alimentazione preistorica - Riserva Naturale Incisioni Rupestri
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alimentazione preistorica - Riserva Naturale Incisioni Rupestri
La “dispensa” dell’uomo preistorico. appunti per una sperimentazione L’alimentazione dal Paleolitico al Neolitico nell’arco alpino. Grassi Maurilio1 Introduzione. Mare e montagna sono due ambienti molto diversi fra loro e peculiari per flora e fauna, che quindi hanno influito sull’economia alimentare dell’uomo preistorico. La temperatura e la salinità, che rende salmastra sia l’aria sia il terreno, per esempio, nei millenni hanno indotto specifiche modificazioni sui vegetali marini, generando un tipo di vegetazione specifica che, a sua volta, ha influito sugli animali specialmente quelli erbivori di piccola taglia e sui volatili. Questa diversificazione floro-zoologica ha contribuito a formare i vari aspetti culturali che caratterizzano, con le ovvie modificazioni, ancora oggi gli usi e i costumi delle persone. Il cibo è quindi non solo un bisogno biologico dell’uomo in quanto animale, ma è anche un aspetto culturale, purtroppo non sempre valutato nella sua giusta misura. A plasmare l’aspetto culturale legato all’alimentazione non concorrono solo le diversità altimetriche o la salinità marina, ma anche, su scala più ampia, la latitudine e la longitudine. Tutti questi fattori non solo concorrono alla formazione di specie endemiche, ma influiscono anche sulla manipolazione, preparazione e consumo sociale del cibo. I procedimenti e i materiali adottati per la preparazione delle pietanze, anche le più semplici, hanno un ruolo di primaria importanza nel dare sapore al cibo e perciò sono altri fattori costituenti le diverse culture. Al contempo le diverse culture concernono i piaceri del palato e agiscono sul giudicare come “buono da mangiare” un vegetale o animale, peculiare dell’area in cui gravita il gruppo umano. Pensiamo alla diversità culturale e di conseguenza alimentare, fra noi Occidentali e Cinesi, Giapponesi e Coreani che detestano il latte, ma si cibano regolarmente di serpenti e cani. Questa semplice premessa è indispensabile per inquadrare l’ambito di studio, per ripulire dai “rumori di fondo” la ricerca e soprattutto la sperimentazione che, in questo caso, riguarda l’ambiente montano alpino in generale e quello camuno in particolare. Ricostruire l’alimentazione preistorica significa muoversi nel campo ipotetico, poiché è risaputo che le materie organiche, in particolare i vegetali, si decompongono facilmente e non lasciano traccia archeologica. Per risalire all’alimentazione primordiale, senza ricorrere all’etnografia non sempre applicabile per le varianti ambientali in cui si sviluppa, vengono esaminati, tramite lo spettrofotometro ad assorbimento atomico, alcuni elementi presenti nel tessuto osseo scelti come marcatori alimentari (Sirugo-Bartoli 2007). Alcuni marcatori ossei sono lo Stronzio e il Bario che evidenziano una dieta a base di prodotti ittici, vegetali e cereali, lo Zinco e il Rame per una dieta a base di carne. Dopo il prelievo di un campione osseo si valutano le concentrazioni di Stronzio e Zinco rispetto al calcio e si ottengono in questo modo risultati correlabili a diete basate principalmente sul consumo di cereali e vegetali o di prodotti animali (Bertoldi 1988). Una considerazione interessante in fatto di evoluzione dell’alimentazione umana riguarda la ripartizione dei ruoli tra l’uomo e la donna nel procacciamento del cibo nei gruppi di cacciatoriraccoglitori. L’osservazione di strutture tribali, ancora oggi esistenti in alcune aree geografiche e 1 Archeotecnico, ricercatore e collaboratorre del Centro Camuno di Studi Preistorici Capo di Ponte (BS) – Responsabile per la Didattica della Riserva Naturale Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo. similari alle collettività preistoriche, rende evidente che alla donna è demandato il compito di cercare e raccogliere il cibo vegetale, mentre all’uomo spettava il compito della difesa del territorio e della caccia alla quale, in origine, si associava una forte componente rituale. Lo studio antropologico degli Indiani d’America, degli Aborigeni australiani e dei Boscimani africani hanno consentito la ricostruzione di riti propiziatori, di richiesta alla Natura del “permesso” di abbattere uno o più animali, di gran mole, eseguiti prima della battuta di caccia. Successive osservazioni, in cui sono stati coinvolti altri gruppi umani quali gli Inuit nord americani o i popoli marinari, hanno evidenziato la stagionalità della caccia legata alle migrazioni o ai periodi riproduttivi degli animali. L’impiego e la manipolazione, il modo diverso di utilizzare i vegetali hanno permesso di scoprire, oltre ai valori nutritivi, anche le proprietà curative delle piante. È nata, conseguentemente all’uso alimentare, l’erboristeria ossia l’impiego delle erbe o piante per uso curativo, un settore questo di notevole interesse. L’uso differenziato delle piante e delle carni hanno obbligato l’uomo a dotarsi di una serie sempre più complessa e variegata di strumentazione quali mestoli, ciotole, vasi, coltelli. In questo modo oltre all’evoluzione biologica si è sviluppata di pari passo l’evoluzione esomatica legata all’invenzione e costruzione di sempre nuovi ed elaborati strumenti di lavoro. Cosa scrivono gli autori classici Le opere degli autori definiti convenzionalmente “classici” sono purtroppo giunte a noi frammentarie, perciò di alcuni conosciamo poco di altri è il pensiero non sempre accessibile. Si scopre comunque che quasi nessuno ha trattato o formulato ipotesi ponderate sul nutrimento dei periodi che attualmente definiamo Paleolitico finale e Neolitico e solo pochi hanno accennato all’alimentazione protostorica. Il più esteso è Omero in quanto nelle due opere a lui attribuite, Iliade e Odissea, sono riportati banchetti o descritte cacce e cotture a volte descritte con utili dettagli. Leggendo i due poemi in chiave “alimentaristica” si nota la diversità di cibo di cui fanno uso i personaggi dell’Iliade rispetto all’Odissea così come cambiano i metodi di cottura: ad esempio nell’Iliade non compaiono mai il pesce, le verdure o insalate, come la carne lessata, a differenza dell’Odissea in cui il padre di Ulisse coltiva l’orto ed è descritto il vigneto di Alcinoo. Nella descrizione del banchetto offerto da Alcinoo ad Ulisse si legge di “ ghiottonerie quali vengono offerte ai principi cari a Giove” e ancora di “ manicaretti di ogni tipo” pietanze che non alludono certamente ai primitivi pezzi di manzo arrostito sul fuoco. I due poemi sono stati scritti in epoche diverse in particolare la lettura dei passi dell’Odissea ci introduce al V secolo a.C., periodo in cui molte cose sono cambiate anche nell’alimentazione. Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) è forse uno degli autori più accreditati, poiché nella sua Naturalis Historia disquisisce su molti argomenti, ivi compresa la coltura dei cereali e di altre piante tra cui la vite enumerando, a tal proposito, ben 80 qualità differenti di vino conosciute in epoca romana, ma non è utile per risalire all’alimentazione “primigenia”. Sull’alimentazione dell’antica Roma abbiamo parecchie fonti, una su tutte Catone il Censore (234 – 149 a.C.) che nel trattato De agri cultura riporta fra l’altro anche svariate ricette. Altri autori riportano brevi accenni o considerazioni di cui non conosciamo la consistenza come ad esempio per Tito Lucrezio Caro (98 – 55 a.C.) poeta e filosofo romano che nel “De rerum natura”, ci informa che i primitivi “si cibavano solo con quello che la terra dava loro spontaneamente”. Maggior curiosità e alcune informazioni su taluni rituali legati alla pratica agricola sono riportate da Diodoro Siculo (80-20 a.C) il controverso storico romano autore della “Biblioteca storica”, una storia universale dalle origini alla spedizione di Cesare nelle Gallie. Nella sua opera Diodoro afferma che la storia riconduce gli uomini ad un’unica compagine, divisi tra loro per spazio e tempo, ma partecipi di un’unica parentela, scrive inoltre che i primitivi “erano per le selve e vivevano solo di erbe, di radici e di frutti; vivevano nudi, senza case e senza fuoco”. Nel libro XIV della Biblioteca, parlando della storia siciliana, è riportato un passo avvincente che ci riconduce alla scoperta dell’agricoltura e ad una ritualità legata al raccolto. Diodoro scrive: “Per prima cosa il genere umano cessò di divorarsi a vicenda, nel momento in cui Iside scoprì il frutto del frumento e dell’orzo che cresceva, come accadeva, nella regione insieme all’altra erba, ma che era sconosciuto agli uomini, avendo Osiride inventato anche la coltivazione di tutti i frutti, tutti volentieri cambiarono il nutrimento per il piacere della natura delle cose scoperte e perché sembrava opportuno astenersi dalla crudeltà gli uni verso gli altri [2]. Come prova della scoperta dei frutti portano una consuetudine conservatasi presso di loro fin dall’antichità; ancora adesso infatti, nel tempo della mietitura, gli uomini, dopo aver consacrato le prime spighe falciate, si percuotono nei pressi del covone ed invocano Iside, e compiono questo rendendo [grazie] alla dea delle scoperte fin dall’origine nella stagione dell’invenzione.” L’uomo biologico Gli studi effettuati sui resti umani primitivi, agli albori della nostra specie, ci dimostrano che la razza umana ha avuto sostanzialmente abitudini alimentari frugivore, con un consumo di frutti, semi, radici, foglie, gemme, cui si aggiungeva un’integrazione di cibo animale costituito inizialmente da insetti e molluschi oppure uova e miele, in altre parole alimenti che potevano essere procacciati semplicemente servendosi delle mani ossia senza l’uso di armi per la caccia. L’analisi anatomica e biologica dell’uomo conferma il tipo d’alimentazione frugivora come la più conforme all’essere umano poiché la conformazione dell’apparato masticatore e digerente umano sono molto simili a quelli delle scimmie antropomorfe; in particolare la dentatura dell’uomo è analoga a quella dello scimpanzè e il canale intestinale ha una lunghezza pari a circa 10-12 volte la lunghezza del corpo. Confrontando quest’ultimo dato con la lunghezza dell’intestino di un animale carnivoro come il leone, lungo 3-5 volte la lunghezza del corpo, con quella di un erbivoro come la mucca, 20 – 28 volte la lunghezza del corpo, appare subito evidente che l’uomo si colloca a metà strada tra i due estremi. Questa è una chiara indicazione a favore del frogivorismo, giacché la lunghezza del canale intestinale è direttamente proporzionale alla necessità di digerire la cellulosa contenuta negli alimenti. La Natura ha previsto per la specie umana una struttura idonea a digerire frutta e vegetali da foglia tenera, ma la naturale predisposizione all’adattamento climaticoambientale ha portato l’uomo al consumo di carne, seppur con qualche problema di digestione. La caccia, con il conseguente sfruttamento a scopo alimentare di grossi animali, va considerata come un comportamento acquisito, che si è venuto sviluppando in tempi successivi, in concomitanza con la fabbricazione e l’utilizzo di utensili. Sebbene fosse biologicamente un frugivoro l’uomo ha iniziato fin da circa 4 milioni d’anni fa a comportarsi come un onnivoro, introducendo una parte di alimento carneo animale, muovendosi alla stessa stregua di una iena ossia da animale saprofita. È solo in un secondo tempo sfruttando la nuova abilità di muoversi su due gambe, di utilizzare il pollice opponibile, ma soprattutto di possedere una progettualità che l’uomo ha iniziato l’evoluzione esomatica costruendo utensili e utilizzandoli per sopperire alle sue carenze biologiche. Se l’uomo non avesse avuto una mano altamente qualificata e una corteccia cerebrale idonea a muoverla sincronicamente, non sarebbe mai diventato onnivoro e l’alimentazione di carne sarebbe stata molto limitata nella sua evoluzione, infatti non possedendo né artigli né dentatura da carnivoro non avrebbe avuto modo di abbattere le prede con cui cibarsi. L’acquisizione della stazione eretta e la conseguente evoluzione strutturale del suo corpo ed in particolare della mano, hanno portato l’uomo a cambiamenti notevoli anche nelle preferenze alimentari, che hanno a loro volta influito sul costume e sul tipo di vita. Da frugivoro l’uomo diviene cacciatore-raccoglitore quindi progressivamente è diventato sedentario e allevatorecoltivatore introducendo nella sua dieta anche il latte, il formaggio e il burro, alimenti la cui digestione pancreatica non è ancora oggi completamente perfezionata. Gli alimenti vegetali hanno generalmente un basso livello proteico e un alto contenuto di fibre con un basso valore calorico. Hanno inoltre un elevato contenuto di cellulosa indigeribile e lo stomaco e l’intestino negli erbivori assumono quindi la funzione di rumine, una sorta di “camera di fermentazione” dove viene scomposta la cellulosa per liberarne le proprietà nutritive. Per gli erbivori il tempo speso nella nutrizione, in relazione al peso corporeo, raggiunge valori molto alti e un erbivoro impiega più tempo a nutrirsi rispetto ad un carnivoro dello stesso peso. Per un animale di circa 30-40 kg, come un Australopithecus, passare da un regime alimentare a base erbivora ad una dieta carnivora significherebbe quindi spendere invece di 6 solo 2 ore al giorno nella nutrizione, con un guadagno di 4 ore, in altre parole un terzo delle ore di luce all’equatore. La carne è infatti prontamente digeribile, ha bisogno di un intestino relativamente più breve rispetto agli erbivori, con una prevalenza di intestino tenue e inoltre ogni preda rappresenta una grande fonte di calorie, contenendo un’alta quantità di proteine e un basso numero di fibre. (Mazzucco 2005) Le granaglie, contenenti buona parte dell’apporto in fatto di carboidrati e di proteine, erano inizialmente sgranocchiate e triturate dai possenti molari delle australopitecine. In seguito alla modificazione dell’apparato masticatorio e alla riduzione della superficie di molari e premolari questi semi cariossidei dovevano essere ridotti in farina per poter essere impastati con acqua quindi cotti e consumati. Il passaggio ad una dieta carnea riscontrata già in H. habilis favorì lo sviluppo della massa cerebrale grazie all’aumentato introito di carne con una conseguente maggiore disponibilità calorica (Gregorio-Sudano 2008). Essendo l’encefalo l’organo energeticamente più dispendioso in un mammifero la condizione dei primati nostri antenati è stata raggiunta grazie ad una ridistribuzione delle risorse caloriche disponibili. Un mammifero non primate devolve all’encefalo da 3 a 6% delle proprie risorse energetiche, questo valore ammonta a circa 8% nei primati non umani e circa 2025% per H. sapiens (Bruner - Manzi 2001) L’aumento della massa cerebrale comporta un bisogno energetico superiore in particolare di glucidi solubili, nutrienti, energetici d’elezione per tale organo probabilmente soddisfatto dalle Australopitecine con quantità rilevanti di frutta e ortaggi in cui una parte dei carboidrati sono presenti sotto forma di zuccheri solubili (Cresta-Vienna 2000). L’accrescimento encefalico implica lo sviluppo delle capacità cognitive quindi la scoperta di sempre nuove tecnologie, tra queste l’uso e il controllo del fuoco e quelle utili per approvvigionarsi di tuberi, radici e per scarnificare le carcasse. Probabilmente si sviluppa al contempo la capacità di conservare granaglie e tuberi in fosse come ancora oggi è in uso presso alcune popolazioni. Questi vari aspetti, che in seguito si dimostreranno un elemento fondamentale del comportamento sociale degli individui, potremmo considerarli una delle prime manifestazioni della “cucina” con cui si cimenta l’uomo (Cresta-Vienna 2000). Vi sono quattro gruppi di alimenti che la natura ci mette a disposizione e sono presenti in tutti i regimi alimentari: i semi oleosi, le graminacee, i legumi secchi e la carne. Ogni gruppo menzionato è importante non solo per il valore energetico, ma anche per il contenuto di proteine, sali di ferro e di tiamina. Gli ortaggi selvatici forniscono il beta-carotene la cui deficienza può condurre alla cecità (Cresta -Vienna 2000). Un problema deve essere stato la tossicità o la difficile digeribilità di alcuni vegetali. Un sistema per risolvere questo problema può essere quello adottato dagli scimpanzè e osservato presso una tribù dello Zaire, gli Ngandu, che consiste nell’utilizzare un numero elevato di essenze vegetali. In uno studio sugli uomini di Neanderthal è stata riscontrata una percentuale di carne nella dieta prossima al 90% al contempo sui fossili di H. sapiens è osservata una dieta più varia comprendente anche proteine di animali acquatici (Gregorio - Sudano 2008). L’aumento encefalico sembra essere correlato, insieme all’aumento corporeo, alla longevità dei primati umani, poiché l’allungamento della vita nella nostra specie è il risultato di un sinergismo tra adattamenti biologici e culturali (Bruner - Manzi 2001). Lo studio dell’alimentazione in età evolutiva, eseguito tramite l’esame dello stato d’usura dei denti, indica un passaggio diretto e abbastanza precoce, dall’alimentazione con latte materno ad una dieta mista comprendente il cibo che era consumato dagli adulti (Cresta-Vienna 2000). L’ambiente La domestico del Mesolitico alpino. vita quotidiana delle popolazioni paleo-mesolitiche è solo parzialmente nota e deriva principalmente dal confronto con dati antropologici ed etnici raccolti su popolazioni attuali considerate omologhe, ma non sempre rappresentative, delle comunità estinte di cacciatoriraccoglitori gravitanti nell’Italia settentrionale. Per alcune regioni come ad esempio il bacino dell’Adige, le Dolomiti e le Prealpi Venete i dati cronologici, stratigrafici e tipologici sono in grado di fornire un quadro esauriente ad esempio sulle industrie litiche, altri dettagli, quali lo studio della composizione isotopica del carbonio nelle ossa umane, la flottazione e il recupero di semi e altri elementi vegetali che possono fornire informazioni sulla dieta preistorica, sono deficitari. In altre aree, fra cui le Alpi Centrali, sono state eseguite solo prospezioni di superfici lasciando un vuoto d’informazioni sulle strategie di sussistenza dei cacciatori-raccoglitori locali che possono ingenerare errori interpretativi se non attentamente inseriti nell’ecosistema montano d’appartenenza. Nel Paleolitico finale e nel Mesolitico la sussistenza dei gruppi umani è garantita dall’attività venatoria e dal diffondersi della pesca come testimoniano gli innumerevoli reperti archeologici collegabili a queste due attività. Per un approfondimento in proposito vedi Cattelain-Bellier 2002, Junkmanns 2001, AA.VV. 2004 in bibliografia. Ricostruire le tecniche di caccia dei cacciatori raccoglitori significa muoversi nel puro campo ipotetico poiché le tecniche e i movimenti non lasciano traccia archeologica. La teoria più confacente alla nostra situazione ambientale è quella elaborata da Binford nel suo studio sui Nunamiut dell’Alaska (Binford 1990). In un mosaico di discipline fra cui zoologia, etnologia e antropologia, Binford, si avvale della comparazione fra i reperti rinvenuti in scavi archeologici con gli oggetti ancora oggi utilizzati dalle popolazioni primitive. Le battute di caccia avvenivano in appostamenti fissi approntati nei luoghi di transito autunnale degli ungulati e durante l’attività venatoria, i mesolitici, cercavano di abbattere la maggior quantità di animali possibile in modo da assicurarsi una riserva alimentare per l’inverno. Le prede erano macellate in loco e solo in seguito, terminato il periodo di caccia, erano portate al luogo residenziale. Binford ha avuto modo di osservare e sperimentare i depositi di carne che erano approntati dai cacciatori Nunamiut nei pressi delle aree di caccia. Un deposito di carne è costituito da una struttura di pietre che può raggiungere i 4 metri di lato e la carne vi è disposta all’interno, a vari livelli intramezzati da pietre o assicelle di legno (Binford 1990 pp. 154). Il tumulo era poi coperto per proteggerlo oltre che dall’irradiazione solare anche dal saccheggio di carnivori; il terreno fresco permette una buona conservazione della carne per tempi medio-brevi. Se la temperatura era al di sotto di zero gradi la carne poteva essere posta sul terreno a congelare, mentre nei periodi caldi era messa ad essiccare appendendola ai rami delle piante (Bindford 1990). Nello studio di Binford è riportato il processo di cottura di un canguro catturato dai Boscimani i quali, preparata una fossa, pongono l’animale eviscerato sulle braci con la pelle (Binford 1990 pp.203-204). Questo metodo di cottura contraddice quanto rilevato dall’usanza dei Nunamiut i quali scuoiano l’animale e usano la pelle per altri scopi. Nella ricostruzione sperimentale pertanto non si è adottato il metodo dei Boscimani, ma la carne è arrostita ponendola a piccoli pezzi sulle pietre arroventate, poste a fianco del focolare. Un secondo metodo, in questo caso utilizzato per cuocere i cibi vegetali muniti di scorza o buccia amovibile, consiste nel porre la vivanda nella cenere calda (emblematica questa cottura adottata nelle vallate alpine ad inizio secolo per cuocere le patate). Per proteggere la carne dal contatto diretto con la cenere è possibile avvolgerla in foglie estese palmate ad esempio quelle dell’acero montano oppure in pezzi di pelle. Per economizzare la carne i cacciatori paleo-mesolitici, quando sostavano nelle postazioni di caccia, solevano nutrirsi succhiando il midollo osseo delle prede abbattute. Questa pratica è argomentabile per i numerosi ritrovamenti d’ossa fratturate intenzionalmente e osservata sempre da Binford durante i sui studi (Binford 1990). Dai dati emersi dallo scavo epigravettiano del Riparo Dalmeri, posto a m.1250 sull’Altopiano dei Sette Comuni, si può ricostruire, seppur in maniera frammentaria, l’alimentazione del sito Tardo Paleolitico poiché sono riconosciuti resti di stambecco e di pesce d’acqua dolce. La presenza del pesce proveniente dal fondovalle “…fa ritenere che la frequentazione del sito rientrasse nell’ambito di un itinerario periodico…”, ma soprattutto che parte del cibo vi venisse introdotto “…mediante una sorta di conservazione…” (Angelucci 1995) Tra i reperti nel sito di Riparo Dalmeri vi sono 25 piccole conchiglie rappresentative di quattro specie attualmente viventi nel mare Mediterraneo ossia Columbella rustica, Cyclope neritea, Cyclope pellucida e Mitra (Lanzinger-Marzatico-Pedrotti 2001 pp. 58). La collezione di malacofauna rinvenuta non è da ritenersi risultato di pasti, ma piuttosto una serie di elementi di collana, risultato di una raccolta o di uno scambio. La sistemazione spaziale sperimentale è dedotta dall’esame di alcuni siti paleo-mesolitici dell’Italia nord-orientale più prossimi alla situazione della Valle Camonica. In particolare la ricostruzione dei focolari derivati dall’analisi della Grotta aurignaziana di Fumane (Monti Lessini) i cui resti carboniosi hanno fornito una datazione compresa fra 37.000 e 32.000 anni fa. Nella grotta si riconoscono tre focolari con caratteri omogenei. Sono infossati, a contorno subcircolare vagamente irregolare, con dimensione orizzontale poco inferiore al metro e profondità compresa tra 10 e 20 cm. i tre focolari si distribuiscono “…immediatamente all’interno, all’ingresso e appena all’esterno della cavità…” (Angelucci 1995) probabilmente perché ognuno di loro aveva una funzione differente. Lo stesso autore solleva la difficoltà nello stabilire la funzione dei focolari indicando la possibilità di circoli adibiti all’affumicatura utile per la conservazione delle carni o del pesce. Altre efficaci informazioni sulla strutturazione dei focolari sono estrapolate dall’esame dei dati di scavo del Riparo Plan de Frea, sito pluristratificato, alla testata della Val Gardena a m.1930 di quota. Nel sedimento databile a 9900 BP sono stati messi in luce due focolari infossati scavati in buche poco profonde caratterizzati da una forte concentrazione di lenti carboniose, cenere e grumi di terra arrossata dal fuoco. Un focolare è sigillato da una lastra di calcare “…disposta suborizzontalmente e offesa dal fuoco lungo parte del bordo…” (Angelucci 1995) che suggerisce l’impiego come piano per la cottura dei cibi con calore riflesso. Ponendo la pietra a fianco del focolare, con un lato rivolto verso la fiamma, si ottiene il riscaldamento della superficie su cui cuocere i cibi e il conseguente danno del lato esposto al diretto contatto con il fuoco. I siti residenziali mesolitici sono spesso collocati strategicamente in posizioni favorevoli, ma lontani dal luogo di approvvigionamento del cibo, ne deriva la necessità, da parte del gruppo, di immagazzinare e conservare le risorse alimentari reperite sia nelle battute di caccia sia nella pesca. “L’economia di sussistenza si basa principalmente sulla caccia, la pesca la raccolta dei molluschi d’acqua dolce, delle uova e delle tartarughe nel bacino lacustre” come osservano DalmeriGrimaldi-Lanziger nello studio sul Mesolitico trentino (Lanzinger-Marzatico-Pedrotti 2001 pp. 66) L’evidenza archeologica purtroppo, documenta solo le risorse alimentari animali testimoniata dai resti ossei e dalle corna mentre nulla o poco si sa sui vegetali e il loro impiego nell’alimentazione. La composizione della fauna cacciata, nelle serie stratigrafiche dei siti di fondovalle, riflette i cambiamenti e le modificazioni dell’ambiente nel corso dell’Olocene. Semplificando per motivi di sintesi, si osserva che nei livelli ascrivibili all’Epigravettiano- Sauvetteriano iniziale tra i mammiferi prevale lo stambecco, mentre nel Sauvetteriano finale – Castelnoviano iniziale la preda più frequente è il cervo. Lo studio dei Ripari Villabruna fornisce indicazioni particolareggiate, poiché nello strato più antico, ascrivibile all’Epigravettiano recente (15000-13000 B.P.), la caccia era prevalentemente rivolta allo stambecco e al camoscio e poco al cervo, mentre negli strati Mesolitici sovrasta il cervo (LanzingerMarzatico-Pedrotti 2001 pp. 95). Dal deposito epigravettiano proviene anche una sepoltura di cacciatore d’età compresa fra 25-35 anni che, fra gli altri oggetti di corredo, stringeva nella mano un grumo di resina mista a cera con tracce di propoli. Variamente interpretato questo globulo resinoso che era usato anche per confezionare un tipo di colla vegetale, è un indicatore interessante, poiché adombra la conoscenza e forse l’uso della cera e del miele per scopi alimentari,. L’uso del miele presso le popolazioni di cacciatori-raccoglitori preistorici è espresso in alcune pitture fra le quali spicca per efficacia e realismo la figura del riparo Cueva de la Araña del Levante spagnolo. In questa immagine un uomo con un cesto si è issato su una rudimentale scala per raggiungere il favo e con le mani fruga dentro l’alveare per recuperare il miele selvatico (Beltran 1979). Controverso è l’uso della chiocciola come alimento mesolitico perché molti ricercatori attribuiscono i numerosi ritrovamenti di gusci di chiocciole ad infiltrazioni post deposizionali tardive e non a resti di pasti preistorici. Sicuramente il lento gasteropode costituiva una facile preda che ha attirato l’attenzione dei cacciatori-raccoglitori e le prove archeologiche, come ad esempio i mucchi di gusci puliti rinvenuti negli scavi neolitici dei laghi Burgaschi in Svizzera suggeriscono un uso alimentare della chiocciola già in età mesolitica (Di Leonardo V. in AA.VV. 2005) Il Neolitico L’approccio tradizionale vedeva nel Neolitico un progresso della condizione umana accompagnata da un incremento demografico e migliorate condizioni di vita, ma i confronti etnici con gruppi di cacciatori-raccoglitori e in particolare l’esame dei resti scheletrici sembrano ridare un quadro diverso. La transizione dall’economia di caccia e raccolta all’agricoltura crea una dipendenza dalla produttività del terreno perciò le comunità stanziali divennero vulnerabili non solo alle guerre, con relative distruzioni dei raccolti, ma anche per il clima, gelate o siccità che portavano carestie di massa (Gregorio-Sudano 2008). La stanzialità favori le malattie epidemiche mentre se da un lato si riduce il rischio di infezioni dovute al contatto con animali selvatici diviene un elevato fattore di rischio lo stretto contatto con animali domestici. L’accumulo di rifiuti organici presso le abitazioni aumenta la possibilità di trasmissione oro-fecale di nuove malattie infettive (Bertoldi 1988, Gregorio-Sudano 2008). Dall’esame osteologico emerge una riduzione della statura e della robustezza, un aumento notevole della carie dentaria e segni di malnutrizione e incremento delle infezioni. La percentuale di proteine animali diminuì (Gregorio-Sudano 2008), la conservazione e cottura dei cibi determinò un calo di apporto vitaminico (Bertoldi 1988) mentre aumentò il rischio dell’instaurarsi di una mono dieta. I dati ricavati esaminando le moderne comunità di cacciatori-raccoglitori mostrano chiaramente come dal punto di vista strettamente energetico la caccia, nonostante i suoi inevitabili fallimenti, è un’attività più proficua dell’agricoltura. La carne degli erbivori selvatici ha un contenuto in grassi più favorevole rispetto agli animali d’allevamento, infatti, il grasso di deposito (ricco di acidi grassi saturi) ha un andamento stagionale di pochi mesi, in tal modo i cacciatori assumono acidi grassi polinsaturi e monoinsaturi presenti nel muscolo di cui è noto l’effetto antiaterogeno (Gregorio-Sudano 2008). Inoltre, grazie all’elevato consumo di bacche, semi e frutta selvatica è nettamente migliore l’apporto di vitamine, antiossidanti e sali minerali contenuti nelle essenze selvatiche. Non dobbiamo dimenticare che a fronte di questa iniziale eccedenza passiva il passaggio all’economia neolitica comporta una più alta aspettativa di vita, una maggiore fertilità e di conseguenza un tasso di crescita della popolazione più elevato. (Bertoldi 1988). La nuova tecnica d’acquisizione del cibo ha permesso di sviluppare attività culturali diverse tra le quali rituali religiosi e pratiche mediche oltre ad una maggior cura per i membri più deboli della comunità. Lo studio di una serie di campioni umani, frutto di ritrovamenti sparsi sul territorio nazionale, permette una puntuale e precisa ricerca nell’ambito della paleonutrizione, ma al contempo suggerisce una differenziazione nelle abitudini alimentari tra i vari gruppi neolitici italiani (LonoceBartoli 2007). Fra l’altro la buona campionatura riguardante la variabilità geomorfologica, floristica e faunistica del territorio indica che le popolazioni neolitiche, oltre agli alimenti che producevano autonomamente, sfruttavano intensamente anche le risorse che l’ambiente offriva loro spontaneamente. (Lonoce-Bartoli 2007) Nel primo neolitico gli ovicaprini venivano allevati prevalentemente per la carne. La stratifigrafia del sito delle Arene Candide (SV) documenta che le capre erano allevate sia per la carne sia per il latte. È infatti attestata la mortalità delle capre in età avanzata mentre il consumo del latte vaccino sarebbe confermato dall’insorgenza di forme mortali di tubercolosi spinale (Pedrotti in Lanziger, marzatico, Pedrotti 2001). La mungitura è ancora oggi uno degli enigmi nella storia dell’economia preistorica poiché pecore, capre e vacche in origine non producevano spontaneamente latte fuori dal periodo riproduttivo e la specie umana non era in grado di digerire il lattosio in età adulta. Non solo l’uomo ha dovuto selezionare razze animali capaci di continuare a produrre latte anche dopo lo svezzamento dei piccoli e disponibili a cederlo attraverso la mungitura, ma deve aver corrisposto anche una mutazione genetica consistente nella produzione, anche in età adulta, dell’enzima responsabile della scissione del lattosio (De Marinis R. 1994) I dati di scavo di alcuni siti neolitici, utilizzati in questa sede come campionatura, pur essendo concordanti e talvolta ripetitivi, forniscono indicazioni a volte peculiari che permettono di ricostruire gli usi o le innovazioni avvenute nella produzione agricola e di conseguenza, nell’alimentazione preistorica. L’alimentazione umana è concatenata con l’attività produttiva e di conseguenza l’uso di strumentazione agricola, che migliori la produzione e semplifichi il lavoro dell’uomo, può essere utilizzata per ricostruire il nutrimento impiegato dall’uomo e viceversa. Un esempio sono le indagini del sito neolitico di La Vela di Trento che pur confermando indicazioni già note, hanno fornito anche nuove informazioni riguardanti la produzione cerealicola. Nell’analisi dei resti carpologici di La Vela del 2003 è stato rilevato un aumento di semi di piante infestanti rispetto agli studi del 1975-76. La cospicua presenza di piante infestanti potrebbero indicizzare l’avvento di una nuova strategia di raccolta delle spighe, inizialmente praticata con taglio singolo come testimonierebbero i reperti del Neolitico antico in cui le infestanti sono rare. La presenza di semi di infestanti medio alte presuppone una pratica di raccolta eseguita con il taglio di spighe riunite in mazzetti, quindi con l’impiego di rudimentali falcetti (Degasperi-Mottes-Rottoli 2005). Nei campi trentini erano coltivati tre diversi tipi di cereali: il farro (Triticum dicoccum) il farricello (Triticum monococcum) e l’orzo (Hordeum vulgare/distichum), mentre la documentazione sulla coltura di cereali nudi è scarna, lasciando spazio al dubbio. Il pisello (Pisum sativum) è l’unica leguminosa attestata nel sito La Vela in linea con il ritrovamento camuno di Breno località Castello (Fedele 1988). La frutta è rappresentata da una serie limitata di reperti, ma è possibile riscontrare una certa varietà di essenze suddivisibili, sul piano teorico, fra selvatiche e coltivate. Fra le non domestiche, almeno nel concetto moderno del termine, ci sono nocciole (Corylus avellana), lamponi (Rubus idaeus), sanguinella (Cornus sanguine), sambuco (Sambucus ebulus) e la ghianda (Quercus sp. non determinata). Fra i frutti eduli è confermata la pera (Pyrus sp) e l’uva (Vitis vinifera), mentre per la prima volta è documentata la mela (Malus sp.) probabilmente piante già coltivate (Mottes, Rottoli 1976). I reperti paleobotanici del sito palafitticolo della Lagozza di Besnate (VA), coevo con il ritrovamento di BC3 al Castello di Breno in Valle Camonica (BS), aprono uno spaccato sulla vita degli abitati lacustri neolitici. Le analisi recenti hanno dimostrato la coltivazione del lino (Linum usitatissimum) e di 4 varietà di graminacee, Triticum dicoccum, il Triticum monococcum, il Triticum vulgare antiquorum e il Triticum aestivum compactum (Odone 1998). Le mele, rinvenute spaccate a metà, probabilmente per essere essicate e conservate, appartengono a due specie di cui una, indentificata come Pirus malus per le ridotte dimensioni (il diametro non supera i 2 cm.), è considerata selvatica, mentre la seconda (Pirus communis) potrebbe essere stata coltivata (Odone 1998). Interessanti per ricostruire le bitudini alimentari dei palafitticoli di Lagozza sono i gusci di nocciole, i semi di corniolo e le ghiande di quercia, queste ultime rinvenute già mondate del guscio. La Svizzera con centinaia di siti lacustri, abitati senza soluzione di continuità dal Neolitico all’età del Bronzo, fornisce alcune informazioni utili per la ricomposizione della dispensa preistorica. Per ragioni di sintesi è preso in esame il sito lacustre di Friburgo collocato a sud del più ampio e noto lago di Neuchâtel. Gli scavi archeologici hanno riportato in luce un villaggio palafitticolo con una stratigrafia complessa ed un’evoluzione cronologica compresa fra 3867 e 2462 a.C. (Ramseyer 1992). Gli abitanti del luogo vivevano principalmente di agricoltura coltivando i cereali nei pressi del villaggio. Macine e macinelli, falcetti messori, zappe in corno di cervo, ma in particolare spighe e grani carbonizzati, pani, zuppe, farinate o pappe di cereali bruciacchiate e adese al fondo di vasellame fittile sono l’evidente testimonianza archeologica dell’impiego cerearicolo locale. Purtroppo l’esame carpologico non è stato approfondito perciò al momento non è possibile sapere le varietà cerealicole coltivate localmente, solo una spiga è identificabile come Triticum monococcum. Gli altri resti botanici sono sufficientemente conservati perciò è possibile conoscere nel dettaglio i “menù” dei nativi. Qui erano raccolti frutti probabilmente selvatici, l’evidenza archeologica infatti non consente di stabilire con chiarezza se erano già coltivati, quali nocciole (Corylus avellana), susine (Prunus sp.) e una varietà di mele (Malus sp.). Di sicura natura silvestre sono le bacche di lamponi (Rubus idaeus), more (Rubus ulmifolius Schott), mirtilli (Vaccinium myrtillus) e sambuco (Sambucus nigra?) che erano conservate mediante l’essiccazione (Ramseyer 1992). Nel sito lacustre di Montilier è stato trovato un “dolce” al mirtillo datato circa al 3150 a.C. (Ramseyer 1992). I numerosi arpioni, frammenti di nasse o galleggianti per reti, come pure le punte di freccia, sono la chiara evidenza che pescare e cacciare erano due aspetti di una attività comune ai palafitticoli per il procacciamento del cibo. La documentazione archeologica dei siti del Neolitico antico di Sammardenchia e Faghignola in Friuli e di Lugo di Romagna confermano i dati precedenti. Sono state rinvenute in questi villaggi cospicue quantità di resti di nocciole (Corylus avellana), mele (Malus pumila), prugnole (Prunus spinosa), corniolo (Cornus mas), uva (Vitis vinifera subsp. Sylvestris) e sambuco ebbio (Sambucus ebulus). Resti carbonizzati di mele sono presenti anche nel sito neolitico di Chalain in Francia (AA.VV. 2004). I frutti selvatici come mirtilli o susine, sono ricchi di Sali minerali e di vitamina C, ma sfruttando le tecnologie preistoriche non si prestano alla conservazione quindi erano consumati freschi e solo stagionalmente, nel periodo della maturazione. Gli alberi da frutto selvatici, come meli, peri e prugnoli erano un’ottima fonte alimentare e un’importante riserva invernale poiché potevano essere conservati per l’inverno. I metodi di conservazione sono desunti dai ritrovamenti neolitici della Marmotta, sul lago di Bracciano, in quelli di Charavines e Chalain in Francia e dalla Grotta S. Angelo in Abruzzo: per il mantenimento, le mele e le pere raccolte, venivano cotte in vasi di terracotta o tagliate a metà e poste a seccare al sole (AA.VV. 2004). Le nocciole e le ghiande come, in misura minore noci e pinoli, accumulate durante l’autunno, oltre che consumate fresche, potevano anche essere conservate per la stagione fredda, dove erano molto adatte perché ricche di proteine, calorie e materia grassa. Le forti concentrazioni di gusci carbonizzati di nocciole rinvenute in alcuni insediamenti mesolitici (Isola Santa in Garfagnana, Isole Ebridi in Scozia) fanno pensare alla presenza di forni per la torrefazione, consistenti in buche ricoperte di terra e legna in cui erano poste le nocciole a tostare per favorire la conservazione (AA.VV. 2004). Nel caso della Mummia del Similaun, fortunatamente conservatesi per un processo di mummificazione naturale, è stato possibile ricostruire gli ultimi due pasti consumati dall’uomo attraverso l’analisi del DNA animale residuo. I residui del DNA antico sono stati presi dalle paleofeci prelevate in corrispondenza di tratti diversi dell’intestino della mummia. Secondo quanto emerso dall’analisi del DNA l’ultima escursione dell’uomo avvenne in una foresta di conifere dove consumò un pasto composto di monocotiledoni non identificate, cereali e carne di stambecco (Capra ibex). In un altro luogo, probabilmente il bacino roccioso dove trovò la morte, consumò un altro pasto, l’ultimo, a base di carne di cervo (Cervus elaphus) e dei cereali, probabilmente consistente in una sorta di pane (Ermini-Marota-Ubaldi 2007). Lo scavo del castello di Breno ha riportato in luce uno spaccato di vita neolitica terricola poco conosciuta fino ad allora (anni 1980-85) sulle Alpi Centrali. Lo scavo condotto in maniera scientifica e l’esame condotto nel più alto dettaglio possibile ha permesso il recupero di microresti vegetali utili per ricreare il tipo di sostentamento adottato localmente. La comunità neolitica brenese in particolare e probabilmente camuna in generale, possedeva cani, maiali, capre e ovini utilizzati, apparentemente con l’esclusione dei canidi, per la carne. Si coltivavano cereali fra cui tre specie di frumento (Triticum monococcum, T. dicoccum, T. hestivum), l’orzo (Hordeum vulgare) e dei legumi tra cui i piselli (Pisum sativum) (Fedele 2003). Notevole importanza è l’attestazione della presenza e dell’utilizzo, non è sicura l’addomesticazione e la coltivazione, della vite (Vitis sp.) e del noce (Juglans regia), non introdotti dai Romani ma di probabile origine autoctona (Fedele 2003). Fra gli altri prodotti individuati ma non ancora classificati come specie sono ghiande e semi di sambuco. Le analisi dei campioni faunistici del sito brenese, denominato BC3, rivelano che il cervo (Cervus elaphus) deve aver avuto un ruolo importante nella dieta neolitica camuna mentre una squama di trota è la prova della pescosità del fiume Oglio (Fedele 2003). Aspetti morfologici dei cereali Le differenze morfologiche dei frumenti consentono di stabilire, nel limite del possibile, poiché non sempre le spighe si son conservate, la raccolta e l’uso in preistoria di piante spontanee o la già avvenuta coltivazione. Osservando l’asse della spiga matura si osservano due diversi comportamenti della pianta legata alla dispersione dei semi. Nelle varietà selvatiche si osserva la frammentazione della spighetta che, staccandosi dall’asse centrale, porta con sé una porzione di stelo assumendo, in questo modo, una caratteristica forma a cuneo. Nelle forme coltivate la spighetta si stacca dallo stelo lasciando integro l’asse centrale della spiga che presenta perciò una caratteristica nodulazione in corrispondenza del seme staccatosi. Ambedue le tipologie cerealicole furono utilizzate dall’uomo il quale preferì, nel tempo, la coltivazione delle specie a spiga resistente, poiché offrivano migliori risultati delle varietà con disarticolazione bassa che, lasciando cadere i chicchi a terra, disperdono parte dei grani prodotti con diminuzione del raccolto. I frumenti coltivati sono a loro volta distinti in due gruppi decretati dal loro comportamento al momento della trebbiatura. La trebbiatura ha lo scopo di ripulire il chicco di frumento (cariosside) dalla parte non commestibile della spiga, in modo da averlo libero dal glume, gli involucri che lo avvolgono più strettamente. Le forme più primitive, come le specie diploidi, alcune tetraploidi e il Triticum spelta tra le esaploidi, hanno cariossidi rivestite da glume dure e resistenti che non si distaccano facilmente di conseguenza, con la trebbiatura, si ottiene un insieme di spighette, non di chicchi. Questi cereali sono definiti vestiti I frumenti coltivati più avanzati, come ad esempio il grano duro Triticum durum e il grano tenero, Triticum aestivum, hanno cariossidi nude: gli involucri che le avvolgono sono sottili e membranosi e di conseguenza con la trebbiatura si ottiene un chicco nudo. Le varietà cerealicole vestite, che dopo la trebbiatura restavano ancora racchiusi nelle glume, prima di essere consumati dovevano essere “denudate”. L’operazione detta pilatura consisteva nel pestare le cariossidi essiccate in un mortaio in legno o pietra con un pestello monoxilo. Un’altra tecnica che poteva essere adottata per eliminare le glumelle consisteva nel tostare leggermente le spighe poggiandole su piani di cottura in argilla o in pietra riscaldati poggiandoli a fianco dei focolari, oppure poste in forni. I piani di pietre arroventate rinvenute nei pressi del villaggio neolitico di Travo (PC) o di Torre Sabea (LE) databili circa 8000 a.C., potrebbero aver assolto a questa funzione. In conclusione è più facile che si conservino le varietà vestite, che richiedono di tostatura per il distacco delle glume e che l’archeologo trova negli scavi sotto forma di resti carbonizzati, che non quelle nude che perdono il loro duro rivestimento spontaneamente durante la battitura. La tostatura di cereali, come dei frutti spontanei, adottata prima dell’immagazzinamento poteva essere efficace anche contro l’attacco di muffe e parassiti, favorendo la conservazione a lungo termine. Lavorazione dei cereali I cereali rivestono un’importanza fondamentale nell’alimentazione umana sia perché possono essere conservati per parecchi anni senza perdere il loro valore nutritivo, sia perché rappresentano una buona fonte energetica, sotto forma di carboidrati. Essi però non sono compatibili con il nostro sistema digerente perciò le popolazioni neolitiche potevano consumarli solo dopo la macinatura e la bollitura. La triturazione dei cereali era praticata utilizzando macine ricavate da pietre abrasive come l’arenaria (es. il Verrucano Lombardo) su cui erano sfregati, con andamento lineare o rotatorio, i macinelli stretti in mano. Portare ad ebollizione le farine, inizialmente, doveva essere un’operazione laboriosa di cui non resta traccia archeologica poiché erano impiegati come contenitori otri di pelle o vesciche animali e solo con il miglioramento della lavorazione ceramica furono impiegati contenitori in terracotta. L’impiego di otri o vesciche sono deducibili da confronti etnici e ipotizzati grazie ad una serie di verifiche d’Archeologia Sperimentale. Le tecniche adottate per scaldare l’acqua erano sostanzialmente due, non necessariamente diacroniche, di cui la prima si basava essenzialmente nel porre pietre roventi all’interno di contenitori organici. La seconda consisteva nel collocare i contenitori di pelle o di vescica animale a fianco di un fuoco con fiamma controllata, tenuta bassa in modo che non venga a contatto diretto con l’involucro. Con l’impiego dell’argilla e l’utilizzo di vasellame in terracotta questa operazione risultò meno laboriosa poiché i contenitori erano posti vicino al fuoco poggiati su piani rigidi. In alternativa alla bollitura, la farina veniva mescolata con acqua per ricavarne una pastella elastica, che, una volta cotta su una piastra in pietra surriscaldata, permetteva di ottenere del pane non lievitato, una specie di focaccia sottile. I preziosi rinvenimenti di frammenti di pane carbonizzato nel sito neolitico di Mersin in Turchia (datato 5.800 a.C.) e nel villaggio laziale de La Marmotta ( circa 6.000 a.C.) documentano che già nel neolitico al composto più semplice a base di farina, da considerarsi integrale, non raffinata e quindi ricca di principi nutritivi, mista ad acqua, era data una forma di pagnottella o di schiacciata, ovviamente non lievitata. La focaccia neolitica de La Marmotta presenta una faccia anteriore liscia e una concava, il che presuppone che era appoggiata per la cottura su una superficie piana, probabilmente una pietra riscaldata dal fuoco. «Il forno chiuso che si rifà al forno neolitico del sito di Trasano – afferma l’archeologa Venturo2 – appare una struttura già più elaborata dove la possibilità di controllo di temperature alte doveva permettere cotture più specializzate anche di cibi. Esso poteva quindi assolvere a funzioni diverse come l’essiccazione e la cottura dei cereali, del pane e di cibi derivati». Nel villaggio pala tticolo di Charavines -Francia, risalente al Neolitico nale, sono stati rinvenuti frammenti di focacce con impronte di vimini impresse su una super cie (AA.VV. 2004). I segni di intreccio presuppongono che l’impasto sia stato collocato su una superficie intrecciata e non posta 2 Donata Venturo, Direttrice del Museo Nazionale Archeologico di Altamura, curatrice della mostra Alle origini del pane allestita presso il Museo di Altamura nel 2006. direttamente sulla pietra rovente forse per impedirne l’adesione e favorire il distacco dopo la cottura. Il pane lievitato fu adottato più tardi, perchè richiedeva l’uso dei frumenti nudi (anche oggi Triticum aestivum è la specie più utilizzata per fare il pane). L’orzo, uno dei cereali più diffusi, probabilmente veniva consumato bollito e utilizzato per ottenere delle zuppe, poiché non è molto adatto per fare il pane in quanto contiene proteine solubili nell’acqua, che non si presentano sotto forma di glutine. I cereali minori es. miglio e panico individuati in alcuni contesti neolitici, quali La Vela di Trento, non sembrerebbero utilizzati per confezionare il pane come si evince dall’analisi del pane rinvenuto nel villaggio pala tticolo di La Quercia-Lazise sul Lago di Garda dell’età del Bronzo. Questa pagnotta combusta è di forma tondeggiante, schiacciata, formata da una farina non raf nata derivata da cereali vestiti, con presenza sulla super cie di frammenti di semi che fanno pensare, per le dimensioni, a chicchi grossi ossia appartenenti a frumento o orzo. In una spaccatura è visibile una base di spighetta di Triticum monococcum (AA.VV. 2004). Le granaglie erano immagazzinate e conservate in silos sotterranei, ben documentati in molti villaggi neolitici. Si tratta di semplici fosse o pozzetti circolari, scavate nel terreno, che talvolta conservano ancora parte dell’originaria chiusura in argilla; le pareti di queste fosse potevano essere rivestite di argilla indurita e arrossata dal fuoco. Vari sono gli esempi questi silos fra cui a Travo nella media Val Trebbia all’interno della Struttura 6 è il pozzetto con rivestimento in argilla databile fra 4000 e 3000 a.C. (Bernabò Brea 1991). La medesima funzione potrebbe essere stata svolta dai 2 pozzi neolitici individuati a Casale di Albino (BG) e interpretati come pozzi per la captazione dell’acqua (Poggiani Keller 1992 pp. 74-75). I pozzi di Casale hanno forma cilindrica con diametro compreso fra m. 1,65 e m. 1,90 e hanno una profondità rispettivamente di m. 2.60 e m. 2,80. Uno dei pozzi presenta, ad una profondità di metri uno, due larghi scalini per facilitare la raccolta di ciò che era conservato al suo interno, acqua o granaglie, presupponendo una tecnica costruttiva affinata. I vegetali Le analisi naturalistiche, che affiancano la ricerca archeologica moderna, forniscono dati indicativi sia sulla presenza o assenza, delle specie arboree questo grazie alle analisi palinologiche, mentre con lo studio dei macroresti (frutti, semi, radici, ecc.) si hanno indicazioni sui regimi economici delle popolazioni antiche, in particolare, per il nostro caso, nel Neolitico. Un’occasione interessante di approfondimento è lo studio dei cariossidi di vite che ha permesso di stabilire l’esistenza, fin dalla preistoria, di due varietà all’interno della stessa specie. La Vitis vinifera L. si distingue infatti in Vitis vinifera L.ss. sylvestris che è, come dice il nome, selvatica e la Vitis vinifera ssp. Vinifera domestica che, al contrario è coltivata. La differenza fra le due sottospecie è evidenziata da studi di carattere morfologico e morfometrico; ciò che a noi interessa è che la vite domestica non esiste in natura, ma è frutto di ibridazioni e selezione operati dall’uomo. La presenza di quest’ultima sottospecie è documentata dalla media età del Bronzo mentre l’uso e il consumo della vite selvatica è attestata già nel Neolitico. Oltre ai ritrovamenti del vicino Oriente, es.la giara con tracce di fermentazione di uva selvatica dei Monti Zagros, al confine tra Iran e Turchia, significativi sono i rinvenimenti italiani di cariossidi di vite in particolare al Podere Casanuova presso Pontedera (Pisa) del Neolitico Finale (Paola Perazzi 2005), oppure di vinaccioli del sito neolitico di La Vela presso Trento (Mottes-Rottoli 2005), dei villaggi del Neolitico antico di Sammardecchia e Faghignola in Friuli e Lugo di Romagna del tardo Neolitico (AA.VV. 2004). La vite è una tipica pianta mediterranea, presente fin dalla Preistoria in Europa, come dimostra il ritrovamento di semi carbonizzati di vite selvatica a partire dal Paleolitico Inferiore a Terra Amata in Francia (380.000 anni da oggi) ed in Italia nel Mesolitico a Grotta dell’Uzzo, provincia di Trapani (AA.VV. 2004). L’abbondanza di reperti di vite nel Neolitico antico del villaggio de La Marmotta, nei pressi del lago di Bracciano, inducono a pensare alla produzione, con il succo d’uva, di una bevanda fermentata simile al vino (AA.VV. 2004). La pianta della vite è documentata anche in Valle Camonica grazie allo scavo del Castello di Breno databile circa 6000 anni fa (Fedele F. 2001), pur non conoscendo la funzione svolta da questo vegetale presso i neolitici locali possiamo pensare ad un suo consumo come frutto o forse per fare una bevanda. I tralci di vite rinvenuti nel sito BC3 di Breno potevano essere usati come dispositivi per fare delle legature, un sistema utilizzato e documentato etnograficamente non solo in Valle Camonica ma anche nella pianura. Non si sa con certezza quali popoli iniziarono a praticare la viticolura e a produrre vino, sicuramente è molto antica come bevanda se nella Genesi è scritto: “ Noè cominciò a essere lavoratore della terra e piantò la vigna. E bevve del vino e s’inebriò”. Tracce sulla produzione della birra sono più evidenti. Questa bevanda infatti fu prodotta già dalla civiltà sumerica, come testimoniano alcuni documenti riguardanti la sua fabbricazione. Su tale attività pare esistesse un controllo diretto da parte dello Stato, non soltanto di ordine fiscale, ma anche perché la produzione di birra dipende dai cereali ed è quindi in competizione con quella dei farinacei. La civiltà greca e quella romana non conobbero se non in modo assai marginale l’uso della birra (in greco zythos, in latino cervisia) contrapponendosi alle civiltà nordeuropee che avevano in esse la bevanda più diffusa. Semi e radici Come è noto nel mondo vegetale radici e semi hanno spesso la funzione di organi di riserva e quindi contengono sostanze utili e nutrienti che l’uomo ha imparato ad utilizzare a proprio vantaggio prima per uso alimentare poi per scopi medicamentosi. Per coloro che si nutrono di soli vegetali sono proprio le radici e i semi a fornire la maggior quantità di proteine, di grassi e di amidi. Allargando per un momento, lo spettro d’indagine anche ad altre culture e latitudini è sufficiente pensare ai legumi, ai semi oleaginosi, come noci e nocciole e a tutti quelli da cui si ricavano oli commestibili, per giungere fino ai tuberi farinosi come la patata o la manioca che sfama tutt’ora una larga porzione della popolazione terrestre. Quando l’allevamento del bestiame non era ancora iniziato, e di conseguenza erano sconosciuti i prodotti secondari da esso derivati, quando la caccia era un evento legato a particolari ritualità e quindi forniva un apporto limitato di carne alla tribù, la raccolta di radici e semi era di fondamentale importanza per assicurare la sopravvivenza della specie umana. I semi e le radici si conservano facilmente per tutta la durata della stagione invernale, i primi essiccati, le seconde interrate in sabbia perciò, quando ancora non esistevano gli attuali mezzi di conservazione, potevano costituire una scorta di carboidrati e grassi preziosissimi per le popolazioni alpine che vivevano e vivono tuttora, in località con inverni rigidi. Purtroppo come già constatato le essenze vegetali non conservandosi non forniscono documentazione archeologica se non in deboli tracce difficilmente associabili all’alimentazione umana. L’unica traccia riconducibile al passato è l’etnografia locale che tramandando usi e costumi per via orale ha permesso il sopravvivere di consuetudini ancestrali le sole documentazioni proponibili nella ricostruzione alimentare preistorica priva di fonti scritte. Un caso a parte sono i semi di lino (Linum usitatissim) rinvenuti in numerosi contesti neolitici (es. La Marmotta , Lagozza, ecc.) Negli insediamenti i suoi semi compaiono spesso combusti perché spesso venivano impiegati nella produzione di cibi da forno, per confezionare gallette (uso mantenuto nelle pasticcerie dell’Europa dell’Est), oltre che come condimento delle vivande, data la loro proprietà aromatizzante (AA.VV. 2004). Il lino oltre che essere impiegato nella tessitura per le sue fibre sottili e resistenti, era prezioso per i suoi semi che contengono fino al 40% di olio fortemente insaturo e se spremuti producono un olio ad alto valore dietetico. Se macinati, potevano essere usati per ricavarne una farina alimentare. La varietà di lino da olio (Linum usitatissimum var. humile) ha fusti generalmente più brevi e semi più grandi rispetto a quella da bra (Linum usitatissimum var. usitatissimum) che è invece più alta con il fusto ricco di rami cazioni. I suoi semi, di forma ovale e piatta, di colore marrone-rosso e brillanti sono racchiusi nella capsula che nelle forme coltivate rimane intera no a maturazione. Purtroppo tracce archeologiche sull’impiego alimentare dei semi di lino non sono giunte sino a noi perciò, in questo caso, possiamo formulare solo delle ipotesi di utilizzo anche in relazione a fonti etnografiche che testimoniano l’uso nell’alimentazione, nelle vallate bergamasche, dell’olio di lino (la linusa) ancora agli inizi degli anni ‘50 del XX secolo. Le essenze eduli impiegate nella sperimentazione. Le erbe primaverili sono provvidenziali per la ripresa dei ritmi naturali dopo l’equinozio di marzo e un periodo di alimentazione povera di vitamine e ricca di grassi e proteine. Più rare sono le erbe commestibili estive impiegate nell’alimentazione umana, poiché, non più tenere, abbisognano di bollitura con relativa perdita di valore nutritivo, mentre quelle autunnali forniscono l’ultima scorta vitaminica prima del rigido inverno alpino. La ricerca archeologica non ha fornito informazioni esaustive sulle specie arboree impiegate nell’alimentazione preistorica in particolare del Paleolitico finale - Mesolitico, pertanto si è ricorsi all’etnografia culinaria che, nel suo insieme, può essere considerata un’archeologia culturale del cibo. La sperimentazione ha confermato le ipotesi già formulate in altri studi ossia che l’uomo consumava cibi, in particolare vegetali, seguendo i cicli delle stagioni. La stagionalità è particolarmente evidente nella ricerca di radici o erbe commestibili abbondanti in primavera, diffuse in estate ma non sempre sfruttabili e scarse in autunno. L’inverno doveva essere il periodo di maggior difficoltà e di carestia poiché la conservazione di molte essenze non era sempre possibile con i metodi tradizionali. Nel presente lavoro sono state impiegate solo alcune delle numerose essenze commestibili conosciute e probabilmente già note in Preistoria, ma è stata operata una scelta sia attinente alla stagionalità sia al gusto. Fra le varie specie eduli note sono state utilizzate: Alliaria (Alliaria petiolata – officinalis) Ha foglie con caretteristico odore di aglio perciò è impiegata per aromatizzare carni o zuppe. Le foglie fresche aggiunte all’insalata danno sapore per il caratteristico profumo d’aglio. Barba di Becco (Tragopogon pratensis) Possono essere usate sia le radici (del primo ciclo vegetativo) sia le foglie. Ambedue possono essere mangiate lessate o crude aggiunte ad altre essenze per fare insalate. Le foglie possono essere messe nelle zuppe. Bistorta (Polygonum bistorta) Le foglioline primaverili tenere possono essere aggiunte alle insalate. Quelle mature possono essere usate per zuppe o minestre. Borragine (Borago officinalis) Vengono usate le foglie tenere per fare zuppe, tritate sono ottime nelle insalate. Buonenrico (Chenopodium bonus-henricus) Le foglie tenere bollite sono usate come insalate. Dai semi si ottiene una farina commestibile. Ortica (Urtica dioica) Le foglie tritate per fare le zuppe. Acetosa (Rumex acetosa) Le foglie tritate per insaporire le zuppe. Tarassaco-cicoria (Taraxacum officinale) Le foglie giovani sono un’ottima insalata, quelle più “mature” usate per le zuppe. Menta (Mentha spicata) Le foglie servono ad insaporire le insalate. Timo (Thymus vulgaris) Le foglioline secche o verdi servono per insaporire le carni Acetosella (Oxalis acetosella L.) Le foglioline dal sapore aspro possono essere usate per le insalate oppure per ripulire la bocca. Felce dolce (Polypodium vulgare L.) La radice masticata lascia un buon sapore di liquirizia. Ginepro (Juniperus communis L.) Le bacche servono per aromatizzare le carni. Vivande usate nella dimostrazione Cottura su piastra: carne di capriolo, cervo. Pesce : trota fario, carpa. Carne secca: pecora Zuppe: base cerearicola orzo con piselli, ortica brodo con animelle di pollame base cerearicola farro con buonenrico, acetosa tritata, brodo d’ossa di ovino e bovino Farina di monococco per sfarinata e pane Frutti: Mele, pere, susine, noci, nocciole Condimento: bacche di ginepro, timo, olio di lino Bevande : vino locale, acqua Altri alimenti: miele vergine non decantato, uova di gallina ruspante. Dimostrazione di riscaldamento dell’acqua: Con uso di pietre arroventate immerse in contenitore di pelle di capra Utilizzando la vescica di bovino Appendice I problemi dentari Gli studi di antropologia dentaria hanno permesso attraverso l’esame dell’usura e dello stato di salute dento-alveolare, di valutarne le abitudini alimentari e l’eventuale uso extra-alimentare della dentatura. Lo stile di vita e l’alimentazione dei cacciatori-raccoglitori sono stati determinanti ai fini di un generale buono stato di salute orale poiché la fase alimentare antica mostra un regime nutrizionale piuttosto equilibrato con assunzione regolare di alimenti ricchi di fibre che richiedevano una prolungata masticazione e che avevano un buon potere detergente delle superfici dentarie in grado di sostituire specifiche e certamente sconosciute all’epoca, pratiche igienicosanitarie. Questo primo fattore unito alla totale esclusione dei carboidrati nella dieta alimentare come la quasi assente pratica di cottura dei cibi hanno prodotto come risultato finale all’assenza totale di carie e ad una lieve formazione di tartaro (Sallustio C.- Zaio P. in AA.VV. 2005 pp. 241242). In questa fase esiste un fattore scatenante l’eventuale evento doloroso definito con il termine di “usura dentale” derivato da un uso improprio della dentatura ossia l’impigo della bocca come “terza mano”. Tale stress masticatorio nei periodi successivi può essere correlato all’uso di farinacei macinati con mole di pietra, i cui granuli residui producevano l’effetto “smerigliatura” dei denti. Attualmente si può ritenere l’arco di tempo che va dalle origini dell’uomo al Mesolitico poco interessante sotto il profilo delle patologie dentarie infatti i casi documentati sono sporadici e quasi sempre slegati dalla funzione nutrizionale. Si inizia a parlare di alimentazione/patologie dentoalveolari dal Neolitico dove la dieta prevalentemente cerealicola, fortemente cariogena, ha sostituito le fonti proteiche maggiormente energetiche derivate dalla caccia. Ne conseguono inevitabili carenze nutrizionali, responsabili di probabili decalcificazioni più evidenti in ambito femminile chiaramente derivate da parti e allattamento (Sallustio-Zaio in AA.VV. 2005 pp. 242). Inoltre i microrganismi presenti nel cavo orale agendo sugli zuccheri introdotti con il cibo producono acidi che agiscono sia sullo smalto sia sulla dentina che unitamente ai residui alimentari non più detersi dalle fibre lungamente masticate nel Paleolitico, innescano non solo deposito di tartaro e insorgere di carie, ma innescano anche tutte le patologie del parodonto fino alla definitiva perdita dentale. 7500 anni fa i primi bevitori di latte (da Le Scienze del 29/08/2009) In base all'analisi di reperti del neolitico, alcuni ricercatori, dell’Università tedesca di Mainz, dell'University College London e hanno scoperto che gli uomini del Neolitico non digerivano il latte: il gene che permette la sua assimilazione si sarebbe evoluto circa 7.000 anni fa. La capacità di digerire il lattosio si è evoluta per la prima volta nelle comunità di allevatori dell'Europa centrale circa 7500 anni fa. A stabilirlo è stato uno studio condotto da ricercatori dell'University College London che ne riferiscono in un articolo pubblicato sulla rivista on line ad accesso pubblico "PLoS Computational Biology". La mutazione genetica che ha consentito ai primi europei di bere latte senza risentire di conseguenze negative si sarebbe in particolare verificata fra popolazioni che vivevano fra i Balcani centrali e il centro Europa. In precedenza si riteneva che la selezione naturale avesse favorito i bevitori di latte solamente nelle regioni più settentrionali dell'Europa, a causa del loro maggior fabbisogno di vitamina D nella dieta. La maggior parte delle popolazioni del mondo sintetizzano la vitamina D grazie all'esposizione al sole, ma alle latitudini più alte per buona parte dell'anno essa è insufficiente per assicurarne una adeguata produzione. Per giungere a questa conclusione i ricercatori hanno eseguito una serie di simulazioni al computer per studiare la diffusione dei geni correlati alla persistenza della lattasi nell'adulto in Europa. "A livello globale - osserva Mark Thomas, che ha diretto lo studio - la maggior parte degli adulti non produce l'enzima lattasi che è indispensabile per digerire il lattosio, a differenza di quanto avviene per la maggioranza degli europei. In Europa, una singola variazione genetica (13,910*T) è fortemente associata alla persistenza della lattasi. Dato che il consumo di latte da adulti non era possibile prima della domesticazione degli animali, è verosimile che la persistenza della lattasi sia evoluta con la pratica culturale della produzione di latticini, anche se non si sa con precisione quando questa fece la sua prima comparsa in Europa e quali fattori ne abbiano stimolato la rapida diffusione." "Il nostro studio ha simulato la diffusione della persistenza della lattasi in Europa scoprendo che essa ha iniziato ad apparire circa 7500 anni fa fra i Balcani centrali e l'Europa centrale, probabilmente fra persone della cosiddetta cultura della ceramica lineare. Ma contrariamente a quanto comunemente creduto, abbiamo anche scoperto che il bisogno di vitamina D assunta nella dieta non è necessario per spiegare perché la persistenza della lattasi è oggi divenuta comune in Nord Europa", ha osservato Thomas. Oltre a fornire vitamine, il latte è infatti un alimento calorico ricco di proteine, è disponibile in maniera relativamente costante, a differenza degli alimenti vegetali, e può essere meno contaminato da batteri rispetto alle acque.Altri studi hanno indicato che i latticini potessero essere consumati nell'Europa sud-orientale fin dall'epoca delle prime popolazioni di allevatori e tracce di proteine su antico vasellame ritrovato in Ungheria e in Romania ne testimoniano l'uso già fra i 7900-7450 anni fa, mentre in Inghilterra le prime tracce di grassi di origine latticina risalgono a 6100 anni fa. Tuttavia i ricercatori osservano che con tutta probabilità all'epoca il latte non era consumato crudo ma che veniva prima fermentato per produrre yogurt, burro e formaggio”. G.M. Bibliografia - - - - - - - di riferimento AA.VV., L’uomo e le piante nella Preistoria, catalogo della mostra, Università di Pisa, 2004. 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