio agli aerei russi. Questa mossa ebbe comunque un certo peso nella decisione di inserire i russi nelle truppe della KFOR. 59 9. Il mandato internazionale: la Risoluzione 1244 La Risoluzione 1244, approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 10 giugno 1999 con 14 voti favorevoli, nessun contrario ed un astenuto (la Repubblica Popolare Cinese) descrive il mandato dell’intervento collettivo internazionale in Kosovo. Tale atto è legato da un rapporto strettissimo alle decisioni del G8 di Petersberg. Da una parte infatti il documento conclusivo dell’incontro del G8 e i c.d. Accordi di Pace del Kosovo auspicano l’inserimento delle Nazioni Unite nella gestione del dopoguerra. Dall’altra la Risoluzione stessa, al paragrafo primo, stabilisce che la soluzione politica alla crisi del Kosovo dovrà essere fondata proprio su quei principi generali dal G8 e accolti negli Accordi di Pace sottoscritti dal Parlamento serbo il 3 giugno 1999. E difatti le conclusioni dell’incontro di Petersberg e il testo degli Accordi sono riportati come Annesso 1 e 2 alla Risoluzione. In sostanza la Risoluzione 1244 costituisce la ricezione da parte dell’ONU delle decisioni prese in quelle due occasioni e rappresenta dunque, secondo alcuni, la legittimazione ex-post dell’intervento della NATO. Nel testo della Risoluzione, vengo indicati 90 come obiettivi di fondo della missione: la soluzione della situazione umanitaria e il ritorno libero e sicuro dei rifugiati e degli sfollati alle loro case; una soluzione politica alla crisi nel senso di creare una situazione di sostanziale autonomia e di effettivo autogoverno per il Kosovo (un punto importante perché sottolinea che la Comunità internazionale non è intenzionata a sostenere il progetto di un Kosovo indipendente). Inoltre, recependo le indicazioni degli Accordi di pace, prevede l’istituzione di due presenze internazionali, una militare, l’altra civile. Per quanto riguarda la prima, autorizza gli Stati membri e le organizzazioni internazionali rilevanti 90 Per questa analisi si è fatto riferimento al testo in inglese della Risoluzione. 60 a istituire una presenza internazionale di sicurezza come stabilito all’Annesso 2, che prevede la partecipazione sostanziale della NATO a questa forza. Poi stabilisce che le sue responsabilità saranno: • l’imposizione della pace: quindi il mantenimento o, dove necessario, l’imposizione del cessate il fuoco; la sorveglianza dei confini; il monitoraggio del ritiro delle truppe serbe e la smilitarizzazione dell’ UÇK (Questi due ultimi obiettivi hanno trovato una regolamentazione più specifica rispettivamente nell’accordo tecnico militare tra KFOR e RFJ del 9 giugno e nall’ impegno di smilitarizzazione e trasformazione dell’ UÇK, firmato il 21 giugno a Pristina dal capo Thaçi e dal comandante della KFOR Mike Jackson); • la creazione di un ambiente di fiducia, nel quale sia possibile il rientro sicuro dei rifugiati e degli sfollati alle loro case; • l’assistenza all’UNMIK, intesa in particolare come creazione di condizioni di sicurezza per le sue attività, mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, gestione dello sminamento, finché l’UNMIK non possa assumere su di sé tali compiti 91. Per quanto riguarda la presenza civile, la Risoluzione incarica il Segretario generale delle Nazioni Unite di creare una presenza civile internazionale, in seguito chiamata UNMIK, stabilendo che il suo primo scopo sia quello di creare una amministrazione ad interim sotto la quale il popolo del Kosovo goda di una sostanziale autonomia all’interno della RFJ e di sovrintendere allo sviluppo di istituzioni democratiche provvisorie di autogoverno. Inoltre stabilisce una serie di responsabilità specifiche, in seguito ordinate dal “Primo rapporto del Segretario Generale” in quattro “pilastri”, assegnati ciascuno ad 91 Va comunque detto che alla KFOR è lasciato un margine di autonomia d’azione piuttosto ampio, essendo previsto solamente che il capo dell’UNMIK coordini l’attività della KFOR per assicurare che “il partner militare operi in vista degli stessi obiettivi e in condizioni di sostegno reciproco”. F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, “La pace intrattabile, Kosovo 1999/2000: radiografia del dopo-bombe”, Asterios Editore 2000, pag. 111 61 una agenzia internazionale: 1) l’amministrazione civile è, come detto, assegnata alle Nazioni Unite; 2) della funzione di institution building è incaricata l’OSCE; 3) l’ UNHCR gestisce il rientro dei rifugiati e degli sfollati e la fornitura degli aiuti umanitari; 4) l’Unione europea è incaricata della ricostruzione economica. Entrambe le presenze sono istituite per un periodo iniziale di un anno, da continuare a meno che il Consiglio di Sicurezza non decida diversamente. Nella pratica i vertici dell’UNMIK hanno di fatto interpretato in maniera estensiva il loro mandato: lo stesso Segretario generale dichiarò come propri dell’amministrazione ad interim “tutti i poteri legislativi ed esecutivi, ivi compresa l’amministrazione del potere giudiziario”. In questo modo, a dispetto delle dichiarazioni di rispetto della “sovranità e dell’integrità territoriale” della RFJ, l’UNMIK ha assunto tutti i poteri tradizionalmente propri dello Stato. Di fatto il Kosovo si presenta oggi come un nuovo protettorato. 62 CAPITOLO SECONDO La gestione internazionale del “post-conflict” 6. Immediato dopoguerra: il rovesciamento dei rapporti di forza tra albanesi e serbi Il 9 giugno 1999 veniva il comandante della neocostituita KFOR - il Generale Micheal Jackson - e i rappresentati della Repubblica Federale di Jugoslavia e della Repubblica Serba avevano firmato il “Military Technical Agreement”. Quest’accordo militare prevedeva la fine delle ostilità, il programma per il ritiro delle truppe e delle milizie serbe e il contestuale ingresso delle forze NATO. Tale ingresso avvenne lentamente: i primi reparti britannici, costituiti in maggioranza da fucilieri nepalesi (i Gurkha), entrarono in Kosovo l’11 giugno. Poco prima, un gruppo di paracadutisti russi aveva occupato l’aeroporto di Pristina. Questo episodio creò un clima incredibilmente teso e uno scontro tra i vertici stessi della NATO: difatti il capo supremo, l’americano Wesley Clark, ordinò al generale Michael Jackson di intervenire con gli elicotteri militari per bloccare l’azione russa. Jackson, consapevole della crisi che tale gesto avrebbe potuto avere sugli equilibri mondiali, decise di non ubbidire all’ordine. Solo il 18 giugno, dopo vari giorni di trattative, fu raggiunto a Helsinky un accordo sulla partecipazione delle truppe russe alla missione internazionale di sicurezza in Kosovo: 3.600 soldati russi sarebbero stati impiegati sia per l’occupazione dell’aeroporto di Pristina che nelle sezioni americana, francese e tedesca della KFOR. 92 92 Le truppe russe sarebbero dunque state sotto il comando della NATO, ma anche sotto il comando ed il controllo del proprio governo. In particolare, se il contingento russo si fosse rifiutato di eseguire gli ordini del comando NATO, quest’ultima avrebbe dovuto far eseguire l’ordine ad altre truppe. Oltre ciò è importante notare come alla Russia non fu assegnato il controllo su alcun settore del territorio kosovaro (essendo lo stesso aeroporto di Pristina ovviamente aperto a tutte le truppe della KFOR). 63 Gli italiani entrarono in Kosovo alla mezzanotte del 12 giugno, passando per la frontiera di Blace e poi attraversando le città di Prizren, Djakovica, Decani fino ad arrivare a Pec. La realtà che i soldati si trovarono di fronte era agghiacciante. Il generale Mauro Del Vecchio, alla guida dei bersaglieri della brigata Garibaldi, così commentò: “A Pec trovammo una città fantasma, dovunque c’erano distruzione e odore di cadaveri. Non avevo mai visto nulla di simile, neppure quando ho guidato i soldati a Sarajevo”.93 Per quanto riguarda le case, oltre un terzo erano state distrutte o fortemente danneggiate. Tuttavia gli scontri non cessarono con la fine dei bombardamenti. L’immediato dopoguerra fu infatti caratterizzato da due nuove ondate di violenza. In principio furono le milizie serbe, consapevoli di dover abbandonare la regione, a scatenare la loro ferocia contro tutto ciò che incontrarono sul loro cammino. Toni Fontana narra di un episodio drammaticamente esemplificativo, verificatosi appunto dopo che la guerra era formalmente conclusa: “la sera del 13 giugno una banda di paramilitari serbi penetra in un’abitazione alla periferia di Pec, abitata dalla famiglia Bala. Ubriachi e drogati, i miliziani dapprima rapinano quattromila marchi, poi violentano ed uccidono la cognata del capofamiglia, Isa Bala, quindi sparano a quattro dei suoi figli e a un nipote e si allontanano portando in ostaggio il cognato diventato uno dei tanti desaparecidos del Kosovo”.94 In quei giorni di giugno, le milizie serbe rastrellarono i villaggi e portarono via molti ostaggi, che andarono ad ingrossare le liste dei “desaparecidos del Kosovo”. Si tratta ancora oggi di un fenomeno dai molti lati oscuri poiché entrambe le parti lamentano il mancato ritorno dei propri “scomparsi”, in una dinamica di accuse reciproche che sembra non aver fine. Un libro bianco (del giugno 2000) del Comitato Internazionale della Croce Rossa elencava i nomi Philip E. Auserswald and David P. Auserswald, “The Kosovo conflict, a diplomatic history trough documents”, Kluwer Law International 2000 93 Toni Fontana, “Entrano le truppe”, in “La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001: i fatti, i personaggi, le ragioni”, Alessandro Marzo Magno (a cura di), Il Saggiatore 2001, pag. 358 94 Ibidem, pag. 361 64 di 3368 dispersi (tra cui anche quelli di 400 serbi e un centinaio di rom, spariti nel periodo della vendetta albanese). Secondo le stime della Croce Rossa, il 10% di queste persone è scomparso dopo la fine del conflitto. Il tenente generale Fabio Mini riporta che oltre 2000 prigionieri furono presi della milizie serbe con l’accusa di terrorismo95. Di questi alcuni furono in seguito liberati segretamente in cambio di un riscatto, altri restarono nelle prigioni serbe fino al 2001 e altri ancora non sono mai tornati. Nel frattempo, il 12 giugno cominciarono ad affluire le truppe americane, britanniche, francesi e italiane della KFOR. Tuttavia il loro ingresso non comportò l’assunzione del controllo del territorio96. Anzi, proprio in quei giorni ebbe inizio un periodo di anarchia caratterizzato dalla feroce vendetta degli albanesi. In proposito, c’è un dato importante da sottolineare, che in parte fornisce una chiave di lettura di questi fatti. La Risoluzione 1244 aveva previsto il dispiegamento di una presenza militare internazionale con una “sostanziale partecipazione” della NATO 97 . In sostanza, dunque, la NATO da parte in causa, che aveva condotto 78 giorni di campagna di bombardamenti contro la RFJ, diventava improvvisamente un pacificatore super partes. E’ chiaro che a non averci creduto siano stati non solo (ed ovviamente) i serbi, ma gli stessi albanesi. Questa lettura della dinamica del dopoguerra è confermata dallo stesso tenente generale Fabio Mini, il cui pensiero si ritiene sia utile riportare integralmente: “l’intervento alleato aveva segnalato alle forze kosovare dell’UÇK che l’Occidente era schierato con loro. Anzi esse si sentivano, anche perché alcuni leader dell’alleanza glielo avevano fatto credere, le fanterie della NATO. E così, dopo i massacri serbi nei riguardi degli albanesi, 95 Fabio Mini, “La guerra dopo la guerra”, Einaudi 2003, pag. 215 Mini riporta lo scambio di accuse tra la KFOR e i serbi: la prima incolpava le truppe serbe di essersi ritirate “tropo in fretta e nella maniera sbagliata”; i secondi, al contrario, denunciavano la lentezza con cui le truppe NATO erano entrate in Kosovo, lentezza che avrebbe lasciato scoperti i confini “consentendo il rientro caotico delle masse di albanesi e dei fuoriusciti dell’UÇK, oltre ai vari approfittatori, mercenari e sciacalli di turno”. Fabio Mini, op. cit. pagg. 214 - 215 97 Security Council resolution 1244, Annex 2 par. 4 (il testo della Risoluzione è disponibile al sito dell’ONU http://www.un.org/Docs/scres/1999/sc99.htm) 96 65 prima, durante e anche dopo l’entrata delle truppe della KFOR si compiono i massacri e le vendette delle milizie kosovare contro i serbi, i rom e gli stessi albanesi moderati”98. Quindi, di fronte all’ingresso delle truppe “liberatrici”99, l’ UÇK avviò un’azione sistematica di vendetta, dietro la quale non è difficile intravedere un obiettivo politico-demografico, e cioè la monoetnicità del Kosovo. E di fatto, mentre la NATO incominciava la divisione in settori del territorio, il processo di albanizzazione fu avviato nel caos. I guerriglieri, seguiti da bande di ladri e terroristi, si accanirono contro la popolazione serba e rom, nonc hé contro i luoghi sacri della cultura ortodossa: in sei mesi furono distrutti un numero di chiese e monasteri tra 75 e 138 (a seconda delle fonti). Un gruppo di miliziani, guidati dall’ex alto ufficiale dell’esercito croato Agim Çeku, istituì posti di blocco armati per cacciare i serbi. Il dato più significativo è proprio quello che riguarda il flusso di migrazioni: mentre i profughi albanesi affluivano velocemente dalle frontiere dei paesi vicini, circa 200.000 serbi e 50.000 rom furono costretti alla fuga. In questo quadro, apparivano del tutto scollegate dalla realtà le rassicurazioni del segretario generale della NATO, Javier Solana, che pretendeva di poter garantire la sicurezza di coloro che fossero rimasti in Kosovo.100 Di fronte a questa situazione, la KFOR tentò di correre ai ripari, avviando le trattative 101 per la smilitarizzione dell’UÇK, prevista dal G8 di Petersberg e recepita dalla stessa Risoluzione 1244.102 L’ “Impegno per la smilitarizzazione 98 Fabio Mini, op. cit. pag. 214 Nel senso che questo era il modo in cui esse erano percepite dalla popolazione kosovaro-albanese. Da un punto di vista più ampio, non legato solo alla guerra del Kosovo, è interessante notare come alcuni studiosi paventano il rischio di aver creato un “effetto UÇK”, nel senso che “in futuro i movimenti di guerriglia potrebbero scegliere la strada delle provocazioni calcolate allo scopo di scatenare un processo di escalation”. G. Scotto, E. Arielli, “La guerra del Kosovo. Anatomia di un’escalation”, Editori riuniti 1999, pag. 173 100 Pirjevec, “Le guerre jugoslave 1991-1999”, Einaudi 2001, pag. 644 101 La Albright inviò il suo portavoce James Rubin a convincere Thaçi ad accettare la smilitarizzazione. Pirjevec, op. cit. pag. 644 102 Security Council resolution 1244, Annex 1 99 66 e la trasformazione dell’UÇK” 103, firmato ufficialmente da Thaçi il 21 giugno 1999, prevedeva: • la fine delle ostilità e la collaborazione nell’opera di sminamento104 • la consegna delle armi alla KFOR, entro 90 giorni • l’arruolamento dei membri dell’UÇK in una guardia nazionale da costituirsi Nei giorni successivi iniziò la consegna delle armi, che andò avanti per circa tre mesi e che comunque si rivelò un bluff, visto che la maggior parte delle armi veniva nascosta. A parte questo aspetto (che poi sarà ripreso in seguito), è importante sottolineare come, mentre si svolgevano le trattative per la smilitarizzazione dell’UÇK, i capi clan e i guerriglieri albanesi si spartirono il controllo sul territorio, anche auto-nominandosi sindaci, ministri e quant’altro. E’ chiaro dunque che le truppe KFOR dovettero affrontare una situazione di totale anarchia, caratterizzata dall’auto-assunzione del potere locale da parte degli ex-combattenti albanesi, da continue violenze ai danni dei serbi e di altre minoranze, da iniziative umanitarie non coordinate, dalla presenza di volontari e mercenari provenienti dall’estero (tra cui estremisti islamici afgani, libanesi e palestinesi!).105 Come sottolinea Fabio Mini, di fronte alla incapacità di coordinamento d’azione tra ONU e NATO, quei mesi di anarchia sono serviti agli ex guerriglieri per trasformarsi in capi politici, spartirsi il territorio e continuare le proprie faide: in sostanza per assumere – a loro modo - il potere sul territorio, potere in seguito confermato dalle elezioni “democratiche”106. Come sempre nelle guerre caratterizzate da un alto livello di estremismo ideologico, si assistette anche alla esaltazione degli ex-combattenti, venerati come eroi (se vivi) e martiri (se morti). Esemplificativa dell’estremismo 103 “Undertaking of Demilitarization and Transformation by the UCK (KLA)”, June 20, 1999, Philip E. Auserswald and David P. Auserswald, “The Kosovo conflict, a diplomatic history trough documents”, Kluwer Law International 2000 104 In particolare ai guerriglieri si richiedeva di indicare i territori da loro stessi minati. 105 Fabio Mini, op. cit. pag. 215-216 106 Ibidem 67 albanese è la vicenda dell’ex comandante della FARK107 Tahir Zemaj: in un libro pubblicato nel 2001 (e oggi introvabile!), questi criticò aspramente “gli atti di barbarie” commessi dagli stessi albanesi nella zona del bacino del lago di Radoniq. Nel 2003, dopo una serie di minacce e atti intimidatori, Zemaj, suo figlio e un suo cugino sono stati uccisi nel centro di Pec. “Anche per quel libro”.108 107 Un altro gruppo di guerriglieri albanesi organizzato da Rugova e Bukoshi in contrapposizione all’UÇK, ma meno rilevante di quest’ultimo. L’acronimo FARK sta per Forze Armate della Repubblica Kosovara. Pirjevec, op. cit. pag. 566 108 Fabio Mini, op. cit. pag. 216 68 2. Non solo serbi e albanesi: le numerose minoranze nel territorio kosovaro Quando si parla di composizione etnica del Kosovo vengono sempre citate la maggioritaria comunità albanese e quella minoritaria serba. Tuttavia lo spettro delle minoranze presenti sul territorio kosovaro è più ampio. In questo paragrafo si vogliono delineare le caratteristiche principali delle diverse etnie minoritarie del Kosovo, nonché fotografare brevemente la situazione della minoranza politicamente più rilevante, quella serba. Nell’analizzare il panorama etnico del Kosovo - che si compone, oltre alle due più consistenti etnie (quella serba e quella albanese), di altre otto minoranze – si deve premettere che a causa del boicottaggio albanese del censimento del 1991 e della pulizia etnica avviata da entrambe le parti nel ’99, nonché ai ripetuti episodi di violenze e agli spostamenti che ne sono seguiti, non esistono attualmente dati certi sulla consistenza numerica delle varie etnie 109 : • Rom: sono la minoranza più numerosa. Prima dello scoppio della guerra erano stimati tra 100 e 150 mila (circa il 5% della popolazione locale). I rom parlano una lingua propria, nonché il serbo-croato e sono di fede cristiano-ortodossa. Nell’immediato dopoguerra, i rom sono stati vittime di ogni forma di violazione dei diritti umani e di violenza in quanto identificati in massa dagli albanesi quali “complici delle forze di sicurezza serbe nella commissione di crimini di guerra”. La veridicità di tale accusa è stata in parte messa in dubbio da un rapporto congiunto OSCE/ODIHR-Consiglio d’Europa, secondo cui la maggior parte dei rom “collaborazionisti” fu costretta a cooperare con le truppe 109 Pertanto in questa disamina si è ricorso alle stime riportate dallo “Statistical Office of Kosovo”, nonché da uno studio di Maria Koinova e Eduardo Trillo, intitolato “I rom kosovari e le altre minoranze” (e riportato in “La pace intrattabile, Kosovo 1999/2000: radiografia del dopo-bombe”, F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, Asterios Editore 2000, pag. 151-153) 69 serbe. Di fatto, circa il 70% dei rom ha abbandonato le proprie case, fuggendo in Serbia, Montenegro e Macedonia, ma anche Albania, Bosnia-Erzegovina e Ungheria oppure trovando rifugio in campi interni al Kosovo, quali quelli di Dakovica, Oblic e Plementina. La condizione dei rom è, oggi, ancor più drammatica rispetto a quella dei serbi o di altre minoranze almeno per due ragioni: innanzitutto, non hanno uno stato d’origine cui fare riferimento ed in cui eventualmente trasferirsi. Inoltre, i rom vengono considerati come rifugiati di secondo livello. Per quanto riguarda la loro consistenza numerica, esistono difficoltà particolari poiché molti rom - dopo la fine della guerra - hanno preferito non identificarsi come tali, nel timore di subire aggressioni. E’ per questo che una stima del gennaio 2000, mostrando un ampio margine d’errore, ne contava tra gli 11 e i 30 mila. • Bosgnacchi (o slavi musulmani): il nome “bosgnacchi” deriva dal termine “bosnjak” con cui vengono in genere indicati i musulmani bosniaci. Tuttavia, non sembra esistere alcun legame etnico con la Bosnia in quanto stato, trattandosi invece di un gruppo che trae la propria origine nella “nazionalità musulmana” creata ai tempi dell’exJugoslavia. I bosgnacchi sono musulmani e parlano una lingua che loro chiamano bosniaco, anche se di fondo è serbo-croato con caratteri latini (e non cirillici). A parte le differenze più o meno esistenti con il serbocroato, le difficoltà maggiori per questa minoranza sono dipese dalla differenza linguistica con gli albanesi. • Gorani (o goranci): sono di fede islamica e parlano una lingua simile al serbo-croato con influenze macedoni. La caratteristica peculiare di questa etnia attiene ad una dimensione puramente geografica ed è la loro concentrazione nell’estrema punta meridionale del Kosovo, cioè nella regione di Gora (da cui deriva il nome dell’etnia), municipalità di 70 Dragas.110 Secondo i dati della municipalità, su 35 mila abitanti della municipalità di Dragas, i gorani sarebbero 13 mila, cui si devono aggiungere circa 12 mila emigrati all’estero (come rifugiati o come lavoratori, soprattutto verso l’Italia, la Germania e la Svizzera). Si tratta di una comunità montana molto tradizionale, dedita soprattutto all’allevamento di pecore. Negli spostamenti per raggiungere i villaggi più isolati e le loro moschee si muovono a piedi o sugli asini e le donne indossano sempre i vestiti tradizionali.111 Per quanto riguarda la loro identità, i gorani – accomunati da una forte fede islamica – hanno creato la leggenda che i loro predecessori si siano convertiti all’Islam prima dell’arrivo dei turchi nei Balcani. Hanno un forte senso comunitario, si chiamano tra di loro “i nostri” e dicono di parlare una lingua madre che chiamano semplicemente “la nostra”. Al livello di indagine etno-antropologica, gli storici macedoni, serbi, bosniaci e bulgari si contendono l’origine del popolo gorano. A livello politico, tuttavia, la comunità gorana non è riconosciuta come minoranza e - pur se rappresentata da alcuni politici – non ha un partito “etnico” in senso stretto.112 • Ashkalia: è una comunità albanofona di fede musulmana, che - avendo vissuto da sempre accanto agli albanesi – durante la guerra si è schierata apertamente con questi ultimi. • Egiziani: di lingua albanese e fede musulmana, sostengono di provenire originariamente dall’Egitto. Secondo la comunità albanese sarebbero rom che, all’inizio degli anni novanta, avrebbero ottenuto 110 L’influenza linguistica macedone si spiega proprio in relazione alla posizione geografica di questa minoranza: la regione di Gora si inserisce come un cuneo tra l’Albania (ad ovest) e la Macedonia (ad est). Alcuni gorani erano presenti anche nell’area urbana di Pristina. 111 Una giacca lunga nera con ricami dorati, pantaloni larghi e fazzoletto in testa. Tanya Mangalakova, “Kossovo: viaggio tra i Gorani”, Osservatorio sui Balcani (2/8/2004) 112 Ibidem 71 una identità diversa da Belgrado, interessata a dare una immagine multietnica di un Kosovo altrimenti dominato dagli albanesi.113 • Turchi: sono circa 20 mila, concentrati per lo più a Pristina e soprattutto a Prizren, tanto che - prima della guerra - in quest’ultima città la prima lingua era proprio il turco114. In linea generale i turchi sono la comunità che ha subito le minori violazioni dei diritti umani. • Croati: sono la minoranza meno numerosa, stimata intorno ai 500 individui, concentrati nel villaggio di Janjevo vicino a Lipljan e nei villaggi del comune di Vitina. Con riferimento a tutte le minoranze, un documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha denunciato che il numero di episodi di violenze mirate contro membri delle minoranze rom, ashkaelia, egiziana, bosgnacca e gorana “sembrava essere diminuito nel periodo che va dal gennaio 2003 al marzo 2004, ma (che) questa tendenza positiva era stata interrotta da numerosi omicidi di serbi kosovari avvenuti nella seconda metà del 2003 e nei primi mesi del 2004”.115 Precedentemente, un rapporto di Amnesty International intitolato “Prigionieri nelle nostre case”116 aveva evidenziato alcuni aspetti importanti sulla condizione delle minoranze in Kosovo. Prima di tutto, la necessità di ottenere giustizia per gli atti di violenza e le minacce alla propria integrità fisica e psicologica. Secondo tale rapporto, l’impunità costituisce un effettivo impedimento alla libertà di movimento e una limitazione al godimento dei diritti fondamentali, oltre che contribuire ad incrementare un clima di paura. 113 Maria Koinova e Eduardo Trillo, “I rom kosovari e le altre minoranze”, in F. Strazzari, L. Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B.Carrai, “La pace intrattabile. Kosovo 1999/2000: radiografia del dopo-bombe”, Asterios Editore 2000 114 Alcune stime – provenienti da fonti turche - parlano invece di una cifra molto più elevata, intorno ai 60 mila. Sule Kut, “I Turchi del Kosovo ora temono gli albanesi”, LIMES I Balcani senza Milosevic, n. 5 del 2000 115 Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, “Kosovo: tre documenti dell’UNHCR sulla difficile situazione delle minoranze” (24/8/2004) 116 Amnesty International, “Prisoners in our homes”, Amnesty International’s concerns for the human rights of minorities in Kosovo/Kosova (29/4/2003) (Disponibile nel sito dell’organizzazione alla pagina web http://web.amnesty.org/library/index/ENGEUR700102003) 72 Cartina DELLE MINORANZE! 73 Altro grave problema è quello del difficile accesso alle cure mediche, non essendo possibile per i membri delle minoranze raggiungere gli ospedali ed ottenere cure mediche adeguate, se non scortati dalle truppe della KFOR. Ciò ha determinato – sempre secondo Ammesty International – un aumento dei tassi di mortalità e delle malattie all’interno dei gruppi minoritari. Anche l’insegnamento è difficoltoso nelle enclave monoetniche, a causa della difficoltà di reperire insegnanti qualificati. La piaga maggiore è poi quella della disoccupazione: in un intervista rilasciata al settimanale Donna di Repubblica, la giornalista serba Biserka Ivanovic ha dichiarato: “questo sistema ormai è marcio, e la gente normale comincia a rovistare nei cassonetti, perché non ha un salario che gli permetta di vivere una vita decente”. Prima di passare ad analizzare la situazione dell’etnia serba, bisogna fare una considerazione: la popolazione albanese – benché decisamente maggioritaria a livello regionale (costituendo ormai più del 90% della popolazione del Kosovo) – si trova a vivere una condizione di minoranza in alcune zone abitate in prevalenza da serbi, con tutte le conseguenze che ha oggi l’essere minoranza in Kosovo. Ciò accade essenzialmente nel nord, e precisamente nella regione a nord del fiume Ibar. Per quanto riguarda la popolazione serba, l’ondata di violenza che colpì quest’etnia all’indomani della fine della guerra tra la RFJ e la NATO provocò la migrazione di circa 250.000 serbi e rom verso la Serbia propriamente detta. Gli sfollati furono accolti nei circa 383 centri collettivi, di cui molti – aperti precedentemente – accoglievano già i profughi serbi provenienti dalle ex repubbliche jugoslave di Croazia e Bosnia-Erzegovina. 117 La situazione degli sfollati serbo-kosovari in questi campi si è rivelata peggiore rispetto a quella dei rifugiati delle precedenti guerre, non soltanto a causa delle minori tutele giuridiche di cui gode lo “sfollato”, ma anche “perché – per ragioni essenzialmente politiche – i serbo-kosovari sono stati trattati come se fossero 117 Ada Sostarci, “Rifugiati e sfollati in Serbia: un’inchiesta”, Osservatorio sui Balcani (6/2/2003) 74 sempre sul punto di tornare in Kosovo e in questo senso hanno visto negarsi il diritto ad un nuovo lavoro”.118 Senza voler suggerire che esista una politica deliberata in questo senso, è tuttavia innegabile che a Belgrado faccia “comodo” avere qualche migliaia di sfollati da far valere sul tavolo delle trattative. Di fatto le città dove si riscontra la maggior concentrazione di sfollati serbokosovari sono Kraljevo 119, Leskovac, Nis, Kursumlija, Kruscevac e Vranje. Ad ogni modo, non tutti i serbo-kosovari fuggirono nella Serbia propriamente detta, divenendo in maggioranza sfollati all’interno del territorio stesso del Kosovo. Rispetto alla loro situazione, occorre fare una distinzione geografica: i due terzi dei serbo-kosovari sono attualmente concentrati nella regione a nord del fiume Ibar e della città di Mitrovica, dove costituiscono la maggioranza e quindi godono di una condizione migliore rispetto a quella degli altri IDPs (Internally Displaced Persons). Gli “altri” sono invece distribuiti sul resto del territorio kosovaro e abitano essenzialmente in enclave. Nel Kosovo del dopoguerra, la tendenza alla criminalizzazione collettiva della popolazione serba da parte degli albanesi, cui ha fatto da contraltare la difficoltà dei serbi di accettare i nuovi equilibri politici e la perdita della condizione privilegiata, ma soprattutto la necessità di proteggere gli sfollati da violenze reiterate sono state la causa della formazione di enclave monoetniche abitate soprattutto da serbi e rom.120 Ed è davvero drammatica la vita cui sono costretti coloro che Deréns ha definito “vittime della guerra, dimenticati dalla pace”121. Chiusi all’interno di villaggi blindati, capaci di muoversi solo se 118 “Therefore for purely political reasons they are treated as if they were just about to get back to Kosovo any moment, so they are denied the right to another employment, the right ‘real’ refugees have”. Osservatorio sui Balcani, “IDPs nel sud della Serbia” (11.10.2001) 119 Nell’ottobre del 2003 l’autore del presente lavoro ha avuto modo di visitare il campo di Kraljevo. 120 Alessandro Rotta, “I processi di ritorno delle minoranze in Kosovo. Il caso di Bica/Binxhe e Grabac/Grabc”, dicembre 2002 121 Jean-Arnault Dérens, “Vittime della guerra, dimenticati dalla pace”, Le Monde Diplomatique novembre 1999 75 CARTINA DI MITROVICA 76 scortati dalla KFOR, gli sfollati sono costretti a “vivere senza futuro”122 . Si tratta di individui che hanno perso tutto, la casa, il lavoro e spesso anche qualche familiare. L’accanimento albanese nei confronti di tutto ciò che era identificabile come “serbo” ha assunto particolare vigore nei confronti delle abitazioni private, e soprattutto del loro tetto. “Migliaia di case sono state scoperchiate non dalle bombe ma dalle azioni terroristiche che intendevano ridisegnare la mappa della proprietà privata in Kosovo: in genere a beneficio di chi disponeva di un fucile, di un po’ di esplosivo e dell’arroganza. Bisogna leggere il Kanun123 per capire l’importanza simbolica del tetto (… ). Il tetto è la sanzione della famiglia. Questa è definita (…) in relazione all’unione di persone ‘sotto lo stesso tetto’. (…) il modo migliore per distruggere una famiglia è di distruggere il tetto. La ricostruzione del tetto e l’insediamento successivo di altre persone è poi il modo per appropriarsi dei beni altrui”.124 La diminuzione degli incidenti interetnici dopo i primi mesi di violenze è andata parallelamente alla diminuzione di contatti tra serbi e albanesi e quindi alla formazione di enclave monoetniche difese dai militari della KFOR. In questo senso, come sottolinea Alessandro Rotta riguardo al processo di rientro nei due villaggi di Bica e Grabac, tale diminuzione “rappresenta più una sfida che una semplice premessa positiva”.125 Una situazione difficile è quella dello “Ju program” di Pristina, un palazzo costruito in piena epoca Milosevic per i Serbi che avevano abbandonato il Kosovo, che oggi viene emblematicamente chiamato “the cage”, la gabbia. A Pristina abitavano prima della guerra circa 40.000 serbi su una popolazione di 122 “Vivere senza futuro? L’Europa tra amministrazione internazionale e autogoverno: i casi di Bosnia Erzegovina e Kossovo ” è proprio il titolo del convegno annuale organizzato da Osservatorio sui Balcani a Venezia il 3-4 dicembre 2004, convegno cui l’autore di questa tesi ha partecipato. 123 Il riferimento è al “Kanun di Lek Dukagjin”, il più famoso di tutti i codici comportamentali che regolavano la vita della comunità albanese gheg nell’antichità. Si tratta di un codice tramandato a memoria, la cui trascrizione fu compiuta solo nel XIX secolo. I principi fondamentali di questo codice sono: “l’onore personale; l’uguaglianza delle persone; la libertà d’agire in conformità con il proprio onore, entro i limiti della legge e senza dover sottostare agli ordini di un altro; la parola d’onore”. Noel Malcolm, op. cit. pag. 47-48 124 Fabio Mini, “La guerra dopo la guerra”, Einaudi 2003, pag. 235 125 Alessandro Rotta, “I processi di ritorno delle minoranze in Kosovo. Il caso di Bica/Binxhe e Grabac/Grabc”, dicembre 2002 77 125.000. Dopo la guerra decisero di restare in poco meno di 300, di cui la maggior parte nello “Ju program”. Qui a “the cage”, nel corso degli scontri del marzo 2004, i “condomini” di questo palazzo sono stati accerchiati da circa un migliaio di albanesi, riuscendo a fuggire grazie ai blindati della KFOR solamente dopo sei ore di assedio e comunque sotto i colpi dei fucili “nemici”. 126 Da allora la vita si svolge tutta all’interno delle pareti del condominio e i ragazzi sono costretti a prendere un pulmino per andare a scuola a Granica, enclave serba vicino Pristina. Si ritiene adatto per concludere questa sezione dedicata alle minoranze, citare un particolare forse aneddotico, ma certamente esemplificativo della condizioni di vita di questi non-luoghi. A Granica, enclave dove vivono insieme serbi, rom e gorani, è comparsa una scritta sui muri: “Qui chi non impazzisce non è normale”.127 126 In questo palazzo abita la giornalista serba Biserka Ivanovic. Nel corso di una conversazione avuta dall’autore di questa tesi, Biserka ha confermato le parole rilasciate al giornalista Andrea Rossini: “Non mi interessa se lo chiameranno kiwi o banana. Il problema è che gli albanesi credono che domani si sveglieranno in un Kosovo indipendente, e che sarà la Svizzera. Il mio problema, invece, è che voglio che i miei diritti di cittadinanza siano rispettati, voglio avere un lavoro, acqua e luce per 24 ore al giorno, un sistema sanitario che funzioni. Il Kosovo sarà nell’Unione europea e io dovrò competere in questo nuovo mercato del lavoro perché ho delle capacità, non perché sono una serba del Kosovo. (…) Rifiuto di pensare me stessa rinchiusa in questo cubo. Sono sempre uscita per strada e continuo a farlo. Non credo che la libertà di movimento mi verrà data per decreto. Non sarete voi a venire dall’Italia, prendermi per mano e dirmi ‘Biserka, da oggi sei libera di camminare’. Ogni giorno esco di qui, cammino fino al mio ufficio e torno indietro a piedi. Sono sicura che il quartiere sa che sono una Serba. Se qualcuno volesse attaccarmi, probabilmente mi potrebbe uccidere. Ma non voglio accettare di vivere e lavorare qui come una vittima”. Andrea Rossini, “Viaggio tra i serbi di Pristina”, Osservatorio sui Balcani (16/10/2004) 127 Ibidem 78 Schema MINORANZE 79 3. Il mandato internazionale L’impegno assunto dalle Nazioni Unite in Kosovo è straordinariamente ampio. Le stesse fonti delle Nazioni Unite riportano: “The U.N. took on a sweeping undertaking that was unprecedented in both its scope and structural complexity. No other mission had ever been designed in a way that other multilateral organizations were full partners under the United Nations leadership”128. Per capire come si presenta il Kosovo sotto l’amministrazione internazionale delle N.U. bisogna ragionare su due ordini di idee, analizzando da un lato le direttive della Risoluzione 1244 e dall’altro il modo in cui l’amministrazione internazionale le ha in concreto applicate. Per quanto riguarda le linee guida, come detto, il Consiglio di sicurezza delle N.U. da una parte prese l’impegno di rispettare l’integrità territoriale e la sovranità della RFJ sul Kosovo, dall’altra quello di avviarvi lo sviluppo di “una sostanziale autonomia e una significativa auto-amministrazione”. Il mandato assunse quindi un carattere onnicomprensivo e all’amministrazione civile provvisoria guidata dall’UNMIK si chiese di assolvere i seguenti compiti: • svolgere le funzioni amministrative civili di base • promuovere l’instaurazione di forme di autonomia e autogoverno sostanziali • facilitare un processo politico che porti alla determinazione del futuro status del Kosovo • coordinare l’assistenza umanitaria fornita dalle varie internazionali • sostenere la ricostruzione delle infrastrutture fondamentali • mantenere l’ordine e la legalità 128 “UNMIK at Glance”, sito ufficiale UNMIK (www.unmikonline.org/) 80 agenzie • promuovere i diritti umani • assicurare il libero e sicuro ritorno di tutti i rifugiati e sfollati alle proprie case in Kosovo Di fatto in questi anni l’UNMIK ha assunto sul territorio tutte le funzioni tipiche di uno stato sovrano e quindi si può dire che, da un punto di vista dello status giuridico, il Kosovo si presenta – ancora oggi – come un “territorio internazionalizzato”.129 Con un breve excursus storico si può ricordare come la nozione di “territorio internazionalizzato” abbia alcuni precedenti piuttosto recenti. In primo luogo, i trattati di pace della prima guerra mondiale istituirono l’amministrazione internazionale della Società delle Nazioni su alcuni territori con lo scopo, anche allora, di rimandare la soluzione del problema della loro sovranità. In particolare si pensi al bacino carbonifero della Saar, territorio conteso tra Francia e Germania e affidato “temporaneamente” - come il Kosovo - ad una commissione nominata dalla Società delle Nazioni. Altro esempio, la città di Danzica, dove però l’amministrazione internazionale era intesa come definitiva 130. Ulteriori confronti si possono fare con il regime di amministrazione fiduciaria previsto dalla Carta dell’ONU, in base al principio 129 Julie Ringelheim suggerisce di preferire per il Kosovo la nozione di “territorio internazionalizzato” rispetto a quella di “protettorato”, in quanto quest’ultima implicherebbe una “transazione consensuale con cui l’entità dipendente rimette allo Stato o Stati protettori quantomeno la condotta delle proprie relazioni con l’estero e, in altri casi, la responsabilità di tali relazioni sommata a vari diritti di intervento, senza essere annessa o formalmente incorporata nel territorio di quest’ultimo. Un protettorato implica perciò l’esercizio di alcuni o di tutti i poteri da parte di un altro stato, mentre la definizione di territorio internazionalizzato denota il coinvolgimento di un’organizzazione (o di un gruppo di stati) nel governo di una determinata area”. Julie Ringelheim, “Lo status giuridico del Kosovo, in “La pace intrattabile, Kosovo 1999/2000: radiografia del dopobombe”, F. Strazzari, Luis Rodriguez-PiNero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, Asterios Editore 2000, pag. 128 130 Dopo 15 anni, nel 1935, il popolo della Saar si espresse in un referendum a favore della riunione con la Germania (soluzione che preferì alle altre due: annessione alla Francia o mantenimento del regime internazionale). Riguardo alla città di Danzica, il trattato di Versailles, nel cedere alla Polonia un corridoio costituito da Posnania e Prussia occidentale, aveva dato a Danzica (abitata in maggioranza da tedeschi) lo status di “città libera”. La maggiore differenza con il caso del Kosovo sta nel fatto che Danzica fosse governata da sue proprie istituzioni, mentre l’Alto Commissario della Società delle Nazioni svolgeva solo funzioni di conciliazione e mediazione, senza avere un potere diretto sugli affari interni di Danzica. Ad ogni modo, dopo aver subito l’occupazione nazista, nel 1945 la città divenne ufficialmente polacca. Jean-Baptiste Duroselle, “Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni”, LED 1998, pagg. 28 e segg. 81 che “i territori coloniali strappati ai nemici vinti non dovevano essere annessi dai vincitori, ma amministrati in via fiduciaria sotto il controllo internazionale finché non fossero stati in grado di determinare autonomamente la propria sorte”131. Continuando in questo excursus storico, è da rilevare che anche l’assetto territoriale risultato dalla fine del primo ciclo di conflitti nella ex-Jugoslavia ha visto l’istituzionalizzazione di forme di partecipazione internazionale al governo di alcuni territori: in particolare il governo croato, firmando con il rappresentante dei serbi della Slavonia Orientale l’ “Accordo di Erdut” sulla pacifica reintegrazione della Slavonia orientale nella Repubblica Croata, si impegnava ad accettare l’autorità su quel territorio di una amministrazione transitoria della N.U., amministrazione che prese il nome di UNTAES (United Nations Transitional Administration in Eastern Slavonia, Baranja and Western Sirmium) e durò dal dicembre 1995 al gennaio 1998. Anche gli Accordi di Dayton, che posero fine al conflitto in BosniaErzegovina, prevedevano la nomina di un Alto Rappresentante con il compito di assicurare la creazione di uno stato federale. Ad ogni modo, esiste una differenza fondamentale e di grande valore politico tra i casi di Croazia e Bosnia-Erzegovina da un lato e Kosovo dall’altro: mentre nei primi due casi, alla fine del conflitto, “lo status giuridico dei territori interessati era stato preventivamente concordato fra le parti in conflitto”132, nel caso del Kosovo non vi è stato alcun accordo su quale debba essere lo status futuro della regione. Ed è proprio questo elemento che ha reso e rende ancora oggi la “questione del Kosovo” estremamente delicata ed incerta. 131 Nel 1993, con l’indipendenza di Palau, ultimo territorio posto sotto amministrazione internazionale, “gli obiettivi del sistema di amministrazione fiduciaria sono stati formalmente adempiuti”. Sergio Marchisio, “L’ONU”, Il Mulino 2000, pag. 341 132 F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, op., cit. pag. 131 82 4. Breve analisi della missione internazionale di sicurezza Fatte queste premesse si può passare all’analisi dell’intervento internazionale. Prima di approfondire il tema della amministrazione civile, è necessario fare qualche considerazione sulla forza di sicurezza internazionale, la KFOR. La KFOR (Kosovo Force) è nata alla fine della campagna aerea della NATO contro la RFJ come forza internazionale di sicurezza, i cui compiti principali – come accennato - sono stati individuati dalla Risoluzione 1244: • stabilire e mantenere la sicurezza in Kosovo • monitorare e se necessario imporre il rispetto delle condizioni del Military Technical Agreement e dell’Accordo per la smilitarizzazione dell’ UÇK • assistere l’UNMIK, assumendo anche l’onere di alcune sue funzioni civili, finché questa non sia capace di farsene carico Per quanto riguarda la struttura della missione militare, la KFOR ha dispiegato nell’area 50.000 uomini, di cui - ad un anno dalla fine della guerra – 42.500 sul territorio propriamente kosovaro e i restanti 7.500 nelle retrovie in Macedonia, Albania e Grecia. 133. Le forze schierate nel corso dell’intervento sono state organizzate in cinque brigate multinazionali: 1. La Brigata Multinazionale Centrale, MNB(C), con quartier generale a Lipljan, vicino Pristina, inizialmente posta sotto la guida inglese e oggi comandata da finlandesi; 2. La B. M. Orientale, MNB(E), con sede in Urosevac, è guidata da statunitensi e ha avuto il compito di controllare il confine con la 133 Il processo di ritiro delle truppe KFOR non è ancora stato completato e, al momento in cui si scrive, sono ancora impiegati nella missione circa 17.000 uomini. (Fonte: sito internet ufficiale della NATO www.nato.int/kfor/welcome.html) 83 Macedonia. Questa brigata è stata al centro di alcune tensioni diplomatiche tra la guida stat unitense e il contingente russo; 3. La B. M. Settentrionale, MNB(N), con quartier generale a Mitrovica, è la zona che ha visto i maggiori scontri dopo l’arrivo della KFOR. Guidato dai francesi, questo territorio assume una rilevanza particolare sia dal punto di vista etno-demografico134, che da quello economico (in quanto in esso si trovano le miniere della Trepca); 4. La B. M. del Sud-Ovest, con sede a Prizren, a guida tedesca e avente come compiti anche quello di sorvegliare il patrimonio artisticoculturale della zona; 5. La B. M. Occidentale, MNB(W), con quartier generale a Pec, è stata composta in un primo momento da truppe esclusivamente italiane. In seguito, pur rimanendo a guida italiana, in questa brigata sono confluite truppe di altre nazionalità. 135 Delineata l’organizzazione sul territorio della missione di sicurezza, è importante analizzarne le linee di responsabilità: prima di tutto, la KFOR opera sotto l’autorità del proprio Comandante, il cui quartier generale ha sede a Pristina. Questi, a capo di una missione composta da soldati di 34 diverse nazioni, è a sua volta responsabile di fronte al Comandante in Capo della “Joint Force Command Naples (COM JFCN)” con sede a Napoli e tramite questi di fronte al quartier generale NATO a Bruxelles. Tale tipo di organizzazione delle linee di responsabilità è stata oggetto di due ordini di critiche: in primis, O’Neill denuncia che i comandanti dei contingenti maggiori siano stati molto legati ai propri vincoli nazionali136. In secondo 134 Difatti il nord del Kosovo rappresenta l’unica zona abitata in maggioranza da serbi e la stessa città di Mitrovica è divisa in due parti, lungo la linea del fiume Ibar: il nord è a maggioranza serba, il sud albanese. 135 Oggi questa Brigata pare essere stata sostituita da una Multinational Specialized Unit (MSU), una sorta di polizia con status militare costituita da un reggimento di Carabinieri italiani, un contingente di Gendarmi francesi, un plotone dell’Esercito Estone. 136 In sostanza solo dopo aver avuto l’approvazione dei vertici “in patria”, questi sarebbero in grado di dire se possono o meno eseguire un ordine del Comandante della KFOR. Marcus Brand , “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self- 84 luogo, rispetto al rapporto tra l’UNMIK e la KFOR, Fabio Mini ha sottolineato come le due strutture siano state “interconnesse negli scopi, ma non nella linea della responsabilità”137. Al di là di queste critiche, rimane il dato di fatto che la KFOR oggi continua a svolgere una funzione di mantenimento di sicurezza, soprattutto per ciò che riguarda la difesa delle enclavi serbe sparse nel territorio kosovaro. Tale funzione dovrebbe, almeno in teoria, essere stata demandata all’UNMIK e gestita come normale attività di polizia. Tuttavia questa non è ancora la realtà del Kosovo odierno. government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 137 Fabio Mini, op. cit. pag. 225 85 2 CARTINE TRUPPE KFOR 86 87 5. L’architettura dell’intervento: i quattro pilastri In questa sezione l’autore si pone come obiettivo quello di fornire una visione d’insieme riguardo alla missione dell’UNMIK, cercando di focalizzare l’attenzione sulle dinamiche del potere che hanno caratterizzato il Kosovo negli ultimi cinque anni. In questo senso ci si soffermerà principalmente sul secondo pilastro, considerando fondamentale il tema del passaggio dell’autorità dall’amministrazione internazionale alle istituzioni locali per delineare gli scenari futuri. Figura cardine di tutto l’impianto della missione delle N.U. è il Rappresentante Speciale del Segretario Generale (SRSG), che è il primo depositario dell’autorità dell’UNMIK e svolge un ruolo di coordinamento e di indirizzo dell’intera missione. L’11 giugno 1999, il Segretario Generale delle N.U. nominò come suo Rappresentante provvisorio Sergio Vieira De Mello138, sostituito il 2 luglio dal francese Bernard Kouchner.139 Il ruolo del SRSG è stato fondamentale nella prima fase per determinare l’estensione dell’autorità dell’UNMIK in Kosovo. Premesso che la Risoluzione 1244, dovendo mantenere il difficile equilibrio tra sovranità della RFJ e amministrazione internazionale (finalizzata allo sviluppo di forme di autogoverno), non aveva determinato in modo chiaro i poteri dell’UNMIK e del SRSG, tale definizione è stata fornita dall’interpretazione che del proprio mandato hanno fatto il Segretario Generale e il suo Rappresentante Speciale. E si è trattato di una interpretazione estensiva: 138 Dopo aver ricoperto vari incarichi, nel maggio del 2003 Sergio Vieira De Mello fu nominato Rappresentante Speciale del S.G. in Iraq. Il 19 agosto del 2003 De Mello è stato tragicamente ucciso in un attentato. (http://www.unhchr.ch/html/hchr/cv.htm) 139 Fino ad oggi, la carica di SRSG è stata assunta da: 1) Bernard Kouchner (Francia, luglio 1999/gennaio 2001); 2) Hans Haekkerup (Danimarca, febbraio 2001/dicembre 2001); 3) Michael Steiner (Germania, gennaio 2002/luglio 2003); 4)Harri Holkeri (Finlandia, agosto 2003/giugno 2004); 5)Attualmente il SRSG è il danese Soren Jessen-Petersen. (www.unmikonline.org/) 88 • nel Rapporto del 12 luglio, il Segretario Generale dice testualmente: “The Security Council in its resolution 1244 (1999), has vested in the interim civil administration authority over the territory and people of Kosovo. All legislative and executive powers, including the administration of the judiciary, will therefore, be vested in UNMIK. 140 • in seguito, il SRSG ha aderito a questa interpretazione estensiva, promulgando regolamenti che suppongono la detenzione della sovranità statale. In questo modo, si può dire che le “funzioni amministrative di base” affidate all’UNMIK sono divenute nella prassi “tutte le funzioni amministrative”141. Ovviamente, tale atteggiamento ha provocato un clima di tensione con Belgrado, che ha più volte contestato tale pratica appellandosi alla conferma della propria sovranità sanzionata dalla 1244. Tuttavia, di fatto, l’interpretazione estensiva è stata accettata dalla Comunità internazionale e quindi l’UNMIK ha agito in Kosovo come “autorità sovrana”. Come accennato nel capitolo precedente, il Segretario generale ha organizzato la missione in una struttura a “quattro pilastri”, ciascuno amministrato da una agenzia internazionale e guidato da un vice del SRSG.142 La ratio che sta dietro tale tipo di architettura è di tipo organizzativo: in sostanza, sostiene Marcus Brand 143, in questo modo si è voluto evitare il ripetersi degli errori compiuti in Bosnia-Erzegovina, a livello di coordinamento delle diverse operazioni. Passiamo ora all’analisi dei quattro pilastri, obiettivo di questo capitolo. 140 Rapporto del Segretario generale sull’Amministrazione a interim delle Nazioni Unite in Kosovo, DOC. ONU S/1999/779 del 12/7/1999, par. 35 (disponibile sul sito ufficiale dell’UNMIK alla pagina web: http://www.un.org/Depts/dhl/da/kosovo/kosovo3a.htm) 141 Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 142 Anche se non esiste un ordine dei quattro pilastri unanimemente accettato, l’autore propone quello adottato dalla maggior parte dei documenti ufficiali dell’UNMIK. 143 Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 89 CARTINA UNMIK 90 A) PILASTRO I: Assistenza umanitaria / Polizia e giustizia Per fronteggiare l’emergenza umanitaria del dopoguerra, il Segretario generale pose come obiettivo del primo pilastro “l’assistenza umanitaria”, la cui gestione fu affidata, in base alle indicazioni della Risoluzione 1244, all’Alto Commissariato delle N.U. per i Rifugiati (ACNUR o UNHCR) 144. La drammaticità dell’emergenza umanitaria del Kosovo dell’immediato dopoguerra ha messo l’UNHCR di fronte ad una quantità innumerevole di compiti. Prima di tutto, l’afflusso di profughi e sfollati albanesi fu inaspettatamente veloce: circa un milione di persone si riversarono in Kosovo nel giro di un mese. E questa massa di disperati aveva bisogno di tutto: il 60% delle case era inabitabile, il 40% delle fonti d’acqua contaminate, sparse sul territorio giacevano mine antiuomo e residue delle cluster bomb 145. All’inizio, le attività dell’UNHCR e delle altre ONG a carattere umanitario si concentrarono sulla prima di tutte le emergenze: occorreva preparare la popolazione ad affrontare l’inverno, che nella penisola balcanica è notoriamente molto rigido. Sono stati quindi allestiti campi per i profughi e avviate operazioni di riabilitazione di alloggi, di fornitura di alimenti e acqua potabile, nonché di assistenza medica e psicologica alle vittime della guerra. Le operazioni di bonifica del territorio dalle mine antiuomo e dai residui inesplosi delle cluster bomb sono state affidate all’UNMACC (United Nations Mine Action Coordination Centre), in stretta collaborazione con la KFOR e alcune compagnie private del settore. L’obiettivo primo, insieme ad una campagna di prevenzione, è stata la bonifica dei territori destinati ad 144 Security Council resolution 1244, Annex 2 par. 7 Le cluster bomb (bombe a grappolo) “utilizzate dall’aviazione americana durante il conflitto, sono ordigni che ad una certa altezza dal suolo si rompono in 202 bombe più piccole (c.d. bomblets) che si spargono su un ampia superficie esplodendo a poca distanza dal suolo in mortali frammenti d’acciaio. Spesso alcune delle bomblets non esplodono e diventano, di fatto, mine antiuomo pronte ad esplodere al semplice contatto”. F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, op., cit. pag. 65 145 91 accogliere sfollati e rifugiati, nonché il personale internazionale. In seguito sono stati avviati i piani per la bonifica integrale del territorio.146 Una volta che la fase di emergenza è stata considerata conclusa, il pilastro gestito dall’UNHCR è stato formalmente chiuso e sostituito nel maggio del 2001, a seguito dell’emanazione del Constitutional Framework147, da un nuovo Pilastro I, “Polizia e Giustizia”, che assume le funzioni normalmente proprie dei ministeri di giustizia e affari interni ed è opera sotto la diretta responsabilità delle N.U. Per quanto riguarda le funzioni di “polizia”, si possono delineare tre fasi: una prima in cui il compito del mantenimento dell’ordine è stato assunto principalmente dalla KFOR; una seconda fase in cui è iniziato, come previsto dal proprio mandato, il trasferimento delle funzioni dalla KFOR all’UNMIK, che ha anche avviato le operazioni per la costituzione di un Kosovo Police Service (KPS); una terza e cruciale fase, in cui dovrebbe avvenire il passaggio di autorità dalla Polizia dell’UNMIK al KPS. Attualmente, si dovrebbe star attraversando la terza fase, visto che, secondo i piani, a fine 2005 l’UNMIK dovrebbe mantenere solo ruoli di monitoraggio e di training. Il mandato della Polizia UNMIK si compone di due compiti principali: • provvedere provvisoriamente ai servizi di “law enforcement”, in sostanza vuol dire che il personale è armato e ha potere di arrestare e detenere148 • sviluppare rapidamente un Kosovo Police Service, cioè un corpo di polizia locale che sia credibile, professionale e imparziale 146 Ivi pag. 40 Si rinvia a pag. 97 e segg. di questo lavoro 148 Si tratta di un potere quasi unico nel panorama delle operazioni di peacekeeping, raggiunto forse solamente dalla UN CIVPOL a Timor Est. Difatti, in passato, le altre operazioni di polizia delle N.U. né sono state armate, né hanno avuto il potere di arrestare. Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 147 92 La Polizia UNMIK è organizzata in alcuni corpi speciali, tra cui importanti risultano le “Special Police Units”che costituiscono una forza paramilitare mobile ed autosufficiente, finalizzata a rispondere velocemente a situazioni di alto rischio. Altra unità da citare è la “Border Police”, che controlla il rispetto della legge e le migrazioni ai confini del Kosovo 149. Rispetto al secondo obiettivo, in questi anni la polizia UNMIK e l’OSCE hanno collaborato alla creazione di una Kosovo Police Service School, avviando corsi di formazione per poliziotti locali. Ovviamente, per ragioni di necessità, i primi corsi hanno avuto una durata relativamente breve, ma sono stati successivamente integrati da aggiornamenti. In generale si ritiene che i risultati ottenuti in questo campo siano da considerare “uno dei pochi completi successi”150 dell’UNMIK, sia per il numero di poliziotti che si è riuscito a formare (circa 5.600), sia per il discreto grado di multietnicità del KPS (in base alle statistiche ufficiali dell’UNMIK, questo corpo è infatti costituito per l’84% da albanesi, 9% da serbi e restante 7% da altre minoranze). Oggi le priorità di questo settore restano la lotta al crimine organizzato e la difesa della minoranze, in particolare quella serba, che vive in enclave sempre più simili a ghetti. Ad ogni modo, premesso che l’assunzione delle funzioni di polizia in territorio straniero, senza avere alcuna familiarità né con il territorio né con la lingua locale risulterebbe difficile in ogni parte del mondo, la gestione dei servizi di polizia in Kosovo non è stata esente da aspetti problematici. In primis, e soprattutto negli anni 1999 e 2000, la “polizia ufficiale” ha dovuto fare i conti con alcune strutture di “polizia illegale”, che raggruppavano exmembri dell’UÇK o personale dello stesso Kosovo Protection Corps.151 La ragione principale di questo fenomeno parallelo è il fatto che, fino al 2000, la 149 www.unmikonline.org/justice/police.htm “The development of the Kosovo Police Service and the Kosovo Police Service School had been one of the few outright successes of the international presence in Kosovo so far(…)”. Marcus Brand,“The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 151 Si rinvia a pag. 90 di questo lavoro 150 93 polizia UNMIK non è riuscita ad ottenere alcun controllo del territorio. Tale assunzione illegale di autorità comprendeva sia fenomeni quasi irrilevanti da un punto di vista politico (come l’improvvisazione di checkpoint per il controllo del traffico) che gravi atti di violenza e di intimidazione. Oltre alle ovvie difficoltà strutturali, come ad esempio l’insufficiente capacità delle carceri, alcuni osservatori ritengono che uno dei maggiori punti di debolezza del sistema di polizia dell’UNMIK sia stata l’eccessiva presenza di poliziotti provenienti da paesi in via di sviluppo, abituati a regimi dittatoriali o comunque caratterizzati da bassi livelli di professionalità152. Inoltre, a prescindere dal livello di professionalità e dalla nazione di provenienza, un elemento di riprovevole negatività è dato dal numero elevato di denunce per comportamenti violenti, di cui i poliziotti dell’UNMIK si sarebbero macchiati. Le accuse più frequenti riguardano molestie sessuali e l’uso eccessivo della forza. Un altro dato proviene dalla lettura approfondita delle statistiche: è sicuramente un risultato positivo il fatto che il tasso di crimini gravi, come omicidi, sia calato rispetto al primo anno di amministrazione internazionale. Tuttavia è anche vero che gli omicidi sono diventati più mirati, più politicizzati. E questo è un dato negativo perché sta a indicare che, se pur l’UNMIK e la KFOR hanno assunto una maggiore capacità di controllo del territorio, d’altra parte la criminalità organizzata è andata sempre più organizzandosi. “Last but not least”, notevoli implicazioni ha avuto la questione del diritto applicabile in Kosovo. Tale tema ci rimanda alla discussione del sistema di “giustizia”. Il mandato internazionale 153 prevede “l’immediato ristabilimento di un potere giudiziario indipendente, imparziale e multietnico”, obiettivo di non poco conto in un territorio che esce da almeno dieci anni di sistema 152 R. Muharremi, L. Peci, L. Malazogu, V. Knaus, T. Murati (Editor I. Blumi), “Administration and governance: lessons learned and lessons to be learned”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Pristina/Geneva January 2001 153 Rapporto del Segretario generale sull’Amministrazione a interim delle Nazioni Unite in Kosovo, DOC. ONU S/1999/779 del 12/7/1999, par. 66 94 autoritario, in cui la popolazione albanese è stata totalmente emarginata dalla gestione della giustizia. Senza analizzare l’evoluzione organizzativa del Dipartimento della Giustizia dal ’99 ad oggi e soltanto accennando che esso risulta costituito da quattro sezioni 154, si può passare all’importante controversia sul diritto applicabile nel Kosovo del dopoguerra. Premesso che il Kosovo ovviamente non costituiva una “law-free-area” e che il mandato internazionale, pur confermando la sovranità jugoslava, affidava al SRSG il potere legislativo, i vertici dell’UNMIK decisero che in Kosovo si dovessero applicare le leggi in vigore prima del 24 marzo 1999 (primo giorno dei bombardamenti), purché non in contrasto con gli standard internazionalmente riconosciuti dei diritti umani, con il mandato dell’UNMIK e con i regolamenti emanati dal SRSG. Tuttavia, fin dal principio, i giudici e gli avvocati kosovaro-albanesi si rifiutarono di applicare il diritto emanato dopo il 22 marzo 1989 (data dell’abolizione di fatto dell’autonomia del Kosovo), considerandolo discriminatorio nei confronti della popolazione albanese, che non aveva potuto partecipare alla sua elaborazione. Di conseguenza, onde evitare l’instaurasi di una situazione ibrida di discrepanza tra “law in books” e “law in action”, il SRSG decise che sarebbe stata applicata in Kosovo la legge in vigore prima del 22 marzo 1989.155 Questo tema si ricollega a quello precedentemente trattato delle difficoltà incontrate dalle strutture di polizia. Difatti il personale della Polizia UNMIK, non sapendo quale diritto applicare, finì spesso per adottare semplicemente il diritto vigente nel proprio paese. Ciò ha evidentemente causato una situazione di caos giuridico, che non si è risolta con la decisione del SRSG, se – come sostengono alcuni autori – è vero che ci sono voluti dieci mesi prima che la 154 Rispettivamente: 1) Judicial development Division (JDD); 2) Penal Management Division (PMD); 3) International Judicial Support Division (IJSD); 4) Office on Missing Persons and Forensics (www.unmikonline.org/justice/police.htm) 155 In realtà, per effetto del Regulation n. 1999/24, 12 dicembre 1999, “le leggi serbe e jugoslave approvate tra il 22 marzo ’89 e il 10 giugno ’99 sono applicabili solo quando l’oggetto in causa o la situazione non sono coperti dalla legge che era in vigore nel 1989 o, in procedimenti penali, quando essi risultino più favorevoli alla difesa”. Julie Ringelheim, “Lo status giuridico del Kosovo”, in F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, op., cit. pag. 120 95 versione inglese del diritto in vigore fosse in mano ai poliziotti internazionali. In sostanza ci si chiede dunque come si possa fare “law enforcement” se non si sa quale “law” applicare! Un ulteriore difficoltà del sistema giudiziario kosovaro riguarda la generale mancanza di professionalità dei giudici e pubblici ministeri locali, emarginati anch’essi per un decennio da questo settore della pubblica amministrazione. A questo aspetto si aggiungono le numerose intimidazioni e coercizioni di cui essi sono tuttora vittime. Un altro tema collegato al problema della “sicurezza”, intesa in senso ampio, anche se a livello formale dovrebbe ricadere sotto l’autorità del secondo pilastro, è quello del Kosovo Protection Corps. Come detto, firmando l’accordo del 21 giugno 1999, i vertici dell’UÇK si erano impegnati alla smilitarizzazione delle loro milizie, il che comprendeva tra l’altro la consegna delle armi alla KFOR e il rilascio delle uniformi e delle insegne. Tuttavia, a parte il fatto che essendo l’UÇK una sorta di cartello di varie formazioni, alcune di esse non si erano sentite vincolate dalla firma dell’accordo, “smilitarizzazione” non volle esattamente dire “dissoluzione”. Difatti all’Esercito di Liberazione, che aveva ottenuto “il riconoscimento per il contributo dato durante la crisi del Kosovo”156, fu lasciata la possibilità di trasformarsi in una sorta di corpo di protezione civile, mutuato sul modello della Guardia Nazionale americana. Nel settembre 1999, dopo aver organizzato una parata finale per le strade di Pristina, l’UÇK si è formalmente sciolto ed è nato il Kosovo Protection Corps (KPC o TMK, nell’acronimo albanese). Questo corpo ha assunto i compiti propri delle forze di protezione civile, che vanno dall’assistenza umanitaria nelle zone isolate, alla ricostruzione delle infrastrutture e alla fornitura di 156 Letteralmente: “The UÇK intends to comply with the terms of the United Nations Security Council Resolution 1244, and in this context that the international community should take due and full account of the contribution of the UÇK during the Kosovo crisis(...)”, Undertaking of Demilitarization and Transformation by the UÇK (KLA ), June 20, 1999 96 servizi di reazione alle emergenze. In sostanza il KPC non ha alcun compito di “law enforcement” e i suoi membri non sono armati 157. Tuttavia la realtà non è così lineare. Prima di tutto, come accennato, la consegna delle armi si è rivelata un bluff, poiché la maggior parte delle armi è stata nascosta. A questo proposito, Toni Fontana sostiene che la NATO, pur accorgendosi di quello che accadeva, ha preferito “il compromesso per evitare contrapposizioni e scontri che avrebbero fatto saltare i fragili equilibri raggiunti e i tentativi di ricostruzione del Kosovo”158. Al di là della veridicità di questa tesi, il dato importante, almeno per gli sviluppi futuri, è che gli ex guerriglieri dell’ UÇK hanno sempre percepito il KPC come un “army-inwaiti ng” del Kosovo, ossia come il nucleo di quello che sarà l’esercito di un Kosovo indipendente 159. Tuttavia esiste un altro fattore, se possibile ancora più importante ma sicuramente molto grave: i membri del KPC, o per lo meno i più estremisti tra questi, non si sono limitati all’assunzione di qualche funzione di “polizia”, che come visto non gli spettava, ma sono stati coinvolti in attività criminali e terroristiche, che vanno dal traffico di donne destinate alla prostituzione, all’estorsione e agli attentati o spedizioni punitive contro le minoranze rimaste in Kosovo 160. È anche di fronte alla scoperta nel giugno del 2000 di un arsenale immenso nella zona di Drenica, che il SRSG Kouchner, il quale aveva definito la smilitarizzazione dell’UÇK “un grande successo”, avvierà (come vedremo in seguito) la costituzione di strutture di autogoverno locale cogestite da internazionali, secondo la logica del cercare di far confluire in “strutture legali” chi detiene il potere di fatto. A proposito delle attività degli ex guerriglieri, Fabio Mini riporta come nei primi anni i più estremisti tra questi si siano concentrati prima nelle zona 157 Tranne pochissimi autorizzati dall’UNMIK solo per difesa personale. Toni Fontana, “Entrano le truppe”, in Alessandro Marzo Magno (a cura di), op. cit. pag. 371 159 E di fatto, nel caso in cui il Kosovo ottenga l’indipendenza, è molto probabile che questo auspicio si avveri. 160 Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 158 97 cuscinetto in territorio serbo (la fascia di 5 km, c.d. Ground Safety Zone), portando avanti una lotta armata nella valle di Presevo (2000-2001), e in seguito in Macedonia, approfittando in sostanza dei vuoti di potere nelle zone di confine. Il tenente generale sostiene che dopo quattro anni, la KFOR sia riuscita a bloccare l’esportazione dell’estremismo alle zone limitrofe, risultato importantissimo per la stabilità della Penisola balcanica. Tuttavia, nonostante gli sforzi della KFOR, egli stesso paventa il rischio dell’affermazione in Kosovo del “modello dei signori della guerra federati, in via di definizione in Afghanistan e Iraq.”161 Un’ipotesi davvero preoccupante! 161 Fabio Mini, op. cit. pagg. 228 e seg. 98 B) PILASTRO II: Amministrazione civile Il pilastro dell’amministrazione civile provvisoria, gestito - come il primo direttamente dalle Nazioni Unite, svolge le funzioni proprie degli organi di amministrazione centrale di uno stato. L’analisi di questo pilastro risulta dunque particolarmente importante per il lavoro che qui si vuole fare, poiché è principalmente in questo settore che si dovrebbe verificare il passaggio di autorità dall’UNMIK a forme di autogoverno locale, passaggio fondamentale per determinare il futuro assetto del Kosovo. Nell’osservare l’evoluzione di questo settore dal giugno del 1999 ad oggi si possono delineare tre fasi, ciascuna caratterizzata da una novità a livello istituzionale. La prima fase, che va dall’immediato dopoguerra alla fine del 1999, ha visto l’amministrazione UNMIK concentrata nella lotta alle strutture parallele. Il quadro istituzionale di quei mesi era caotico: da una parte vi erano le decennali strutture parallele della Repubblica di Kosova di Rugova, cui si erano aggiunte – a volte in un clima di contrasto - le più recenti amministrazioni guidate dai guerriglieri dell’UÇK; dall’altra parte l’UNMIK, in palese difficoltà nello sforzo di assunzione del controllo sul territorio. I vertici dell’UNMIK tentarono di far fronte a questa situazione istituendo il Kosovo Transitional Council (KTC), una sorta di parlamento embrionale con funzioni esclusivamente consultive. In pratica, si trattava del tentativo di creare un luogo istituzionale di dialogo tra le diverse componenti del panorama politico kosovaro e tra queste e l’UNMIK. Tuttavia la vita di questo organo evidenziò immediatamente dissidi e problemi di convivenza tra le parti in causa: lo stesso partito di Rugova, l’LDK, si rifiutò in principio di partecipare, pretendendo che vi fossero rappresentati tutti i membri parte del Parlamento della Repubblica di Kosova. Da parte loro, i rappresentanti serbi si ritirarono in segno di protesta contro il massacro del 23 luglio di 14 serbokosovari, per rientrarvi circa un mese dopo soltanto allo scopo di presentare un 99 progetto di cantonizzazione del Kosovo, immediatamente rifiutato dagli albanesi. Il primo incontro di una certa rilevanza avvenne il 25 agosto e vi parteciparono i principali attori politici kosovaro-albanesi (Thaçi e Rugova) e i rappresentanti dei serbo-kosovari, il vescovo Artemije e Momcilo Trajkovic. Ad ogni modo, apparve presto chiaro che il KTC era da questi percepito solamente come un palcoscenico politico e che mancavano i presupposti per un dialogo serio. Difatti i rappresentati serbi tornarono a ritirarsi dopo la creazione del KPC e lo stesso Thaçi se ne chiamò fuori.162 A questo punto, i vertici UNMIK capirono che, per ottenere il riconoscimento da parte della popolazione e soprattutto delle elite locali, era necessario avviarle ad una qualche forma di partecipazione all’amministrazione del Kosovo. Ed è qui che è iniziata quella che in questo lavoro si è identificata come la seconda fase. Anche per tentare di mettere fine ai dissidi interni tra albanesi, Kouchner, facendo perno sulla soddisfazione del mondo politico albanese per la recente emanazione del Regulation n. 1999/24163, convinse i tre leader politici kosovaro-albanesi a siglare l’ “Agreement on a Kosovo -UNMIK Joint Interim Administration Structure”, per la creazione di istituzioni amministrative cogestite con l’UNMIK. Successivamente tale accordo, anche detto accordo Thaçi-Rugova-Qosja, dal nome dei tre164, divenne operativo quando il SRSG lo trasformò in un Regolamento. Al di là del dato giuridico, questo passaggio evidenzia come il potere legislativo e in generale politico fosse esclusivamente nelle mani degli amministratori internazionali: in sé l’accordo dei tre non 162 In un’estemporanea apparizione ai primi di dicembre, Thaçi accusò la Comunità internazionale di essere essa - e non la popolazione kosovara - la responsabile del peggioramento del livello di sicurezza. Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 163 Cioè il regolamento che pose fine alla polemica sul “diritto applicabile” in Kosovo. 164 Rexhep Qosja, scrittore e professore di letteratura, dopo esser stato per alcuni anni membro dell’LDK, aveva rotto con Rugova e formato un proprio partito. Successivamente era entrato in una coalizione chiamata Movimento Democratico Unito, in sigla LDB, che per un certo periodo ha rappresentato la terza forza politica albanese. In seguito, durante il 2000, l’LDB perse supporto elettorale e Qosja si ritirò dalla vita politica. 100 avrebbe avuto alcun valore. D’altronde, i vertici UNMIK decisero motu proprio, cioè senza interpellare le parti albanesi, che le assemblee e gli esecutivi serbi presenti nelle municipalità del nord del Kosovo sarebbero state ufficialmente inserite nelle strutture del Joint Interim Administration Structure (JIAS). Tuttavia, in seguito, i serbi stessi non accettarono l’accordo e solo alcuni parteciparono alle nuove istituzioni, ma in veste di osservatori. Il principio ispiratore dell’accordo era quello di condividere l’amministrazione provvisoria del Kosovo, nel rispetto della Risoluzione 1244 e dell’autorità del SRSG, garantendo la partecipazione ad essa di tutte le comunità165. Inoltre e soprattutto, l’accordo prevedeva, entro il 31 gennaio 2000, la dissoluzione di tutte le strutture parallele, o meglio la loro trasformazione ed integrazione nel JIAS. La ratio di fondo dell’accordo, oltre che quella di avviare forme di autogoverno, scopo precipuo del mandato internazionale, era di eliminare il dualismo (se non “trialismo”) delle istituzioni. In questo senso e su pressione di coloro che appoggiavano Thaçi, fu richiesta la confisca dei fondi raccolti dal governo della Repubblica di Kosova negli anni novanta. Tuttavia, Bukoshi 166 si sarebbe in seguito rifiutato di trasferire qualsiasi somma all’UNMIK. Passando ad analizzare la struttura del JIAS, si devono fare due premesse. Primo, con questo accordo il Pilastro II non scomparve: da una parte vi erano le nuove strutture cogestite da due c.d. “co-heads” (un rappresentante locale e uno internazionale); dall’altra restava no gli organi dell’UNMIK. Secondo, il JIAS valeva solo a livello centrale e municipale, mentre il livello intermedio regionale restava esclusivamente in mano all’UNMIK. Gli organi del JIAS possono essere in questo modo analizzati: • L’Interim Administrative Council (IAC), il più importante organo politico, era costituito dai tre firmatari dell’accordo 167, un rappresentante serbo-kosovaro e tre vice del SRSG, uno per ciascun pilastro (escluso 165 www.unmikonline.org/1styear/jias.htm Il capo del governo kosovaro in esilio, durante gli anni novanta. 167 Dopo le elezioni municipali del 2000 il SRSG sostituì Qosja con Haradinaj. 166 101 quello UNHCR, il cui delegato aveva solo il ruolo di osservatore). Thaçi riuscì a negoziare il proprio consenso alla presenza di un osservatore serbo con la promessa da parte dell’UNMIK che questa non avrebbe accettato il progetto serbo di cantonizzazione.168 In base ai regolamenti ufficiali lo IAC avrebbe dovuto avere la funzione di consiglio esecutivo, con la facoltà di proporre le linee guida per le politiche dei vari dipartimenti e suggerimenti per i nuovi regolamenti. Di fatto, però, esso ha ampliato i propri poteri, divenendo in sostanza una sorta di organo legislativo senza potere di veto, utilizzato dal SRSG per ottenere un previo consenso sui regolamenti da emanare. • Il Kosovo Transitional Council (KTC), che - come visto - nasce per primo e costituisce, prima delle elezioni, l’organo più democraticamente rappresentativo tra quelli dello JIAS, essendo il suo scopo quello di dare a tutti una voce169. D’altra parte, non ha poteri effettivi rilevanti, soprattutto non poteri legislativi (anche se era nato come prodromo di un parlamento kosovaro) • Dipartimenti Amministrativi: in sostanza si trattava di ministeri codiretti da un “co-head” dell’UNMIK e un “co-head” locale. Ognuno dei 20 dipartimenti era responsabile di fronte a un rappresentante speciale del SRSG (“Deputy Special SRSG”) e tramite questi di fronte al SRSG stesso. Dei 20 dipartimenti, 15 ricadevano sotto la supervisione del secondo pilastro, 4 sotto quella del quarto e uno solo del terzo. La formula per assegnare i posti di “co-head” rispondeva alla logica del creare istituzioni multiculturali.170 In alcuni casi, piuttosto che creare un 168 Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 169 Costituito da 36 membri nominati dal SRSG su raccomandazione informale da parte dell’OSCE: 11 rappresentanti dei partiti che si supponeva avessero un qualche supporto elettorale; 3 come rappresentanti dei tre gruppi religiosi (musulmani, cristiano-ortodossi e cattolici); 11 della società civile; 7 delle minoranze etniche (serbi, rom, bosgnacchi, turchi); i 4 membri del IAC. 170 Nello specifico tale formula era la seguente: 5 posti al PDK, 5 all’LDK, 5 all’LBD (Qosja), 2 ai serbo-kosovari, 1 ai turchi, 1 ai bosgnacchi, 1 indipendente 102 doppione dei dipartimenti dell’UNMIK, il “co-head” locale era stato semplicemente affiancato al responsabile della struttura UNMIK. • Le municipalità: premesso che il discorso sulle municipalità è importante perché attiene alla dimensione territoriale del potere, soprattutto in un’area - come il Kosovo - divisa tra etnie e fazioni, alla fine della guerra i guerriglieri dell’UÇK furono capaci di assumere rapidamente il potere in molte municipalità auto-eleggendosi sindaci e creando le strutture del QPK, cioè del “governo provvisorio del Kosova”. Quando l’UNMIK nominò i cinque amministratori regionali e i vari amministratori municipali,171 l’opposizione dei “funzionari” delle strutture parallele fu tale che a volte i responsabili internazionali non poterono neanche prendere posto nei palazzi del municipio. Come detto, questo scontro ebbe fine, almeno sulla carta, con l’ “accordo Thaçi-Rugova-Qosja”. L’accordo sullo JIAS prevedeva infatti che ciascuna municipalità fosse governata da un consiglio amministrativo municipale che inglobasse i membri delle strutture preesistenti e fosse presieduto da un funzionario internazionale. Nelle municipalità del Kosovo settentrionale, le amministrazioni serbe, pur essendo integrate nelle nuove strutture, continuarono a mantenere uno stretto legame con Belgrado. In generale l’elevata politicizzazione di questi organi è stata criticata come la causa di alcune inefficienze, nel senso che il personale era assunto sulla base non della propria professionalità, ma dei legami politico-clientelari che era in grado di vantare. Raggiunto l’obiettivo di eliminare le strutture parallele, l’UNMIK ha avviato quella che qui si identifica come la terza fase, indicendo elezioni democratiche per creare istituzioni maggiormente rappresentative e dotate di un più elevato grado di autonomia. L’idea di fondo, del quale si fece promotore l’allora SRSG Kouchner, era che, anche se la questione dello 171 I capoluoghi delle cinque regioni sono Pristina, Pec, Mitrovica, Prizren e Gnjilane. (Regulation 1999/14 on the Appointment of Regional and Municipal Administrators of l 21 October 1999) 103 “status” poteva considerarsi “rimandabile”, era tuttavia necessario sviluppare istituzioni democratiche e di autogoverno, così come previsto dalla Risoluzione 1244. Kouchner creò dunque un gruppo di lavoro con lo scopo di stilare una bozza di “costituzione provvisoria”. Tuttavia con l’arrivo del nuovo Rappresentante Speciale, il danese Hans Haekkerup, la definizione di questo progetto fu rinviata ad un gruppo interno di esperti. Di fatto fu poi soprattutto il progetto elaborato dal c.d. “Quint”172 ad essere utilizzato come bozza per il “Constitutional Framework for Provisional SelfGovernment” emanato sotto forma di regolamento da parte del SRSG. 173 In seguito quest’atto fu firmato anche da due dei quattro membri albanesi dello IAC, Rugova e Haradinaj (mentre Thaçi rifiutò perché riteneva che non costituisse un progresso apprezzabile verso l’affermazione dell’indipendenza). Ad ogni modo quest’atto riconosce il Kosovo come “una entità sotto amministrazione internazionale che, con il suo popolo, ha caratteristiche storiche, legali, culturali e linguistiche uniche”, aggiungendo che è “un territorio indiviso sul quale le Istituzioni Provvisorie di Auto-Governo devono esercitare le loro responsabilità”.174 Quindi, pur usando una terminologia vaga, definendo cioè il Kosovo un’ “entità”, secondo Marcus Brand, il Constitutional Framework si spinge pi uttosto in avanti nel minare la sovranità jugoslava sul Kosovo 175. D’altra parte quest’atto protegge in maniera forte l’autorità dell’UNMIK. In sostanza l’UNMIK ha trasferito alle neonate istituzioni di autogoverno solamente alcune funzioni amministrative (e non politiche), ma non ha trasferito la propria autorità. Questo è un passaggio importante perché 172 Per “Quint” si intende il Gruppo di Contatto, Russia esclusa. Regulation 2001/9 of 15 May 2001 174 Il testo in inglese dice: “Kosovo is an entity under interim international administration which, with its people, has unique historical, legal, cultural and linguistic attributes. Kosovo is an undivided territory through which the PISG shall exercice their responsibility”. Regulation 2001/9 of 15 May 2001, par. 1 175 Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 173 104 sottolinea che - ad oggi - i poteri tipici di uno stato sovrano sono ancora nelle mani dell’amministrazione internazionale. In particolare, Marcus Brand sostiene che, in base al “Constitutional Framework”, le PISG sembrerebbero avere “completa responsabilità” su alcuni settori dell’amministrazione pubblica, e “limitata” in altri176. Il concetto di “responsabilità completa” non deve comunque fuorviare l’attenzione dal punto fondamentale: non solo ad esempio gli “atti legislativi” dell’Assemblea entrano in vigore solo dopo l’approvazione del SRSG, ma l’UNMIK, nel par. 8 del Constitutional Framework, riserva alla propria competenza alcune responsabilità a suo avviso “non delegabili”. Se ciò non bastasse, introduce una clausola generale dalla portata onnicomprensiva secondo cui: “L’esercizio delle responsabilità delle PISG non deve intaccare né ridurre l’autorità del SRSG di assicurare una piena esecuzione della Risoluzione 1244, inclusa l’autorità di monitorare le PISG, i suoi funzionari e i suoi organismi, e di prendere le misure appropriate qualora le loro azioni siano incompatibili con la Risoluzione 1244 o con questo Constitutional Framework”. 177 Lo stesso discorso vale anche per la KFOR, la cui autorità è garantita da un’analoga clausola onnicomprensiva. 178 Le Istituzioni Provvisorie di Auto-Governo previste dal Constitutional Framework sono le seguenti 179: 1. Assemblea: l’organo rappresentativo e legislativo di più alto livello, composto da 120 seggi di cui 100 assegnati attraverso elezioni democratiche dirette e i restanti 20 riservati alle minoranze (in 176 PISG è l’acronimo di “Provisional Institutions of Self-Government”, ibidem Il testo inglese è il seguente: “The exercise of the responsibilities of the Provisional Institutions of Self-Government under this Constitutional Framework shall not affect or diminish the authority of the SRSG to ensure full implementation of UNSCR 1244(1999), including overseeing the Provisional Self-Government, its officials and its agencies, and taking appropriate measures whenever their actions are inconsistent with the UNSCR 1244 (1999) or this Constitutional Framework”. Regulation 2001/9 of 15 May 2001 chapter 12 “authority of the SRSG”. 178 “Nothing in this Constitutional Framework shall affect the authority of the International Security Presence (KFOR) to fulfil all aspects in its mandate under UNSCR 1244(1999) and the Military Technical Agreement (Kumanovo Agreement)”. Regulation 2001/9 of 15 May 2001 chapter 13 “Authority of KFOR”. 179 Vedere schema del PISG in allegato a fine capitolo 177 105 particolare: 10 ai serbo-kosovari; 4 a rom, ashkalia e egiziani; 3 ai bosgnacchi; 2 ai turchi; 1 ai gorani). Come previsto dal Constituional Framework, l’Assemblea ha eletto una Presidenza collettiva di sette membri e istituito alcune commissioni, tra cui le più importanti sono la “Budget Committee” e la “Committee on Rights and Interests of Communities”.180 2. Presidente del Kosovo: rappresenta l’unità del popolo del Kosovo e garantisce il funzionamento democratico delle Istituzioni Provvisorie. In sostanza ha due soli poteri di rilievo: d’accordo con il SRSG, agisce nel capo delle relazioni esterne e nomina il Primo Ministro, dopo aver consultato i partiti politici. L’elezione del Presidente da parte dell’Assemblea è stata piuttosto problematica. Contrariamente alle previsioni degli osservatori internazionali che consideravano praticamente scontata l’elezione di Rugova, questi per ben due volte non ottenne i due terzi dei voti dei membri dell’Assemblea. In seguito, non riuscì ad ottenere neanche la maggioranza semplice. Questo fatto denota la mancanza di unità del sistema politico kosovaro, anche tra gli stessi partiti albanesi. Ad ogni modo, per uscire dalla situazione di stallo, fu necessario rompere le regole “costituzionali” e il nuovo SRSG Steiner riuscì a negoziare la firma di un accordo da parte dei tre maggiori partiti politici albanesi, in base al quale il PDK avrebbe sostenuto l’elezione di Rugova alla carica di Presidente del Kosovo, ottenendo in cambio quella di Primo Ministro per Bajram Rexhepi, membro dello stesso PDK. 3. Governo: costituito dal Primo Ministro e da 11 Ministri181, esercita il potere esecutivo, “facendo applicare le leggi dell’Assemblea o altre leggi” e proponendo – a sua volta – bozze di legge all’Assemblea stessa. Con l’emanazione del Constitutional Framework, ha fine la struttura dei 180 L’Assemblea è l’organo su sui il Constitutional Framework si sofferma maggiormente. Per l’elenco delle sue responsabilità si rimanda al testo della “Regulation 2001/9 of 15 May 2001, chapter 9.” 181 In base al Constitutional Framework i ministeri sarebbero dovuti essere 10. In seguito, per ragioni politiche, il loro numero è stato portato a 11. 106 dipartimenti retti da due “co-heads”, tipica dello JIAS. Il nuovo governo assume la struttura classica, con un solo ministro a capo di ciascun dipartimento. 4. Altri organi - su cui non ci si sofferma - sono: le Corti giudiziarie, l’Ombudsperson e altri “Corpi e Uffici Indipendenti”182 Ad ogni modo, dopo l’emanazione del Constitutional Framework, anche l’UNMIK ha riorganizzato le proprie sezioni e i propri dipartimenti: in sostanza quindi esiste ancora il dualismo istituzionale tra autogoverno locale e UNMIK. Dualismo in cui a prevalere è sempre l’amministrazione internazionale. 182 Regulation 2001/9 of 15 May 2001, charter 11 107 Schema PISG 108 C) PILASTRO III: Democratizzazione e institution building Il terzo pilastro ricade sotto la gestione dell’OSCE183, che ha assunto un impegno difficile e molto vasto sintetizzato sotto l’espressione di “democratizzazione e institution building”. Di tutti i settori di intervento dell’OSCE (che qui sotto sono elencati), in questo lavoro si è scelto di approfondire il tema delle “elezioni”, perché ritenuto il più attinente all’analisi che si vuole fare. Fatta questa premessa, i compiti che la Missione dell’OSCE in Kosovo (OMIK) ha assunto riguardano: • Lo sviluppo di istituzioni democratiche e di una società civile attiva: sotto questo aspetto bisogna considerare che la vita politica di questa regione è stata segnata negli ultimi sessant’anni prima dal comunismo titino e poi dal regime autoritario di Milosevic. Detto ciò, il compito, assunto dall’OSCE, di avviare la società kosovara verso logiche democratiche genuine risulta immenso. In questo senso, l’OSCE ha tentato di incoraggiare forme di partecipazione alla vita politica anche dal basso, stimolando lo sviluppo dell’associazionismo civile e di un sistema partitico aperto al pluralismo, cercando di incidere anche a livello delle istituzioni.184 Di fatto, in questo settore, l’OSCE è intervenuta soprattutto con attività di formazione professionale e con servizi di assistenza alle organizzazioni non governative. • L’organizzazione ed il monitoraggio delle elezioni (di cui si parlerà più avanti). 183 OSCE è l’acronimo di “Organization for Security and Co-operation in Europe” L’OSCE stessa divide il suo lavoro di democratizzazione politico-istituzionale in tre settori di intervento: 1) le istituzioni di governo; 2) le istituzioni della vita politica (cioè i partiti); 3) le istituzione della vita pubblica (cioè le associazioni non governative). (www.osce.org/kosovo/democratization/) 184 109 • Lo sviluppo dei mass media: lo scopo dell’OSCE è di promuovere la libertà di informazione e un servizio professionale. In questo senso l’OSCE ha gestito il sistema delle licenze e l’elaborazione delle leggi e dei regolamenti in materia di media e collabora con il “Temporary Media Commissioner”, creato dall’UNMIK 185. Inoltre ha avviato corsi di formazione professionale e servizi di assistenza tecnica, ponendo particolare attenzione sulla nascita di una Radio-TV Kosovo. • Protezione e promozione dei “diritti umani”: l’attenzione ai diritti umani rappresenta il denominatore comune di tutti gli interventi dell’OSCE, impegnata in un’ampia serie di attività insieme a molte ONG internazionali.186 • Il consolidamento del “rule of law”: in particolare la riorganizzazione del sistema giudiziario in base ai principi democratici e agli standard dei diritti umani internazionalmente riconosciuti. Passando ora al tema delle elezioni, il loro avvio è stato preceduto da una lunga e laboriosa operazione di registrazione civica ed elettorale. Difatti, da questo punto di vista, in Kosovo occorreva ripartire da zero: prima di tutto l’emarginazione totale della comunità albanese dopo il 1989 e la creazione del sistema parallelo avevano compromesso l’affidabilità dei registri d’allora. In secondo luogo, durante i bombardamenti NATO, molti registri furono persi o danneggiati e, soprattutto, distrutti volontariamente dai serbi.187 L’operazione di registrazione è stata gestita dall’OSCE in collaborazione con l’UNMIK, che insieme hanno creato una Joint Registration Taskforce (JRF). Ad oggi si sono svolte quattro tornate elettorali, due “municipali” e due “centrali”. 185 Il TMC è stato istituito, come figura indipendente, dall’UNMIK con il regolamento 2000/36, del 17 giugno 2000. L’attuale TMC è Robrert Gillette, giornalista americano. 186 Per questa sezione si rimanda al sito ufficiale della Missione OSCE in Kosovo (www.osce.org/kosovo/index.php) 187 Si è già sottolineato come dietro questa apparentemente inspiegabile vandalismo, ci fosse una chiara strategia politico-demografica (vedere primo capitolo, pag. 48) 110 1. Elezioni municipali del 28 ottobre 2000: su proposta di una bozza della Commissione Elettorale Centrale, composta di 12 membri (di cui 3 internazionali e 9 locali), il SRSG promulgò le norme per la condotta delle elezioni per le assemblee municipali, con mandato di due anni. I risultati delle elezioni del 28 ottobre 2000 sancirono la vittoria schiacciante del partito di Ibrahim Rugova, che vide in questo modo confermata la propria popolarità, nonostante la campagna di discredito avviata dai propri avversari politici. Questi ultimi, come riporta Robert Fox, avevano diffuso una fotografia che ritraeva Rugova mentre stringeva la mano a Milosevic, durante i bombardamenti: sotto la foto, la scritta in inglese “No comment”. 188 Tuttavia alla base della vittoria di Rugova, che tanto deluse i militanti del PDK e dell’AAK, era stata soprattutto l’insofferenza popolare per gli atteggiamenti violenti e intimidatori assunti proprio dagli exguerriglieri dell’UÇK. Ciascuna assemblea municipale elesse poi un presidente, che in 22 casi su 27 fu un uomo dell’LDK e negli altri 5 del PDK. Ad ogni modo in tre municipalità del nord189, abitate in maggioranza da serbi, a causa della insignificante affluenza elettorale, fu il SRSG a nominare i membri delle assemblee provinciali e i loro presidenti. In seguito l’UNMIK preferì evitare di indire elezioni suppletive in queste tre province, paventando il pericolo che l’elettorato locale, dimostratosi molto vicino al Partito Socialista di Milosevic e al Partito Radicale di Seselj, potesse esprimere la propria preferenza per candidati con cui sarebbe stato eccessivamente difficile avere un dialogo costruttivo. 2. Elezioni centrali del 17 novembre 2001, per l’Assemblea del Kosovo: emanato il Constitutional Framework, le elezioni per l’Assemblea da esso istituita furono fissate per il 17 novembre 2001. Durante i mesi precedenti le elezioni, l’attenzione dei principali attori locali e internazionali si concentrò sulla problematica questione della partecipazione dei serbi. Per 188 Rugova d’altra parte replicò di aver incontrato Milosevic sotto coercizione. Robert Fox, “Ma tra i kosovari continuano le faide mafiose”, LIMES “I balcani senza Milosevic”, n. 5 del 2000 189 Leposavic, Zubin Potok e Zvecan. 111 molto tempo vi fu un clima di incertezza, nonostante l’inaspettata registrazione nelle liste elettorali di più di 178.000 serbo-kosovari riuniti nell’unica coalizione di partiti serbi chiamata “Povratak”, un nome che non lasciava spazio a dubbi sull’obiettivo politico della coalizione: “Ritorno”. Il mondo politico serbo-kosovaro si era diviso in due correnti contrapposte: da una parte, quella guidata da Rada Trajkovic, rappresentante del Kosovo centrale e vice-presidente del Partito Democristiano, secondo cui la non partecipazione alle elezioni avrebbe determinato la separazione di fatto del Kosovo e la ghettizzazione delle enclavi serbe; dall’altra, Marko Jaksic, rappresentante del Kosovo settentrionale (Kosovska Mitrovica) e vice-presidente del DSS (partito di Kostunica), favorevole al boicottaggio, perché la partecipazione sarebbe equivalsa alla legittimazione del potere degli albanesi (visto che questi, grazie al loro enorme vantaggio demografico, avrebbero inevitabilmente assunto il governo del Kosovo).190 La diatriba fu risolta da un accordo tra l’UNMIK e le autorità federali jugoslave, il c.d. Accordo Haekkerup-Covic (dai nomi rispettivamente del SRSG e del presidente del Centro di Coordinamento per il Kosovo e Metohija). I serbi ottennero, da parte delle autorità UNMIK, non solamente la conferma delle clausole della Risoluzione 1244, che parlavano di “autonomia” e non di indipendenza, ma soprattutto l’assicurazione che le nuove istituzione provvisorie (PISG) non avrebbero potuto prendere alcuna decisione in merito allo status futuro. Inoltre le autorità internazionali ribadirono il diritto al ritorno e a condizioni di sicurezza per i serbi in Kosovo. D’altra parte, l’UNMIK ottenne in sostanza il via libera di Belgrado per la partecipazione serba alle elezioni, inserendo nell’accordo stesso l’invito a recarsi alle urne.191 I risultati di questa tornata elettorale confermarono l’LDK come il partito più forte (circa il 45.7% dei voti e 47 seggi), anche se perse un 10% 190 Luka Zanoni, “Il Kosovo si prepara alle elezioni” , Osservatorio sui Balcani (18.10.2001) Davide Sighele, “Kossovo: accordo Haekkerup-Covic, i serbi andranno a votare”, Osservatorio sui Balcani, (7.11.2001) 191 112 rispetto alle precedenti municipali. Di seguito erano: al secondo posto, il PDK di Thaçi (25.7 %); al terzo i serbi riuniti nella lista “Povratak” (11.3 %); al quarto l’AAK, Alleanza per il Futuro del Kosovo di Haradinaj (7.8 %).192 Questi ultimi tre partiti ottenevano quindi rispettivamente 26, 22 e 8 seggi. A livello di riflessioni politiche, da queste elezioni si deducevano due risultati positivi: in primis, tutto era avvenuto senza incidenti e “all’insegna della tranquillità e correttezza”193; inoltre, la relativamente elevata partecipazione serba (circa il 60% degli aventi diritto al voto) faceva ben sperare, soprattutto per il discreto afflusso anche degli sfollati che abitavano fuori dal Kosovo (dove secondo Emiliano Bertoldi, allora coordinatore del “Tavolo trentino per il Kosovo”, l’affluenza si era attestata all’incirca al 53%).194 Ad ogni modo il lavoro della neoeletta Assemblea fu – come visto - immediatamente bloccato dai contrasti per l’elezione del Presidente del Kosovo e dalle polemiche di Thaçi che abbandonò l’aula in segno di “protesta nei confronti di Hans Heakkerup, che aveva impedito agli eletti del PDK di parlare della famiglia di Adem Cesari, uno tra i fondatori dell’UÇK, ucciso nel 1998 in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza serbe”195. 3. Elezioni municipali del 26 ottobre 2002: scaduto il mandato delle assemblee municipali elette nell’ottobre del 2000, si procedette a nuove elezioni, da cui risultò una certa pluralizzazione del sistema politicopartitico a livello municipale. I risultati ribadirono il lieve calo di consensi per l’LDK di Rugova, che, pur rimanendo il partito più forte (con circa il 46% dei voti), fu costretto in molti casi ad alleanze con partiti minori per raggiungere la maggioranza. Il PDK vide aumentare il suo elettorato 192 Si sono utilizzati i dati ufficiali fornit i dall’OSCE (www.osce.org/kosovo/elections/archive/2001/index.php3) 193 Osservatorio sui Balcani, “Elezioni in Kossovo: i primi risultati”, (21.11.2001) 194 Davide Sighele, “Elezioni in Kosovo: un passo verso la distensione?”, Osservatorio sui Balcani (21.11.2001) 195 A quanto riportato Thaçi avrebbe detto: “E’ Haekkerup che ha violato maggiormente i diritti umani durante la giornata mondiale dei diritti umani”. “(…)ma a quel punto il suo microfono è stato spento”. Osservatorio sui Balcani,“Tempestoso battesimo per l’Assemblea del Kosovo”, (11.12.2001) 113 (ottenendo circa il 2% in più di voti) e conquistò la maggioranza in varie municipalità. La regione di Dukagjin, invece, si confermò come la roccaforte dell’AAK. 196 Tuttavia il dato politico più importante stava nella bassa affluenza alle urne (intorno al 54%), interpretata da alcuni osservatori internazionali, come il segno “di una certa disaffezione alla politica della componente albanese della popolazione senza dubbio sfiduciata dal fatto che il progresso nei processi democratici non sta(va) andando certamente a braccetto con lo sviluppo economico e con il miglioramento generale dello standard di vita”197. Ancora più denso di significato fu il dato sull’affluenza dei serbo-kosovari, che in maggioranza boicottarono le urne: secondo i dati non più del 20% dei serbi sarebbe andato a votare (e meno del 14% con riferimento ai serbi sfollati in Serbia). Addirittura nel quartiere nord di Mitrovica, su 8.067 iscritti alle liste elettorali, solo in 59 si sarebbero presentati alle urne. Nonostante la bassa affluenza, i serbo-kosovari riuscirono a conquistate la maggioranza in cinque municipalità (Leposavic, Zubin Potok, Strpce, Zvecan e Novo Brdo) e i voti evidenziarono un calo della coalizione “Povratak”, cui si contrappose la crescita del partito di Kostunica (DSS). Ad ogni modo, la bassa affluenza non costituisce mai un segnale positivo, ed in particolare si può dire che queste elezioni, nella migliore delle interpretazioni, non abbiano portato nulla di nuovo e, nella peggiore, abbiano rappresentato un passo indietro rispetto ai rapporti tra le due comunità più importanti del Kosovo, tanto che, il 30 ottobre, il Rappresentante Speciale commentò il boicottaggio serbo dicendo “Kosovo’s Serbs shot themselves in the foot”198. 4. Elezioni centrali del 23 ottobre 2004, per l’Assemblea: si tratta delle recenti elezioni per l’assegnazione di 100 dei 120 seggi dell’Assemblea del Kosovo (essendo – come visto – i restanti 20 riservati di diritto alle varie 196 Per i risultati si è fatto riferimento ai dati riportati da Marcus Brand, “The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Geneva January 2003 197 Osservatorio sui Balcani, “Municipali in Kossovo: un passo indietro”, (29.10.2002) 198 www.osce.org/kosovo/ 114 minoranze). Anche in questo caso, il dibattito nei mesi precedenti è stato praticamente monopolizzato dalla questione della problematica partecipazione dei serbi. La Comunità internazionale si è impegnata in una operazione di persuasione: il nuovo SRSG Soren Jessen-Petersen ha fatto visita a Belgrado il 30 agosto 2004, per sottolineare come la partecipazione della popolazione serbo-kosovara alla vita politica locale sia una premessa indispensabile per la creazione di un “Kosovo multietnico” (essendo ancora questo l’obiettivo ufficiale della missione delle N. U.). La prima settimana di settembre, sulle stesse considerazioni ha fatto perno una seduta del c.d. Gruppo di Contatto Plus (che riunisce i rappresentanti del Gruppo di Contatto, del Patto Atlantico e dell’UE) 199. Tuttavia, nonostante le pressioni internazionali, la classe politica serba non è riuscita a esprimere una linea ufficiale, anzi si è spaccata in due correnti. Da una parte, il Premier serbo Vojslav Kostunica, appoggiato dalla maggior parte del mondo politico belgradese e soprattutto dalla influente Chiesa serboortodossa, esortava al boicottaggio perché partecipare avrebbe voluto dire “legittimare” delle istituzioni favorevoli all’indipendenza. Inoltre questi detrattori delle elezioni ponevano molta enfasi sulla mancanza delle condizioni minime di sicurezza e delle garanzie del diritto alla vita per la popolazione serbo-kosovara, facendo riferimento soprattutto alle vicende del marzo 2004, e sull’assenza di garanzie internazionali sul futuro ottenimento dell’autonomia per i serbi 200. Di parere contrario il Presidente della Repubblica Serba Boris Tadic, che, appoggiato dal Ministro degli Esteri Vuk Draskovic, aveva espressamente invitato i serbi ad andare a votare per ottenere in questo modo i propri legittimi rappresentanti nelle istituzioni kosovare ed evitare di essere esclusi dal dibattito sul futuro della regione. 199 Luka Zanoni, “I Serbi e le elezioni in Kossovo”, Osservatorio sui Balcani (6. 9.2004) Kostunica rimaneva infatti un convinto sostenitore del piano di decentramento presentato da Belgrado. Ama Lama, “Kossovo: confusione elettorale”, Osservatorio sui Balcani (11.10.2004) 200 115 Anche all’interno del panorama politico dei serbo-kosovari si era prodotta una spaccatura tra favorevoli e contrari alle elezioni, anche se tutti concordavano sul fatto che la missione internazionale fosse riuscita a garantire esclusivamente la “macro-sicurezza” e non la “microsicurezza”201. Le uniche due liste presentatesi per le elezioni erano la lista chiamata “Gradanska Inicijativa Srbija”, guidata da Slavina Pektovic202, e la “Lista per il Kosovo e Metohija” di Oliver Ivanovic, già membro della coalizione “Povratak”. Comunque alla vigilia delle elezioni in Serbia e Montenegro venivano aperti in totale circa 110 seggi elettorali per gli sfollati serbo-kosovari, nonostante continuasse ancora una decisa campagna anti-elettorale. Le elezioni si sono poi tenute il 23 ottobre in un clima piuttosto calmo, nonostante le preoccupazioni 203. Il primo dato da focalizzare è stata una bassa affluenza alle urne, circa il 53% degli aventi diritto (quindi circa 670 mila su un milione e 400 mila aventi diritto) e soprattutto la praticamente nulla partecipazione serba (con stime che vanno dall’1% allo 0.14% a seconda delle fonti). Aveva vinto “il partito del boicottaggio”. Per spiegare questo fenomeno, Petersen ha insistito sulle intimidazioni che hanno dovuto subire tutti i potenziali elettori: un caso eclatante si era verificato a Jagodina, dove , dopo che il seggio era stato aperto con dieci ore di ritardo per le proteste di alcuni nazionalisti serbi, non si era comunque presentato nessuno. D’altra parte altri osservatori hanno messo in rilievo, come motivi di fondo dell’astensionismo, l’incertezza in merito alla definizione del futuro status del Kosovo e la volontà di seguire le direttive maggioritarie di Belgrado. Per quanto riguarda i risultati, l’LDK di Rugova si è confermato 201 Dove per “macro-sicurezza” si intende l’esser riusciti ad impedire che la guerra si diffondesse all’intera regione; mentre per “micro-sicurezza” si intende la creazione di condizioni di vita sicure per tutti i cittadini del Kosovo, minoranze comprese. “Elezioni in Kossovo: i punti di vista di Belgrado”, Danijela Nenadic, Osservatorio sui Balcani (8.10.2004) 202 Alma Lama riporta le parole di Sasa Djokic, che incita i serbo-kosovari ad una certa autonomia da Belgrado dicendo: “I serbi devono imparare a pensare con la loro testa”. Ama Lama, “Kossovo: confusione elettorale”, Osservatorio sui Balcani (11.10.2004) 203 Difatti,dal 6 ottobre al 6 novembre la NATO aveva aumentato di 2000 uomini le proprie unità. Luka Zanoni, “Elezioni in Kosovo, pronti al via”, Osservatorio sui Balcani (21.10.2004) 116 con 47 seggi il partito più forte; la tenuta di Rugova, che in questi anni “ha interpretato il ruolo di presidente in modo molto particolare, ad esempio decidendo di non dimettersi dalla direzione del proprio partito e rinunciando di fatto a essere il Presidente di tutti i cittadini del Kosovo” è spiegabile con “il profondo radicamento” dell’LDK nelle campagne.204 L’LDK è seguito dal PDK di Thaçi e in terza posizione dall’AAK di Haradinaj, che hanno ottenuto rispettivamente 30 e 9 seggi in Assemblea. 205 Al quarto posto in termini di voti (con 7 seggi ottenuti), si è posizionata la lista “ORA” del magnate dei media kosovari, Veton Surroi206. Questi, proprietario del quotidiano Koha Ditore e di una televisione kosovara, rappresenta una novità nel panorama politicopartitico. Figlio di un ambasciatore e schierato in passato contro la disgregazione della ex-Jugoslavia, Surroi è una figura che piace più agli occidentali che ai locali, i quali – almeno i più anziani - lo considerano un estraneo, “uno jugoslavo”. Di fatto, questi è riuscito a raccogliere un certo consenso puntando sulle esigenze dell’elettorato più giovane. In conclusione si può sostenere che queste elezioni non hanno portato grandi novità. L’unico elemento su cui molti osservatori riponevano le proprie speranze era che, poiché l’LDK sarebbe stato costretto ad un’alleanza con un altro partito, si venisse creare una dinamica governoopposizione che invece mancava nella precedente coalizione di governo. Di fatto oggi è troppo presto per capire se quest’auspicio si possa avverare. Le uniche considerazioni che si possono fare in questi giorni sono due: una, positiva per il dialogo interetnico, è la notizia dell’accettazione da 204 Davide Sighele, “Kossovo: un passo avanti, uno indietro”, Osservatorio sui Balcani (27.10.2004) In percentuali di voti: LDK 45.4%; PDK 28.8%; AAK 8.4%; ORA 6.2%. (Le percentuali sono state prese dal sito internet ufficiale dell’OSCE, alla pagina web http://kosovoelections.org/eng/results/index.htm) 206 Le ORE sono figure mitologiche delle leggende albanesi che tengono in mano il destino degli uomini . Alma Lama, “Elezioni in Kossovo: è ORA di cambiare?”, Osservatorio sui Balcani (29.9.2004) 205 117 parte del serbo-kosovaro Slavisa Pektovic 207 ( a capo di una lista d’iniziativa civica) dell’incarico di Ministro per il ritorno e le minoranze all’interno del governo Haradinaj. L’altra riguarda proprio quest’ultimo che, nominato primo ministro lo scorso dicembre , ha rassegnato le proprie dimissioni a Jessen-Petersen l’8 marzo 2005, dopo che era stata resa pubblica la sua incriminazione presso il Tribunale Penale internazionale. 207 L’obiettivo di Pektovic è di lavorare per il rientro dei più di 250.000 sfollati serbi in un contesto di sicurezza personale ed economica. Questi, rispondendo alle polemiche di chi ha criticato la sua scelta, ha dichiarato: “Se abbiamo partecipato alle elezioni non vedo perché non partecipare poi alle istituzioni”. Biserka Ivanovic, “Kosovo: un serbo dice si ad Haradinaj”, Osservatorio sui Balcani (4.2.2005) 118 D) PILASTRO IV: Ricostruzione e sviluppo economic o La direzione del quarto Pilastro, che riguarda le attività di ricostruzione e di avvio dello sviluppo economico, è stata assunta dall’Unione europea. In sostanza, l’UE ha avuto – ed ha tuttora - il compito di coordinare l’attività delle varie istituzioni finanziarie internazionali e dei governi donatori, predisponendo le politiche economiche e finanziarie necessarie per la razionalizzazione dei fondi destinati al Kosovo. L’obiettivo di lungo termine di questo pilastro è la creazione di una dinamica economia di mercato, integrata nel sistema economico della macroregione balcanica. In questo senso, il lavoro svolto in Kosovo dalla Comunità internazionale all’interno del quarto pilastro corre su un binario parallelo rispetto a quello svolto nell’ambito del “Patto di Stabilità per l’Europa sudorientale” per i vari paesi dell’area balcanica. L’idea di un patto di stabilità come mezzo di una strategia di lungo termine per la prevenzione dei conflitti nacque alla fine del 1998 e ricevette nuovo vigore proprio dall’esplosione della guerra in Kosovo, tanto che il 10 giugno 1999 – con un tempismo invidiabile – “il Patto di Stabilità per l’Europa sud-orientale” fu firmato da più di 40 stati e organizzazioni internazionali.208 Tale patto non costituisce una nuova organizzazione internazionale, né dispone di risorse finanziarie proprie, ma rappresenta solamente l’istituzionalizzazione dell’impegno preso dai firmatari a sostenere i paesi del sud-est europeo nello sforzo di promozione della pace, della democrazia, del rispetto dei diritti umani e della prosperità economica come premesse per ottenere la stabilità dell’intera regione. Da un punto di vista organizzativo, lo strumento politico più importante è il Tavolo 208 Oggi sono ne membri: i paesi della regione balcanica (Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, FYROM (Macedonia), Moldavia, Romania e Serbia e Montenegro); gli stati membri dell’U.E. e la Commissione Europea; altri paesi (Canada, Giappone, Norvegia, Russia, Svizzera, Turchia, Stati Uniti); alcune organizzazioni internazionali (ONU, OSCE, Consiglio d’Europa, UNHCR, NATO, OCSE); alcune istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, FMI, EBRD, EIB, CEB); alcune iniziative regionali (Black Sea Econonic Co -operation, Central European iniziative, South East European Co-operative Iniziative, South East Europe Co-operation Process) (http://www.stabilitypact.org/) 119 Regionale, diviso in tre Tavoli di Lavoro (Democratizzazione e diritti umani; Ricostruzione Economica, Cooperazione e Sviluppo; Sicurezza). La logica di fondo è quella classica adottata dall’Occidente209: condizionare la concessione di finanziamenti o di altre forme di sostegno economico “all’impegno, da parte dei beneficiari, di conformarsi a pieno agli standard occidentali in materia di democratizzazione, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e adozione delle regole proprie di un’economia di mercato”210. Tuttavia è in una prospettiva di lungo termine che si coglie l’elemento geopolitico: il premio finale per il riconoscimento degli sforzi compiuti dovrebbe essere infatti la piena integrazione dei paesi del sud-est europeo negli organismi di cooperazione europei e atlantici (in sostanza nell’UE e nella NATO). In generale si può dire dunque che questo patto rientra nel processo di integrazione dell’Europa sud-orientale all’interno del sistema politico-economico euroatlantico. Fatta questa premessa sul quadro economico generale dell’area del sud est europeo, si può tornare a parlare in modo specifico del Kosovo. Nell’impossibilità di approfondire in questa sede l’analisi dell’organizzazione e delle politiche economico-finanziarie guidate dall’UE nell’ambito del quarto Pilastro211, ci si propone di fornire un bilancio dell’economia kosovara dopo cinque anni di amministrazione internazionale. Le due leve, su cui l’intervento internazionale ha scommesso per il rilancio di un’economia disastrata, sono state l’afflusso di fondi dall’estero e la privatizzazione delle numerose imprese collettive, a proprietà sociale, tipiche 209 Difatti, c’è chi ha paragonato questo patto al “Piano Marshall”. Giulo Marcon, tuttavia, sottolinea come in realtà in questo caso manchi “una delle condizioni fondamentali che permise il successo di quel piano: la coesione politica dell’aera che ne veniva beneficata e la costruzione di un’architettura politico-istituzionale (si trattava allora dell’inizio della costruzione della Comunità economica europea) che si accompagnava all’utilizzo degli aiuti”. Giulio Marcon, “Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace”, Asterios Editore 2000, pag. 214 210 Emanuele Sommario,“Il Patto di stabilità e le strategie per la ricostruzione” in F. Strazzari, Luis Rodriguez-Pinero Royo, G. Arcadu, B. Carrai, op., cit. pag. 42 211 A titolo informativo si riporta solamente che l’organizzazione attuale vede l’UE impegnata in cinque aree di intervento, cui corrispondono cinque agenzie specializzate: 1) Banking and Payment Authority of Kosovo (BPK); 2) Central Regulatory Unit; 3) Fiscal Affaire Office; 4) Kosovo Trust Agency; 5) UNMIK Customs Service (http://www.euinkosovo.org/pDefault.asp#) 120 del sistema socialista jugoslavo. L’Unione europea ha istituito la Kosovo Trust Agency, con il ruolo di guidare il processo di privatizzazione. Purtroppo, tuttavia, i risultati ottenuti appaiono davvero deludenti: circa il 90% delle quasi 500 imprese collettive precedentemente gestite dalla Jugoslavia sono state valutate dalla KTA come defunte per sempre. A tal proposito, Fabio Mini esprime un giudizio duro: “(…) le rosee prospettive e promesse di coloro che annunciavano un nuovo Kosovo libero, democratico e perfino ricco grazie alla riconversione di tutte le industrie si è rivelata una beffa e una truffa prima di tutto morale e in alcuni casi anche materiale”.212 Alla base di questo fallimento sta un problema di fondo: la difficoltà di pervenire ad una chiara certificazione dei diritti di proprietà sulle imprese in Kosovo. La situazione proprietaria è molto confusa: a Belgrado che reclama il rispetto dei propri diritti, i kosovari oppongono il fatto che quelle imprese erano “kosovare” prima dell’abolizione dell’autonomia della provincia nel 1989 e che oggi non si può prescindere da questo dato. D’altra parte, a complicare la situazione intervengono i sindacati – in particolare l’Unione Indipendente dei Sindacati del Kosovo (BSPK) - secondo cui la maggior parte delle imprese del Kosovo era autogestita e quindi per quasi cinquant’anni i lavoratori, oltre a rappresentare la forza lavoro di queste imprese, avevano investito nelle aziende. Privatizzarle vorrebbe dire negare il diritto alla proprietà collettiva e di fatto rubare la ricchezza che i proprietari-lavoratori hanno accumulato.213 Questo situazione di incertezza giuridica ha delle conseguenze economiche gravi: infatti nessun investitore straniero rischierebbe mai di investire in un’impresa di cui non si conosce il proprietario. A tutto ciò si aggiunga l’incertezza che deriva dalla mancata definizione dello status del Kosovo, che certamente non incoraggia l’afflusso di capitali stranieri. 212 213 Fabio Mini, op. cit. pag. 236 Osservatorio sui Balcani, “Privatizzazioni in Kossovo, una rapina?”, (31.5.2002) 121 Inoltre gli stessi funzionari internazionali della KTA si sono spesso rifiutati di assumere la responsabilità delle operazioni di vendita che gestivano.214 In alcuni casi, la KTA ha tentato di risolvere la questione ricreando il sistema di autogestione dei lavoratori, ma anche qui i risultati sono stati modesti e alcuni osservatori hanno considerato questa mossa come un “errore fatale”.215 Il settore privato nato dopo la fine della guerra è fatto di piccolissime imprese, per lo più negozi di alimentari e aziende contadine a gestione familiare. Queste da sole non riescono a produrre alcuna crescita del PIL. Ed è per questo che riuscire ad ottenere un assetto chiaro della proprietà privata in Kosovo rappresenta un obiettivo chiave.216 Per quanto riguarda gli aiuti internazionali destinati alla ricostruzione, è da tutti sostenuto che il Kosovo abbia beneficiato di una quantità di fondi senza precedenti: in effetti oltre 500 km di strada sono stati riparati, il sistema idrico è stato riabilitato e più di 20.000 case ricostruite. Tuttavia non un km di strada nuova è stata asfaltata e il 60% della popolazione vive in villaggi privi di strade asfaltate, dove, quando piove, il fango rende impossibile qualsiasi spostamento. Eppure, come sottolinea Fabio Mini, “il paradosso è che i problemi del Kosovo non provengono dalla mancanza di risorse ma dall’inefficienza del loro impiego”: la terra è coltivata al massimo per l’autosussistenza, le miniere di zinco, piombo, argento e cromo sono abbandonate. E ancora, il Kosovo è il paese più giovane d’Europa, con una immensa risorsa in termini di forza di lavoro: eppure il 60% della popolazione attiva è disoccupata e molti preferiscono lavorare come traduttori o autisti dell’UNMIK piuttosto che reinserirsi nei posti di lavoro che avevano prima della guerra (visto che un professore guadagna molto più come autista che svolgendo il proprio mestiere). Anche la produzione di energia elettrica è paralizzata: la KEK, la 214 Alma Lama, “Kosovo: privatizzazioni, paura di procedere”, Osservatorio sui Balcani (1.12.2003) R. Muharremi, L. Peci, L. Malazogu, V. Knaus, T. Murati (Editor I. Blumi), “Administration and governance: lessons learned and lessons to be learned”, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies (CASIN),Pristina/Geneva January 2001 216 “Unless property rights are clearly established, property is nothing but a dead asset”, ibidem 215 122 società elettrica kosovara, al centro negli anni passati di un gravissimo scandalo di corruzione 217, per evitare il collasso finanziario, ha dichiarato che toglierà il servizio in quei villaggi che presentano una bassa percentuale di pagamento delle bollette. Si tratta ovviamente di una misura draconiana, che potrebbe scatenare nuove tensioni in un Kosovo già tristemente abituato ad un servizio scarso e a black-out frequenti. Eppure, come detto, di fondi ne sono arrivati: le cifre variavano tra i 6 e i 9 miliardi di dollari fino al 2003.218 Prendendo per valida la seconda cifra, il prodotto interno lordo pro capite del Kosovo dovrebbe essere di circa 1.875 dollari, mentre le stime parlano di 850-900 dollari nel 2000 e 700 nel 2002. Da questi dati, Fabio Mini trae due interessanti considerazioni: 1) che il PIL diminuisce al diminuire degli ai uti esterni e quindi nessuna produzione interna di ricchezza è intervenuta a integrare o sostituire gli aiuti; 2) la differenza di 1.000 dollari pro capite significa che “una parte sostanziale della ricchezza fornita dagli aiuti internazionali o non è finita in Kosovo o è finita nelle tasche della criminalità e dell’illegalità”.219 Qui si apre la questione drammatica dei traffici illeciti di cui il Kosovo è un importante crocevia. In primis viene il "commercio” di donne da avviare alla prostituzione. Pare che in Kosovo non ci fosse quasi prostituzione prima della guerra220: oggi è pieno di night club per spogliarelliste, dietro cui si cela un giro di prostituzione enorme. Le donne vengono per lo più dalla Moldavia, dalla Romania e dall’Ucraina, vittime delle solite drammatiche promesse (adescate con l’illusione di poter trovare un lavoro come donne di pulizia, cameriere, baby sitter o badanti). Tuttavia, nonostante la tradizione vorrebbe 217 “Nel 2003, l’ex-amministratore della società elettrica, il tedesco Jo Trutshler è stato condannato dal tribunale di Buchum a tre anni e mezzo di prigione per appropriazione illecita di 4,5 miliardi di euro del budget della società, trasferiti segretamente a Gibilterra (allo scopo di innalzare segretamente gli stipendi dei dipendenti, secondo quanto dichiarato dal condannato)”. Francesco Martino, “Kosovo: nuovi disordini per colpa della KEK?”, Osservatorio sui Balcani, (14.1.2005) 218 Senza calcolare la cifra di 18 miliardi di dollari, di chi include le somme elargite dalle ONG, dai privati e i costi relativi alla presenza della KFOR. Angelantonio Rosato, “Kosovo, terra del caos”, Limes “L’Europa americana” 2003/3 219 Fabio Mini, op. cit. pag. 239-240 220 Jeta Xharra “L’industria del sesso in Kosovo”, International War & Peace Reporting, (traduzione di Carlo Dall’Asta, Osservatorio sui Balcani) (28.3.2003) 123 che la società kosovara proteggesse le proprie donne, le stesse kosovare sono spesso costrette a prostituirsi. Il centro dell’ “industria del sesso” è Urosevac (in albanese Ferizaj), ai confini con la Macedonia, città che già prima della guerra godeva di una pessima fama. Per quanto riguarda il narcotraffico, la rotta balcanica – intesa come la parte finale del viaggio degli oppiacei dall’Afghanistan e dagli altri paesi asiatici produttori di oppio – era stata lasciata in disparte durante gli anni ’90, quando le guerre jugoslave imponevano ai trafficanti il passaggio per i paesi dell’ex Unione Sovietica. Oggi appare essere tornata decisamente in auge, con Prizren che gioca il ruolo di snodo fondamentale nella distribuzione della morfina e dell’eroina proveniente dall’Asia occidentale attraverso la Turchia221. A tutto ciò si aggiunga che il passaggio di grandi quantità di droghe ha finito per creare anche un mercato di consumo locale. Secondo Deledda e Sartori, tale commercio, che vede impiegati soprattutto TIR e autobus, è gestito esclusivamente dalle mafie turche e albanesi, in particolare kosovaroalbanesi222. Altro contrabbando fruttuoso, soprattutto nei primi anni di amministrazione internazionale, è stato quello di carburante. La “Ground Safety Zone”, al confine tra Kosovo e RFJ, zona “cuscinetto” interdetta in base all’Accordo di Kumanovo alle forze armate jugoslave ma anche alla Polizia UNMIK, è stata a lungo il limbo di un ricco e impunito traffico. Qui si vendeva al contrabbando il carburante più economico dei Balcani (e d’Europa: 50 centesimi di euro per un litro di benzina nel 2003).223 Nel 2003, su pressione internazionale, sono state rimosse le stazioni di carburante a Kula, tra Kosovo e Montenegro.224 221 Robert Fox, “Ma tra i kosovari continuano le faide mafiose”, LIMES “I balcani senza Milosevic”, n. 5 del 2000 222 Antonella Deledda e Paolo Sartori, “Le vie della droga non sono infinite”, LIMES “Il nostro oriente”, n. 6 del 2003 223 Fatos Bytyci, “Kosovo: nella zona d’interdizione fiorisce il contrabbando”, Osservatorio sui Balcani (22.11.2002) 224 Osservatorio sui Balcani, “Montenegro/Kosovo: rimosse le stazioni di carburante a Kula”, (24.1.2003) 124 Tuttavia oggi il Kosovo rappresenta ancora la “terra del caos”, dove “un’economia parallela illegale agisce sotto la copertura di night club, discoteche, negozi di cd-dvd, lavaggi per auto, pompe di benzina, istituti di vigilanza privata, alberghi, persino agenzie di viaggio. Si tratta ovviamente di posti deputati al money laundering delle attività criminali”..225 In questo drammatico quadro, si inserisce un dato significativo e apparentemente sorprendente: “la malavita in Kosovo è l’unica ad aver vinto le divisioni e gli odi interetnici”, visto che “i mafiosi albanesi fanno tranquillamente affari con quelli serbi, oltre che con quelli macedoni, rumeni, greci, bulgari, russi, cinesi e italiani.”. 225 Angelantonio Rosato, “Kosovo, terra del caos”, LIMES “L’Europa americana”, n. 3 del 2003 125 CAPITOLO TERZO Il problema dello “status”: l’approccio della Comunità Internazionale e la soluzione secondo i principali attori locali 1. Comunità Internazionale: “prima il rispetto della democrazia, poi il dialogo” Nell’analizzare gli scenari futuri per la soluzione della questione dello status del Kosovo occorre partire da un presupposto di base: a differenza degli Accordi di Dayton per la guerra della Bosnia-Erzegovina, nel caso del Kosovo non fu possibile - in sede di trattative di pace – trovare una soluzione definitiva per lo status di questo territorio. D’altra parte, lo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nella Risoluzione 1244, pur confermando la sovranità e l’inviolabilità territoriale della Repubblica Federale Jugoslava, ha affidato all’amministrazione internazionale il compito di creare le premesse per la definizione dello status della provincia226. Su questo punto si inserisce un problema politico. In questi anni l’UNMIK ha operato in una situazione di incertezza per l’impossibilità di dare alla propria azione un chiaro e preciso obiettivo di lungo termine. Di questa situazione non si può accusare uno o l’altro dei vari Rappresentanti Speciali del Segretario Generale. Il punto di fondo è che è mancato l’accordo - in primis - tra gli i protagonisti locali del conflitto ed in secondo luogo anche nella Comunità internazionale.227 In questi anni, dunque, il Kosovo è rimasto in una sorta di limbo in cui l’amministrazione internazionale ha dovuto rimandare sine die la questione dello status ed ha tentato – almeno nei primi anni e soprattutto almeno nelle 226 Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle N.U. (paragrafo 11 lett. e) In questo senso si fa riferimento alla Comunità internazionale e non alle Nazioni Unite come organizzazione a se stante proprio per sottolineare che senza un’intesa tra i governi che la compongono quest’ultima rimane paralizzata, o quanto meno ha difficoltà a muoversi. 227 126 dichiarazioni ufficiali – di perseguire il sogno di un Kosovo multietnico e non diviso. Tuttavia, di fatto, tali ottimistici auspici si sono scontrati “con la realtà delle enclave dove i serbi possono vivere solo se protetti dal filo spinato e dalle truppe della KFOR, dei ghetti indegni dove vivono i rom, gli ashkalia e i cosiddetti egiziani, e con la realtà di Mitrovica dove un fiume divide due mentalità e dove l’ONU per prima ha consentito la separazione e stabilito un’amministrazione diversa da quella della parte meridionale della città”.228 Nell’impossibilità di avviare un dialogo costruttivo tra le parti, l’UNMIK - e dietro di essa la Comunità internazionale – ha elaborato la c.d. teoria degli “standards before status”: in sostanza lo status sarebbe stato discusso solo dopo che la società civile e le istituzioni kosovare avessero dimostrato di aver raggiunto determinati standard di democraticità. Nel dicembre del 2003, l’UNMIK ha presentato un documento intitolato “Standards for Kosovo”, in cui sono elencati gli obiettivi da raggiungere come condizione necessaria all’avvio dei dialoghi sullo status. Tale documento inizia con una frase che ne riassume il significato: “A Kosovo where all – regardless of ethnic background, race or religion – are free to live, work and travel without fear, hostility or danger and where there is tolerance, justice and peace for everyone”.229 Poi il testo prosegue dividendo gli standards in otto categorie, a loro volta suddivise in sottocategorie: 1. Istituzioni democratiche funzionanti: istituzioni provvisorie (PISG) liberamente, onestamente e democraticamente elette, che governino in modo imparziale, trasparente e responsabile e rappresentino gli interessi e i bisogni di tutte le comunità. Inoltre viene posta la condizione che anche gli sfollati (IDP) e i rifugiati siano inclusi nel processo elettorale gestito da una Commissione Centrale Elettorale indipendente, rappresentativa e multienica, nonché la creazione di un sistema pluripartitico libero e 228 229 Fabio Mini, “La guerra dopo la guerra”, Einaudi 2003, pag. 233 UNMIK/PR/1078, “Standards for Kosovo”, presented Pristina 10 December 2003 127 democratico. Per il funzionamento delle PISG, è richiesta la capacità di fornire i servizi pubblici di base a tutte le comunità senza discriminazione. Infine, particolare attenzione è dedicata ai media e alla società civile: in questo senso l’obiettivo è la creazione di un sistema pluralistico di media privati ed indipendenti, controllati da una autorità regolatrice indipendente, e una società civile in cui qualsiasi forma di incitamento all’odio interetnico sia condannata dal mondo politico, dai media e dalla stessa autorità sopraccitata. 2. Governo della legge: si richiede la messa in atto di una solida struttura legale e di una effettiva politica di imposizione della legge. In sostanza un sistema in cui la polizia, il potere giudiziario e il sistema penale agiscano imparzialmente e nel pieno rispetto dei diritti umani, creando un sistema di giustizia uguale per tutti e da tutti ugualmente accessibile. Particolare attenzione è dedicata alla persecuzione dei crimini interetnici e di quelli economicofinanziari. 3. Libertà di movimento: si tratta di un aspetto molto importante e di una visibilità immediata. In sostanza, tale standard consiste nel diritto per tutti gli individui di qualsiasi etnia di viaggiare, lavorare e vivere in sicurezza e in assenza di minacce o di paura di attacchi, maltrattamenti o intimidazioni; altro aspetto - a questo correlato è quello del libero uso della propria lingua ovunque in Kosovo, nonché del dovere delle istituzioni di emanare documenti in tutte le lingue ufficiali. 4. Ritorni sostenibili e Diritti delle Comunità e dei loro membri: i membri di tutte le comunità devono essere in grado di partecipare pienamente alla vita politica, economica e sociale del Kosovo e non essere vittime di minacce alla propria sicurezza, a causa della propria etnia. Tutti gli sfollati e rifugiati, che abbiano il desiderio 128 di ritornare, devono essere in grado di farlo in condizioni di sicurezza e di dignità. 5. Economia: la struttura legale per lo sviluppo di un’ economia di mercato competitiva e sostenibile deve essere messa in atto ed implementata. La condizione essenziale minima è la creazione di una struttura legale ed istituzionale che agisca senza discriminazioni nei confronti di qualsiasi individuo o società; un sistema regolatore degli agli affari, capace di sostenere i funzionari di governo e il settore privato; un regime di imposte che sostenga le funzioni essenziali di governo e un’infrastruttura che provveda ai servizi di base e faciliti gli investimenti. L’obiettivo finale è il raggiungimento degli standards economici europei. 6. Diritto di proprietà: un’onesta applicazione del diritto di proprietà è essenziale per incoraggiare il processo di ritorno di tutte le comunità etniche. Ciò richiede la messa in atto di una legislazione effettiva e di meccanismi efficaci di risoluzione delle dispute sulla proprietà; che i legittimi proprietari delle terre e degli immobili, agricoli o commerciali, siano in grado di prendere possesso effettivo delle loro proprietà e che ci sia un sistema preciso per la cessione, l’ipoteca e la registrazione delle stesse, come anche per la prevenzione di vendite forzate. Particolare attenzione è posta sulla conservazione del patrimonio culturale del Kosovo che dovrebbe essere inteso come patrimonio comune a tutte le comunità locali; inoltre si accorda a ciascuna comunità il diritto di preservare, restaurare e proteggere i propri siti, con l’aiuto delle autorità competenti (le PISG). 7. Dialogo: l’obiettivo è quello di sviluppare un duplice dialogo costruttivo e continuo: in primis, tra le istituzioni provvisorie di autogoverno (PISG) e Belgrado su tematiche concrete, attraverso 129 incontri di gruppi di lavoro multietnici. L’altro obiettivo è di creare un Kosovo “attore attivo” nella cooperazione e nei rapporti regionali, attraverso la partecipazione ad accordi sulla libertà di movimento, sul commercio e sull’economia, ecc. 8. Kosovo Protection Corps: Il Kosovo Protection Corps (KPC) agisce – in conformità con il proprio mandato così come stabilito nel Constitutional Framework – come una organizzazione civile di emergenza, capace di adempiere a compiti di risposta rapida alle calamità; il KPC opera in maniera trasparente, responsabile, disciplinata e professionale ed è rappresentativo dell’intera popolazione del Kosovo, e - capace di imporre disciplina - è completamente finanziato in modo trasparente.230 Come si evince da questa esposizione, in sostanza ciò che l’UNMIK e la Comunità internazionale richiedono al Kosovo è il raggiungimento degli standards europei in tutti questi settori; d’altra parte, il testo stesso ribadisce il concetto ripetendo continuamente la formula “in accordo con gli standards europei”. Un tema inevitabilmente fondamentale nel raggiungimento di questi obiettivi - e quindi trasversale a tutte le aree affrontate da tale documento - è quello dei rapporti interetnici, che rappresentano sicuramente la sfida maggiore per le istituzioni e la società civile kosovara. Di fatto si chiede che tutte le comunità possano partecipare alla vita politica e sociale, attraverso le elezioni, la presenza nelle istituzioni provvisorie e la possibilità di una informazione imparziale, che rifiuti le politiche di incitazione all’odio. Si richiede inoltre che possano usufruire di un sistema di giustizia equo ed accessibile a tutti, nonché godere della libertà di movimento, di uso della propria lingua in tutte le situazioni (anche quelle “ufficiali”), del diritto al ritorno alle proprie case, la cui proprietà deve essere accertata senza discriminazioni. 230 Per la trattazione delle otto sezioni elencate si è fatto riferimento al testo in inglese del documento “Standards for Kosovo” (UNMIK/PR/1078) 130 In breve, gli “Standards for Kosovo” descrivono quel sogno di un Kosovo pacificato e soprattutto multietnico! Certamente si tratta di obiettivi auspicabili e nobilissimi. Il problema sta però nella loro fattibilità, e soprattutto nella possibilità che siano raggiunti prima dell’apertura dei dialoghi sullo status. I critici vi hanno visto la prova di un approccio puramente teorico e non adatto alla realtà politica, sociale ed economica del Kosovo.231 Fabio Mini si è spinto fino a sostenere che si tratti di “un ricatto che basandosi su parametri oggettivamente irrealizzabili non fa altro che eludere ogni responsabilità”.232 Ad ogni modo, si può dire che l’UNMIK abbia agito con determinazione, consentendo la creazione di istituzioni provvisorie, lo svolgimento di elezioni libere e democratiche e lo sviluppo di una certa libertà di stampa e di associazione. Tuttavia, dove l’azione dell’amministrazione internazionale e locale risulta quasi fallimentare è nel tentativo di creare una pacifica convivenza tra le diverse etnie. In questo senso è interessante il commento di Morozzo della Rocca, che si ritiene utile citare interamente: l’UNMIK “non ha potuto conseguire appieno quel rispetto delle minoranze che pur rappresenta un’autentica soglia di civiltà. In ogni caso il programma ha dei limiti oggettivi. Il Kosovo non sta in Europa (occidentale) ma nei Balcani. Qui il parossistico etnocentrismo degli albanesi, speculare al senso di sprezzante superiorità che avevano i serbi negli anni del loro potere, si colloca ai livelli più profondi della mentalità e delle cultura. Non è raggiungibile e modificabile con la costruzione politica di regole, convenzioni e standards, ma con i tempi lunghi della storia purché si svolga in avvenire senza guerre e senza violenze interetniche”.233 E in effetti il disegno di multietnicità contrasta con la realtà delle enclave, della marginalizzazione cui sono costrette le “nuove” minoranze - prive di lavoro e soprattutto di speranza - e mostra tutta la sua debolezza di fronte 231 Fabio Mini, op. cit. pag. 226 Fabio Mini, “Kosovo roadmap: stato a stelle e strisce o protettorato europeo”, LIMES L’impero senza impero, n. 2 del 2004. 233 Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 232 131 all’esplosione di violenze etniche, reiterate a distanza di quattro o cinque anni dalla fine della guerra. Gli scontri del marzo del 2004 sono stati uno specchio tragicamente drammatico di questa condizione. Il 17 marzo, la città divisa di Kosovska Mitrovica venne sconvolta da una serie di scontri tra popolazione albanese e serba, in seguito alla diffusione della notizia che tre bambini albanesi erano affogati nel fiume Ibar, nel tentativo di fuggire da alcuni ragazzi serbi che li inseguivano con un cane. Questo era stato il racconto fatto da Fitim, un quarto bambino (di tredici anni) scampato all’annegamento. In un clima già teso per il blocco da parte di alcuni serbi della strada Pristina-Skopje-Ivic (in segno di protesta contro il ferimento di un ragazzo serbo di diciannove anni), la notizia dell’annegamento dei tre adolescenti, diffusa immediatamente dalla televisione kosovara, provocò lo scoppio di un vero e proprio pogrom anti-serbo. Le violenze continuarono ininterrottamente per tre giorni e il bilancio complessivo fu di oltre 31 morti, 286 case bruciate, 30 monasteri incendiati, altri 11 danneggiati, 600 civili e 100 poliziotti feriti, 163 arrestati.234 L’infuocato dibattito che ne seguì fu cadenzato da varie polemiche: in primo luogo, la televisione kosovara fu accusata di aver trasmesso notizie ancora non accertate e soprattutto di aver assunto un atteggiamento che incitava all’odio e alla vendetta. Inoltre, numerosi commentatori hanno sostenuto che si trattasse di un’azione programmata da parte di estremisti albanesi, per i quali la drammatica morte dei tre ragazzi albanesi non era stato altro che un pretesto. In questo senso, il portavoce dell’UNMIK dichiarò alla televisione austriaca ORF: “Ci sono stati gravi episodi di violenza anche in precedenza, nel Kosovo. Questa volta tuttavia si tratta di un’azione coordinata. La violenza è scoppiata in molti posti diversi allo stesso momento, e questo dimostra che era stata pianificata da prima”. Anche il comandante delle truppe italiane si espresse in questo senso, così 234 Marco Imarisio, “Rugova: indipendenza subito”, Corriere della Sera (23 marzo 2004) 132 affermando in un intervista con “La Repubblica”: “era tutto programmato, la risposta è stata troppo immediata, troppo forte. La morte di quei ragazzini è stata un pretesto, avrebbe potuto essere un qualunque altro evento, hanno usato quello per innescare tutto questo”.235 Di opinione contraria appare Shkelzen Maliqi, noto intellettuale albanese e direttore del Centro per gli Studi Umanistici “Gani Bobi”, il quale - pur ammettendo che sicuramente vi erano elementi organizzati – ritiene che si sia trattato “principalmente di una rivolta spontanea, un episodio estremamente negativo, ma che ha coinvolto solo una minoranza di persone”.236 Lo stesso monastero di Visoki Decani è stato bersaglio di colpi di mortaio. Un funzionario delle Nazioni Unite – che ha preferito restare anomino – ha definito questi eventi la “Notte dei Cristalli del Kosovo”.237 Ovviamente sono seguite dichiarazioni contrastanti da parte dei politici di entrambe le parti, nonché versioni diverse dei fatti del primo giorno. Ad ogni modo gli scontri del marzo 2004 hanno dimostrato che: • il sogno di multietnicità è probabilmente destinato a restare tale; • l’UNMIK e la stessa KFOR si sono trovate impreparate a gestire una situazione di caos improvviso, non riuscendo neanche a difendere i monasteri e le chiese serbe; • esiste da parte albanese una forte insofferenza anche nei confronti dell’amministrazione internazionale, soprattutto per l’incapacità di quest’ultima di risolvere il problema dello status. In questo senso, Morozzo della Rocca sottolinea come “i disordini di marzo siano stati un avvertimento all’UNMIK (…)”238, come dimostrato dagli 235 Anche Biljana Srbljanovic in un articolo intitolato “E’ tornato l’inferno” aderisce alla tesi che le violenze siano scoppiate troppo rapidamente, in troppe città diverse e che tutto sia sembrato ben organizzato. Biljana Srbljanovic, “E’ tornato l’inferno”, La Repubblica, (19/3/04) 236 “Viaggio tra i Serbi del Kosovo: the cage, la gabbia”. 237 Andrea Rossini, “Kosovo: la notte dei cristalli”, Osservatorio sui Balcani ((18/3/04) 238 Per una trattazione più approfondita di questo tema si rimanda al paragrafo 3 di questo capitolo. Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 133 attacchi alla polizia e alla KFOR e dagli incendi di automobili e bandiere delle Nazioni Unite.239 Ad ogni modo, tornata una relativa calma, la scelta dell’UNMIK, e con essa della Comunità internazionale, è stata di continuare nella strategia degli standards, pubblicando il 31 marzo del 2004 un documento intitolato “The Kosovo Standards Implementation Plan”(KSIP) 240. Senza scendere nel dettaglio, si può dire che questo documento descrive le azioni e le politiche che dovrebbero essere messe in atto in Kosovo per raggiungere gli obiettivi suddetti in termini di standards. In sostanza, il KSIP indica quali azioni devono essere intraprese (“Action”), chi ne è responsabile (“Responsible Actor”), chi supporterà l’attore principale (“Supported by”) e quando l’azione dovrà essere messa in atto (“Timeline”). Come priorità nel breve periodo – a seguito degli scontri suddetti - sono indicate l’immediato ristabilimento dell’ordine e della legge, nonché la ricostruzione delle proprietà danneggiate o distrutte e un’azione di sostegno per il ritorno degli sfollati. Il 16 febbraio 2005, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato che il Kosovo non ha fatto progressi sufficienti rispetto all’implementazione degli “standards” ed ha aggiunto “progress in many areas remained insufficient. None of the eight standards has been completely fulfilled”.241 Al momento in cui si scrive, l’UNMIK sembra aver posto due importanti scadenze: primo, la verifica dei risultati ottenuti dal Kosovo rispetto agli standards è fissata per la prossima estate; secondo, nel caso in cui l’esito di tale verifica fosse positivo, i dialoghi sullo status dovrebbero iniziare entro la fine del 2005. A questo punto, si può passare all’analisi delle posizioni dei principali attori locali rispetto alla questione dello “status”. 239 La Repubblica “Kosovo Standards Implementation Plan”, 31 march 2004 (disponibile al sito internet dell’UNMIK, www.unmikonline.org/) 241 Progress in Kosovo Insufficient for Final Status Review, Southeast European Times (16/2/2005) 240 134 2. Scenario 1 (federazione): Belgrado: “più autonomia, ma mai indipendenza” Nell’analizzare la posizione dei serbi rispetto alla questione dello status del Kosovo, occorre partire da un assunto di base: paradossalmente, la Risoluzione 1244, con cui nel 1999 il territorio del Kosovo passava sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite, ha finito per diventare il “cavallo di battaglia”, o forse semplicemente “l’ancora di salvezza” dell’elite politica serba, quando si parla del futuro del Kosovo. Questo perché – come detto – la risoluzione citata ribadisce l’integrità territoriale e la sovranità serba sul Kosovo. Fatta questa premessa, che in seguito verrà sviluppata in modo più approfondito, si può passare ad analizzare nel dettaglio la posizione dell’establishment serbo nel dibattito sullo status. Prima di tutto, la leadership serba lamenta l’applicazione da parte della Comunità internazionale di “due pesi e due misure” nella valutazione dei progressi fatti dalle due parti rispetto al raggiungimento degli obiettivi da essa prefissati. L’Assemblea Nazionale della Repubblica di Serbia nella “Dichiarazione sul Kosovo e Metohija” del 27 agosto 2003 sottolineava come l’implementazione della Risoluzione 1244 risultasse ancora del tutto insufficiente, in particolare riguardo alla creazione di una società democratica e multietnica. In particolare si poneva l’accento sulle condizioni di vita in cui le minoranze “non-albanesi” - e soprattutto quella serba – erano costrette a vivere dopo vari anni dalla fine della guerra e sull’incapacità di assicurare un ritorno libero e sicuro ai circa 250.000 sfollati che in base alla Risoluzione 1244 avrebbero avuto diritto a tornare nelle proprie case. A questa situazione di inadempienza da parte delle istituzioni kosovare, si contrapponeva – sempre a parere dell’Assemblea Nazionale serba – un atteggiamento decisamente più rigoroso della parte serbo-montenegrina, che avrebbe rispettato tutti gli 135 obblighi derivanti dalla Risoluzione 1244 e dal “Military-Technical Agreement”. 242 In questo senso, il think tank svedese TFF sottolinea gli sforzi compiuti dalla Serbia nell’adottare degli standard legislativi di tipo europeo e le misure economiche suggerite dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale in termini di apertura dell’economia e di liberalizzazione dei mercati. Inoltre ancor più evidenti parrebbero – agli occhi del gruppo di studio svedese243 – il rispetto delle condizioni del ritiro delle truppe serbe dal Kosovo nel 1999, nonché delle altre misure richieste dall’accordo di Kumanovo e la collaborazione con la NATO nella gestione della rivolta albanese nel sud della Serbia nel 2000-2001.244 A sostegno della propria tesi, le autorità di Belgrado portano ad esempio gli eventi del marzo 2004, descritti come un vero e proprio pogrom antiserbo. In una Risoluzione adottata pochi giorni dopo, l’Assemblea Nazionale serba interpretava quegli eventi come una diretta conseguenza del trasferimento di competenze dall’amministrazione internazionale alle istituzioni provvisorie kosovare, sottolineando inoltre l’incapacità delle forze di sicurezza e dei peace-keepers internazionali che si erano evidentemente trovati impreparati di fronte ad una violenza che tuttavia non rappresentava una novità, ma solamente un ripetizione delle dinamiche post-conflitto del 1999. 245 Tuttavia, oltre alle richieste di ricostruzione delle case, chiese e monasteri danneggiati, il punto su cui tutte le dichiarazioni serbe si soffermano è che questo pogrom ha dimostrato l’immaturità delle autorità e della società civile 242 “Declaration on Kosovo and Metohija”, The National Assembly of the Republic of Serbia (27/8/2003) 243 Aleksandar Mitic e Jan Oberg, “The Kosovo solution series. Broad framework, many roads.”, TFF The Transnational Foundation Lund, Sweden 2005, pag. 20 244 Con un certo realismo politico, si potrebbe obiettare al gruppo svedese che “i serbi” risultavano gli “sconfitti” e che questa premessa non può essere sottovalutata nell’analizzare il fatto chi i serbi abbiano rispettato le richieste internazionali. Tuttavia, con questa argomentazione non si vuole suggerire che gli sforzi compiuti dalla parte serba non debbano essere tenuti nel debito conto. 245 “Resolution of the National Assembly of the Republic of Serbia on Kosovo and Metohija”, (26/3/2004) 136 kosovara e quindi l’impossibilità per essa di raggiungere quegli standard posti come presupposto per l’avvio dei dialoghi sullo status. E qui si viene al punto centrale di questa analisi. Tutta la classe politica serba insiste nell’esigere che due condizioni siano rispettate per l’apertura dei dialoghi sullo status: • implementazione totale delle direttive stabilite nella Risoluzione 1244 • pieno rispetto del programma degli “standards before status” In sostanza, da parte serba si fa pressione perché prevalga una interpretazione rigida del percorso prefissato dalla stessa amministrazione internazionale, proprio nel momento in cui appare chiaro che una parte importante della Comunità internazionale sembra aderire ad un interpretazione più blanda di quel programma, allo scopo di “sbloccare” una situazione paralizzata, ma al contempo esplosiva. Il ragionamento serbo è difficilmente contestabile se analizzato in rapporto agli obiettivi “ufficiali” dell’UNMIK. Se lo scopo dell’ amministrazione internazionale è quello di creare una società multietnica, così come previsto dalla Risoluzione 1244, il successo nel rispetto degli “standards before status” deve essere prioritario, altrimenti la realizzazione della “multienicità” sarà impossibile. In questo senso, il rientro degli sfollati, in condizioni di dignità e di sostenibilità, rappresenta una sfida in primis per la Comunità internazionale. E’ chiaro che da parte serba ci sia un tentativo di bloccare qualsiasi revisione o interpretazione “morbida” del programma degli standard, perché ciò favorirebbe la tesi indipendentista albanese. Per quanto riguarda la questione dello status, la posizione serba è chiara ed è stata più volte espressa dal Presidente del Centro di Coordinamento per il Kosovo, Nebojsa Covic, il quale ha recentemente ribadito che Belgrado non accetta alcun cambio di confini e che “qualsiasi forma di indipendenza del Kosovo risulta inaccettabile”.246 Il rifiuto dell’opzione indipendentista è giustificato oggi da parte serba non tanto con le presunte motivazioni 246 Covic, “Independent Kosovo means mono-ethnic Kosovo”, (12/4/2005) (http://www.kc.gov.yu) 137 “storiche”, da sempre addotte su questo tema, ma piuttosto con argomentazioni di tipo “occidentale”: creare un Kosovo indipendente vorrebbe dire creare un Kosovo monoetnico e in potenziale conflitto con la Serbia (per sempre!).247 In questo senso, il documento “Basic Guidelines for resolving the KosovoMetohija Crisis” del Centro di Coordinamento appare chiaro: “il principio dell’autodeterminazione nazionale è un principio di guerra, e non di pace, almeno nei Balcani. La domanda di uno stato etnicamente puro nei Balcani non differisce molto da quella di uno stato formato esclusivamente su basi ideologiche o religiose”.248 Fino a qui si tratta di teoria, ma sul concreto l’argomentazione serba diventa più forte: “se il diritto all’autodeterminazione nazionale è applicabile agli albanesi come un principio internazionale universale e positivo, allora perché non dovrebbe essere applicato anche in Bosnia-Erzegovina”.249 E qui il gioco si sposta sulla Repubblica Srpska, una delle due entità federali create dagli Accordi di Dayton sulle ceneri di quella che fu la Repubblica Socialista di Bosnia-Erzegovina. In effetti, come suggerisce lo studio di TFF, la Repubblica Srpska ha circa lo stesso numero di abitanti della provincia del Kosovo (tra 1,5 e 2 milioni di abitanti) e soprattutto ha una simile - anche se opposta - composizione etnica, con circa il 90% della popolazione di maggioranza serba. Dunque, poiché anche la Repubblica Srpska si presenta come una sorta di protettorato internazionale e poiché la popolazione maggioritaria ha le stesse aspirazioni indipendentiste della maggioranza albanese in Kosovo, perchè il “principio di autodeterminazione nazionale” dovrebbe valere per gli albanesi del Kosovo, ma non per i serbi della Repubblica Srpska?250 E’ chiaro che le motivazioni della Comunità internazionale sono – come vedremo nel capitolo successivo – di ordine 247 Ibidem “Basic Guidelines for resolving the Kosovo-Metohija Crisis ”, Joint Coordination Centre of SerbiaMontenegro and the Republic of Serbia for Kosovo and Metohija 249 Ibidem 250 Aleksandar Mitic e Jan Oberg, “The Kosovo solution series. Broad framework, many roads.”, TFF The Transnational Foundation Lund, Sweden 2005, pag 21 248 138 politico, ma proprio perchè tali sono difficilmente presentabili sul piano dell’“ufficialità”. Il Centro di Coordinamento, nel documento citato, prosegue affrontando un altro tema molto importante: si sostiene che vi sia un tentativo di minare la Risoluzione 1244, nella parte in cui conferma la sovranità serba sul Kosmet attraverso tre manovre: • l’accelerazione dei meccanismi per trovare una soluzione allo “status finale”; • evidenti violazioni della Risoluzione da parte di (non meglio identificati) “international decision makers”. E qui si pone a parere serbo il problema di “chi interpretata e chi arbitra l’applicazione della risoluzione stessa”; • il tentativo di convincere la Serbia a rinunciare alla “propria provincia del sud” in cambio di un facile e veloce accesso all’UE e alla NATO. Quest’azione di pressione è definita dal documento citato un’ “abile manovra politica finalizzata ad eludere la formale violazione del principio dell’immodificabilità dei confini e dunque a soddisfare la domanda di indipendenza dalla Serbia dei kosovaro-albanesi” e si aggiunge che esiste una “strategia occidentale finalizzata a convincere i serbi che è nel loro interesse rinunciare al peso del Kosovo e Metohija il prima possibile, in modo da unirsi velocemente e facilmente alle organizzazioni euro-atlantiche”.251 Il documento continua affermando che è vero che “la Serbia non ha alternative all’integrazione euro-atlantica, ma che questo tipo di baratto costituisce una sorta di ricatto inaccettabile, (…)perché è inaccettabile che uno Stato europeo abbandoni una parte significativa del proprio territorio per soddisfare le richieste e le pressioni internazionali”.252 251 “Basic Guidelines for resolving the Kosovo-Metohija Crisis ”, Joint Coordination Centre of SerbiaMontenegro and the Republic of Serbia for Kosovo and Metohija 252 Ibidem 139 Questa linea politica, così chiaramente delineata nel documento citato, è stata più volte confermata da vari politici serbi. Miroljub Labus, presidente del partito G17 Plus si è così espresso: “Non ci potrà essere uno scambio fra il nostro ingresso nell’UE e l’indipendenza del Kosovo. La nostra integrazione in Europa e lo stato finale del Kosovo debbono essere trattati separatamente. Vedo il futuro del Kosovo come parte integrante dell’Europa, ma solo quando le cose cambieranno e quando il Kosovo risponderà davvero agli standard europei, come noi in Serbia ci sforziamo di fare”.253 Le conclusioni principali cui giunge il Centro di Coordinamento sono: • “la Serbia non deve rinunciare a nessun prezzo al Kosovo e nessun politico ha il diritto di intraprendere questo approccio; • qualsiasi decisione venga presa sul Kosmet senza l’assenso della Serbia, sarà considerata illegale e rappresenterà un’estorsione; • è necessario proteggere l’identità storica e culturale serba conservata nei monasteri, nelle chiese e nei cimiteri della Chiesa cristiano-ortodossa; • è necessario insistere sul Tribunale Internazionale dell’Aia, affinché i criminali di guerra albanesi siano processati; • l’ingresso della Serbia-Montenegro in qualsiasi organizzazione internazionale è possibile solo nel rispetto dei c.d. confini AVNOJ della Serbia-Montenegro”.254 A questo punto si tratta di capire quale è la soluzione proposta da Belgrado per la crisi del Kosovo. Una sola cosa appare chiara: Belgrado è fermamente contraria a qualsiasi ipotesi indipendentista. Detto questo, al momento in cui si scrive, da Belgrado non viene né una posizione univoca né un piano chiaro. Tutti i commenti sono concordi su una formula piuttosto vaga: Belgrado sarebbe favorevole ad una soluzione che sia 253 Jean Toschi Marazzani Visconti, “Voci da Belgrado”, LIMES L’Europa americana n. 3 del 2003 I confini AVNOJ (dove AVNOJ sta per Anti-fascist Council of National Liberation of Yugoslavia) sono quelli stabiliti dal governo di Tito all’indomani della seconda guerra mondiale, in base ai quali il Kosovo e Metohija era parte integrante delle Repubblica di Serbia. 254 140 “more than autonomy but less than indipendence”. Lo stesso Covic, presidente del Centro di Coordinamento, ha recentemente affermato che una soluzione di questo tipo rappresenta per Belgrado “l’interesse nazionale minimo”. 255 Ad oggi, tuttavia, non si conosce quale sarà – e se ci sarà - una proposta concreta da parte della dirigenza serba. L’unico piano finora redatto è finalizzato alla creazione di un sistema di tutela della comunità serba e delle altre minoranze non-albanesi del Kosovo odierno e dunque non attiene in modo diretto alla questione dello status finale del Kosovo, che – viene affermato – è specificata nella Risoluzione 1244. Questo documento, intitolato “A plan for the political solution to the situation in Kosovo and Metohija”, propone a difesa della comunità serba del Kosovo un sistema di garanzie istituzionali che si concretizzino nella creazione di un regime di autonomia territoriale per i serbi. Autonomia che – a scanso di equivoci – è definita quale “autonomia nell’autonomia”. 256 Tale regime, a parere degli autori del piano, avrebbe il pregio di preservare l’integrità territoriale del Kosovo e di avviare la formazione di una società multietnica. Le aree della “autonomia territoriale” serba dovrebbero essere in linea di principio quelle abitate in maggioranza da popolazione serba prima del 1999. Tuttavia, di fronte allo sconvolgimento che la guerra ha portato nella distribuzione geografica delle minoranze e soprattutto all’impossibilità di ricreare le condizioni dello status quo ante, il piano suggerisce un “giusto compenso” (“compensatio justum”): in altre parole alla comunità serba dovrebbero essere affidati quei territori verso i quali si sono spinti i flussi migratori serbi nel dopoguerra. Nel determinare questi territori, due criteri geografici risulterebbero significativi: in primis, il collegamento territoriale tra 255 “Covic: more than autonomy, less than indipendence” (http://www.kc.gov.yu) In questo senso, anche se non in modo esplicito, il documento pare suggerire che la soluzione migliore per il Kosovo sia quella di un regime di autonomia, all’interno del quale i serbo-kosovari dovrebbero godere appunto di una sorta di “autonomia nell’autonomia”. 256 141 queste zone (caratteristica definita non indispensabile, ma desiderabile!). In secondo luogo, si dovrebbe tener conto della vicinanza alla Serbia propriamente detta. Sulla base di queste ed altre premesse, il piano individua cinque “distretti o entità territoriali”: • il distretto del Kosovo Centrale • il distretto del Nord del Kosovo • il distretto del Bacino del Fiume Kosovo -Morava • il distretto della Montagna Sarplanina • il distretto della Metohija Delineati questi cinque distretti, il documento prevede la creazione di due sistemi di protezione: • i cinque distretti suddetti andrebbero a creare la c.d. “Regione”, dotata di una forte “autonomia territoriale”, che in concreto vorrebbe dire: istituzioni proprie, poteri molto ampi ed importanti 257 e autonomia finanziaria; • i diritti dei serbi che abitano le aree all’esterno della “Regione” sarebbero tutelati da una forma di autonomia “personale e culturale”, consistente in speciali diritti collettivi.258 Particolare attenzione è inoltre dedicata in questo documento alla protezione e conservazione del patrimonio culturale del Kosovo. Questo patrimonio merita forme speciali di tutela non solo perchè rappresenta un’eredità culturale unica riconosciuta da tempo quale “patrimonio europeo”, ma anche perché la Convenzione del 1972 sulla Protezione del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale riconosce il dovere di ciascun stato firmatario della Convenzione stessa di assicurare la protezione, la conservazione e la trasmissione alle future 257 Nel piano, alla voce “Powers of the Region” sono elencati (tra gli altri): organizzazione della regione (delle sue istituzioni e del processo elettorale); sicurezza (polizia) e protezione civile; potere giudiziario; educazione; assistenza sanitaria; politiche sociali; cultura, media e sport; protezione del patrimonio culturale; uso ufficiale della lingua e del linguaggio scritto; ecc… 258 In particolare vengono indicati quali diritti dei serbi al di fuori della Regione quelli negativi, attivi e positivi. 142 generazioni del patrimonio culturale e naturale situato “sul proprio territorio”. E il nodo problematico sta proprio in questa formula: attualmente il patrimonio culturale del Kosovo è sotto la tutela internazionale, tuttavia – in questo documento – Belgrado avoca a sé il ruolo di legittima erede e custode di questo patrimonio. La prova dell’inaffidabilità del sistema attuale viene – ancora una volta – dagli eventi del marzo 2004. Se non cambierà lo status di questi “monumenti della cultura”, quegli atti di vandalismo terroristico potranno ripetersi. La soluzione proposta è - anche qui - duplice: • il patrimonio che si trova all’interno della “Regione” sarebbe gestito direttamente ed autonomamente dalla Regione stessa; • per quello al suo esterno dovrebbe essere garantito lo “status di proprietà culturale” sotto la diretta amministrazione della Repubblica Serba . 259 Il documento si chiude con la richiesta dell’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza della N.U. di una nuova risoluzione – da aggiungere e non da sostituire alla 1244 - che recepisca le indicazioni fornite dal piano stesso. Prima di passare all’analisi della posizione albanese nel dibattito sullo status del Kosovo, si vuole fare una precisazione: in questa sezione si è voluto fare riferimento essenzialmente alle posizione ufficiale di Belgrado, posizione che – almeno fino ad oggi – si suppone Belgrado assumerà quando verranno aperti i “dialoghi”. Nel capitolo successivo, si tenterà di analizzare quali dovrebbero essere le dinamiche dell’eventuale “processo negoziativo” di una soluzione definitiva e in questo modo di “svelare” anche il perché di certe posizioni, una volta inserite in un’analisi che non si fermi solamente agli attori locali, ma coinvolga anche i principali attori internazionali interessati alla “partita Kosovo”. 259 Uno status – viene detto – che permetterebbe la piena esecuzione dell’articolo 6 dell’annesso 2 della Risoluzione 1244 che prevede il mantenimento di personale serbo a custodia dei siti patrimoniali serbi. 143 CARTINA DECENTRAMENTO 144 CARTINA CHIESE E MONASTERI 145 3. Scenario 2 (indipendenza): Pristina: “indipendenza, unica soluzione accettabile” Nel dibattito sul futuro status del Kosovo, i kosovaro-albanesi esprimono una posizione ferma ed univoca: l’indipendenza è l’unica soluzione possibile. Questa linea appare totalmente naturale se analizzata dal punto di vista di chi ha da sempre percepito se stesso come “il vincitore” in una guerra avente per scopo proprio “l’indipendenza del Kosovo”. Ciò che invece potrebbe apparire meno ovvio, è il fatto che oggi l’indipendenza si presenti agli occhi dei kosovari come l’antidoto a tutti i mali della provincia, la stagnazione economica, la disoccupazione, la criminalità… E questo perché, come sottolinea Anton Marek Nowicki, Ombudsperson della provincia, gli albanesi “non sembrano capire che l’indipendenza non aprirà immediatamente, né necessariamente, un’epoca di ricchezza e libertà”.260 Dunque questa “ansia di far da soli” si riversa contro l’amministrazione dell’UNMIK, che nel Kosovo odierno rappresenta “un capro espiatorio, un déjà vu: la colpa del sottosviluppo, della disoccupazione, dell’emigrazione(…)”. 261 In questo senso, lo storico Roberto Morozzo della Rocca suggerisce un’interpretazione interessante dei fatti del marzo 2004, che sarebbero stati “un avvertimento all’UNMIK, oltre che la vandalizzazione di qualcosa di serbo che si trovava a portata di mano”. E questo rivela che l’UNMIK è “detestata oggi alla stregua di una forza di occupazione”.262 Tuttavia, dopo gli scontri del marzo 2004, l’atteggiamento della comunità albanese sembra mutato: prova ne è stato il clima moderato in cui si sono 260 Anton Marek Nowicki, “Un Futuro insieme?”, Osservatorio sui Balcani (4.3.2005) “Déjà vu”, nel senso che oggi la colpa di tutte le disgrazie del Kosovo è “imputata alla presenza internazionale, come un tempo lo era al dominio jugoslavo e poi serbo”. Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 262 “In questa circostanza, migliaia di minorenni sono stati mobilitati da maturi attivisti. L’intimidazione è riuscita; l’UNMIK ha avuto la sensazione di essere aggredita da masse di albanesi, benché così non fosse”. Ibidem 261 146 svolte le elezioni dell’ottobre scorso. Il motivo di tale comportamento maturo e responsabile sta nel fatto che gli albanesi hanno perfettamente capito che nella sfida per lo status - se vogliono l’Occidente dalla loro parte, devono dimostrare quel rispetto degli standards di democraticità su cui la Comunità internazionale sembra tanto puntare. Alla luce di questa interpretazione si spiegano anche alcuni eventi recentissimi, quali la mancanza di reazioni violente all’arresto dell’ex premier Ramush Haradinaj 263 o le moderatissime reazioni alla visita del presidente serbo Boris Tadic in Kosovo. Questi, accreditato come il moderato della scena politica serba, ha ribadito nel corso della sua breve visita che il Kosovo fa parte della Serbia-Montenegro. A parte le probabili ragioni di politica interna che avrebbero spinto Tadic ad un gesto pubblico di questo tipo264, il dato importante in questa analisi è che la maggior parte dei kosovari abbia preferito non commentare eccessivamente la visita del presidente serbo: ciò dimostra – ancora una volta – la volontà albanese di apparire una società “matura”, le cui energie si vogliono concentrate sulla sfida degli standard. Alcuni commentatori paventano il rischio che la relativa tranquillità di questi mesi non possa durare a lungo e che gli albanesi possano “perdere la pazienza”. Si tratta di un rischio che oggettivamente esiste, tuttavia - al momento - i problemi maggiori della politica kosovara riguardano non tanto i rapporti tra serbi e albanesi o tra questi ultimi e l’UNMIK, ma quelli tra albanesi stessi. L’elite kosovara appare imprigionata in una forte crisi interna. E’ vero che, dopo la partenza di Haradinaj per l’Aia, non si sono verificati scontri con l’UNMIK o con i serbi, ma si sono verificati tre eventi gravi: in ordine cronologico, l’attentato al presidente del Kosovo Rugova, che fortunatamente non ha fatto vittime; l’assassinio – il 15 aprile 2005 - del 263 Haradinaj si trova attualmente nelle carceri di Scheveningen, in attesa del processo che lo vede imputato di 37 capi d’accusa, 17 per crimini contro l’umanità e 20 per violazioni delle convenzioni di diritto bellico. Biserka Ivanonvic, “Kosovo, una settimana dopo”, Osservatorio sui Balcani (15/3/2005) 264 In particolare si potrebbe interpretare tale gesto come una mossa volta a recuperare il favore dei serbo-kosovari, più vicini al premier Kostunica (rivale politico di Tadic). Alma Lama, “Tadic in Kosovo: il silenzio dei kosovari”, Osservatorio sui Balcani (22/2/2005) 147 fratello di Haradinaj, il ventiquattrenne Enver Haradinaj, ex-giovane combattente dell’UÇK; l’attentato al quartier generale della lista ORA, guidata da Veton Surroi.265 L’assassinio di Enver Haradinaj rimanda ad un tema molto ampio, che qui può essere trattato marginalmente. Difatti, tale omicidio – come altri avvenuti in tempi recenti – pare rientrare nella faida tra le famiglie Haradinaj e Musaj che da anni lottano per il potere nel Dukagjin. Queste dinamiche riportano a galla ciò che un commentatore ha definito “il peggio del Kosovo”. La tradizione delle faide tra clan familiari è una tradizione antica, quasi ancestrale nel suo essere così radicata nella società kosovara. Negli anni della lotta contro il regime di Milosevic, Anton Çetta era riuscito nell’opera di pacificazione di queste faide, avviando quello da lui stesso chiamato “il perdono del sangue”. Tuttavia, un azione di questo genere appare oggi paradossalmente ancor più difficile, perché l’argomento che rese convincente l’azione di Çetta era che gli albanesi non potevano permettersi di lottare fra di loro, in quanto la priorità doveva essere l’unione contro Milosevic. Oggi quel movente non ha più significato. E allora la società kosovara dovrà trovare una ragione diversa e nuova per porre fine a queste antiche lotte tra clan, altrimenti la stessa indipendenza – da sola – potrà fare ben poco per portare il “paese” ad un concreto miglioramento, anche economico.266 Oltretutto, l’incriminazione di Haradinaj ha innescato dinamiche nuove anche nel rapporto tra maggioranza e opposizione, con la presentazione da parte del PDK di Thaci di un documento in cui si accusano alcuni membri dell’attuale governo di corruzione e di crimini d’ufficio. Un clima molto teso, dunque, nonostante i buoni propositi del neo premier Kosumi, un premier di 265 Surroi è uno dei quattro politici minacciati dalla sedicente Organizzazione per la Sicurezza della Patria. In una recente intervista, il leader di ORA ha affermato che un dato positivo - in questa situazione nel complesso certamente negativa – sta nel fatto che questi eventi abbiano portato alla luce il problema dei c.d. gruppi di para-sicurezza. Biserka Ivanovic, “Kosovo: politica alla dinamite”, Osservatorio sui Balcani (21/4/2005) 266 “L’indépendance sera de peu d’utilité si des portions entières de la société kosovare s’obstinent à vivre selon des codes tout droit sortis du Moyen Age”. Jeta Xharra, « Mettre un terme à la guerre des clans au Kosovo », Le Courrier des Blakans (20/4/2005) 148 continuità, appartenente al partito AAK di Haradinaj, il quale non appena nominato aveva annunciato di voler inserire anche l’opposizione nei dialoghi sullo status.267 Ad ogni modo, tornando al problema dello status, la posizione dell’elite kosovara su questo tema è univoca: indipendenza. La scelta dei kosovari, se inserita nel contesto geopolitico globale, appare ancora più netta: indipendenza e Stati Uniti d’America. Il tema del legame tra Kosovo e USA è centrale nello studio dei possibili scenari del Kosovo. Analizzando la posizione kosovara nel rapporto USA-Kosovo (e rimandando lo studio di quella della controparte americana al prossimo capitolo) è utile partire da un assunto di base: “per gli albanesi kosovari, l’America è quasi una religione”. “Gli europei più devoti agli Stati Uniti sono gli albanesi: (…) il culto albanese per gli USA viene da una fede profonda nell’impero americano e nel mito americano. Beninteso, questo americanismo non annulla affatto il patriottismo albanese. Al contrario, è proprio l’albanismo che esige l’americanismo”.268 Morozzo della Rocca spiega questa “fede” con due motivazioni: • primo, con la necessità albanese di legarsi al “grande impero del momento”. In questo senso, “ciò che in età moderna era la Sublime Porta, per Enver Hoxha erano i sovietici e poi i cinesi, per gli albanesi d’oggi è l’impero americano. Gli albanesi aspirano all’osmosi col grande impero”.269 • soprattutto, gli americani sono i “liberatori” del Kosovo. Agli occhi degli albanesi, non è stata la NATO, una coalizione di diciannove nazioni, a vincere Milosevic, ma gli “americani da soli”. Per questo, gli albanesi hanno una gratitudine sconfinata nei confronti degli USA. 267 Le Courrier des Blakans “Kosovo: Bajram Kosumi, un nouveau ministre de continuité”, (24/3/2005) 268 Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 269 Ibidem 149 Questa “fede” è ben visibile a Pristina, dove l’ammirazione per Clinton si concretizza in vie, piazze, ristoranti e scuole il cui nome è a lui dedicato, in copie della Statua della Libertà e dove il 4 luglio è festeggiato alla stregua di una festa nazionale. Altra prova di tutto ciò è il fatto che la gioventù colta kosovara abbia scelto di emigrare proprio verso gli Stati Uniti e non già verso la più “vicina” Europa (geograficamente e - almeno in teoria - culturalmente). Nel corso della campagna elettorale per le ultime presidenziali negli USA, gli albanesi – e soprattutto la loro influe nte lobby negli States – hanno appoggiato la candidatura di Kerry, perché legati a Clinton dalla guerra del 1999 e perché lo stesso Kerry aveva promesso di risolvere in tempi brevi la questione dello status del Kosovo.270 Tuttavia la vittoria di Bush, sostenuto al contrario dai serbi degli USA, non nuocerà troppo agli albanesi, perché – come si vedrà nel prossimo capitolo – gli albanesi e l’amministrazione Bush hanno interessi troppo convergenti. Rispetto al rapporto con l’Unione europea, la politica kosovar a sembra seguire quella dei “cugini albanesi” (d’Albania!): la scelta è quella di essere “Nuova Europa”, cioè quella “New Europe” tanto sponsorizzata da Rumsfeld. E questa scelta implica l’accettazione della dinamica che ha caratterizzato l’ “integrazione” dei paesi dell’Europa dell’est: integrazione nella NATO, prima, e nell’UE, poi. Ciò avviene perché gli Stati Uniti offrono – agli occhi della classe dirigente kosovara - un appoggio strategico e geopolitico che l’Europa non è certamente in grado di garantire.271 Ciò premesso, è anche vero che i kosovari guardano con speranza all’Europa. Veton Surroi, leader della lista ORA, porta l’esempio della Bulgaria, paese che, pur avendo sempre rappresentato un modello negativo, è stato capace di rinnovarsi a tal punto che il suo ingresso nell’UE è previsto per il 2007. In questo senso, egli coglie il significato più profondo della questione 270 271 “In senso evidentemente favorevole agli albanesi”. Ibidem Roberto Morozzo della Rocca, “Tirana, USA”, LIMES Il nostro oriente, n. 6 del 2003 150 dello status che – a suo parere – non riguarda il potere, la bandiera, i corpi di polizia, ma piuttosto la capacità della società di trasformare se stessa. 272 Conclusa l’analisi della posizione albanese rispetto al futuro status del kosovo, si deve affrontare un altro tema, quello della c.d. “pan-Albania”, perché, per un certo tempo, essa ha rappresentato un alternativa proposta da alcuni ambienti albanesi. 272 “Veton Surroi: l’avenir du Kosovo est dans l’Europe”, Le Courrier des Balkans (12/3/2005) 151 SCHEMA: LA QUESTIONE DELLO STATUS DEL KOSOVO: LE DUE INTERPRETAZIONI 152 4. Scenario 3: il progetto “pan-albanese” Con il termine “pan-albanismo” si intende la spinta a riunire in un'unica realtà territoriale tutte le comunità albanesi del sud dei Balcani. Storicamente, il periodo rilevante ai fini della presente analisi è quello che si apre dopo la fine del comunismo e soprattutto con la disgregazione della exJugoslavia.273 Con la guerra del 1999 in Kosovo, tornò all’attenzione pubblica la “questione nazionale albanese” (espressione che gli albanesi preferiscono a quella di “pan-Albania”). Convinti di poter sfruttare il momento “propizio”, alcuni gruppi nazionalisti albanesi cominciarono attività sovversive in due regioni della penisola Balcanica: la valle di Presevo e le zone albanesi della Macedonia. La Valle di Presevo è la regione del sud della c.d. Serbia “centrale” (cioè la Serbia propriamente detta), abitata in maggioranza da albanesi. In questa regione, i nazionalisti albanesi credettero che una guerriglia sullo stile di quella portata avanti in Kosovo dall’UÇK avrebbe prodotto un nuovo intervento di un Occidente, ed in particolare di una NATO, che essi percepivano come particolarmente “sensibile” ai problemi degli albanesi. 273 Per quanto riguarda le origini storiche di questo movimento nazionalistico, esse rimandano prima di tutto alla figura leggendaria di Skanderbeg, comandante albanese che, nel XV sec., si batté invano contro l’invasione ottomana della penisola balcanica. Il mito di Skanderbeg ha assunto un ruolo fondamentale nel processo di creazione dell’autocoscienza nazionale albanese, autocoscienza che si sviluppa tuttavia molto più tardi, quanto meno nel 1800. Proprio nel XIX sec., la Lega di Prizren si oppose allo smembramento dei territori abitati dalla comunità albanese, richiedendo l’unione di questi territori in un’unica regione che si voleva tuttavia non già indipendente, ma parte integrante dell’impero ottomano. Dopo la prima guerra balcanica, la conferenza di Londra (1912/13) portò alla nascita di un primo stato albanese indipendente, abitato da circa 850.000 albanesi. Tuttavia, in quell’occasione, buona parte dell’odierno territorio del Kosovo fu lasciato alla Serbia e al Montenegro. Proprio a seguito di tale decisione, nel 1918 si formò il Comitato per la Difesa del Kosovo, favorevole all’unione del Kosovo con l’Albania. Per la prima volta, l’obiettivo era proprio la nascita di una Grande Albania. Tale obiettivo fu almeno parzialmente realizzato durante la seconda guerra mondiale, quando il Kosovo e i territori macedoni a maggioranza albanese furono uniti all’Albania sotto il controllo italiano. Tuttavia alla fine della seconda guerra mondiale, il Kosovo – come visto – fu annesso alla Serbia e il sogno grand-albanese tornò ad essere tale. 153 Così, “da una costola dell’UÇK”274 nacque l’Esercito per la Liberazione di Presevo, Medvedja e Bujanovac (in sigla UCPMB) che, stabilendosi nella c.d. Ground Safety Zone (GSZ), avviò – tra il 2000 e il 2001 - una serie di operazioni di guerriglia contro il potere serbo nell’area.275 Le azioni dell’UCPMB non ottennero tuttavia il risultato sperato perché la Comunità internazionale non aveva alcun intenzione di intervenire a favore di questo gruppo e, dal punto di vista militare, tutto si risolse con la smilitarizzazione dell’UCPMB (Konculj Agreement) e il rientro delle forze serbe nella Ground Safety Zone. Fu inoltre approvato il c.d. Covic Plan, un programma che prevedeva l’avvio di investimenti locali ed internazionali per la regione della Valle di Presevo, lo svolgimento di nuove elezioni in quelle municipalità e la predisposizione di forme di integrazione degli albanesi nella istituzioni locali. Nel 2001, in Macedonia entrò in azione l’Esercito di Li berazione Nazionale (NLA). Anche in questo caso, la guerriglia si concluse con lo scioglimento del gruppo armato e la firma di un accordo - gli Accordi di Ohrid (agosto 2003) - in cui si prevedevano delle modifiche della costituzione macedone in grado di garantire uno status migliore per la comunità albanese, attraverso il diritto ad influenzare il processo legislativo nelle materie di diretto interesse per la minoranza albanese e attraverso un aumento della presenza albanese nelle forze di polizia e nel go verno. Il fatto rilevante ai fini dell’analisi sul “pan-albanismo” è che entrambi i gruppi, l’UCPMB e l’ NLA, hanno iniziato ad acquisire consenso e sostegno da parte delle loro genti solo nel momento in cui hanno dichiarato di combattere non per la “Grande-Albania”, ma per i diritti delle comunità albanesi dei rispettivi territori. A conferma di quanto detto, si aggiunga la parabola discendente del gruppo chiamato Esercito Nazionale Albanese (in sigla ANA, Albanian National 274 “Pan-albanianism: how big is a threat to Balkan stability”, International Crisis Group, Europe report N. 153, Tirana/Brussels (2004) 275 La “Gorund Safety Zone” era la fascia di sicurezza di 5 chilometri (al di là del territorio del Kosovo) creata dal Military Technical Agreement e da questo interdetta alle forze militari serbe. 154 Army) che, per un certo periodo, sembrò aver riportato alla ribalta la causa pan-albanese. In realtà questo gruppo non ebbe mai grande seguito popolare e la sua parabola si risolse nel 2003 con una serie di arresti. A questo punto si può concludere che i fenomeni di guerriglia armata che hanno caratterizzato i Balcani - dalla crisi del Kosovo in poi - non possono essere considerati propriamente “pan-albanesi”, e qualora lo siano stati – l’ANA – non hanno ottenuto grande consenso. Detto ciò, occorre analizzare la realtà contemporanea per fare delle previsioni sulla “sostenibilità” del progetto pan-albanese oggi (anche in relazione al tema del futuro status del Kosovo). La “questione nazionale albanese” riguarda – se non altro dal punto di vista demografico – almeno cinque paesi e un “territorio” (il Kosovo): • Montenegro: qui gli albanesi sono concentrati nel sud-est del paese, ai confini con il nord dell’Albania e rappresentano – in base ad un censimento del 2003 – circa il 7% della popolazione montenegrina. La situazione di questa minoranza albanese attualmente è forse la meno tesa tra tutte quelle presenti nei Balcani, e – soprattutto ora che il Montenegro sembra avviato verso la piena indipendenza dall’Unione di Serbia e Montenegro - gli albanesi-montenegrini, che generalmente appoggiano il Presidente Djukanovic, sembrano concentrati a migliorare le loro condizioni all’interno del proprio stato, al massimo auspicando l’ottenimento di una forma sostanziale di autonomia. • Macedonia: qui, la comunità albanese conta circa 500.000 abitanti, approssimativamente un quarto della popolazione totale della Macedonia, ed è concentrata nelle valli dell’ovest, al confine con l’Albania e il Kosovo, nonché nella capitale Skopje. Come detto, dopo gli Accordi di Ohrid, gli albano-macedoni appaiono interessati al miglioramento delle proprie condizioni all’interno del sistema statuale esistente. Inoltre, nell’ottica di un progetto grand-albanese 155 non vanno sottovalutate alcune caratteristiche culturali che rendono la comunità albanese di Macedonia lontana da quella d’Albania, e più vicina a quella del Kosovo. Del resto, esiste un dato geopolitico fondamentale: la Macedonia – così come l’Albania – ha optato per l’integrazione nella NATO e nell’UE. In questo senso, la classe politica macedone è ben conscia di non poter permettere l’emergere di alcuna tendenza pan-albanese, se non vuole rinunciare alla scelta geopolitica fatta. • Grecia: qui esistono tre gruppi etnici albanesi: 1) gli “arvanites”, un gruppo che, emigrato nel XIII-XV sec., abita il Peloponneso, l’Attica e le isole Egee ed è totalmente integrato nella società greca. 2) i “cham”, che abitano la regione del nord-ovest chiamata Chameria. 3) i lavoratori immigrati dopo il 1992, che mantengono forti legami con la terra d’origine, ma non sono organizzati politicamente. • La Valle di Presevo (Serbia): è la regione del sud della Serbia abitata da circa 60.000 albanesi, concentrati nelle municipalità di Presevo (90%), Medvedja (26%) e Bujanovac (54%). In questa regione il fattore geografico – la vicinanza al Kosovo – ha assunto una particolare rilevanza dopo la guerra del 1999. Come visto, lo scopo dell’UCPMB era l’unione con il Kosovo “liberato”. Fallito questo tentativo, gli albanesi della Valle di Presevo – pur continuando a sperare nell’unione con un Kosovo indipendente – non sembrano attratti dall’idea di creare una Grande Albania. In base alle dichiarazioni rilasciate dai politici locali, l’obiettivo del momento è quello di avere voce in capitolo nelle trattative sullo status del Kosovo: in particolare questi politici richiedono che, poiché la situazione della loro comunità presenta molte analogie con quella dei serbo-kosovari, le sorti delle due comunità siano affrontate entrambe 156 nel contesto dei dialoghi sullo status.276 In sostanza questa comunità reclama un maggior grado di attenzione internazionale alla propria condizione di minoranza, di fronte ad una Belgrado che si oppone a qualsiasi interesse “internazionale” per una questione che considera tutta interna. Ma, a parte la posizione di Belgrado, ciò che va veramente a sfavore di questi albanesi di Serbia è il fatto che la Comunità internazionale non sembra affatto interessata a inserire la questione nelle trattative sul futuro status del Kosovo e che la stessa elite politica kosovara ha scelto di non prendere posizione a proposito. A questo punto, per gli albanesi della Valle di Presevo, l’unica chance di essere inseriti nel gioco politico verrebbe da una eventuale proposta serba di dividere il Kosovo: alle pretese serbe sul nord della provincia, si opporrebbero quelle kosovare sulla Valle di Presevo.277 • Albania: sono vari i motivi che portano l’Albania – come paese – a non sostenere progetti di tipo pan-albanese, anche nella loro “versione minima”, intesa come l’ unione tra Albania e Kosovo: o in primo luogo, l’Albania è afflitta da troppi problemi interni irrisolti per pensare ad un’unione con il Kosovo - e tanto meno a progetti pan-albanesi – anche perché è chiaro che questa unione non farebbe altro che portare nuove problematiche allo stato albanese; o nella classe politica albanese c’è una certa diffidenza nei confronti dei “cugini kosovari”, del loro “egocentrismo”; ma, soprattutto, da parte dell’elite legata all’attuale governo socialista di Fatos Nano – elite appartenente all’etnia albanese Tosk, tipica del sud del paese – c’è il timore che l’unione con il 276 Le Courrier des Balkans “Les Albanais de la Vallée de Presevo et les discussions sur le statut du Kosovo”, (marzo 2005) 277 Nel caso in cui tale minoranza non fosse inserita nelle trattative, sarebbe decisamente auspicabile l’introduzione di meccanismi di tutela dei diritti di questa minoranza in Serbia. Ma ciò si riconduce al tema più ampio dell’estensione degli standard di democraticità a tutti i Balcani. 157 Kosovo possa ribaltare gli attuali equilibri di potere: l’etnia Gheg – caratteristica del nord dell’Albania e del Kosovo – diventerebbe improvvisamente maggioritaria, con il conseguente rischio per l’attuale maggioranza di perdere il potere (inoltre, gli stessi Gheg “albanesi” si troverebbero improvvisamente ad essere minoranza rispetto ai Gheg “kosovari”);278 o un’altra spiegazione viene da una considerazione di natura geopolitica: anche l’Albania – come la Macedonia – ha optato per l’integrazione euro-atlantica. In particolare, gli albanesi sembrano da un lato contare molto sugli Stati Uniti, come garanti di appoggio strategico e di sicurezza in caso di necessità, e dall’altro sull’Europa, come interlocutore economico (interlocutore europeo che, tra l’altro, appare di una “generosità” americano).279 molto meno Rispetto al vincolata rapporto rispetto a quello Tirana-Washington, Morozzo della Rocca sostiene che “l’alleanza tra Albania e USA non è correlata a motivi economici: il suo valore è militare, ideale, e anche sentimentale”, aggiungendo che poco conta in questo rapporto il fatto che il 70% della popolazione albanese sia musulmana poiché “c’è molta secolarizzazione dopo gli anni di Enver Hoxha e comunque l’islam di Tirana non ha tentazioni fondamentaliste”;280 o per quanto attiene al sentimento popolare, certamente l’opinione pubblica appoggia l’indipendenza del Kosovo e, forse, una parte di essa sarebbe sentimentalmente anche 278 “Pan-albanianism: how big is a threat to Balkan stability”, International Crisis Group, Europe report N. 153, Tirana/Brussels (2004) 279 In questo senso Morozzo della Rocca suggerisce che “mentre gli europei finanziano a pioggia, con obiettivi finora più civici che strategici, gli americani ritengono diseducativo regalare”. Roberto Morozzo della Rocca, “Tirana, USA”, LIMES Il nostro oriente, n. 6 del 2003 280 Ibidem 158 favorevole ad un’unione: tuttavia le priorità albanesi sembrano altre.281 In sintesi dunque, l’Albania, assolutamente non interessata a progetti pan-albanesi,282 appoggia sicuramente la tesi dell’indipendenza del Kosovo, condividendo la formula adottata dalla Comunità internazionale degli “standards before statu”s, pur se coltivando “l’inconfessata speranza che gli USA sposino una linea di immediata indipendenza”.283 • Kosovo: anche da parte dell’elite politica kosovara non c’è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, interesse ad una unione con l’Albania, né tanto meno ad un progetto pan-albanese. E’ chiaro che esiste ancora qualche circolo in cui le teorie grand-albanesi suscitano grande fascino. Tuttavia oggi il tema della Grande Albania è più che altro sbandierato da alcuni ambienti kosovari come rischiosa minaccia di ciò a cui si potrebbe arrivare scegliendo di non concedere l’indipendenza al Kosovo. E’ certamente un’argomentazione utile alla causa kosovara, perché permette di presentare l’indipendenza “quasi come una soluzione di compromesso”.284 Ad ogni modo, rispetto alla mancanza di consenso sui temi grand-albanesi, i motivi sono essenzialmente due: o primo, la classe politica kosovara sente ormai l’indipendenza vicinissima e soprattutto crede di avere l’appoggio dell’Occidente su questa linea. E’ chiaro che la ripresa di qualsiasi progetto pan-albanese (anche nella sua forma minima di un’unione del Kosovo con l’Albania) rischierebbe di far 281 Inoltre, la comunità tosk del sud dell’Albania non ha grande affinità con i gheg kosovari. International Crisis Group, “Pan-albanianism: how big is a threat to Balkan stability”, Europe report N. 153, Tirana/Brussels (2004) 282 E questo è stato dimostrato dal fatto che alcuni tra i più importanti arresti di membri dell’ANA sono stati condotti proprio da Tirana. Ibidem 283 Roberto Morozzo della Rocca, “Tirana, USA”, LIMES Il nostro oriente, n. 6 del 2003 284 International Crisis Group, “Pan-albanianism: how big is a threat to Balkan stability”, Europe report N. 153, Tirana/Brussels (2004) 159 perdere la pazienza ai governi “amici” e quindi di perdere il loro appoggio al momento delle trattative. D’altra parte, l’obiettivo della guerra del 1999 era l’indipendenza del Kosovo, un’indipendenza che quegli ex-combattenti sentono ora di avere in pugno; o in secondo luogo, viene un’argomentazione che attiene al potere, e che potrebbe apparire vagamente cinica o maliziosa (ma si crede sia comunque utile alla comprensione di questo tema): l’unione con l’Albania vuol dire la creazione di un unico stato. Unico stato vuol dire unico governo e quindi rischio di perdita di potere per l’attuale classe politica kosovara. In sintesi dunque, l’unica priorità dell’elite politica kosovara è ottenere l’indipendenza e nel perseguire tale obiettivo i kosovari – come visto nel precedente paragrafo – hanno fatto affidamento sempre di più sugli USA che sull’Albania! Per chiudere quest’analisi dedicata al progetto grand-albanese nelle sue due varianti (minima e massima), si può dire che esso rappresenta oggi un’opzione poco realizzabile, perché, se pur esiste ancora un consenso nei confronti di questi disegni, esso viene essenzial mente dalla diaspora albanese (in particolare quella negli USA, in Svizzera e in Germania) 285. E non dai governi direttamente interessati. L’International Crisis Group – in uno studio qui più volte citato – suggerisce che in un certo senso il discorso nazionalista pan-albanese potrebbe essere oggi “traslato” in un più pacifico discorso di ampliamento ed approfondimento delle relazioni economiche e culturali inter-albanesi. Alcuni bagliori di questo auspicabile processo hanno già visto luce: si pensi al programma di 285 Secondo una stima riportata dall’International Crisis Group, la diaspora albanese conterebbe - nei paesi citati – circa 400.000 immigrati negli USA, 350.000-400.000 in Germania e 160.000 in Svizzera. Ibidem 160 collaborazione tra le Università di Tirana, Pristina e Tetevo, o – dal punto di vista economico - all’ “Albania-Kosovo Free Trade Agreement”, firmato nel maggio del 2003 e al progetto di una superstrada pan-albanese che colleghi Durazzo-Tirana-Kukes-Prizern e poi Prizren con Pristina e con Tetovo Skopje.286 Si tratta - per ora - di un’auspicio. 286 Roberto Morozzo della Rocca, “Tirana, USA”, LIMES Il nostro oriente, n. 6 del 2003 161 CARTINA PROGETTO PANALBANESE! 162 CAPITOLO QUARTO Gli scenari futuri secondo i principali osservatori internazionali 1. Il Kosovo nello scacchiere geopolitico internazionale In questo paragrafo si vuole delineare la posizione del Kosovo nello scacchiere geopolitico internazionale, con particolare riguardo al tema dell’espansione ad est della NATO. Come analizzato nel primo capitolo, una tappa fondamentale del processo di trasformazione della NATO è proprio nella guerra del Kosovo. La ricerca di una nuova identità si è concretizzata in un veloce processo di allargamento che ha visto entrare nelle file della NATO numerosi paesi dell’ex blocco comunista. Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Slovenia sono ormai membri a pieno titolo dell’Alleanza. Per quanto riguarda i Balcani - oltre ai paesi citati - Albania, Croazia e FYROM (the Former Yugoslav Republic of Macedonia) fanno parte del programma “Partnership for Peace”. La caratteristica comune a quasi tutti questi paesi è quella di essere Stati piccoli, geopoliticamente deboli che, acquisita recentemente l’indipendenza e “scrollatisi di dosso i vecchi padroni, sono alla ricerca di un tutore che li sostenga e li protegga durante la loro difficile infanzia”.287 La ricerca di tale “padre protettivo” ha spinto questi paesi ad entrare nell’area di influenza geopolitica degli Stati Uniti, venendo a formare quella che il Segretario della Difesa Donald H. Rumsfel chiama la “New Europe”, evidentemente in opposizione ad una “Old Europe”. 287 Angelantonio Rosato, “La NATO dopo la NATO”, LIMES La guerra continua, n. 2 del 2003 163 Se l’inconfessato ma palese scopo della politica americana nei confronti della Russia è quello di soffocarla, tagliando ne le vie per il rifornimento di risorse energetiche - in una politica dal sapore “antisovietico benché l’URSS non esista più”288- allora è vero che “quella che era una volta l’appendice geopolitica dell’URSS si sta trasformando nel cavallo di Troia degli USA, una sorta di Euramerica”. 289 Margherita Paolini interpreta questa politica come figlia delle teorie di Brzezinsky sull’importanza dei “Balcani eurasiatici”, teorie che, “anche se datate, sono rimaste nell’hard disk strategico del Pentagono”.290 L’interesse statunitense per la New Europe nasce da considerazioni strategiche: si tratta di paesi facilmente “gestibili”, più docili rispetto alle richieste americane (per esempio viene accordata facilmente l’esenzione ai militari statunitensi dalla giurisdizione locale e dal Tribunale Penale Internazionale). Inoltre, questi paesi offrono per le basi NATO una collocazione geopolitica “assai più consona ai nuovi fini globali dell’ iperpotenza americana, alla necessità di proiettare velocemente la sua macchina bellica in Medio Oriente, Caucaso ed Asia Centrale”.291 Tale discorso strategico vale anche per le due basi dei Balcani occidentali: Eagle Base, in Bosnia, e Camp Bondsteel, in Kosovo. Nella proiezione verso il Mar Nero e il Caucaso, queste due basi fungono essenzialmente da retrovie.292 Questi “due trofei delle guerre balcaniche di Clinton” hanno il valore aggiunto di essere inserite all’interno di quello che è chiamato il “vacuum” balcanico.293 In effetti, l’espansione ad est della NATO ha creato – 288 Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America, ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 289 Dmitrij Trenin, “Dall’Eurorussia all’Euroamerica”, LIMES L’Europa americana , n. 3 del 2003 290 Per maggiori dettagli si veda: Margherita Paolini, “La NATO dell’est”, LIMES La Russia in gioco n. 6 del 2004 291 Angelantonio Rosato, “La NATO dopo la NATO”, LIMES La guerra continua, n. 2 del 2003 292 Secondo Margherita Paolini, il baricentro della “NATO balcanica” è Sofia. Margherita Paolini, “La NATO dell’est”, LIMES La Russia in gioco, n. 6 del 2004 293 Ibidem 164 per ora – un vuoto strategico, costituito dalla Serbia-Montenegro (e in parte dalla Bosnia-Erzegovina). 294 Rosato suggerisce un’immagine affascinante che si ritiene utile riportare interamente: “Posizionando la cartina con l’ovest in basso e l’est verso l’alto, possiamo immaginare una linea, un cuneo di penetrazione USA nello heartland euro-asiatico, che parte dalla base navale di Norfolk in Virginia, attraversa i Balcani, lambisce altri Stati della Nuova Europa, taglia il Caucaso per arrivare in Asia centrale fino ai confini della Cina. C’è poi l’importante deviazione del cuneo verso il Medio Oriente, per cui sarebbe meglio parlare di una Y poggiata sul fianco e con i due vertici rivolti rispettivamente verso lo heartland euro-asiatico e il Medio Oriente”.295 Fatta questa premessa e nell’impossibilità di affrontare in maniera esaustiva il tema dell’allargamento della NATO, occorre analizzare quale sia la politica americana nei confronti del Kosovo. Primo punto di riferimento: è chiaro che gli americani non avrebbero investito così tanto nella costruzione della base di Camp Bondsteel (il più cospicuo investimento per una base militare dai tempi del Vietnam), se non avessero pensato di restare a lungo nei Balcani.296 Tuttavia, questo ragionamento non deve trarre in inganno. Il Kosovo in sé non rappresenta certo una regione prioritaria nella geopolitica mondiale di Bush. Anzi, l’amministrazione americana sembra intenzionata a risparmiare, nella regione , il più possibile in termini di risorse militari e finanziarie, spingendo perché queste risorse vengano dagli europei. In sostanza “Bush 294 Ciò nonostante il miglioramento dei rapporti serbo-statunitensi in seguito alla collaborazione fornita da Belgrado nella crisi irachena. In quell’occasione, la Serbia ha offerto agli USA “una consistente collaborazione d’intelligence, preziosa per via della conoscenza del paese maturata dall’intelligence militare jugoslava in decenni di collaborazione civile e militare con Baghdad”. Paolo Quercia, “Serbia e America, amici per la pelle?”, LIMES L’Europa americana, n. 3 del 2003 295 Rosato ironicamente aggiunge: “I malevoli ci vedranno sicuramente una lingua biforcuta”. Angelantonio Rosato, “Kosovo, terra del caos”, LIMES L’Europa americana, n. 3 del 2003 296 Una stima parla di circa 36,6 milioni di dollari, 1.300 ingegneri e circa 10.000 operai. Paolo Quercia, “Serbia e America, amici per la pelle?”, LIMES L’Europa americana, n. 3 del 2003 165 vuole che in Kosovo, di americano, resti solo Camp Bondsteel, e con personale ridotto al minimo necessario”.297 L’amministrazione americana spinge, dunque, per una soluzione il più veloce possibile, considerando l’indipendenza – limitata da meccanismi di tutela delle minoranze – l’opzione più logica. Ecco perché gli americani premono per una definitiva verifica del raggiungimento degli “standard”. In questo senso, poco importa che - durante l’ultima campagna elettorale per le presidenziali americane - la lobby albanese negli USA abbia appoggiato la candidatura di Kerry, e la meno influente lobby serba quella di Bush. Questi “non ha promesso nulla ai serbi” mentre “ha in comune con gli albanesi la volontà di chiudere la fase provvisoria, di protettorato, cui soggiace il Kosovo”.298 La più grande incognita è quella che riguarda il ruolo che l’Unione europea sarà in grado di svolgere in questo processo. L’UE ha interessi concreti ed importanti a che i Balcani siano stabilizzati: primo, l’instabilità lascerebbe l’Europa costantemente in balia del rischio di una nuova guerra. Una guerra in casa propria! Secondo, la stabilità contribuirebbe non poco a limitare l’immigrazione proveniente da quei paesi e – nel lungo periodo - renderebbe meno gravoso l’inevitabile impegno economico europeo nell’area. In conclusione - anche se ovviamente per ora nulla è certo - tutto sembra indicare che il futuro geopolitico del Kosovo, cioè di un Kosovo indipendente, sia nella New Europe. 297 Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America, ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 298 Ibidem 166 CARTINA BASI NATO NEI BALCANI 167 SCHEMA: INTERESSI DEGLI USA E DELL’UE 168 2. International Crisis Group: “Kosovo, indipendenza al più presto!” L’International Crisis Group (ICG) è un think tank indipendente e no n-profit, caratterizzato da una forte impronta multinazionale, con membri provenienti dai cinque continenti. L’obiettivo dell’ICG è duplice: da una parte, studiare le situazioni di crisi attuale o potenziale attraverso un metodo di ricerca sul campo; dall’altra, attraverso la pubblicazione regolare e la vasta diffusione di alcuni report, questo gruppo mira ad indirizzare – e se possibile influenzare – i principali decision-makers internazionali. In questo senso, l’ICG - la cui sede principale è a Bruxelles299 - lavora a stretto contatto con i governi e con coloro che li influenzano, media compresi. Dal punto di vista economico, tale gruppo è finanziato da governi, fondazioni, società e donatori individuali. Nell’ambito del mondo intellettuale, l’imparzialità di questo gruppo è tal volta messa in dubbio a causa di un forse troppo stretto legame con gli Stati Uniti. Tuttavia, al di là di tali polemiche, l’ICG resta un comitato di esperti molto influente e capace di catalizzare l’attenzione degli attori internazionali intorno ai propri studi. Il 24 gennaio 2005, l’ICG è intervenuto sulla questione dello status futuro del Kosovo, pubblicando un report intitolato “Kosovo: toward final status” che ha riscosso una notevole risonanza nell’ambito del dibattito internazionale attualmente in corso. Rimandando le reazioni suscitate da tale report al prossimo paragrafo, passiamo ora ad analizzarne il contenuto, particolarmente interessante soprattutto nella sua parte propositiva. 299 Altre importanti sedi sono quelle di Washington, New York, Londra e Mosca. 169 L’incipit è certamente di grande effetto: “il tempo sta scadendo in Kosovo. Lo status quo non reggerà”.300 Il pericolo più grande per la stabilità del protettorato è - agli occhi dell’ICG – l’alto livello di frustrazione della popolazione albanese rispetto all’irrisolta questione dello status e alla grave situazione economica. Tale insoddisfazione è esplosa in forma violenta negli scontri del marzo 2004 e l’ICG lancia il suo anatema: se gli albanesi non vedranno concretamente la volontà della Comunità internazionale di procedere verso l’indipendenza entro il 2005, potrebbero agire unilateralmente. In quel caso, i serbo-kosovari potrebbero chiamare in aiuto le truppe di Belgrado, e nel Kosovo tornerebbe la guerra.301 Questa è in sintesi la situazione attuale così come analizzata dall’ICG, ma soprattutto questa è la motivazione che tale think tank adduce per lanciare il proprio appello: procedere il prima possibile verso l’indipendenza del Kosovo! La Comunità internazionale, dopo aver - nel 1999 - affrontato la situazione senza una strategia di uscita ben definita, ha adottato la politica degli “standards before status”. Tuttavia, oggi, le “nuove priorità” - la crisi afgana e quella irachena – spingono verso un impegno minore in termini di risorse economiche ed umane (in particolare attraverso la riduzione delle truppe KFOR) e la stessa credibilità dell’UNMIK è messa in discussione, soprattutto perché incapace di gestire la recessione economica in Kosovo.302 Dopo aver fornito la propria interpretazione delle posizioni dei principali attori interessati alla questione del Kosovo, l’ICG fa la sua proposta, delineando un percorso in varie fasi per la soluzione della questione dello status entro il 2005/2006. 300 “Time is running out in Kosovo. The status quo will not hold”. International Crisis Group, “Kosovo: toward final status”, Europe Report N° 161 – 24 January 2005, pag. 1 301 L’ICG poneva particolare enfasi nel rischio di nuovi scontri scatenati da un’allora ipotizzata incriminazione di Haradinaj. Di fatto, come sottolineato nel capitolo precedente, l’arresto dell’ex premier non ha provocato i fenomeni di ribellione violenta paventati dall’ICG (e da numerosi altri osservatori internazionali). 302 In questo senso, il rapporto sposa la tesi secondo cui l’economia kosovara non sarà in grado di riprendersi finché non sarà risolta la questione dello status. Ibidem, pag. 5 170 • “Il prima possibile”: o il Gruppo di Contatto prende una posizione forte, proponendo un percorso concreto caratterizzato da quattro condizioni imprescindibili: 1) il ritmo con cui si procederà verso la definizione dello status dipenderà dai risultati ottenuti dal Kosovo rispetto agli standard (“per fare pressione sulle istituzioni”); 2) non vi sarà alcun supporto internazionale per un ritorno ad un legame costituzionale tra Serbia-Montenegro e Kosovo (“per mettere in chiaro la realtà nei confronti dei politici e della società civile serba”); 3) qualsiasi forma di divisione del territorio kosovaro è impresentabile al tavolo delle trattative; 4) verranno prese misure per garantire l’impossibilità di qualsiasi unione del Kosovo con l’Albania o con altri stati confinanti (“per tranquillizzare serbi e quant’altri allarmati dallo spettro di una Grande Albania”). Rispetto all’azione del Gruppo di Contatto, l’ICG fa due considerazioni, importanti perché esemplificative di quale sia la posizione di questo gruppo di studio. Primo, si dice che la partecipazione della Russia a questa iniziativa è “altamente desiderabile”, ma non necessaria! Secondo, è vero che i progressi riguardo allo status finale devono essere legati ai risultati ottenuti in termini di standard, tuttavia sarebbe del tutto “controproducente” suggerire l’idea che - nel caso in cui la verifica di tali risultati risultasse negativa - il Kosovo potrebbe tornare sotto il governo di Belgrado. Ancor più esplicitamente si aggiunge: la questione dell’indipendenza deve essere affrontata non più in termini di eventualità (“se”), ma in termini di temporalità (“quando”). Tutto ciò aiuterebbe a creare una 171 migliore predisposizione da parte dei paesi confinanti verso il Kosovo come Stato. o Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, in consultazione con il Gruppo di Contatto, nomina un Inviato Speciale (Special Envoy) con il compito di avviare consultazioni sullo status finale con tutte le parti interessate. o La Commissione sullo status dell’Assemblea del Kosovo inizia a redigere la bozza di una nuova Costituzione che preveda particolari forme di tutela dei diritti delle minoranze e un sistema di nomina internazionale dei giudici della Corte Suprema e della Corte Costituzionale, i cui membri siano albanesi, serbi e internazionali.303 Nell’affrontare tale compito, l’Assemblea kosovara, anche con il supporto del governo e dell’opposizione, deve lavorare in collaborazione con il Gruppo di Contatto, l’UNMIK, l’UE e la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa. 304 o Le istituzioni provvisorie del Kosovo (PISG) avviano una serie di programmi finalizzati ad “accogliere” la minoranza serba, tra l’altro dando vita ad una campagna per una “Pristina - Città Aperta”.305 • Entro la metà-estate 2005: 303 In particolare l’ICG suggerisce che i giudici internazionali siano nominati dal Presidente della Corte Europea dei Diritti Umani, così come avviene in Bosnia. 304 La Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto – meglio nota come Commissione di Venezia – è l’organo consultivo del Consiglio d’Europa per le materie costituzionali. 305 Per quanto riguarda il progetto di una “Pristina – Open City”, l’ICG suggerisce alle PISG di adottare alcune concrete misure per attirare nella città i Serbi che abitano le enclave intorno ad essa. Per esempio: introduzione di un servizio regolare di autobus; distribuzione di adesivi con su scritto “Si parla serbo” da appendere alle vetrine dei negozi; incentivare la promozione della libertà di movimento da parte dei media kosovari; assicurare la proiezione nei cinema di film con sottotitoli in serbo, oltre che in albanese, nonché la vendita di libri in serbo nelle librerie; promuovere corsi di studio in serbo, bosniaco e inglese all’Università di Pristina; ecc… 172 o Il Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite (SRSG) conclude la verifica degli impegni assunti dalle PISG rispetto al programma degli standard. • Entro l’autunno 2005: o L’Assemblea completa il testo della bozza di Costituzione. o L’Inviato Speciale presenta la bozza di un testo di Accordo – “Kosovo Accord” – e lancia una conferenza internazionale per l’adozione di quest’accordo e della nuova costituzione del Kosovo. Le linee guida di questo accordo sono indicate dall’ICG: indipendenza del Kosovo, ma anche diritti delle minoranze e divieto di unificazione del Kosovo con l’Albania o qualsiasi altro territorio; clausole per la soluzione delle controversie tra Kosovo e Serbia-Montenegro riguardo ai diritti della proprietà pubblica e privata, nonché clausole per l’annullamento di una buona porzione dei debiti della Serbia-Montenegro da parte dei creditori. Si suggerisce inoltre che tale accordo non solo prenda la forma di un trattato - in modo da risultare politicamente vincolante - ma venga anche approvato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. • Entro la fine del 2005: o Ha luogo la conferenza internazionale suddetta, sotto la presidenza delle Nazioni Unite e con la partecipazione di rappresentanti del Gruppo di Contatto, dell’UE, di Belgrado, del governo kosovaro e dei partiti d’opposizione. • Inizi o 2006: o E’ indetto in Kosovo un referendum sulla nuova costituzione e, parallelamente, il “Kosovo Accord” è sottoposto all’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. • Metà 2006: 173 o L’UNMIK trasferisce le funzioni esecutive al governo kosovaro e quelle di monitoraggio ad un nuova missione internazionale (“the Kosovo Monitoring Mission”).306 Per quanto riguarda la KFOR, il suo ruolo – o quello di una missione che a questa succeda – deve essere oggetto di un accordo diretto tra NATO e governo kosovaro. o “Nel caso in cui non sia stato possibile raggiungere un intesa con la Serbia o una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la sovranità de iure del Kosovo dovrebbe essere riconosciuta dalla Comunità internazionale, o da quegli stati membri (inclusi gli Stati Uniti e l’Unione Europea) che sono pronti a farlo” Quest’ultimo passaggio racchiude il senso della lettura che l’ICG dà della questione kosovara. Come avremo modo di commentare nel prossimo paragrafo, si tratta di una proposta pregna di realpolitik, che - molto concentrata sui rischi di breve periodo (nuovi scontri a causa dell’insoddisfazione albanese) – tende a sottovalutare il tema della stabilità dell’area nel lungo periodo. Ad ogni modo, il rapporto dell’ICG prosegue la sua analisi affrontando quattro tematiche di rilievo riguardo al futuro del Kosovo. Prima di tutto, l’indipendenza. L’ICG sostiene che “l’indipendenza del Kosovo entro gli attuali confini” sia la soluzione migliore in termini di applicabilità e di stabilità di lungo termine per la regione. Soprattutto – è aggiunto – “non esiste un’alternativa accettabile”. Il protettorato attuale non può continuare all’infinito, non solo perché gli albanesi non lo sopporterebbero, ma soprattutto perché la Comunità internazionale non sarebbe più in grado di finanziarlo. L’assunzione di una sorta di un’amministrazione fiduciaria da parte delle Nazioni Unite è anacronistica, e da parte dell’UE semplicemente non troverebbe consenso. Escludendo drasticamente qualsiasi legame costituzionale con Belgrado, l’ICG specifica 306 Per maggiori dettagli su questa missione si rimanda a pag. 25 del report citato. 174 che l’indipendenza da esso proposta è un’ “indipendenza condizionata” da tre clausole: • divieto di unificazione con l’Albania o con qualsiasi altro stato o territorio vicino, tranne che nel contesto dell’integrazione europea, cui deve essere contrapposto un sistema di accordi bilaterali con gli altri stati dell’area (Serbia inclusa, se possibile!) e con l’UE. Inoltre, le direttive di sviluppo del nuovo stato dovrebbero essere programmate nel senso di un deciso avvicinamento alle norme e ai valori europei (avendo come scopo ultimo proprio l’ingresso nell’UE); • l’indipendenza del potere giudiziario dovrebbe essere assicurata dalla nomina di giudici internazionali - da affiancare a quelli locali nelle corti supreme – e dal lavoro di monitoraggio della Kosovo Monitoring Mission; • la presenza di tale missione internazionale di monitoraggio con il potere di prendere decisioni legali interne, ma anche di riferire alla Comunità internazionale e di sollecitare le misure ritenute necessarie, in caso di non rispetto degli impegni presi dalle istituzioni kosovare. L’obiettivo ultimo dovrebbe essere di inserire il Kosovo nel club degli stati sovrani, applicando ad esso solamente quei limiti necessari al raggiungimento degli standard europei. Limiti – è ben specificato – che dovrebbero ridotti al minimo possibile. Seconda questione: cosa accade nel caso in cui la sovranità del Kosovo non è riconosciuta de iure? Su questo punto, l’ICG ribadisce la sua forte posizione: gli Stati Uniti, l’UE e altri stati devono essere pronti a: organizzare la conferenza proposta “anche senza la partecipazione della Serbia”; negoziare e firmare l’Accordo; riconoscere il neo-indipendente stato, “anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza”. Il messaggio che la Comunità Internazionale dovrebbe - secondo l’ICG – inviare alla Serbia è chiarissimo: “the train is leaving, with or without you”! 175 Terzo aspetto: l’eventualità di una divisione del Kosovo. L’ICG sostiene che qualsiasi forma di divisione è indesiderabile, perché soffocherebbe ogni spinta verso la trasformazione e la democratizzazione della società. Tale scelta – secondo il rapporto – farebbe emergere nuove pressioni per uno scambio di popolazioni e soprattutto spingerebbe gli estremisti albanesi a richiedere alla Serbia una “compensazione territoriale”. A livello più ampio, potrebbe innescare richieste di revisione dei confini anche in altri territori: alcuni serbi potrebbero tornare a richiedere l’assorbimento della Repubblica Srpska e nuove tensioni potrebbero emergere in Vojvodina o in Macedonia.307 Ultimo aspetto: il rischio dello scatenare un “effetto domino”. Secondo l’ICG, il pericolo che la creazione di un Kosovo indipendente possa suscitare l’azione di vari movimenti irredentisti e secessionisti non esiste. Questo perché il caso del Kosovo ha delle caratteristiche troppo peculiari per essere assunto a “modello” di movimento secessionista. Alla base delle discussioni sullo status del Kosovo è una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevede proprio l’apertura di tali discussioni. E tale approccio non è stato assunto dalle Nazioni Unite nei confronti di altre regioni secessioniste. Escluso anche questo rischio, il rapporto si chiude affermando che l’agenda proposta richiede certamente coraggio politico, ma che “l’alternativa è peggiore”. 307 Con un ragionamento forse un po’ forzato, l’ICG dice che anche nel caso – assolutamente non rispondente alla realtà – in cui i politici kosovari fossero favorevoli a concedere il nord del Kosovo alla Serbia, la Convenzione di Helsinky impone che i cambiamenti di confini siano liberamente negoziati tra stati. Ma – e qui è la forzatura del discorso dell’ICG – il Kosovo non sarebbe ancora uno “stato”, al momento delle trattative, e quindi non potrebbe dare il suo assenso ad un eventuale modifica di confini. 176 3. L’appello di Transitions Online Come accennato, il report dell’ICG ha infuocato il dibattito sul futuro status del Kosovo, e non poche sono state le critiche. Tra i primi commenti, spicca quello di Transitions Online (TOL), una testata on-line - con sede a Praga – specializzata in informazione riguardante i paesi dell’ex blocco comunista. Il giorno stesso della presentazione del report “Kosovo: toward final status”, TOL ha pubblicato un articolo, intitolato “Too early to discard inclusiveness”, fortemente critico nei confronti della posizione assunta dall’ICG. 308 Il dato di partenza, che accomuna la posizione di tutti gli osservatori internazionali, è che lo status quo è insostenibile e che è necessaria un’azione decisa. Tuttavia, secondo TOL, l’ICG non fa altro che sposare la linea dei sostenitori della causa kosovaro-albanese presenti tra le file dei “legislatori statunitensi”. La posizione espressa da TOL parte da una lettura della situazione attuale che non si distacca molto da quella fornita dall’ICG. Tuttavia, a livello propositivo, le conlusioni dei due think tank sono inconciliabili. E’ vero - sostiene TOL – che la situazione attuale è cristallizzata su posizioni incompatibili: gli albanesi non sembrano disposti ad accettare alcuna soluzione che sia meno dell’indipendenza; i serbi e Belgrado si oppongono fermamente ad un Kosovo indipendente nei confini attuali. Tuttavia, nessuno – neanche il più radicale dei nazionalisti serbi - può oggettivamente sostenere che il Kosovo possa essere reintegrato con successo nella struttura costituzionale serba. D’altra parte, è difficile immaginare le minoranze nonalbanesi ben integrate in un Kosovo subito indipendente. E questo perché, secondo TOL, l’insicurezza cui sono esposte queste minoranze dipende non tanto da una mancanza di volontà delle istituzioni o del governo provvisorio 308 Il sito internet di TOL è www.tol.cz 177 del Kosovo, ma da un’ “elevata ostilità” tra kosovaro-albanesi, da una parte, e serbi e rom, dall’altra. In questo senso, la sicurezza delle minoranze va ben oltre qualcosa che possa essere affrontato con le politiche di un governo, pur se ispirate a “standard europei”. Analizzando la questione a livello globale, TOL sostiene che l’unico organismo che può legalmente decidere sul futuro del Kosovo è il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia – anche qui – il raggiungimento di una formula che catalizzi il consenso di tutte le parti è davvero difficile. I paesi occidentali, la Russia e la Cina sembrano affrontare la questione anche in base a preoccupazioni “proprie”, e rispettivamente: il retaggio del loro coinvolgimento nella crisi kosovara fino ad oggi, un legame di fedeltà storica con la Serbia e i timori riguardanti fenomeni di separatismo interni. Queste considerazioni indicano che non sarà facile trovare una soluzione immediata e di vasto consenso, e un’eventuale presa di posizione americana per un’“indipendenza veloce” rischierebbe di esasperare le posizioni. Per questi motivi, TOL considera la proposta dell’ICG – fondata sull’idea che è necessaria una soluzione rapida, non importa quando condivisa – una vera espressione di realpoltik. Pur avendo il merito di aver assunto un approccio decisamente realistico, l’ICG perde di vista le conseguenze di lungo periodo di tale approccio: una decisione unilaterale di questo tipo lascerebbe certamente “un retrogusto amaro” non solo a livello regionale, ma anche sul palcoscenico della politica mondiale. Soprattutto per questo motivo, per le conseguenze di lungo termine che una scelta quale quella suggerita dall’ICG potrebbe avere, TOL lancia il suo appello: “c’è ancora tempo per avviare un processo inclusivo… ancora tempo per il dialogo”. 309 In questo senso, occorrerebbe avviare il prima possibile una trattativa che includa tutti e in cui tutte le “opinioni” abbiano il diritto ad essere espresse, perché minacciare Belgrado con una formula del tipo “the train is leaving, with or without you” è troppo pericoloso. In questa 309 “Too Early To Discard Inclusiveness”, Transition On Line (24/1/2005) 178 fase, l’avvio di un processo inclusivo dovrebbe essere percepito come un successo in sé. E solo una volta che si sia dimostrato, in un forum ufficiale, che è impossile trovare una forma qualsiasi di “compromesso”… solo allora altre soluzioni potranno essere contemplate. Chiudendo l’analisi della posizione di TOL, si crede utile sottolineare una considerazione importante a parere di chi scrive: “il Kosovo può ancora attendere un po’ per trovare la soluzione al problema del proprio status. Ciò che non può attendere è l’avvio di un processo finalizzato a determinare tale status”. 310 Anche il francese “Le Courrier des Balkans” ha scelto di commentare il report dell’ICG, definito - in un articolo intitolato “Kosovo: l’indipendenza fin dal 2006” e firmato da Jean-Arnault Dérens – “un rapporto esplosivo”.311 Dérens fa due interessanti considerazioni: primo, l’ICG ha definito una strategia in cui il ruolo principale è svolto dal Gruppo di Contatto (per altro dimostrando di non dare grande importanza al fatto che la Russia scelga o meno di parteciparvi), senza neanche accennare alla funzione che potrebbe svolgere l’UE, quasi essa dovesse “non avere alcun ruolo di rilievo”. In secondo luogo, a parere di Dérens, questo report sarebbe stato lanciato da alcuni ambienti diplomatici statunitensi per saggiare quale potrebbe essere la reazione serba ed europea ad una politica di questo tipo. E le reazioni serbe sono state - ovviamente - dure. Nobojsa Covic, presidente del Centro di Coordinamento per il Kosovo e Metohija, ha rilanciato una vecchia minaccia: “Se il Kosovo diviene indipendente, allora perché non riconoscere anche l’indipendenza della Repubblica Srpska”.312 L’italiano “Osservatorio sui Balcani”, di fronte al rapporto dell’ICG ribadisce la sua posizione: “la definizione dello status del Kosovo non può che passare attraverso un accordo tra Belgrado e Pristina, seppur forzato”313 e 310 Ibidem Jean-Arnault Dérens, “Kosovo : l’indépendance dès 2006”, Le Courrier des Balkans (26/1/2005) 312 Ibidem 313 Davide Sighele, “Kosovo: indipendenza nel 2006?”, Osservatorio sui Balcani (27/1/2005) 311 179 suggerisce che “la vera chiave di volta non può che rimanere l’Unione europea”.314. In conclusione, si ritiene – a parere dell’autore di questa tesi – che le critiche avanzate dai vari gruppi di studio al rapporto dell’ICG siano complessivamente condivisibili. Tale rapporto ha certamente avuto il pregio di fotografare una realtà in crisi senza false ipocrisie, denunciando i rischi di un’inattività della politica internazionale. Tuttavia, si ritiene che l’ICG, nel porre grande – e meritata - attenzione alla situazione attuale, abbia perso di vista i rischi di lungo periodo di una politica unilaterale che lascerebbe in eredità una Belgrado animata da un forte sentimento di rancore e da una pericolosa volontà di rivalsa. Inoltre, non si dovrebbero assolutamente sottovalutare i rischi globali di una tale politica: è praticamente certo che nell’immediato Russia e Cina – se escluse dal processo di decisione e soprattutto se lasciate “a mani vuote” – non farebbero nulla per difendere la causa serba (certo né Russia né Cina potrebbero mai essere interessate ad un conflitto per “un Kosovo serbo”!). Tuttavia nel lungo periodo, non è detto quali effetti potrebbe avere una tale politica a livello delle relazioni tra questi stati. 314 Per il tema del ruolo dell’UE nella soluzione della questione dello status kosovaro si rimanda al quarto paragrafo di questo capitolo. 180 4. L’Europa come chiave di volta (la proposta della Commissione Internazionale sui Balcani) In questa sezione si vuole analizzare il tema del ruolo dell’Unione europea nel futuro del Kosovo, o meglio del ruolo che - secondo alcuni osservatori internazionali - l’Europa dovrebbe svolgere. La necessità di un maggiore impegno dell’Europa nell’area balcanica è stato il leitmotiv delle proposte di Osservatorio sui Balcani per la soluzione della crisi dell’ex-Jugoslavia. Nel corso del convegno organizzato lo scorso dicembre a Venezia, Michele Nardelli ha avuto modo di rilanciare la sua proposta di un Kosovo “regione d’Europa”. L’idea di Nardelli appartiene a quella tradizione di federalismo europeo, di un’Europa delle regioni - e non degli stati - nella quale “l’orizzonte europeo è la naturale finalità della regione balcanica”. 315 Secondo Nardelli, l’indipendenza del Kosovo “rappresenterebbe la vittoria di qualcuno e la sconfitta di qualcun altro e non la soluzione politica di una controversia”. Ecco perché il Kosovo costituisce per l’Europa una scommessa, la possibilità di “superare definitivamente il Novecento e il concetto di Stato-Nazione”, sostituendo al concetto di “autodeterminazione” quello di “autogo verno”, “che non presuppone la determinazione dello Stato come forma di governo”. E allora Nardelli propone che il Kosovo divenga “la prima regione europea, uno status che la politica potrebbe costruire anche precedendo la dimensione giuridica” in cui “l’ancoraggio europeo possa rappresentare uno scenario nuovo con leggi europee, passaporto europeo, forte governo locale nel rispetto delle minoranze e della tradizione politico- 315 Sono le parole di Nardelli al Convegno intitolato “Vivere senza futuro? L’Europa tra amministrazione internazionale e autogoverno: i casi di Bosnia Erzegovina e Kossovo ”, organizzato da Osservatorio sui Balcani a Venezia il 3-4 dicembre 2004. (Convegno cui – come già detto - l’autore di questa tesi ha avuto modo di partecipare). 181 culturale dell’Europa, coniugando la dimensione ‘globale’ con quella ‘locale’ all’interno di un orizzonte europeo”.316 Si tratta di un progetto molto affascinante, certamente auspicabile. Ma probabilmente eccessivamente dottrinale. Utopistico, se preso in parola. Tuttavia, si ritiene che la forza di un tale appello possa essere pienamente colta quando esso sia spogliato delle sue caratteristiche – per così dire – di “provocazione”. Leggendo gli articoli di altri collaboratori di Osservatorio, si coglie il senso della proposta se collegata ad un Kosovo che sembra procedere – a meno di colpi di scena – verso l’indipendenza. E allora la vera chiave di volta è davvero l’Unione europea. Aveva ragione Davide Sighele quando diceva che l’Unione doveva dare “un segnale politico forte ed avviare, al più presto, con la Serbia e il Montenegro, il processo di allargamento”, e aggiungeva “la carota è ancora gustosa, ma bisogna iniziare a farla assaggiare”.317 In effetti, con la recente approvazione dello studio di fattibilità sulla Serbia-Montenegro da parte del suo Consiglio dei Ministri, l’Unione sembra proprio andare in quella direzione. Non è detto che l’integrazione europea sarà sufficiente ad ottenere il consenso della Serbia ad un’eventuale indipendenza del Kosovo. Tuttavia si condivide l’idea che solo in un contesto integrativo “la differenza tra un’indipendenza fortemente condizionata ed un’autonomia molto calcata potrebbe iniziare a diminuire nelle teste dei cittadini di Serbia e Kosovo”.318 Recentemente il tema dell’integrazione europea della regione balcanica è stato rilanciato dall’influente “Commissione Internazionale sui Balcani”, presieduta da Giuliano Amato e caratterizzata da una composizione fortemente multietnica, con rappresentanti dei paesi balcanici, nonché di vari paesi occidentali.319 316 Ibidem Davide Sighele, “Kosovo: indipendenza nel 2006?”, Osservatorio sui Balcani (27/1/2005) 318 Ibidem 319 Si tratta di una commissione indipendente lanciata da alcune fondazioni europee e statunitensi: the Robert Bosh Foundation, the German Marshall Fund of the United States, the King Baudouin 317 182 Dopo aver evocato l’attentato di Sarajevo del 1914 e i padri fondatori dell’Unione europea - Robert Schuman e Jean Monnet - il documento apre con un aneddoto, esemplificativo della prospettiva con cui i membri della Commissione hanno affrontato il loro studio: “nei primi giorni dell’assedio di Sarajevo a metà anni ’90, una fotografia delle mura del palazzo semidistrutto delle Poste della città aveva catturato l’immaginazione del mondo. Sulla facciata apparivano tre scritte: la prima, Questa è Serbia; poco sotto, Questa è Bosnia; ancor più giù, Idioti, questa è la Posta. In fondo, uno storico europeo del presente aveva aggiunto il suo commento: Questa è Europa”.320 La linea “Questa è Europa” incarna l’imperativo morale dell’Europa di superare l’eredità della guerra e della distruzione nei Balcani. Tuttavia, esiste anche un obbligo di natura diversa, legato alla sicurezza: “l’instabilità politica nei Balcani minaccia l’Europa con la prospettiva di conflitti militari infiniti, di flussi costanti di immigrati e del prosperare di reti criminali e mette in pericolo – in ultima analisi – la credibilità stessa dell’UE nel mondo”. La Commissione lancia dunque il suo allarme: “la regione è altrettanto vicina al successo, quanto al fallimento”. In effetti, nonostante l’enorme impegno in termini di aiuti economici, di risorse umane e di buona volontà, la Comunità internazionale non è riuscita ad offrire una prospettiva convincente alle società della regione. Dunque, il dato di partenza 321 è che lo status quo è non solo è insostenibile, ma rischierebbe di guidare la regione verso un nuovo periodo di pericolosa instabilità. Vi sono tre ragioni per cui lo status quo è insostenibile: primo, perché gli stessi cittadini dei Balcani lo percepiscono come tale; secondo, perché finirà per aumentare il “gap” economico e sociale di questi paesi con quelli dell’area che hanno già aderito all’UE, nonché con la Bulgaria e la Romania; terzo, è impossibile guidare la regione verso la prosperità e la Foundation and the Charles Steward Mott Foundation. I membri della Commissione sono 17 “decision-makers”, di fama internazionale. 320 International Commission on the Balkans, “The Balkans in Europe’s Future” (aprile 2005) 321 Dato che accomuna tutte le analisi che eme rgono in questo periodo. (Anche l’International Crisis Group partiva da tale presupposto nel delineare la propria proposta). 183 stabilità senza avviare un processo integrativo (e lo status quo costituisce un palese ostacolo a tale processo). Ad oggi, si corre il rischio di un’esplosione del Kosovo, un’implosione della Serbia e di nuove fratture nelle fondamenta di Bosnia e Macedonia. A questo punto – e qui il rapporto diventa propositivo – “la questione oggi non è più: cosa dovremmo fare?”. E’ chiaro che l’unica prospettiva politica reale è quella di “portare la regione nell’Unione europea”. Di fatto, esistono due sole alternative: l’Unione può abbracciare la via dell’integrazione (e allora i Balcani diverranno parte dell’Europa). Oppure può riservarsi un ruolo da “potenza coloniale a capo di un impero” (e allora i Balcani diverranno un ghetto ai margini dell’Europa). Prima di passare alla proposta sullo status del Kosovo, chiudiamo l’analisi del quadro complessivo disegnato dalla Commissione per tutta la Penisola Balcanica. A parere della Commissione, l’assunto che lo sviluppo economico avrebbe moderato le pressioni per la soluzione delle questioni ancora aperte sullo status si è dimostrato fallimentare. I Balcani hanno bisogno di politiche economiche, ma anche di politiche “costituzionali”. La strategia della Comunità internazionale deve fondarsi su due pilastri, l’UE e la NATO. Per quanto riguarda l’integrazione europea, la Commissione propone un piano in tre fasi: entro l’autunno 2006, l’UE dovrebbe organizzare un Summit per la presentazione di una “accession road map” per ciascun paese dei Balcani; tra il 2009/2010 questi paesi potrebbero iniziare i negoziati di ingresso; l’obiettivo della piena integrazione potrebbe essere raggiunto nell’estate del 2014.322 Nel frattempo, per evitare che i Balcani diventino il 322 Da notare che si tratterebbe di una data fortemente simbolica, se collegata con il 1914. Allora, come sostiene il Presidente della Commissione Giuliano Amato nell’introduzione al report, “l’Europa dovrebbe dimostrare che un nuovo secolo europeo è arrivato”. 184 buco nero d’Europa sarebbe saggio abbattere il muro di Schengen con una nuova e più elastica politica dei visti.323 Per quanto riguarda l’integrazione nella NATO, il report sottolinea che – paradossalmente – l’integrazione atlantica rappresenta “l’unico strumento disponibile per la smilitarizzazione di questa parte d’Europa altamente militarizzata”. Rispetto al Kosovo, le considerazioni della Commissione sono molto dure: “il tempo sta scadendo 324 e la Comunità internazionale ha chiaramente fallito nel suo impegno per portare sicurezza e sviluppo alla provincia. Un Kosovo multietnico non esiste, se non nelle valutazioni burocratiche della Comunità internazionale”. Si tratta di un giudizio molto duro, ma realistico. Le critiche nei confronti dell’UNMIK sono pesanti: “gli eventi del marzo 2004 sono stati il più forte segnale che la situazione potrebbe esplodere. Da allora l’UNMIK non ha avuto né la capacità né il coraggio per invertire questo ‘trend’. (…) Il fallimento dell’UNMIK può essere spiegato, ma non tollerato”. E ancora: “la condizione della minoranza serba costituisce la più grande accusa contro la volontà e la capacità dell’Europa di difendere i suoi tanto proclamati valori”. Per quanto riguarda lo status, ai kosovaro-albanesi dovrebbe essere fatto arrivare il messaggio che la violenza è il peggior nemico dei loro progetti di indipendenza. D’altra parte, la comunità serbo-kosovara è divenuta ostaggio delle lotte politiche tipiche della Belgrado di questi anni. La realtà è quella di una popolazione che in larga maggioranza vorrebbe vivere in un “Kosovo etnicamente omogeneo” e di una classe politica che non fa nulla per opporsi a questo atteggiamento.325 323 Il report, tra le altre cose, propone la creazione di una sorta di progetto Erasmus per i Balcani, dando la possibilità a 150 mila studenti dei Balcani di studiare, per un determinato periodo, presso le università europee (c.d. “Balkan Student Visa Programme”). 324 Da notare che la Commissione utilizza esattamente la stessa formula utilizzata dal report dell’ICG: “Time is running out in Kosovo”. 325 Interessante è, in questo senso, il grafico n. 22 del report in base al quale si evince che il 72% dei kosovari sarebbe favorevole ad una ridefinizione, sotto gli auspici della Comunità internazionale, dei confini territoriali nella ex-Jugoslavia, in modo tale che ciascuna ampia maggioranza potesse vivere in uno Stato a sé. 185 Dal punto di vista economico non c’è alcun progresso, con un tasso di disoccupazione che si attesta al 60-70% (e arriva al 90% tra le minoranze). La vita quotidiana di molti villaggi è immobilizzata da blackout elettrici continui, con comunità private dell’elettricità a volte per più di un mese. A questo punto, sostiene la Commissione, “posporre i dialoghi sullo status potrebbe soltanto peggiorare la situazione della provincia”. Tuttavia “il problema principale non è l’indipendenza di per sé, ma il modo in cui ci si vuole arrivare”. Qui si inserisce un punto fondamentale, che distanzia – e di molto – la posizione della Commissione da quella dell’ICG: secondo la prima difatti “l’indipendenza non può essere imposta a Belgrado”.326 E questo non solo perché ciò sarebbe “indesiderabile”, ma perché sarebbe probabilmente anche impossibile visto che alcuni membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non sarebbero favorevoli. Dunque, nella prospettiva della Commissione – a differenza di quella dell’ICG – le Nazioni Unite dovrebbero assumere un ruolo fondamentale nella determinazione dello status del Kosovo. Fatta questa premessa, le ricerche della Commissione hanno dimostrato che l’incubo in base al quale l’indipendenza del Kosovo provocherebbe automaticamente la disintegrazione della Bosnia, con il distacco della Repubblica Srpska dalla federazione, appare oggi irrealistico. Secondo le interviste fatte dalla Commisione, la maggior parte dei serbi di Serbia e la metà di quelli di Bosnia percepisce la separazione della Repubblica Srpska come “indesiderabile e improbabile”. Paradossalmente gli unici ad aver risposto in senso positivo alla domanda sono stati gli albanesi d’Albania e di Kosovo.327 326 Nel caso in cui una decisione fosse imposta a Belgrado, aumenterebbe il rischio di veder scoppiare nuovi disordini in altre zone dei Balcani (Bosnia, Macedonia o Montenegro). 327 Il grafico n. 5 annesso al report della Commissione, su una scala da 1 a 10 (in cui 1 vuol dire molto negativo e molto improbabile e 10 molto positivo e molto probabile) l’ipotesi del distacco della Repubblica Srpska è valutata dai cittadini serbi al livello 4, e da quelli “bosniaci” a livello 3. Diversa la valutazione dei kosovari e degli albanesi, la cui opinione si attesta circa al livello 5-6 (quindi più positiva che negativa). 186 Rispetto al tema di una possibile unione del Kosovo con l’Albania, le statistiche della Commissione indicano che la popolazione kosovara e, in percentuale minore, quella albanese sarebbero favorevoli a questa ipotesi.328 Tuttavia - come visto nel capitolo precedente – pur con una popolazione sentimentalmente favorevole ad una unificazione, entrambe le classi dirigenti non hanno assolutamente intenzione di rimettere in discussione i confini dei propri territori. Ad ogni modo, la Commissione suggerisce di inviare in modo chiaro il messaggio che “Greater Albania or Greater Kosovo is not an option”. Dunque, qual è la proposta della Commissione? Prima di tutto, è necessario avviare i dialoghi tra Belgrado e Pristina, in un processo che deve essere guidato dalla Comunità internazionale (visto che è altamente improbabile, se non impossibile, che i protagonisti possano trovare - da soli – una soluzione). Il punto centrale di questo negoziato dovrebbe essere la ricerca di “incentivi reali da offrire alla Serbia, in modo da renderle accettabile la prospettiva di un Kosovo indipendente e futuro membro dell’UE”. L’opinione della Commissione è che persuadere Belgrado è certamente difficile, “ma non impossibile” e che “il processo di integrazione nell’UE può fornire gli incentivi giusti”. Una volta ottenuto il consenso di Belgrado, l’indipendenza del Kosovo dovrebbe essere raggiunta in quattro fasi. • Separazione de facto del Kosovo dalla Serbia. In realtà, secondo la Commissione, questa fase è implicita nella Risoluzione 1244, che trasforma il Kosovo in un “protettorato delle Nazioni Unite”. In questo senso, “l’idea che il Kosovo possa in futuro tornare sotto il governo di Belgrado rappresenta una pericolosa illusione”. 328 Su una scala identica a quella del grafico precedente, alla domanda “L’unione dell’Albania con il Kosovo sarebbe un fenomeno negativo o positivo per il tuo paese? Quanto è probabile?”, le risposte dei kosovari e degli albanesi si attestano rispettivamente al livello 7 e 5-6 per quanto riguarda la “desiderabilità”, e al 5 -6 per la “probabilità”. In senso totalmente opposto si evidenziano le valutazioni dei macedoni, montenegrini, bosniaci e ovviamente dei serbi. 187 • Indipendenza senza piena sovranità. Entro il 2005/2006, il Kosovo dovrebbe essere riconosciuto quale “entità indipendente in cui tuttavia la Comunità internazionale conserva poteri nel campo dei diritti umani e della protezione delle minoranze”. La Commissione suggerisce inoltre che il maggior impegno dell’UE nei Balcani da essa auspicato si concretizzi in un trasferimento di poteri dall’UNMIK alla stessa Unione europea, mentre la KFOR dovrebbe conservare il suo mandato.329 In sostanza, il Kosovo dovrebbe essere trattato come un’entità indipendente - anche se non ancora sovrana – cui sia data la possibilità di sviluppare forme proprie di autogoverno, nel senso che tutte le funzioni attualmente svolte dall’UNMIK o dalla KFOR (tutte tranne quelle riguardanti i diritti umani e la protezione delle minoranze)330 dovrebbero essere trasferite nelle mani del governo kosovaro. In pratica, la Commissione chiede il passaggio da una politica di “standards before status” ad una di “standards and status”. In questa fase, due questioni fondamentali dovrebbero trovare soluzione: primo, l’istituzione di uno status speciale per i monasteri serbi del Kosovo . Secondo, un sistema speciale di amministrazione per la zona di Mitrovica (probabilmente modellato sull’esempio dell’UNTAES nella Slavonia Orientale) dovrebbe riuscire nell’opera di escludere una divisione del Kosovo. La Commissione suggerisce l’avvio di una operazione di risoluzione delle dispute sulla proprietà privata e pubblica, nonché l’organizzazione di un censimento, sotto la supervisione internazionale. Tale censimento avrebbe il valore di condizione necessaria all’avvio di qualsiasi programma di decentramento, che a sua volta dovrebbe garantire reali capacità di autogoverno ai serbi che oggi abitano le enclave del 329 “(…)e la sua dimensione”. Dunque, la Commissione sarebbe contraria ad una riduzione dell’impegno della NATO, almeno in questa fase. 330 Tra l’altro le aree del rispetto dei diritti umani e della protezione delle minoranze sono essenziali al rispetto dei criteri di Copenhagen. 188 Kosovo. Per quanto riguarda il problema dei ritorni, il report giudica improbabile la possibilità di un ritorno di massa; tuttavia, la politica dei ritorni dovrebbe essere modellata sull’esempio di quella applicata in Bosnia. La chiave di volta di questa seconda fase dovrebbe essere l’impegno – oltre che dell’UE – anche degli Stati Uniti e questo perché gli albanesi vedono negli americani i garanti della propria indipendenza, per cui un disimpegno statunitense potrebbe provocare l’emergere di nuovi problemi. • Sovranità guidata. Il Kosovo diviene candidato ufficiale alla membership europea e vengono avviati i negoziati con Bruxelles. In questa fase, l’UE dovrebbe quindi perdere i poteri ad essa riservati nella fase precedente, iniziando ad esercitare la propria influenza solamente attraverso i negoziati per l’integrazione. • Sovranità piena, ma condivisa. Il Kosovo entra nell’Unione europea, con le conseguenze in termini di condivisione della propria sovranità che sono tipiche della membership europea. La quattro fasi delineate sono da intendersi parte integrante di un più ampio processo di integrazione dei Balcani nell’UE.331 In questo senso, la 331 L’analisi della Commissione si estende anche agli altri paesi dell’area. Caratteristica comune di tutti questi paesi è – secondo il report – quella di avere costituzioni poco convincenti, che, pur se adottate con l’appoggio della Comunità Internazionale: sono fondate su criteri etnici; hanno creato stati deboli, internamente divisi e con forti intrusioni internazionali; sono state firmate da elite armate senza il consenso delle popolazioni. Senza entrare nel dettaglio, si può dire che il piano della Commissione prevede: 1) per la Bosnia, il passaggio dell’autorità dall’ “Office of High Rappresentative” ad un nuovo “EU Accession Negotiator”, il che implicherebbe in sostanza un passaggio sintetizzato nella formula “da Bonn a Brussels”. Inoltre si suggerisce l’adesione della Bosnia al progetto “Partnership for Peace” della NATO. 2) per la Serbia e Montenegro l’invito è quello ad organizzare un referendum per permettere ai cittadini di scegliere tra una “functional federation” e una “functional separation” . Inoltre la Serbia e Montenegro dovrebbe invitata a partecipare al programma “Partnership for Peace”, nonché ad avviare il percorso di integrazione nell’UE. 3) anche la Macedonia, dopo il successo degli accordi di Ohrid, dovrebbe entrare a pieno titolo nel processo di integrazione euro-atlantica. Tuttavia, occorre porre notevole attenzione a due importanti questioni: la disputa sul nome della Repubblica e quella sui confini con il Kosovo. 4) la Croazia potrebbe essere inviata ad unirsi alla NATO già dall’estate del 2006. 5) anche l’Albania, visto il contributo dato da questo paese alla stabilità dell’intera regione, dovrebbe essere coinvolta nel processo di integrazione euro-atlantica già dall’estate 2006. Per la realizzazione del piano descritto per l’area balcanica, la Commissione sollecita un ruolo attivo del governo statunitense, nella convinzione 189 Commissione sottolinea l’importanza di un percorso di integrazione accelerato per la Serbia (considerato addirittura conditio sine qua non) , cui deve essere affiancato un sistema di garanzie internazionali per la protezione dei serbi del Kosovo. La prospettiva della Commissione – è bene ripeterlo – è che solo l’integrazione nell’UE capace di dare alla Serbia quegli incentivi reali affinché essa possa, se non approvare, quanto meno consentire l’indipendenza del Kosovo. Per quanto riguarda il governo italiano, la sua posizione – ad oggi – appare in linea con il rapporto della Commissione Internazionale sui Balcani. Il Ministro degli Esteri Fini è difatti intervenuto nel dibattito sullo status del Kosovo, sostenendo che “forgiare un’identità ed una prospettiva comune per i Balcani è una responsabilità alla quale l’Europa non può sottrarsi” e “prendere su di sé questa responsabilità significa innanzitutto impegnarsi a superare la fase transitoria in cui (…) i Balcani ancora si trovano”. Dunque, l’Italia – per voce del suo ministro – dà pieno sostegno alla prospettiva europea per i Balcani, perché “se è vero che il futuro dei Balcani è in Europa, è altrettanto vero che negli stessi Balcani è anche il futuro di questa nostra Europa”. Per quanto riguarda il futuro del Kosovo, Fini non suggerisce una possibile soluzione, preferendo porre l’accento sulla necessità di trovare il consenso delle parti coinvolte.332 che solamente una politica coordinata UE-USA possa essere in grado di far recuperare alla regione balcanica il gap che la distanzia dall’UE. 332 Gianfranco Fini, “Il futuro del Kosovo: Balcani la via europea”, Corriere della Sera, (30/4/2005) 190 5. Una proposta di divisione In questo paragrafo si vuole analizzare un ultimo possibile scenario per la soluzione della questione “status”: la divisione del Kosovo così come proposta dallo storico Roberto Morozzo della Rocca. Morozzo della Rocca parte dal presupposto che occorre trovare una soluzione accettabile per Belgrado (un presupposto che accomuna le analisi di numerosi osservatori internazionali, non ultima quella della Commissione Internazionale sui Balcani). La ricerca del consenso è prima di tutto fondamentale per la sicurezza e lo sviluppo dello stesso Kosovo. Nel momento in cui non si riuscisse ad ottenere un’intesa con Belgrado, la popolazione kosovaro-albanese percepirebbe come costante la minaccia di una nuova invasione da parte di Belgrado e per questo motivo perseguiterebbe nella politica di creazione di un Kosovo etnicamente omogeneo. D’altra parte, l’accordo con Belgrado non solo avrebbe probabilmente effetti positivi sulla crescita demografica albanese (magari riuscendo a portare la natalità a livelli “più europei”) e potrebbe avere conseguenze benefiche anche nella vita quotidiana, qualora si riuscisse a pervenire ad una soluzione delle controversie sulla proprietà pubblica e privata.333 Nel lungo periodo, inoltre, una soluzione imposta a Belgrado – così come proposto dall’ICG – avrebbe l’effetto di “tenere aperta indefinitamente una questione Kosovo”. L’analisi di Morozzo della Rocca è in questo senso molto schietta: “Un ritorno offensivo dei serbi sarebbe sempre possibile. E’ nella loro mentalità sperarlo. Basta immaginare, fra qualche anno, uno scenario in cui le potenze del pianeta siano distratte da altri problemi che non un angolino dei Balcani da difendere, ed in cui a Belgrado andassero i radicali 333 In questo senso, Morozzo della Rocca ricorda che il catasto e l’anagrafe del Kosovo sono tuttora gelosamente custoditi in Serbia. Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America, ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 191 di Seselj”.334 Dunque, “Ad un Kosovo indipendente conviene premunirsi dagli aggressori, non sfidarli”. Occorre quindi analizzare quali sono i terreni sui quali è possibile trovare il consenso di Belgrado. Abbiamo visto nel capitolo precedente che la posizione della classe politica serba è riassumibile nella formula “more than autonomy, but less than indipendence”. Tuttavia, la possibilità che i serbi possano ripristinare la propria sovranità sul Kosovo appare totalmente irrealistica. A causa di un fattore incontestabile: “Per possedere una terra occorre abitarla”.335 Di fatto, secondo l’analisi dello storico, alcuni settori della società serba hanno già rinunciato all’idea di riprendere il Kosovo e la stessa Chiesa ortodossa sembra concentrarsi solo sul problema di come salvare i monasteri più antichi. Anche il piano di cantonizzazione e/o decentramento proposto dai serbi è totalmente “irrealistico” e serve a Belgrado solo per presentarsi al tavolo delle trattative con un progetto forte. Di fondo resta che dovrà essere la Comunità internazionale ad offrire alla Serbia una “compensazione” tale da farle accettare la perdita del Kosovo. In base a questa consapevolezza, al fatto che “ogni accordo è un do ut des”, Morozzo della Rocca fa la sua proposta: separare la striscia settentrionale del Kosovo – quella a nord della città di Mitrovica - per darla alla Serbia. Secondo l’autore si tratterebbe di “un’atto di giustizia storica, nel momento in cui, altrettanto giustamente, si assegnasse la gran parte del Kosovo agli albanesi”.336 La proposta di una divisione è venuta anche da un personaggio certamente non vicino, per formazione culturale, allo storico italiano. Si tratta di Dobrica Cosic, la guida intellettuale del nazionalismo serbo degli anni ’80-’90, uno degli autori del famoso Memorandum serbo. Cosic ha recentemente pubblicato 334 E aggiunge: “se l’11 settembre fosse venuto nel 1998 anziché nel 2001 probabilmente nel 1999 nessuno sarebbe andato a fare la guerra a Milosevic” Ibidem 335 Ibidem 336 Ibidem 192 un libro, intitolato semplicemente “Kosovo”, in cui sostiene che la provincia rappresenta un peso demografico, economico e politico che la Serbia non potrebbe sopportare e dunque il ritorno dell’intero territorio del Kosovo e Metohija dentro lo Stato serbo rappresenterebbe “un cancro”. Cosic, ponendo particolare attenzione sulla necessità di un negoziato pacifico, propone una divisione del Kosovo. Il fatto che a suggerire una divisione sia un (ex) esponente del nazionalismo serbo, avvalora la tesi secondo cui un progetto di divisione potrebbe – probabilmente - ottenere il consenso della società serba, e perfino di alcune sue frange estremiste. Dal punto di vista geografico, uno scenario di divisione sembra possibile solo se si intendesse distaccare la regione del nord del Kosovo, così come proposto da Morozzo della Rocca. E questo per due motivi: primo, i due terzi dei serbo-kosovari sono attualmente concentrarti proprio nella zona a nord di Mitrovica; secondo, questa parte del Kosovo confina direttamente con lo Stato serbo, e quindi sarebbe più facilmente “controllabile” da Belgrado. Con un ragionamento speculare, si deve invece escludere l’ipotesi di assegnare alla Serbia le terre in cui sono presenti i più importanti monasteri ortodossi: Pec, Decani, Prizren e Gracanica. Prima di tutto si tratta di terre centrali, che non confinano con la Serbia; e poi – soprattutto – sono terre abitate da albanesi in una proporzione schiacciante. Perciò, ricordando l’assunto per cui “per possedere una terra occorre abitarla”, sarebbe impensabile affidarle a Belgrado. Tuttavia, anche il progetto di distaccare la zona a nord di Mitrovica nasconde dei lati oscuri. Difatti, in questa zona si trovano le miniere della Trepca che, pur se attualmente in disuso, potrebbero rappresentare uno dei pochi strumenti validi per il rilancio dell’economia kosovara. Inoltre, la Comunità internazionale appare contraria a qualsiasi ulteriore modifica dei confini del Kosovo, per paura che una tale operazione possa innescare una sorta di effetto domino, dando forza a vecchi e nuovi irredentismi interessati alla modifica dei 193 confini in molte regioni dei Balcani. D’altra parte, alcuni osservatori internazionali – come l’ICG – sostengono che una soluzione di questo tipo rischierebbe di essere controproducente rispetto al tentativo di creare un clima di pacifica convive nza tra le etnie. Lo storico Noel Malcolm, ai tempi della guerra del ’99, tacciava di ipocrisia le proposte di divisione, che – a suo parere – avrebbero compensato la politica del terrore di Milosevic, il cui interesse primario risiedeva proprio sulle miniere della Trepca. Tuttavia - da allora - nel nord del Kosovo si sono effettivamente concentrati i due terzi dei serbo-kosovari. Di fatto, una soluzione di questo tipo avrebbe dunque una sua logica. La Comunità internazionale pretende di negoziare il consenso della Serbia con un processo di integrazione accelerato nell’UE. Ma i serbi hanno più volte sottolineato di considerare tale proposta un mero ricatto poltico. E allora, forse occorrerebbe realisticamente riflettere sul valore che il Kosovo ha nell’autocoscienza popolare serba e che una classe politica che ha costruito tutto sul nazionalismo ha bisogno – per accettare un compromesso, o forse una “sconfitta” - di qualcosa che sia “spendibile sul piano della propaganda interna”. Questo spiega perché l’argomento della perdita del Kosovo è un vero e proprio tabù nei circoli politici serbi: qualunque politico che accettasse pubblicamente la perdita tout court del Kosovo metterebbe in un sol colpo fine alla propria carriera politica. Ecco, forse, la proposta di una divisione avrebbe il pregio di essere “più spendibile”, “più accattivante” di fronte ad una società quale quella serba. Resta però un punto fondamentale: lo scopo di una divisione sarebbe quello di trovare una soluzione duratura, anche nel lungo periodo. Ma perché ciò accada è necessario il consenso di entrambe le parti. E qui il ragionamento si inverte rispetto a quanto detto finora: è vero che i serbi sarebbero probabilmente favorevoli ad uno scenario di questi tipo. Ciò che non è assolutamente implicito, è che lo siano gli albanesi. E questo passaggio chiude il cerchio: gli albanesi percepiscono l’indipendenza come l’unica soluzione possibile, e soprattutto credono – in parte perché così gli è stato fatto credere – 194 che l’Occidente sia dalla loro parte. Detto questo, ai loro occhi, la perdita del nord del Kosovo sarebbe “illogica”. Forse – come suggerisce Morozzo della Rocca – gli albanesi dovrebbero essere capaci di “accettare un simile accomodamento in cambio della pace avvenire”. Ma nulla è detto, perché - come sottolinea lo storico - “purtroppo i balcanici, albanesi o serbi che siano, considerano spesso i compromessi come delle sconfitte”.337 337 Roberto Morozzo della Rocca, “Il Kosovo vuole l’America, ma l’America non pensa il Kosovo”, LIMES L’agenda di Bush, n. 1 del 2005 195 SCHEMA: SCENARI E PROPOSTE DELINEATI DAI PRINCIPALI OSSERVATORI INTERNAZIONALI 196 Conclusioni Per l’importanza geopolitica che riveste, il dibattito sullo status futuro del Kosovo appare capace di catalizzare le attenzioni del mondo politicodiplomatico e di quello intellettuale, con numerosi esperti e gruppi di studio che quotidianamente pubblicano analisi, studi e report. Di fatto, la sensazione è quella di essere alla vigilia di un processo che dovrebbe finalmente dare a questo territorio un assetto definitivo. La Comunità internazionale ha intrapreso in modo deciso la strada per la definizione di una soluzione che faccia uscire il Kosovo da quella stasi che l’ha costretto in un limbo per quasi sei anni. Il presupposto di tutte le analisi e di tutte le proposte è che lo status quo sia ormai insostenibile. Forte di questa consapevolezza, la Comunità internazionale sembra aver già fissato le tappe fondamentali di un delicato negoziato. La prima scadenza riguarda la questione degli standard di democrazia: entro l’estate 2005, infatti, dovrebbe svolgersi la verifica dei risultati raggiunti dalle istituzioni e dalla società civile kosovara rispetto agli standard fissati nel dicembre 2003. E’ previsto che tale indagine, della durata di 6-8 settimane, si concluda con la pubblicazione di un rapporto di valutazione definitiva sui progressi fatti rispetto al programma “standards before status”. Nonostante il fatto che – come sottolineato più volte in questa tesi - si sia ancora lontani dal raggiungimento degli obiettivi posti, tutto sembra far presagire che tale valutazione sarà positiva. Se così fosse, sarebbero immediatamente aperte le trattative sullo status. Per quanto riguarda il negoziato, l’unica certezza è che verrà guidato dalla Comunità internazionale, poiché le autorità serbe e quelle kosovare appaiono incapaci di gestire da sole un così difficile processo. Tim Judah, dalle colonne dell’International War & Peace Report, ipotizza il seguente scenario: nomina da parte del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan di un proprio inviato che, da 197 settembre, inizierebbe a mediare tra Pristina e Belgrado. L’inviato in questione potrebbe – ma si tratta di un aspetto ancora in fase di discussione – essere affiancato da tre vice, rispettivamente in rappresentanza dell’UE, degli USA e della Russia. Negli ambienti diplomatici, la durata complessiva dei negoziati è stimata intorno ai 6-9 mesi. Queste le ultime notizie riguardo gli aspetti formali e l’organizzazione del negoziato. In questa tesi, dopo aver analizzato la parabola dell’escalation che ha portato alla guerra del 1999 e dopo aver valutato i risultati dell’intervento internazionale, si è scelto di porre l’attenzione proprio sull’oggetto dei negoziati che si apriranno nel prossimo futuro: lo status del Kosovo. Attraverso numerose e recenti dichiarazioni, la classe politica serba e quella kosovara confermano di essere, alla vigilia del negoziato, trincerate dietro tesi totalmente inconciliabili: gli albanesi tendono addirittura a negare la necessità di qualsiasi dialogo con Belgrado, nell’esplicita convinzione che quest’ultima non debba avere alcuna voce in capitolo sul futuro status del Kosovo. Secondo il premier kosovaro Bajram Kosumi, i “cittadini kosovari” avrebbero già fatto chiaramente la loro scelta - “l’indipendenza” - e perciò qualsiasi dialogo con Belgrado sarebbe inutile. La replica serba è sempre la stessa: la Risoluzione 1244 conferma l’integrità e la sovranità della Serbia sul Kosovo (in questo modo Belgrado tenta di presentare la propria posizione come l’unica rispettosa della legalità internazionale) e, d’altra parte, gli albanesi hanno dato prova di non potere - o di non volere - creare un Kosovo multietnico (come dimostrano le condizioni di vita della minoranza serba nelle enclavi monoetniche e il pogrom antiserbo del marzo 2004). Evitando di definire nel dettaglio la propria proposta, Belgrado ha scelto di presentarsi al tavolo delle trattative con una formula piuttosto vaga: “more than autonomy, but less than independence”. La Comunità internazionale, o meglio l’Occidente (che poi si riduce all’Unione europea e agli Stati Uniti), non ha ancora esplicitato quale sia la 198 sua posizione, anche perché non sarebbe logico arbitrare un negoziato dichiarando in partenza quale debba esserne il risultato. Ad ogni modo, dagli ambienti politico-diplomatici qualche condizione sul futuro assetto sembra essere stata posta: primo, è improponibile un ritorno alla situazione precedente al marzo 1999 (e questo Belgrado lo sa perfettamente, visto che nessun politico serbo osa prospettare un ritorno sic et simpliciter del Kosovo sotto le autorità serbe). Secondo, lo status deve essere tale da garantire il rispetto dei diritti delle molteplici minoranze del Kosovo e la tutela del patrimonio religioso-culturale della chiesa serbo-ortodossa. Terzo, i confini attuali del Kosovo sono intoccabili: appare inammissibile qualsiasi ipotesi di divisione o di unione con altri territori della regione. I più autorevoli osservatori internazionali, i cui studi sono stati in questa tesi largamente approfonditi, propongono varie soluzioni il cui minimo denominatore comune è la formula dell’indipendenza condizionata. In questo scenario, che sembra essere il più realistico, un Kosovo indipendente appare destinato, dal punto di vista geopolitico, ad occupare un posto nella New Europe di Rumsfeld, costituita da quei paesi dell’ex blocco comunista che in questi anni sono entrati nell’area di influenza geopolitica degli Stati Uniti, aderendo alle istituzioni della NATO e dell’UE. Per quanto riguarda il tema della Grande Albania, l’analisi qui condotta porta a concludere che un progetto “pan-albanese” appare oggi del tutto irrealizzabile. Non solo perché la Comunità internazionale sembra intenzionata a porre il suo veto su questo tema, ma soprattutto perché le élite albanesi dei Balcani hanno dimostrato – come da analisi qui condotta - di non avere alcun interesse a promuovere un tale programma. Ad ogni modo, si ritiene che sia fondamentale per il destino del Kosovo e dell’intera regione balcanica che il processo di definizione dello status abbia come obiettivo prioritario la ricerca di una formula capace di trovare anche il consenso di Belgrado. Sulla scorta di tale convinzione, in questa tesi si è prestata particolare attenzione al tema della ricerca del consenso, perché si 199 crede che una soluzione imposta rischierebbe di tenere aperta per sempre una “questione Kosovo”. Questa preoccupazione è stata recentemente confermata dalle dichiarazioni del presidente del Centro di Coordinamento serbo per il Kosovo-Metohija, Nebosja Covic, che ha lanciato il suo anatema: “Il Kosovo potrà essere portato via alla Serbia solo con la forza. Se così dovesse essere, nessuno avrebbe il diritto di negare alle future generazioni serbe la possibilità di recuperare ciò che appartiene loro, un domani e in circostanze diverse” . 338 E’ probabile che, dietro la durezza di queste parole, si celi il tentativo di “fare la voce grossa” per presentarsi più forti alle trattative. Tuttavia, queste minacce nascondono sempre qualcosa di tremendamente realistico nei Balcani. Nell’ultimo capitolo di questa tesi, vengono analizzate le proposte di vari gruppi di studio. L’International Crisis Group, con il suo appello per una marcia forzata verso l’indipendenza, ha dimostrato di non avere granché a cuore la stabilità dei Balcani nel lungo periodo. Tale think tank non solo propone di fatto l’avvio di un non-negoziato, il cui esito – l’indipendenza del Kosovo - debba essere fissato in partenza, ma aggiunge che la partecipazione di Belgrado non debba essere considerata indispensabile e che il riconoscimento dell’indipendenza debba venire da quegli Stati pronti a farlo, anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Altre proposte, più vicine alla prospettiva adottata dall’autore di questa tesi, pongono particolare attenzione alla questione del consenso di lungo periodo: una è la proposta dell’International Commission on the Balkans, secondo cui solo l’Unione europea sarebbe capace di offrire a Belgrado incentivi tali da farle accettare l’indipendenza del Kosovo. L’altra è un progetto dal sapore diverso: cedere alla Serbia il nord del Kosovo, abitato in maggioranza da serbo-kosovari. Pur non mancando di aspetti problematici, si ritiene che quest’ultima proposta avrebbe il vantaggio di risultare “più spendibile” sul 338 Aprile Online, “Serbia: riunione ONU su Kosovo decisiva per il futuro della regione” (28/5/2005) 200 piano della politica interna serba e, per questo, dovrebbe essere quanto meno presa in considerazione da coloro che gestiranno i negoziati. Tutte le posizioni sono state analizzate dall’autore di questa tesi. Ovviamente non è dato sapere quale possa essere la migliore o se esistano altre valide alternative, perché tutto dipenderà da come si svolgeranno le trattative e dall’atteggiamento che assumeranno i vari attori internazionali, non ultimi la Russia e la Cina, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Impossibile è anche sapere quale sarà l’esito finale di questo negoziato. Tuttavia, rimane la consapevolezza che la Comunità internazionale dimostrerebbe di essere davvero poco matura e poco saggia se decidesse di preferire una soluzione veloce e indolore (nel breve periodo!), ad una più laboriosa e difficile ma che tenga in debito conto la stabilità dei Balcani nel lungo periodo. 201 Allegato n. 1: Resolution 1244 (1999) Adopted by the Security Council at its 4011th meeting, on 10 June 1999 The Security Council, Bearing in mind the purposes and principles of the Charter of the United Nations, and the primary responsibility of the Security Council for the maintenance of international peace and security, Recalling its resolutions 1160 (1998) of 31 March 1998, 1199 (1998) of 23 September 1998, 1203 (1998) of 24 October 1998 and 1239 (1999) of 14 May 1999, Regretting that there has not been full compliance with the requirements of these resolutions, Determined to resolve the grave humanitarian situation in Kosovo, Federal Republic of Yugoslavia, and to provide for the safe and free return of all refugees and displaced persons to their homes, Condemning all acts of violence against the Kosovo population as well as all terrorist acts by any party, Recalling the statement made by the Secretary-General on 9 April 1999, expressing concern at the humanitarian tragedy taking place in Kosovo, Reaffirming the right of all refugees and displaced persons to return to their homes in safety, Recalling the jurisdiction and the mandate of the International Tribunal for the Former Yugoslavia, Welcoming the general principles on a political solution to the Kosovo crisis adopted on 6 May 1999 (S/1999/516, annex 1 to this resolution) and welcoming also the acceptance by the Federal Republic of Yugoslavia of the principles set forth in points 1 to 9 of the paper presented in Belgrade on 2 June 1999 (S/1999/649, annex 2 to this resolution), and the Federal Republic of Yugoslavia's agreement to that paper, 202 Reaffirming the commitment of all Member States to the sovereignty and territorial integrity of the Federal Republic of Yugoslavia and the other States of the region, as set out in the Helsinki Final Act and annex 2, Reaffirming the call in previous resolutions for substantial autonomy and meaningful self-administration for Kosovo, Determining that the situation in the region continues to constitute a threat to international peace and security, Determined to ensure the safety and security of international personnel and the implementation by all concerned of their responsibilities under the present resolution, and acting for these purposes under Chapter VII of the Charter of the United Nations, 1. Decides that a political solution to the Kosovo crisis shall be based on the general principles in annex 1 and as further elaborated in the principles and other required elements in annex 2; 2. Welcomes the acceptance by the Federal Republic of Yugoslavia of the principles and other required elements referred to in paragraph 1 above, and demands the full cooperation of the Federal Republic of Yugoslavia in their rapid implementation; 3. Demands in particular that the Federal Republic of Yugoslavia put an immediate and verifiable end to violence and repression in Kosovo, and begin and complete verifiable phased withdrawal from Kosovo of all military, police and paramilitary forces according to a rapid timetable, with which the deployment of the international security presence in Kosovo will be synchronized; 4. Confirms that after the withdrawal an agreed number of Yugoslav and Serb military and police personnel will be permitted to return to Kosovo to perform the functions in accordance with annex 2; 5. Decides on the deployment in Kosovo, under United Nations auspices, of international civil and security presences, with appropriate equipment and personnel as required, and welcomes the agreement of the Federal Republic of Yugoslavia to such presences; 6. Requests the Secretary-General to appoint, in consultation with the Security Council, a Special Representative to control the implementation of the international civil presence, and further requests the Secretary-General to instruct his Special Representative to coordinate closely with the international security presence to ensure that both presences operate towards the same goals and in a mutually supportive manner; 7. Authorizes Member States and relevant international organizations to establish the international security presence in Kosovo as set out in 203 point 4 of annex 2 with all necessary means to fulfil its responsibilities under paragraph 9 below; 8. Affirms the need for the rapid early deployment of effective international civil and security presences to Kosovo, and demands that the parties cooperate fully in their deployment; 9. Decides that the responsibilities of the international security presence to be deployed and acting in Kosovo will include: a. Deterring renewed hostilities, maintaining and where necessary enforcing a ceasefire, and ensuring the withdrawal and preventing the return into Kosovo of Federal and Republic military, police and paramilitary forces, except as provided in point 6 of annex 2; b. Demilitarizing the Kosovo Liberation Army (KLA) and other armed Kosovo Albanian groups as required in paragraph 15 below; c. Establishing a secure environment in which refugees and displaced persons can return home in safety, the international civil presence can operate, a transitional administration can be established, and humanitarian aid can be delivered; d. Ensuring public safety and order until the international civil presence can take responsibility for this task; e. Supervising demining until the international civil presence can, as appropriate, take over responsibility for this task; f. Supporting, as appropriate, and coordinating closely with the work of the international civil presence; g. Conducting border monitoring duties as required; h. Ensuring the protection and freedom of movement of itself, the international civil presence, and other international organizations; 10. Authorizes the Secretary-General, with the assistance of relevant international organizations, to establish an international civil presence in Kosovo in order to provide an interim administration for Kosovo under which the people of Kosovo can enjoy substantial autonomy within the Federal Republic of Yugoslavia, and which will provide transitional administration while establishing and overseeing the development of provisional democratic self-governing institutions to ensure conditions for a peaceful and normal life for all inhabitants of Kosovo; 11. Decides that the main responsibilities of the international civil presence will include: a. Promoting the establishment, pending a final settlement, of substantial autonomy and self-government in Kosovo, taking full account of annex 2 and of the Rambouillet accords (S/1999/648); 204 b. Performing basic civilian administrative functions where and as long as required; c. Organizing and overseeing the development of provisional institutions for democratic and autonomous self-government pending a political settlement, including the holding of elections; d. Transferring, as these institutions are established, its administrative responsibilities while overseeing and supporting the consolidation of Kosovo's local provisional institutions and other peace-building activities; e. Facilitating a political process designed to determine Kosovo's future status, taking into account the Rambouillet accords (S/1999/648); f. In a final stage, overseeing the transfer of authority from Kosovo's provisional institutions to institutions established under a political settlement; g. Supporting the reconstruction of key infrastructure and other economic reconstruction; h. Supporting, in coordination with international humanitarian organizations, humanitarian and disaster relief aid; i. Maintaining civil law and order, including establishing local police forces and meanwhile through the deployment of international police personnel to serve in Kosovo; j. Protecting and promoting human rights; k. Assuring the safe and unimpeded return of all refugees and displaced persons to their homes in Kosovo; 12. Emphasizes the need for coordinated humanitarian relief operations, and for the Federal Republic of Yugoslavia to allow unimpeded access to Kosovo by humanitarian aid organizations and to cooperate with such organizations so as to ensure the fast and effective delivery of international aid; 13. Encourages all Member States and international organizations to contribute to economic and social reconstruction as well as to the safe return of refugees and displaced persons, and emphasizes in this context the importance of convening an international donors' conference, particularly for the purposes set out in paragraph 11 (g) above, at the earliest possible date; 14. Demands full cooperation by all concerned, including the international security presence, with the International Tribunal for the Former Yugoslavia; 15. Demands that the KLA and other armed Kosovo Albanian groups end immediately all offensive actions and comply with the requirements for demilitarization as laid down by the head of the international security presence in consultation with the Special Representative of the Secretary-General; 205 16. Decides that the prohibitions imposed by paragraph 8 of resolution 1160 (1998) shall not apply to arms and related matériel for the use of the international civil and security presences; 17. Welcomes the work in hand in the European Union and other international organizations to develop a comprehensive approach to the economic development and stabilization of the region affected by the Kosovo crisis, including the implementation of a Stability Pact for South Eastern Europe with broad international participation in order to further the promotion of democracy, economic prosperity, stability and regional cooperation; 18. Demands that all States in the region cooperate fully in the implementation of all aspects of this resolution; 19. Decides that the international civil and security presences are established for an initial period of 12 months, to continue thereafter unless the Security Council decides otherwise; 20. Requests the Secretary-General to report to the Council at regular intervals on the implementation of this resolution, including reports from the leaderships of the international civil and security presences, the first reports to be submitted within 30 days of the adoption of this resolution; 21. Decides to remain actively seized of the matter. Annex 1 Statement by the Chairman on the conclusion of the meeting of the G-8 Foreign Ministers held at the Petersberg Centre on 6 May 1999 The G-8 Foreign Ministers adopted the following general principles on the political solution to the Kosovo crisis: • • • • • • Immediate and verifiable end of violence and repression in Kosovo; Withdrawal from Kosovo of military, police and paramilitary forces; Deployment in Kosovo of effective international civil and security presences, endorsed and adopted by the United Nations, capable of guaranteeing the achievement of the common objectives; Establishment of an interim administration for Kosovo to be decided by the Security Council of the United Nations to ensure conditions for a peaceful and normal life for all inhabitants in Kosovo; The safe and free return of all refugees and displaced persons and unimpeded access to Kosovo by humanitarian aid organizations; A political process towards the establishment of an interim political framework agreement providing for a substantial self-government for Kosovo, taking full account of the Rambouillet accords and the principles of sovereignty and territorial integrity of the Federal 206 • Republic of Yugoslavia and the other countries of the region, and the demilitarization of the KLA; Comprehensive approach to the economic development and stabilization of the crisis region. Annex 2 Agreement should be reached on the following principles to move towards a resolution of the Kosovo crisis: 1. An immediate and verifiable end of violence and repression in Kosovo. 2. Verifiable withdrawal from Kosovo of all military, police and paramilitary forces according to a rapid timetable. 3. Deployment in Kosovo under United Nations auspices of effective international civil and security presences, acting as may be decided under Chapter VII of the Charter, capable of guaranteeing the achievement of common objectives. 4. The international security presence with substantial North Atlantic Treaty Organization participation must be deployed under unified command and control and authorized to establish a safe environment for all people in Kosovo and to facilitate the safe return to their homes of all displaced persons and refugees. 5. Establishment of an interim administration for Kosovo as a part of the international civil presence under which the people of Kosovo can enjoy substantial autonomy within the Federal Republic of Yugoslavia, to be decided by the Security Council of the United Nations. The interim administration to provide transitional administration while establishing and overseeing the development of provisional democratic self-governing institutions to ensure conditions for a peaceful and normal life for all inhabitants in Kosovo. 6. After withdrawal, an agreed number of Yugoslav and Serbian personnel will be permitted to return to perform the following functions: o Liaison with the international civil mission and the international security presence; o Marking/clearing minefields; o Maintaining a presence at Serb patrimonial sites; o Maintaining a presence at key border crossings. 7. Safe and free return of all refugees and displaced persons under the supervision of the Office of the United Nations High Commissioner for Refugees and unimpeded access to Kosovo by humanitarian aid organizations. 8. A political process towards the establishment of an interim political framework agreement providing for substantial self-government for Kosovo, taking full account of the Rambouillet accords and the principles of sovereignty and territorial integrity of the Federal 207 Republic of Yugoslavia and the other countries of the region, and the demilitarization of UCK. Negotiations between the parties for a settlement should not delay or disrupt the establishment of democratic self-governing institutions. 9. A comprehensive approach to the economic development and stabilization of the crisis region. This will include the implementation of a stability pact for South-Eastern Europe with broad international participation in order to further promotion of democracy, economic prosperity, stability and regional cooperation. 10. Suspension of military activity will require acceptance of the principles set forth above in addition to agreement to other, previously identified, required elements, which are specified in the footnote below.(1) A military-technical agreement will then be rapidly concluded that would, among other things, specify additional modalities, including the roles and functions of Yugoslav/Serb personnel in Kosovo: Withdrawal o Procedures for withdrawals, including the phased, detailed schedule and delineation of a buffer area in Serbia beyond which forces will be withdrawn; Returning personnel o o o o o Equipment associated with returning personnel; Terms of reference for their functional responsibilities; Timetable for their return; Delineation of their geographical areas of operation; Rules governing their relationship to the international security presence and the international civil mission. Notes 1. Other required elements: o A rapid and precise timetable for withdrawals, meaning, e.g., seven days to complete withdrawal and air defence weapons withdrawn outside a 25 kilometre mutual safety zone within 48 hours; o Return of personnel for the four functions specified above will be under the supervision of the international security presence and will be limited to a small agreed number (hundreds, not thousands); 208 Suspension of military activity will occur after the beginning of verifiable withdrawals; o The discussion and achievement of a military-technical agreement shall not extend the previously determined time for completion of withdrawals. o 209 Allegato n. 2: CONSTITUTIONAL FRAMEWORK FOR PROVISIONAL SELF-GOVERNMENT UNMIK/REG/2001/9 - 15 May 2001 Preamble The Special Representative of the Secretary-General (SRSG), Pursuant to the authority given to him under United Nations Security Council Resolution 1244(1999) of 10 June 1999 (UNSCR 1244(1999)); Recalling that UNSCR 1244(1999) envisages the setting-up and development of meaningful self-government in Kosovo pending a final settlement; Acknowledging Kosovo's historical, legal and constitutional development; and taking into consideration the legitimate aspirations of the people of Kosovo to live in freedom, in peace, and in friendly relations with other people in the region; Emphasizing that, since its establishment, the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) has supported and assisted the people of Kosovo and has worked towards this aim by enabling them to take responsibility gradually for the administration of Kosovo through the establishment of the Joint Interim Administrative Structure (JIAS); Considering that, building on the efforts undertaken by UNMIK and on the achievements of JIAS, including the valuable contribution by the people of Kosovo, and with a view to the further development of self-government in Kosovo, Provisional Institutions of Self-Government in the legislative, executive and judicial fields shall be established through the participation of the people of Kosovo in free and fair elections; Determining that, within the limits defined by UNSCR 1244(1999), responsibilities will be transferred to Provisional Institutions of Self-Government which shall work constructively towards ensuring conditions for a peaceful and normal life for all inhabitants of Kosovo, with a view to facilitating the determination of Kosovo's future status through a process at an appropriate future stage which shall, in accordance with UNSCR 1244(1999), take full account of all relevant factors including the will of the people; Considering that gradual transfer of responsibilities to Provisional Institutions of 210 Self-Government will, through parliamentary democracy, enhance democratic governance and respect for the rule of law in Kosovo; Endeavouring to promote economic prosperity in Kosovo and the welfare of its people through the development of a market economy; Affirming that the exercise of the responsibilities of the Provisional Institutions of Self-Government in Kosovo shall not in any way affect or diminish the ultimate authority of the SRSG for the implementation of UNSCR 1244(1999); Taking into account the Charter of the United Nations; the Universal Declaration on Human Rights; the International Covenant on Civil and Political Rights and the Protocols thereto; the Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination; the Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women; the Convention on the Rights of the Child; the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms and the Protocols thereto; the European Charter for Regional or Minority Languages; the Council of Europe's Framework Convention for the Protection of National Minorities; and other relevant principles reflected in internationally recognized legal instruments; Recognizing the need to fully protect and uphold the rights of all Communities of Kosovo and their members; Reaffirming the commitment to facilitating the safe return of refugees and displaced persons to their homes and their exercise of the right to recover their property and possessions, and the commitment to creating conditions for freedom of mo vement for all persons; Recognizing the importance of creating a free, open and safe environment which facilitates the participation of all persons including all members of Communities in the process of establishing democratic institutions of self-government; Hereby promulgates the following: Chapter 1 Basic Provisions 1.1 Kosovo is an entity under interim international administration which, with its people, has unique historical, legal, cultural and linguistic attributes. 1.2 Kosovo is an undivided territory throughout which the Provisional Institutions of Self-Government established by this Constitutional Framework for Provisional Self- 211 Government (Constitutional Framework) shall exercise their responsibilities. 1.3 Kosovo is composed of municipalities, which are the basic territorial units of local self-government with responsibilities as set forth in UNMIK legislation in force on local self-government and municipalities in Kosovo. 1.4 Kosovo shall be governed democratically through legislative, executive, and judicial bodies and institutions in accordance with this Constitutional Framework and UNSCR 1244(1999). 1.5 The Provisional Institutions of Self-Government are: (a) Assembly; (b) President of Kosovo; (c) Government; (d) Courts; and (e) Other bodies and institutions set forth in this Constitutional Framework. 1.6 The seat of the Provisional Institutions of Self-Government is Pristina. 1.7 The Provisional Institutions of Self-Government shall use only such symbols as are or as may be set forth in UNMIK legislation. Chapter 2 Principles to be Observed by the Provisional Institutions of Self-Government The Provisional Institutions of Self-Government and their officials shall: (a) Exercise their authorities consistent with the provisions of UNSCR 1244(1999) and the terms set forth in this Constitutional Framework; (b) Promote and fully respect the rule of law, human rights and freedoms, democratic principles and reconciliation; and (c) Promote and respect the principle of the division of powers between the legislature, the executive and the judiciary. Chapter 3 212 Human Rights 3.1 All persons in Kosovo shall enjoy, without discrimination on any ground and in full equality, human rights and fundamental freedoms. 3.2 The Provisional Institutions of Self-Government shall observe and ensure internationally recognized human rights and fundamental freedoms, including those rights and freedoms set forth in: (a) The Universal Declaration on Human Rights; (b) The European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms and its Protocols; (c) The International Covenant on Civil and Political Rights and the Protocols thereto; (d) The Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination; (e) The Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women; (f) The Convention on the Rights of the Child; (g) The European Charter for Regional or Minority Languages; and (h) The Council of Europe's Framework Convention for the Protection of National Minorities. 3.3 The provisions on rights and freedoms set forth in these instruments shall be directly applicable in Kosovo as part of this Constitutional Framework. 3.4 All refugees and displaced persons from Kosovo shall have the right to return to their homes, and to recover their property and personal possessions. The competent institutions and organs in Kosovo shall take all measures necessary to facilitate the safe return of refugees and displaced persons to Kosovo, and shall cooperate fully with all efforts by the United Nations High Commissioner for Refugees and other international and non-governmental organizations concerning the return of refugees and displaced persons. Chapter 4 Rights of Communities and Their Members 213 General Provisions 4.1 Communities of inhabitants belonging to the same ethnic or religious or linguistic group (Communities) shall have the rights set forth in this Chapter in order to preserve, protect and express their ethnic, cultural, religious, and linguistic identities. 4.2 No person shall be obliged to declare to which Community he belongs, or to declare himself a member of any Community. No disadvantage shall result from an individual's exercise of the right to declare or not declare himself a member of a Community. 4.3 The Provisional Institutions of Self-Government shall be guided in their policy and practice by the need to promote coexistence and support reconciliation between Communities and to create appropriate conditions enabling Communities to preserve, protect and develop their identities. The Institutions also shall promote the preservation of Kosovo's cultural heritage of all Communities without discrimination. Rights of Communities and Their Members 4.4 Communities and their members shall have the right to: (a) Use their language and alphabets freely, including before the courts, agencies, and other public bodies in Kosovo; (b) Receive education in their own language; (c) Enjoy access to information in their own language; (d) Enjoy equal opportunity with respect to employment in public bodies at all levels and with respect to access to public services at all levels; (e) Enjoy unhindered contacts among themselves and with members of their respective Communities within and outside of Kosovo; (f) Use and display Community symbols, subject to the law; (g) Establish associations to promote the interests of their Community; (h) Enjoy unhindered contacts with, and participate in, local, regional and international non-governmental organizations in accordance with the procedures of such organizations; (i) Provide information in the language and alphabet of their Community, including 214 by establishing and maintaining their own media; (j) Provide for education and establish educational institutions, in particular for schooling in their own language and alphabet and in Community culture and history, for which financial assistance may be provided, including from public funds in accordance with applicable law; provided that, curricula shall respect the applicable law and shall reflect a spirit of tolerance among Communities and respect for human rights and the cultural traditions of all Communities; (k) Promote respect for Community traditions; (l) Preserve sites of religious, historical, or cultural importance to the Community, in cooperation with relevant public authorities; (m) Receive and provide public health and social services, on a non-discriminatory basis, in accordance with applicable standards; (n) Operate religious institutions; (o) Be guaranteed access to, and representation in, public broadcast media, as well as programming in relevant languages; and (p) Finance their activities by collecting voluntary contributions from their members or from organizations outside Kosovo, or by receiving such funding as may be provided by the Provisional Institutions of Self-Government or by local public authorities, so long as such financing is conducted in a fully transparent manner. Protection of Rights of Communities and Their Members 4.5 The Provisional Institutions of Self-Government shall ensure that all Communities and their members may exercise the rights specified above. The Provisional Institutions also shall ensure fair representation of Communities in employment in public bodies at all levels. 4.6 Based on his direct responsibilities under UNSCR 1244(1999) to protect and promote human rights and to support peace-building activities, the SRSG will retain the authority to intervene as necessary in the exercise of self-government for the purpose of protecting the rights of Communities and their members. Chapter 5 Responsibilities of the Provisional Institutions of Self-Government 5.1 The Provisional Institutions of Self-Government shall have responsibilities in the 215 following fields: (a) Economic and financial policy; (b) Fiscal and budgetary issues; (c) Administrative and operational customs activities; (d) Domestic and foreign trade, industry and investments; (e) Education, science and technology; (f) Youth and sport; (g) Culture; (h) Health; (i) Environmental protection; (j) Labour and social welfare; (k) Family, gender and minors; (l) Transport, post, telecommunications and information technologies; (m) Public administration services; (n) Agriculture, forestry and rural development; (o) Statistics; (p) Spatial planning; (q) Tourism; (r) Good governance, human rights and equal opportunity; and (s) Non-resident affairs. 5.2 The Provisional Institutions of Self-Government shall also have the following responsibilities in the field of local administration: (a) Supporting inter-municipal cooperation; 216 (b) Promoting the development of a professional municipal civil service; (c) Assisting the municipalities in the development of their own budgets and financial management systems; (d) Monitoring the quality of municipal services; (e) Identifying ways and means for training activities for the municipalities; (f) Assisting the municipalities in making their activities transparent to the public; (g) Providing legal guidance and advice to the municipalities; (h) Coordinating the activities of international agencies and non-governmental organizations pertaining to municipalities; and (i) Overseeing compliance with responsibilities and powers delegated to municipalities based on the organizational structures that emerged from the municipal elections in October 2000, as well as responsibilities and powers transferred in the meantime. It is understood that additional powers will be progressively transferred in an orderly manner. 5.3 The Provisional Institutions of Self-Government shall also have the following responsibilities in the field of judicial affairs: (a) Making decisions regarding the appointment of judges and prosecutors; (b) Exercising responsibilities regarding the organization and proper functioning of the courts, within existing court structures; (c) The provision, development and maintenance of court and prosecutorial services; (d) The provision of technical and financial requirements, support personnel and material resources to ensure the effective functioning of the judicial and prosecutorial systems; (e) The training, including professional and vocational training, of judicial personnel in cooperation with the Organisation for Security and Cooperation in Europe (OSCE); (f) The organization of examinations for qualification of judges, prosecutors, lawyers and other legal professionals through an independent professional body; (g) The appointment, training, disciplining and dismissing of members of judicial 217 support staff; (h) Ensuring coordination on matters pertaining to the judicial system and the correctional service; (i) Co-operating with appropriate organizations in respect of independent monitoring of the judicial system and the correctional service; (j) Providing information and statistics on the judicial system and the correctional service, as appropriate; (k) Protecting personal data relating to the judicial system and correctional service; (l) Ensuring cooperation in judicial and correctional matters with appropriate entities inside Kosovo; and (m) Assisting in the recruitment, training and evaluation of personnel for the correctional service. 5.4 The Provisional Institutions of Self-Government shall also have the following responsibilities in the field of mass media: (a) Adopting laws and enforcement mechanisms in accordance with international human rights and freedom of expression standards as contained in Articles 19 and 29 of the Universal Declaration of Human Rights and the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms and its Protocols to prevent defamation or hate speech in the Kosovo systems of mass media; (b) Regulating broadcast media consistent with these international legal constraints and the best European practices through an independent media commission, whose members will be appointed by the Provisional Institutions of Self-Government from nominations submitted by non-governmental and non-political organizations in Kosovo; these members will include both genders and will reflect the ethnic and regional diversity of Kosovo society; (c) Guaranteeing the editorial independence of the public broadcaster by safeguarding the independence of its Board, whose members will be appointed by the Provisional Institutions of Self-Government from nominations submitted by nongovernmental and non-political organizations in Kosovo; these members will include both genders and will reflect the ethnic and regional diversity of Kosovo society; and (d) Establishing an office or offices of public information to present the Institutions' deliberations and decisions to the international and local media. 218 5.5 The Provisional Institutions of Self-Government shall also have the following responsibilities in the field of emergency preparedness: (a) Developing and implementing a strategy for emergency planning and civil protection services; and (b) Directing and coordinating fire and rescue services in close cooperation with the municipalities. 5.6 The Provisional Institutions of Self-Government shall also have the following responsibilities in the field of external relations: - International and external cooperation, including the reaching and finalising of agreements. Such activities shall be coordinated with the SRSG. 5.7 The Provisional Institutions of Self-Government shall be responsible for aligning their legislation and practices in all areas of responsibility with relevant European and international standards and norms, with a particular view to facilitating closer economic, social and other ties between the people of Kosovo and other Europeans, and in awareness that respect for such standards and norms will be central for the development of relations with the Euro-Atlantic community. 5.8 The Provisional Institutions of Self-Government shall have such other responsibilities as are specified herein or in other legal instruments. Chapter 6 Law and Order Maintenance of law and order is of fundamental importance for all the people of Kosovo. The Kosovo Police Service, which functions under the authority of the SRSG and under the supervision of UNMIK Police, contributes significantly to achieving this objective through its supporting role in crime prevention and public protection and safety. With the support of the international community, the capacity of the Kosovo Police Service in crime prevention, criminal information gathering, criminal investigation and fighting against criminality is being enhanced. This will make it possible for the Kosovo Police Service to gradually assume additional responsibilities for the maintenance of law and order. Chapter 7 Kosovo Protection Corps The Kosovo Protection Corps is a civilian emergency organisation, established under the law, which carries out in Kosovo rapid disaster response tasks for public 219 safety in times of emergency and humanitarian assistance. Chapter 8 Powers and Responsibilities Reserved to the SRSG 8.1 The powers and responsibilities of the Provisional Institutions of SelfGovernment shall not include certain reserved powers and responsibilities, which will remain exclusively in the hands of the SRSG. These reserved powers shall include: (a) Full authority to ensure that the rights and interests of Communities are fully protected; (b) Dissolving the assembly and calling for new elections in circumstances where the Provisional Institutions of Self-Government are deemed to act in a manner which is not in conformity with UNSCR 1244(1999), or in the exercise of the SRSG's responsibilities under that Resolution. The SRSG shall exercise this power after consultation with the President of Kosovo. The Assembly may, by a decision supported by two -thirds of its members, request the SRSG to dissolve the Assembly. Such a request shall be communicated to the SRSG by the President of Kosovo; (c) Final authority to set the financial and policy parameters for, and to approve, the Kosovo Consolidated Budget, acting on the advice of the Economic and Fiscal Council; (d) Monetary policy; (e) Establishing arrangements for the independent external audit of the Kosovo Consolidated Budget; (f) Exercising control and authority over the UNMIK Customs Service; (g) Exercising final authority regarding the appointment, removal from office and disciplining of judges and prosecutors; (h) Deciding upon requests regarding the assignment of international judges and prosecutors, as well as change of venue, in accordance with the relevant UNMIK legislation in force; (i) Exercising powers and responsibilities of an international nature in the legal field; (j) Exercising authority over law enforcement institutions and the correctional service, both of which include and are supported by local staff; 220 (k) Exercising control and authority over the Kosovo Protection Corps; (l) Exercising control and authority over the management of the administration and financing of civil security and emergency preparedness. Responsibility shall be gradually assumed by the Provisional Institutions of Self-Government; (m) Concluding agreements with states and international organizations in all matters within the scope of UNSCR 1244 (1999); (n) Overseeing the fulfilment of commitments in international agreements entered into on behalf of UNMIK; (o) External relations, including with states and international organisations, as may be necessary for the implementation of his mandate. In exercising his responsibilities for external relations, the SRSG will consult and co-operate with the Provisional Institutions of Self-Government with respect to matters of concern to the institutions; (p) Control over cross-border/boundary transit of goods (including animals). The Provisional Institutions of Self-Government shall co-operate in this regard; (q) Authority to administer public, state and socially-owned property in accordance with the relevant UNMIK legislation in force, in cooperation with the Provisional Institutions of Self-Government; (r) Regulation of public and socially-owned enterprises after having consulted the Economic and Fiscal Council and the Provisional Institutions of Self-Government; (s) Administrative control and authority over railways, frequency management and civil aviation functions. Certain administrative functions shall be carried out by the Provisional Institutions of Self-Government and the relevant independent regulatory bodies; (t) Control and authority over the Housing and Property Directorate, including the Housing Claims Commission; (u) Defining the jurisdiction and competence for the resolution of commercial property disputes; (v) Preserving the existing boundaries of municipalities; (w) Responsibility to ensure that the system of local municipal administration functions effectively based on internationally recognized and accepted principles; (x) Appointing the members of the Economic and Fiscal Council, the Go verning 221 Board of the Banking and Payments Authority of Kosovo, the chief executives of the Customs Service and Tax Inspectorate, and the Auditor General; convening and presiding over the Economic and Fiscal Council; (y) Appointing international experts to the managing boards or commissions of the public broadcaster, the independent media regulatory body and other institutions involved in regulating the mass media, with the proviso that the number of such SRSG nominations will not constitute the majority of any such managing board or commission; (z) Control and authority over the civil registry database, which shall be maintained in cooperation with the Provisional Institutions of Self-Government. 8.2 The SRSG shall coordinate closely with the International Security Presence (KFOR) in: (a) Conducting border monitoring duties; (b) Regulating possession of firearms; (c) Enforcing public safety and order; and (d) Exercising functions that may be attributed to the domain of defence, civil emergency and security preparedness. Chapter 9 Provisional Institutions of Self-Government Section 1: The Assembly 9.1.1 The Assembly is the highest representative and legislative Provisional Institution of Self-Government of Kosovo. Composition of the Assembly 9.1.2 The Assembly shall have 120 members elected by secret ballot. Election of the Assembly 9.1.3 Kosovo shall, for the purposes of election of the Assembly, be considered a single, multi-member electoral district. (a) One hundred (100) of 120 seats of the Assembly shall be distributed amongst all parties, coalitions, citizens' initiatives, and independent candidates in proportion to 222 the number of valid votes received by them in the election to the Assembly. (b) Twenty (20) of the 120 seats shall be reserved for the additional representation of non-Albanian Kosovo Communities as follows: (i) Ten (10) seats shall be allocated to parties, coalitions, citizens' initiatives and independent candidates having declared themselves representing the Kosovo Serb Community. These seats shall be distributed to such parties, coalitions, citizens' initiatives and independent candidates in proportion to the number of valid votes received by them in the election to the Assembly; and (ii) Ten (10) seats shall be allocated to other Communities as follows: the Roma, Ashkali and Egyptian Communities four (4), the Bosniak Community three (3), the Turkish Community two (2) and the Gorani Community one (1). The seats for each such Community or group of Communities shall be distributed to parties, coalitions, citizens' initiatives and independent candidates having declared themselves representing each such Community in proportion to the number of valid votes received by them in the election to the Assembly. (c) Each person having attained 18 years of age on the day of the election and satisfying the other criteria of eligibility to vote as applied to the municipal elections held in Kosovo on 28 October 2000 shall be entitled to vote. (d) The rank order of the candidates on lists of parties, coalitions and citizens' initiatives submitted for the purpose of election to the Assembly shall be considered fixed. (e) Geographical and gender requirements in respect of candidate lists submitted by parties, coalitions and citizens' initiatives for the purpose of the election to the Assembly may be specified by the SRSG on the recommendation of the Central Election Commission. Assembly Members' Mandate and Eligibility Length of Mandate 9.1.4 The term of the Assembly shall be three years, commencing on the date of the inaugural session, which shall be convened within thirty days after the certification of the election results. 9.1.5 Without prejudice to the competencies of the SRSG, at least two -thirds of the members of the Assembly may request the SRSG to dissolve the Assembly. Such a request shall be communicated to the SRSG by the President of Kosovo. 223 Candidate Eligibility 9.1.6 A person who fulfils the voter eligibility requirements shall be eligible to stand as a candidate in Assembly elections provided he is not: (a) A member of the Central Election Commission, the Election Complaints and Appeals sub-Commission, an Assembly Election Commission, or a Polling Station Committee; (b) A member of the Kosovo Protection Corps or of the Kosovo Police Service; (c) Serving as a judge or prosecutor; (d) Serving a sentence imposed by the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia or under indictment by the Tribunal and has failed to comply with an order to appear before the Tribunal; or (e) Deprived of legal capacity by a final court decision. Presidency of the Assembly 9.1.7 The Assembly shall have a Presidency consisting of seven Assembly members who shall be selected as follows: (a) Two members shall be appointed by the party or coalition having obtained the highest number of votes in the Assembly elections; (b) Two members shall be appointed by the party or coalition having obtained the second highest number of votes in the Assembly elections; (c) One member shall be appointed by the party or coalition having obtained the third highest number of votes in the Assembly elections; (d) One member shall be appointed from among the members of the Assembly belonging to those parties having declared themselves representative of the Kosovo Serb Community; and (e) One member shall be appointed from among the members of the Assembly belonging to parties having declared themselves representative of a non-Kosovo Albanian and non-Kosovo Serb Community. The method for appointing this latter member shall be determined by members of the Assembly belonging to these same Communities. 9.1.8 The Assembly shall endorse these appointments by a formal vote. 224 President of the Assembly 9.1.9 A member of the Presidency from the party or coalition having obtained the highest number of votes in the elections for the Assembly shall be the President of the Assembly. Assembly Committees 9.1.10 There shall be Main and Functional Committees of the Assembly to review draft laws and make recommendations as appropriate. Main Committees Budget Committee 9.1.11 The Budget Committee shall be composed of 12 members, allocated proportionally among the parties and coalitions represented in the Assembly. It shall have general competencies in budgetary and financial matters. It shall also be responsible for ensuring that all proposed laws having budgetary implications are accompanied by a financial impact statement. Committee on Rights and Interests of Communities 9.1.12 The Committee on Rights and Interests of Communities shall be composed of two members from each of Kosovo's Communities elected to the Assembly. Communities represented by only one member in the Assembly shall be represented by this member in the Committee. 9.1.13 At the request of any member of the Presidency of the Assembly, any proposed law shall be submitted to the Committee on Rights and Interests of Communities. The Committee, by a majority vote of its members, shall decide whether to make recommendations regarding the proposed law within the time limit specified below. 9.1.14 If the Committee on Rights and Interests of Communities decides to take such action, it shall, within a period of two weeks from receiving such a proposed law, make recommendations regarding the proposed law with a view to ensuring that Community rights and interests are adequately addressed and submit these recommendations to the relevant Functional Committee or to the Assembly as appropriate. 9.1.15 The Committee may on its own initiative propose laws and such other measures within the responsibilities of the Assembly as it deems appropriate to address the concerns of Communities. 225 9.1.16 Each member of the Committee shall have the right to attach a written opinion to any proposed law referred to or taken up by the Committee. 9.1.17 A matter may be referred to the Committee for an advisory opinion by the Presidency of the Assembly, a Main or Functional Committee or a group composed of ten or more members of the Assembly. Functional Committees 9.1.18 The Assembly may establish such Functional Committees as it deems necessary and appropriate to carry out its responsibilities. 9.1.19 The Assembly shall decide on the number of members of each functional committee. The membership of all Functional Committees shall reflect the diversity of the membership of the Assembly. 9.1.20 If a party of coalition represented in the Assembly does not have a seat on a given Functional Committee, it shall have the right to send an Assembly member to all meetings of that Functional Committee in an observer capacity. Chairmen and Vice-Chairmen of Committees 9.1.21 The chairmanships of all the Committees of the Assembly shall be distributed proportionally among the parties and coalitions represented in the Assembly. 9.1.22 Committees shall have two Vice-Chairmen from different parties or coalitions than that of the Chairman. At least one Vice-Chairman shall be of a different Community than the Chairman. Rights, Immunities and Remuneration 9.1.23 Each member of the Assembly shall have an equal right and obligation to participate fully in the proceedings of the Assembly. This shall include, but not be limited to, the rights to initiate draft laws and resolutions, to vote on all proposed decisions by the Assembly, and to take part on an equal basis with other members in all debates of the Assembly. 9.1.24 All members of the Assembly shall be immune from all civil and criminal proceedings with regard to words spoken or other acts performed in their capacity as members of the Assembly. Such i mmunity shall not cover acts that are clearly conducive to inter-Community violence. 9.1.25 All members of the Assembly shall receive salaries for their participation in the work of the Assembly and its Committees. 226 Responsibilities of the Assembly 9.1.26 The Assembly shall have the following responsibilities: (a) Adopting laws and resolutions in the areas of responsibility of the Provisional Institutions of Self-Government as set out in Chapter 5; (b) Endorsing the Presidency of the Assembly; (c) Electing the President of Kosovo; (d) Endorsing or rejecting the Prime Minister candidate together with the list of Ministers of the Government proposed by the Prime Minister candidate; (e) Making decisions on other appointments as specified in this Constitutional Framework; (f) Considering and endorsing proposed international agreements within the scope of its responsibilities; (g) Deciding on motions of no-confidence in the Government; (h) Instructing the Government to prepare draft laws; (i) Adopting the Rules of Procedure of the Assembly and its committees; and (j) Other responsibilities specified herein or in other legal instruments. 9.1.27 Laws, once promulgated, are binding legislative acts of a general nature. Resolutions are non-binding declarations. Responsibilities of the Presidency of the Assembly 9.1.28 The Presidency of the Assembly shall have the following responsibilities: (a) Making recommendations to the Assembly on all organizational matters of Assembly business, including the agenda; (b) Maintaining appropriate external parliamentary contacts, in coordination with the SRSG; and (c) Acting on motions as provided in paragraphs 9.1.40 and 9.1.41. 9.1.29 The Presidency shall endeavour to adopt all decisions by consensus. When 227 efforts to reach consensus have failed, except when acting on motions under paragraph 9.1.40, it shall decide by majority vote of those present and voting, provided that at least five members are present. In the event of a tie vote, the President's vote shall decide the matter. Responsibilities of the President of the Assembly 9.1.30 The President shall represent the Assembly. 9.1.31 The President shall preside at meetings of the Assembly, call its sessions to order, and perform other tasks prescribed by the rules of procedure of the Assembly. Decision-Making Procedures 9.1.32 A majority of the members of the Assembly shall constitute a quorum. The Assembly may initiate and conduct its proceedings when at least one-third of the members are present provided that, for the taking of decisions, the quorum requirement shall be satisfied. 9.1.33 Decisions of the Assembly shall be adopted by a majority of the members of the Assembly present and voting, unless otherwise explicitly provided herein. Procedure for Adopting Laws 9.1.34 One or more members of the Assembly or the Government shall present the draft law to the Assembly for a first reading. 9.1.35 The draft law shall be considered by the relevant main and functional committees, which may propose amendments where appropriate. 9.1.36 The Assembly shall in the second reading consider the draft law together with any amendments proposed by the committee(s) or by individual or groups of members of the Assembly or by the Government. 9.1.37 At the end of the second reading, the Assembly shall vote on the proposed amendments and thereafter on the draft law as a whole. The draft law shall be approved if it receives the majority of the votes of those present and voting. 9.1.38 The Assembly may decide to submit a draft law that failed to receive the necessary votes in the second reading for a third reading together with any further amendments that have been approved. The draft law shall be approved if it receives the majority of the votes of those present and voting. 9.1.39 Within 48 hours from the approval of a law by the Assembly pursuant to paragraphs 9.1.37 or 9.1.38 above, any member of the Assembly, supported by five 228 additional members, may submit a motion to the Presidency claiming that the law or certain of its provisions violate vital interests of the Community to which he belongs. The motion shall set out a reasoned explanation of the claimed violation. A motion may be made on the grounds that the law or provisions discriminate against a Community, adversely affect the rights of the Community or its members under Chapters 3 or 4, or otherwise seriously interfere with the ability of the Community to preserve, protect or express its ethnic, cultural, religious or linguistic identity. 9.1.40 The Presidency shall request the sponsors of the law or provisions to provide within three days reasoned arguments in reply. At the same time, the Presidency shall request each of the two sides to designate a representative to serve on the special panel provided for in paragraph 9.1.41. The Presidency shall attempt to submit, within five days following receipt of the reply, a consensus proposal to the Assembly. 9.1.41 If the Presidency fails to submit such a consensus proposal within the five day period, a special three-member Panel consisting of representatives of the two sides and one member, who shall preside, designated by the SRSG shall automatically be seized of the matter. The Panel shall within five days issue a decision recommending that the Assembly reject the motion, that the Assembly reject the law or provisions at issue, or that the Assembly adopt the law with amendments that the Panel shall propose. The Panel shall take its decisions by a majority of its members. 9.1.42 The Assembly shall decide whether to accept the consensus proposal of the Presidency, if such a proposal is submitted, or the recommendation of the Panel. No amendments other than those proposed pursuant to paragraphs 9.1.40 or 9.1.41 above may be introduced at this stage. If the Assembly rejects the consensus proposal of the Presidency or the recommendation of the Panel, or accepts a consensus proposal or recommendation for the rejection of the motion, the law as previously approved by the Assembly shall stand. 9.1.43 If no motion is submitted withi n the 48-hour period specified in paragraph 9.1.39 above, or following approval of a law pursuant to paragraph 9.1.42 above, the law shall be considered adopted. 9.1.44 The President shall sign each law adopted by the Assembly and forward it to the SRSG for promulgation. 9.1.45 Laws shall become effective on the day of their promulgation by the SRSG, unless otherwise specified. Other Procedures 229 Removal from Office 9.1.46 A member of the Assembly who has been convicted of a criminal offence and sentenced to serve a prison term of six months or more shall cease to be a member. 9.1.47 If a member of the Assembly fails throughout a period of six consecutive months to attend any session of the Assembly or the Committee(s) of which he is a member, he shall, unless the failure was due to a reason approved by the Assembly, cease to be a member. Vacancies 9.1.48 Vacancies in the Assembly shall be filled in accordance with the UNMIK legislation governing the Kosovo -wide elections. Languages of the Assembly 9.1.49 Meetings of the Assembly and its Committees shall be conducted in both the Albanian and Serbian languages. All official documents of the Assembly shall be printed in both the Albanian and Serbian languages. The Assembly shall endeavour to make official documents which concern a specific Community available in the language of that Community. 9.1.50 Assembly members from Communities other than the Kosovo Albanian and Kosovo Serb Communities shall be permitted to address the Assembly or its Committees in their own language and to submit documents for consideration by the Assembly in their own language. In such cases, interpretation or translation into the Albanian and Serbian languages shall be provided for the other members of the Assembly or Committee. 9.1.51 All promulgated laws shall be published in the Albanian, Bosniak, English, Serbian and Turkish languages. Section 2: The President of Kosovo 9.2.1 The President of Kosovo shall represent the unity of the people and guarantee the democratic functioning of the Provisional Institutions of Self-Government. 9.2.2 The President of Kosovo shall, in coordination with the SRSG, represent Kosovo and exercise his rights and duties in accordance with the provisions of this Constitutional Framework and the applicable law. 9.2.3 The mandate of the President of Kosovo shall be three years. 9.2.4 The President of Kosovo shall exercise the following duties in accordance with 230 this Constitutional Framework and the applicable law: (a) In coordination with the SRSG, take action in the field of external relations; (b) Following consultations with the political parties represented in the Assembly, propose to the Assembly the Prime Minister; (c) Communicate to the SRSG a request of the Assembly to dissolve the Assembly, in accordance with paragraph 8.1(b); (d) Present a report to the Assembly on the general state of affairs in Kosovo at least once a year; and (e) Present awards and express gratitude. 9.2.5 If the President of Kosovo becomes temporarily unable to perform his duties, the functions of the President of Kosovo shall be exercised by the President of the Assembly. 9.2.6 The President of Kosovo shall enjoy immunity with respect to acts performed in exercising his functions. 9.2.7 The President of Kosovo shall not hold any other office or employment. 9.2.8 The President of Kosovo shall be elected by the Assembly by secret ballot. A nomination for the post of President of Kosovo shall require the support of the party having the largest number of seats in the Assembly or of at least 25 members. The Assembly shall elect the President of Kosovo by a two -thirds majority of the members of the Assembly. If after two ballots a two -thirds majority is not obtained, in the following ballots a majority of the votes of all members of the Assembly shall be required for election. 9.2.9 The term of office of the President of Kosovo shall end upon: (a) The completion of his mandate; (b) His death; (c) His resignation; or (d) His dismissal from office by means of the votes of a two -thirds majority of all the members of the Assembly. 231 Section 3: The Government Responsibilities of the Government 9.3.1 The Government shall exercise the executive authority and shall implement Assembly laws and other laws within the scope of responsibilities of the Provisional Institutions of Self-Government established by this Constitutional Framework. 9.3.2 The Government may propose draft laws to the Assembly at its own initiative and shall do so at the request of the Assembly. Ministries and Executive Agencies 9.3.3 There shall be established ministries and other executive agencies as are necessary to carry out functions within the competence of the Government. Composition of the Government 9.3.4 The Government shall consist of the Prime Minister and Ministers. 9.3.5 At all times, at least two Ministers shall be from Communities other than the Community having a majority representation in the Assembly. (a) At least one of these Ministers shall be from the Kosovo Serb Community and one from another Community. (b) In the event that there are more than twelve Ministers, a third Minister shall be from a non-majority Community. (c) The selection of these Ministers and their responsibilities shall be determined after consultation with parties, coalitions or groups representing non-majority Communities. 9.3.6 The Prime Minister and Ministers may be members of the Assembly, or qualified persons from outside the membership of the Assembly. Ministers from Communities, other than the one having the majority among the members of the Assembly, shall, if appointed from outside the Assembly, require the formal endorsement of the members of the Assembly from the Community concerned. Outside Activities of the Ministers 9.3.7 The Prime Minister and Ministers may not hold other public office or other employment on a full-time basis, nor exercise any activity on a part-time basis 232 incompatible with their office, while exercising their responsibilities. Election of the Prime Minister and Ministers 9.3.8 Following Assembly elections, or if the Prime Minster resigns or his office becomes vacant for another reason, the President of Kosovo shall, following consultations with the parties, coalitions or groups represented in the Assembly, propose to the Assembly a candidate for Prime Minister. The proposed candidate shall present a list of proposed Ministers to the Assembly. The Prime Minister shall be elected together with the Ministers by a majority of the members of the Assembly. 9.3.9 If the proposed candidate does not obtain the required majority, the President of Kosovo shall propose within ten days a new candidate for Prime Minister. The new candidate, together with the list of ministers proposed by him, shall be elected by a majority of the members of the Assembly. Motion of No-Confidence 9.3.10 The Assembly may express its lack of confidence in the Government only if, by a majority of its members, it elects simultaneously a new Prime Minister together with a list of Ministers proposed by him. 9.3.11 The term of office of the outgoing Government shall end with the election of the new Prime Minister and Ministers. Changes in the Composition of the Government 9.3.12 Following his election, the Prime Minister may replace any Minister without the consent of the Assembly. 9.3.13 Upon the resignation of the Prime Minister, the entire Government shall resign. The Government shall continue in a caretaker capacity until the election of a new Prime Minister. Procedures within the Government 9.3.14 The Prime Minister shall call and chair meetings of the Government and propose the agenda for these meetings. He shall represent the Government as appropriate, define the general lines of policy of the Government, and coordinate its work. 9.3.15 Each Minister shall be responsible for implementing the policy of the Government within his area of responsibility. 233 9.3.16 The Government shall endeavour to reach its decisions by consensus. If a vote is necessary, decisions shall be taken by a majority of the Ministers present and voting. The Prime Minister shall cast the deciding vote in the event Ministers are divided equally. The Government shall otherwise decide its own rules of procedure. Languages of the Government 9.3.17 Meetings of the Government and its bodies shall be conducted in both the Albanian and Serbian languages. All official documents of the Government shall be printed in both the Albanian and Serbian languages. 9.3.18 Members of the Government from Communities other than the Kosovo Albanian and Kosovo Serb Communities shall be permitted to use their own language. Immunities 9.3.19 All members of the Government shall be immune from all civil and criminal proceedings with regard to words spoken or other acts performed in their capacity as members of the Government. Such immunity shall not cover acts that are clearly conducive to inter-Community violence. Section 4: The Judicial System Administration of Justice 9.4.1 The courts are responsible for the administration of justice in Kosovo in accordance with the applicable law. 9.4.2 Each person claiming to have been directly and adversely affected by a decision of the Government or an executive agency under the responsibility of the Government shall have the right to judicial review of the legality of that decision after exhausting all avenues for administrative review. 9.4.3 Each person shall be entitled to have all issues relating to his rights and obligations and to have any criminal charges laid against him decided within a reasonable time by an independent and impartial court. The Court Structure 9.4.4 There shall be the Supreme Court of Kosovo, District Courts, Municipal Courts and Minor Offense Courts. Court Proceedings 234 9.4.5 Unless otherwise specified in the applicable law, all Kosovo courts shall hold proceedings in public. Judges and Prosecutors 9.4.6 Judges shall be independent and impartial. They shall not hold any other public office. 9.4.7 Judges of all courts of Kosovo shall be distinguished jurists of the highest moral character, with adequate qualifications. The membership of the judiciary shall reflect the diversity of the people of Kosovo. International judges and prosecutors shall serve within the judicial system according to rules established by the SRSG. 9.4.8 Judges and Prosecutors shall be appointed by the SRSG from lists of candidates proposed by the Kosovo Judicial and Prosecutorial Council and endorsed by the Assembly. Decisions on the promotion, transfer and dismissal of judges and prosecutors shall be taken by the SRSG on the basis of recommendations by the Kosovo Judicial and Prosecutorial Council and exceptionally on his own initiative. Office of the Public Prosecutor 9.4.9 There shall be an Office of the Public Prosecutor for Kosovo, as well as offices of district and municipal prosecutors. 9.4.10 The Office of the Public Prosecutor as well as the offices of the district and municipal prosecutors shall exercise its functions in accordance with the applicable law. Special Chamber of the Supreme Court on Constitutional Framework Matters 9.4.11 A Special Chamber of the Supreme Court shall decide: (a) At the request of the President of Kosovo, any member of the Presidency of the Assembly, any Assembly Committee, no fewer than five members of the Assembly, or the Government, whether any law adopted by the Assembly is incompatible with this Constitutional Framework, including the international legal instruments specified in Chapter 3 on Human Rights; (b) In the event of disputes between or among Provisional Institutions of SelfGovernment, or between a Provisional Institution of Self-Government and an Assembly Committee, one or more members of the Presidency of the Assembly, or one or more members of the Assembly on the extent of their rights and obligations under this Constitutional Framework; 235 (c) At the request of any independent body or office referred to in Chapters 10 and 11, whether a decision of a Provisional Institution of Self-Government infringes upon the independence and responsibilities of the relevant independent body or office; and (d) At the request of the Office of the Public Prosecutor, whether an act by a member of the Assembly, a member of the Government or the President of Kosovo constitutes an official act and as such is covered by immunity under this Constitutional Framework. Chapter 10 Ombudsperson 10.1 Natural and legal persons in Kosovo shall have the right, without threat of reprisal, to make complaints to an independent Office concerning human rights violations or actions constituting abuse of authority by any public authority in Kosovo. 10.2 The Office, in accordance with UNMIK legislation in force, shall have jurisdiction to receive and investigate complaints, monitor, take preventive steps, make recommendations and advise on any such matters. 10.3 The Ombudsperson shall give particular priority to allegations of especially severe or systematic violations, allegations founded on discrimination, including discrimination against Communities and their members, and allegations of violations of rights of Communities and their members. Chapter 11 Independent Bodies and Offices 11.1 The following bodies and offices shall carry out their functions independently of the Provisional Institutions of Self-Government: (a) Central Election Commission; (b) Kosovo Judicial and Prosecutorial Council; (c) Office of the Auditor-General; (d) Banking and Payments Authority of Kosovo; (e) Independent Media Commission; 236 (f) Board of the Public Broadcaster; and (g) Housing and Property Directorate and the Housing and Property Claims Commission. 11.2 The bodies and offices specified above, and such other independent bodies and offices as may be established by law, shall have the powers, obligations, and composition specified in the legal instruments by which they are established. Chapter 12 Authority of the SRSG The exercise of the responsibilities of the Provisional Institutions of SelfGovernment under this Constitutional Framework shall not affect or diminish the authority of the SRSG to ensure full implementation of UNSCR 1244(1999), including overseeing the Provisional Institutions of Self-Government, its officials and its agencies, and taking appropriate measures whenever their actions are inconsistent with UNSCR 1244(1999) or this Constitutional Framework. Chapter 13 Authority of KFOR Nothing in this Constitutional Framework shall affect the authority of the International Security Presence (KFOR) to fulfil all aspects of its mandate under UNSCR 1244(1999) and the Military Technical Agreement (Kumanovo Agreement). Chapter 14 Final Provisions 14.1 In case of conflict between this Constitutional Framework and any law of the Assembly, this Constitutional Framework shall prevail. 14.2 The SRSG shall take the necessary measures to facilitate the transfer of powers and responsibilities to the Provisional Institutions of Self-Government. 14.3 The SRSG, on his own initiative or upon a request supported by two -thirds of the members of the Assembly, may effect amendments to this Constitutional Framework. 14.4 The English, Albanian and Serbian language versions of this Constitutional Framework are equally authentic. In case of conflict, the English language version 237 shall prevail. This Constitutional Framework shall also be published in the Bosniak and Turkish languages. 14.5 This Constitutional Framework shall enter into force upon promulgation by the SRSG. Signed on this 15th day of May 2001. Hans Haekkerup Special Representative of the Secretary-General 238 Allegato n. 3 Standards for Kosovo UNMIK/PR/1078 "A Kosovo where all - regardless of ethnic background, race or religion - are free to live, work and travel without fear, hostility or danger and where there is tolerance, justice and peace for everyone." Presented Pristina, 10 December 2003 I. Functioning Democratic Institutions The Provisional Institutions of Self-Government (PISG) are freely, fairly and democratically elected. The PISG governs in an impartial, transparent and accountable manner, consistent with UNSCR 1244 and the Constitutional Framework. The interests and needs of all Kosovo communities are fully and fairly represented in all branches and institutions of government. Those communities participate fully in government. The laws and functions of the PISG approach European standards. The PISG provides services for all people of Kosovo throughout the territory of Kosovo; parallel structures have been dismantled. Elections - Elections are regular, transparent, free and fair, conforming to international standards, allowing the full and peaceful participation of all communities and ethnic groups. - Internally-displaced persons and refugees continue to be fully included in the Kosovo election process and their ability to vote is facilitated. - An independent, representative and multi-ethnic Central Election Commission administers elections. - A range of democratic political parties contests elections. 239 - A comprehensive legal framework covering political party operation and finances is adopted and enforced. Provisional Institutions of Self-Government (PISG) - All communities are proportionately represented at all levels of the PISG, in accordance with applicable legislation. The PISG and local municipal government decide and enact legislation in an open, accountable and democratic manner. - All official languages are respected throughout the institutions of government - The PISG and municipalities ensure the availability of basic public services, such as health care, utilities and education, without discrimination, to all communities in Kosovo. - The civil service is professional, impartial and accountable, representative of all communities in Kosovo and includes a significant proportion of women. - All communities have fair access to employment in public institutions. - Codes of conduct and enforcement procedures exist to provide for transparent and accountable government; recommendations of the Ombudsperson are given full weight. - Regular and independent audits of the KCB, Assembly, government ministries and municipalities. - Allegations of misconduct are thoroughly investigated, elected officials and public servants responsible for unethical, fraudulent, or corrupt behavior are effectively disciplined. - Proposed Assembly legislation is reviewed and cleared by the Assembly Committee on Rights and Interests of Communities prior to adoption by the Assembly. - Women participate in the institutions of the PISG at rates that equal or exceed rates in the region and the interests of women are fully reflected in its policies and legislation. - The proposals on decentralization of the Council of Europe have been examined and considered with the aim to create functional structures of local government. 240 - Parallel structures for the provision of services have been dismantled or integrated into PISG structures. Media and Civil Society - A range of private, independent print and broadcast media exists, providing access to information for all communities throughout Kosovo. - There is an independent and effective media regulatory authority, aspiring to European standards, recruited without discrimination and according to merit - Hate speech or any form of incitement, is condemned by political leaders, the media regulatory authority and media commentators. - Publicly-funded media devotes a full and proportionate share of its resources and output to all ethnic communities. - Non-governmental organizations, in particular those representing minorities, are able to operate freely within the law and individuals are free to join them without discrimination. II. Rule of Law There exists a sound legal framework and effective law enforcement, compliant with European standards. Police, judicial and penal systems act impartially and fully respect human rights. There is equal access to justice and no one is above the law: there is no impunity for violators. There are strong measures in place to fight ethnically-motivated crime, as well as economic and financial crime. Equal Access to Justice - All crime is thoroughly investigated, regardless of the ethnic background of the victim or perpetrator. - The prosecution and conviction of perpetrators of crime is consistent and effective, regardless of the ethnic background of victim or perpetrator - Substantial progress has been made in solving the most serious murders and assaults against members of ethnic minorities. - Witnesses are effectively protected from intimidation and retribution. - Crime clearance rates for crimes of violence against persons of all communities are roughly equivalent. 241 - Misconduct by judges, prosecutors, attorneys, police, and penal system employees is routinely investigated and appropriately punished. - There are professional codes of conduct for judges, prosecutors, lawyers and other members of the police and penal system, including a Bar Association representative of all Kosovo communities. - Acts of retribution against individuals involved in disciplinary processes are rare and such individuals are adequately protected. - All communities are fully and fairly represented amongst judges, prosecutors and in the Kosovo Police Service (KPS) and Kosovo Corrections Service (KCS). - Institutions are functioning to train and educate the police, judges, lawyers, and penal system managers. - An effective and impartial system of justice in the civil law sector is accessible to members of all communities in Kosovo. - The backlog of civil law cases in courts is steadily being reduced. - Judgments in civil law matters are being enforced, court execution officers are functioning, and court fines are routinely being paid. - Legislation in civil law matters is reviewed and developed to ensure greater conformity with European standards. - Alternatives to litigation for resolving civil disputes are expeditiously developed and effectively used. - There is effective action to eliminate violence against women and children, trafficking and other forms of exploitation, including preventative education and provision of legal and social services to victims. No one is above the law - All crimes, especially those of violence that promote inter-ethnic hatred and fear are thoroughly investigated and resolved, and perpetrators are brought to justice and punished. - Incidents of organized crime, trafficking, crime rooted in extremism, terrorism, and economic crime are vigorously investigated and local judges and prosecutors effectively prosecute and try perpetrators. The percentage of unsolved cases of crime rooted in extremism or terrorism is steadily declining. 242 - Perpetrators of assaults on judges, prosecutors, KPS officers and witnesses are fairly tried in local courts and are sentenced appropriately. - Mechanisms of regional and international cooperation are functioning for police and judicial authorities, including transfer of suspects and sentenced persons, , and mutual legal assistance to jurisdictions. - There is full cooperation with the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), including arrest of indictees and provision of witnesses and information. - Those war crimes not addressed by the ICTY are prosecuted fairly in Kosovo Economic and Financial Crime - Effective legal, financial and administrative mechanisms that conform to EU standards are in place to tackle economic crime in both the public and private sectors, including seizure of illegally-acquired assets. - There is a clear understanding amongst the vast majority of public sector employees of ethical conduct requirements, especially regarding conflict of interest. - Adequate investigative mechanisms have been created and are functioning effectively. - Money laundering legislation is effectively implemented and suspicious financial transaction reporting is in place III. Freedom of Movement All people in Kosovo are able to travel, work and live in safety and without threat or fear of attack, harassment or intimidation, regardless of their ethnic background. They are able to use their own language freely anywhere in Kosovo, including in public places, and enjoy unimpeded access to places of employment, markets, public and social services, and utilities. Freedom of Movement - All communities are able freely to exercise rights to social, cultural and religious expression, including attending ceremonies and access to relevant sites. - Military and police escorts are no longer needed; members of all ethnic communities have access to safe and public transportation 243 - Public employees from minority communities are able to work in majority areas without difficulties. - The number of crimes specifically related to movement by minorities (e.g. stoning incidents) is significantly reduced and infrequent. - Political leaders, without prompting, condemn and take action against acts of violence against ethnic communities and their members. Free use of language - Meetings of the Assembly and its committees are conducted in all official languages. - Official municipal and ministry documents are translated in a timely manner into all official languages. - Personal documents are issued in the native language of the recipient. - Official signs inside and outside municipal and ministerial buildings are expressed in all official languages. - Names of streets, cities, towns, villages, roads and public places are expressed in Albanian, Serbian and any other language of a community that lives there in a significant number. - Municipalities and ministries provide adequate interpretation and translation services for all communities, including translation of all official documents and interpretation for all official meetings in relevant languages. IV. Sustainable Returns and the Rights of Communities and their members Members of all communities must be able to participate fully in the economic, political and social life of Kosovo, and must not face threats to their security and well-being based on their ethnicity. All refugees and displaced persons who wish to return to Kosovo must be able to do so in safety and dignity. Rights - The laws of Kosovo provide a full range of protection for human rights and the rights of communities and their members, consistent with European standards. 244 - A comprehensive and effective structure is in place within the PISG to monitor compliance with human and community rights and to respond to violations. - Existing mechanisms within municipalities responsible for protection of human and community rights (Municipal Community Offices, Municipal Assembly Communities and Mediation Committees) have adequate resources and staff, and are functioning effectively. - Kosovo participates in the Council of Europe implementation process for the Framework Convention for the Protection of National Minorities and fully implements recommendations resulting from that process. - There is fair distribution of municipal and ministerial resources to all communities. - The educational curriculum encourages tolerance and respect of the contributions of all communities to the history of Kosovo. Returns - The number of municipalities with sustainable returns increases, including an increase in returns to urban areas, the pace of returns overall accelerates, and the level of unmet demand for return has been substantially reduced. - Returnees to Kosovo are able to participate in the economy and job market without discrimination and limitations based on the freedom of movement. - Health care, social services, education and public utilities are available to returnees on a level equal to that of the rest of the population. - Returnees face no greater risk of violence than the population as a whole, and police and the judiciary respond promptly and without discrimination to crimes, irrespective of the ethnic background of the victim. - Municipalities and ministries are able to assume responsibility for returns within all communities in a manner consistent with European standards. - Funding is allocated from the KCB to support returns projects and smaller communities. - Visible support of the returns process by community leaders and public information and education efforts supported by the PISG create a climate of tolerance and support for the right to return. 245 - PISG support for returns, including financial assistance, is distributed equitably to all communities. V. Economy The legal framework for a sustainable, competitive market economy is in place and implemented. The minimum essential conditions are a legal and institutional base which act without discrimination against any individual or company; a regulatory system conducive to business that is capable of holding governmental officials and the private sector accountable; a tax regime that sustains t he essential functions of government and an infrastructure that provides basic services and facilitates investment. The goal is to move Kosovo towards the achievement of European standards. - Basic economic legislation is in place and enforced - Relevant government institutions and services are functioning - The budget process is functioning and meeting all legal requirements. - Economic statistics are available and regularly published, including on GDP, inflation, trade and unemployment. - Privatization and liquidation of Socially Owned Enterprises are well advanced; Municipal Authorities and relevant governmental structures support a smooth and reliable transfer of ownership rights. - Restructuring of Publicly Owned Enterprises, based on independent audits, is progressing and fully backed by the PISG. - Supervision over commercial banking, insurance and pension scheme is reliable and effective. - Kosovo wide billings approach 100% of services provided by KEK, PTK and water sector utilities, and collections approach at least the levels of neighbours. - Tax revenue fully funds the recurrent budget, and an increasing share of the public investment. - Tax compliance indicators are substantially improving. - Revenue raising is free from political influence. VI. Property Rights 246 The fair enforcement of property rights is essential to encourage returns and the equal treatment of all ethnic communities. This requires that there is effective legislation in place, that there are effective property dispute resolution mechanisms; that rightful owners of residential, commercial and agricultural lands are able to take effective possession of their property and that there is an accurate system for transfer, encumbrance and registration of property as well as the prevention of coerced property sales. Property Rights - Legislation is in place that is consistent with European standards. - Illegal occupants have been evicted from properties and the property returned to its rightful owners. - Municipal courts resolve property issues without discrimination against minority communities and do so at a rate comparable to European court systems. - The Police enforce these decisions routinely and without discrimination. - The Housing and Property Directorate and the Housing and Property Claims Commission have effectively resolved their backlog of cases. - There is an effective system to remedy disputes over agricultural and commercial property. - A property rights registry has been established and is functioning and municipal cadastral surveys have been completed. - Municipal authorities cease unlawful or unjustified attempts to develop public lands that have long-established informal settlements by minority communities or other vulnerable groups. - Informal settlements of vulnerable minority groups have been legalized and regularized. Preservation of Cultural Heritage - Kosovo’s cultural heritage is respected as the common patrimony of all of Kosovo’s ethnic, religious and linguistic communities. - All communities are entitled to preserve, restore and protect sites important to their cultural, historical and religious heritage with the assistance of relevant authorities (PISG), in accordance with European standards. 247 - There shall be neither discrimination nor preferential treatment of cultural heritage properties of any community. VII. Dialogue There is a constructive and continuing dialogue between the PISG and their counterparts in Belgrade over practical issues. Kosovo’s cooperation within the region is developed. Belgrade-Pristina dialogue - There are regular meetings of the working groups (initially four: missing persons, returns, energy and transport & communications) and all working groups are multi-ethnic - Meetings take place in atmosphere of constructive cooperation, respecting the rules of procedure and utilizing available international expertise. - The working groups make progress in resolving practical issues of mutual concern. Regional - Working arrangements are in place to provide advanced cooperation in the fields of: freedom of movement (including border crossings), trade and economy, police and justice, public administration, and regional parliamentary exchanges. - There is participation in bilateral and multilateral arrangements to benefit stability in the region. VIII. Kosovo Protection Corps The Kosovo Protection Corps (KPC) thoroughly complies with its mandate, as stated in the Constitutional Framework, as "a civilian emergency organization, which carries out in Kosovo rapid disaster response tasks for public safety in times of emergency and humanitarian assistance." The KPC operates in a transparent, accountable, disciplined, and professional manner and is representative of the entire population of Kosovo. The KPC is capable of enforcing discipline and is fully funded in a transparent way. - The KPC performs its mandated functions in full compliance with the rule of law. 248 - All Kosovo communities are fully and fairly represented in the KPC without being subject to discrimination. - Funding is transparent and independently audited. - The number of KPC installations has been reduced by at least one-third; contingent size is reduced to 3,052 active members and 2,000 reserve members - All misconduct is punished, under a rigorous Disciplinary Code and Performance Review System. - The KPC has engaged in a comprehensive campaign to recruit in ethnic minority communities. - The KPC has devoted a proportionate share of reconstruction activities to ethnic minority communities. - A Terms of Service Law for active and reserve members has been adopted and implemented. 249 250 251 LISTA DEGLI ACRONIMI • AAK: Alleanza per il Futuro del Kosovo • ANA: Albanian National Army (Esercito Nazionale Albanese) • BSPK: Unione Indipendente dei Sindacati del Kosovo • IAC: Interim Administrative Council • ICG: International Crisis Group • KDOM: Kosovo Diplomatic Observer Mission • KFOR: Kosovo Force • KPC: Kosovo Protection Corps • KPS: Kosovo Police Service • KTA: Kosovo Tr ust Agency • KTC: Kosovo Transitional Council • KVM: Kosovo Verification Mission • JIAS: Joint Interim Administrative Structure • LDK: Lega Democratica del Kosovo • NATO: North Atlantic Organization (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) • NLA: National Liberation Army • OMIK: Osce Mission Kosovo • ONG: Organizzazioni Non Governative • ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite 252 • OSCE: Organization for Security and Co-operation in Europe • OSCE/ODIHR: Organization for Security and Co-operation in Europe – Office for Democratic Institutions and Human Rights • PDK: Partito Democratico del Kosovo • PISG: Provisional Institution of Self-Government • RFJ: Repubblica Federale Jugoslava • SRSG: Special Representative of the Secretary General • TFF: The Transnational Foundation for Peace and Future Research • TOL: Transition On Line • UÇK: Ushtria Çlirimtare es Kosoves (Esercito di Liberazione del Kosovo) • UCPMB: Esercito di Liberazione di Presevo, Medvedja e Bujanovac • UE:Unione Europea • UNHCR: United Nations High Commissioner for Refugees • UNMACC: United Nations Mine Action Coordination Centre • USA: United States of America 253 Bibliografia Libri e pubblicazioni : 1. Auserswald Philip E., Auserswald David P., The Kosovo conflict, a diplomatic history trough documents, Kluwer Law International 2000 2. Benedikter Thomas, Il dramma del Kosovo. Dall’origine del conflitto fra serbi e albanesi agli scontri di oggi, Datanews, Roma 1998 3. Dogo Marco, Kosovo. Albanesi e Serbi: alle radici del conflitto, Marco Editore, Lungro di Cosenza 1992 4. Duroselle Jean-Baptiste, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 1998 5. Lizza Gianfranco, Itinerari del potere, UTET Libreria, Torino 2001 6. Malcolm Noel, Storia del Kosovo, Bompiani, Milano 1998 7. Marchisio Sergio, L’ONU, Il Mulino, Bologna 2000 8. Marcon Giulio, Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace, Asterios Editore, Trieste 2000 9. Marzo Magno Alessandro (a cura di), La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001: i fatti, i personaggi, le ragioni, Il Saggiatore, Milano 2001 10. Mini Fabio, La guerra dopo la guerra Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale , Einaudi, Torino 2003 11. Morozzo della Rocca Roberto, Kosovo. La guerra in Europa. Origini e realtà di un conflitto etnico, Guerini e Associati, Milano 1999 12. Pirjevec Joze, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino 2001 13. Pirjevec Joze, Serbi, croati, sloveni. Storia di tre nazioni, Il Mulino, Bologna 1995 14. Scotto Giovanni , Arielli Emanuele, La guerra del Kosovo. Anatomia di un’escalation, Editori Riuniti, Roma 1999 254 15. Scognamiglio Pasini Carlo, La guerra del Kosovo, Rizzoli, Roma 2002 16. Strazzari Francesco, Rodriguez-Pinero Royo Luis, Arcadu Gabriella, Carrai Barbara (a cura di), La pace intrattabile, Kosovo 1999/2000: radiografia del dopo-bombe, Asterios Editore, Trieste 2000 Dossier, report e altri documenti 1. AA.VV., Nation building. Il caso Kosovo, Università L. Bocconi 2. Amnesty International, Prisoners in our homes, Amnesty International’s concerns for the human rights of minorities in Kosovo/Kosova (29/4/2003) 3. Balfour Rosa, Greco Ettore (a cura di), Il ruolo internazionale dell’Unione Europea, Roma, Artistic&Publishing Company, 2003, (Collana CeMiSS ; 23) 4. Brand Marcus, The development of Kosovo institutions and the transition of authority from UNMIK to local self-government, Cluster of Competence The rehabilitation of war-torn societies, A Project co-ordinated by the Centre for Applied Studies in International Negotiations, Geneva January 2003 5. Coordination Centre of Serbia & Montenegro and the Republic of Serbia for Kosovo and Metohija, A Plan for the Political Solution to the Situation in Kosovo and Metohija 6. Coordination Centre of Serbia & Montenegro and the Republic of Serbia for Kosovo and Metohija, Basic Guidelines for resolving theKosovoMetohija Crisis 7. 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Muharremi R., Peci Lulzim, Malazogu Leon, Knaus Verena, Murati Teuta (Editor Blumi Isa), Administration and governance: lessons learned and lessons to be learned, Cluster of Competence The rehabilitation of wartorn societies, A Project co-ordinated by the Centre for Applied Studies in International Negotiations, Pristina/Geneva January 2003 17. National Assembly of the Republic of Serbia, Resolution of the National Assembly of the Republic of Serbia on Kosovo and Metohjia, 26th March 2004 18. National Assembly of the Republic of Serbia, Declaration on Kosovo and Metohija, 27 August 2003 19. OSCE Mission in Kosovo, Human rights challenges following the March riots, Department of Human Rights and Rule of Law 20. OSCE, Annual Report on OSCE Activities 2004 21. OSCE Mission in Kosovo, The “Llapi Case”, Case Report: the Public Prosecutor’s Office vs Latif Gashi, Rrustem Mustafa, Naim Kadriu and Nazif Mehmeti, Department of Human Rights and Rule of Law, Legal System monitoring Section 22. 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L’Europa tra amministrazione internazionale e autogoverno: i casi di Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Osservatorio sui Balcani, Venezia 3 – 4 dicembre 2004 Interviste: 271 1. Ivanovic Biserka, giornalista e funzionaria dell’OSCE (aprile 2005) 2. prof. Morozzo della Rocca, Ordinario di Storia dell’Europa orientale all’Università degli Studi Roma Tre (febbraio e maggio 2005) 3. Paolini Margherita, giornalista e coordinatrice scientifica di LIMES (febbraio 2005) 4. Rastello Luca, giornalista esperto di Balcani (febbraio-aprile 2005) 5. Rossini Andrea, giornalista della redazione di Osservatorio sui Balcani (marzo 2005) 6. prof. Sekulic Tatjana, Università Statale Milano Bicocca (ottobre 2004) 7. Villa Paola, Presidente IPSIA (Istituto Pace Sviluppo Innovazione ACLI) (gennaio- maggio 2005) 272 Ringraziamenti Si ringraziano, per il contributo dato a questa tesi: il Prof. Gianfranco Lizza, per avermi indirizzato allo studio della geopolitica ed aver guidato la realizzazione di questa ricerca; il Prof. Edoardo Boria, per l’impegno con cui mi ha seguito in questo percorso; Paola Villa, presidente di IPSIA, per la gentilezza e l’aiuto offerto; i giornalisti Luca Rastello, Margherita Paolini e Andrea Rossini, per la disponibilità e le preziose interviste; la giornalista e funzionaria dell’OSCE, Biserka Ivanovic, per le informazioni sulla politica serba; il Prof. Morozzo della Rocca, per le riflessioni sul futuro del Kosovo; Silvia Maraone e Mara Bernasconi, per la loro cortesia. 273