V. Farina - Dipartimento di Analisi dei processi economico
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V. Farina - Dipartimento di Analisi dei processi economico
Intorno a Ribera. Nuove riflessioni su Giovanni Ricca e Hendrick van Somer e alcune aggiunte ai giovani Ribera e Luca Giordano * di Viviana Farina 1. Giovanni Ricca anno domini 1634: la pala Orsini e la `Maddalena in meditazione' di Madrid. In una mattina dei primi di dicembre del 2010, per la prima volta in visita in una bella collezione privata, rimasi colpita da un dipinto in particolare, all'apparenza proveniente da una cappella gentilizia. In esso giganteggiano due sante monache: la prima, vestita di un saio nero stretto in vita dalla corda francescana e accompagnata da una corona posata in terra, riconoscibile a primo acchito in Santa Elisabetta d'Ungheria; la seconda, dal medesimo saio bruno e dal capo ricoperto da un velo bianco, restoÁ nell'attimo oscura nell'identitaÁ. Due angeli in volo recano corone di fiori sulle teste femminili; al centro di esse un terzo mostra un libro; sulla destra, la scena appare completata da colonne salomoniche e da un ricco tendaggio. La descrizione appena resa eÁ di certo fallace in qualche dettaglio: cito infatti a memoria, dal momento in cui non ho piuÁ avuto modo di rivedere il dipinto, ne mi eÁ stato concesso di ricontrollare la composizione attraverso una riproduzione fotografica per l'impegno preso dai padroni di casa con un altro studioso. Mi eÁ stato riferito che la tela si trovava in precedenza in Spagna e che aveva recato l'attribuzione a Pietro Novelli il Monrealese. Un riferimento errato, ma sensato, perche l'opera si avvicina davvero da presso ai modi pararibereschi e paravandyckiani del siciliano, nella fattura degli angeli, nel chiarore alabastrino degli incarnati, nella brillantezza degli scuri. Evoco a confronto, per immaginarne lo stile, la Madonna con Bambino tra i santi Benedetto e Scolastica, una delle piuÁ misurate composizioni del Novelli che si assume realizzata per l'abbazia di San Martino alle Scale nel 1634 (fig. 1), tela in cui va riconosciuto non solo l'apporto * Si presentano qui, in prima stesura, alcuni degli argomenti discussi in un volume, dedicato a questioni di pittura e disegno a Napoli nella prima metaÁ del Seicento, che vedraÁ la luce nella Primavera del 2012. Il repertorio fotografico relativo al testo eÁ recuperabile all'indirizzo web www.ilseicentodivivianafarina.com/ Saggi e Recensioni. 155 del plurinvocato Anton van Dyck 1, ma anche della cultura napoletana: dal classicheggiante Ribera del 1624 ± alludo alla pala giaÁ a Weimar ed oggi a Berlino ± ai moduli neoraffaelleschi, di matrice carraccesca e reniana, messi a punto da Massimo Stanzione, omaggiato nel gruppo della Vergine e del Figlio. In quella stessa mattina ebbi modo di esprimere il mio entusiasmo ai proprietari del dipinto: vi avevo riconosciuto la medesima mano a cui eÁ necessario restituire pure un secondo esemplare che avevo lungamente osservato alla mostra sul Barocco a Napoli. Si tratta della bella Maddalena in meditazione di collezione privata a Madrid (fig. 2), edita piuÁ volte da Nicola Spinosa sotto il nome di Ribera: dipinto piuÁ che pregevole, ma la cui tenuta di stile non eÁ tale da reggere il confronto con gli autografi dello spagnolo 2. Per sua parte Gabriele Finaldi, discorde con Spinosa, ha fatto il nome della Gentileschi (chissaÁ se egli fantasticasse sulla Conversione della Maddalena di Palazzo Pitti, analogamente vestita di dorate screziature) 3: il riferimento eÁ, peroÁ, anch'esso poco pertinente, sebbene acuto nel cogliere la nota profana che distingue la Maddalena in meditazione di Madrid e che la distacca dal piuÁ doloroso e pietistico immaginario di Ribera. Come a Napoli, dinnanzi alle due sante monache, avevo ben inteso di trovarmi dinnanzi ad un fuoriuscito dalle costole del valenzano; ad un profondo conoscitore e del repertorio tematico e compositivo e del denso impasto pittorico del Ribera maturo; ad un amante di bellezze femminee splendenti e sensuose, piuÁ `laiche', in una parola, che nel caposcuola; ad un pittore di ragazze dai volti pieni, i contorni ammorbiditi da un delicato sfumato, l'incarnato eburneo ravvivato da gote e bocche scarlatte; ad un disegnatore di dita affusolate e dalle unghie tipicamente contornate, quasi una sigla; ad un cultore di sete damascate, brillanti nella tinta e dalle preziose screziature; ad un magister elegantiae, privo ± tuttavia ± della grinta da assoluto leader detenuta dello Spagnoletto. Questi, in sintesi, i tratti peculiari del maestro, emulo dell'arte di Ribera nella sua accezione piuÁ raffinata e `mediterranea', al punto da rappresentare una brillante alternativa a Filippo Novelli il Monrealese, proprio come nel caso del dipinto di collezione privata. Ad un tempo, l'artista mi era apparso in singolare sintonia con il Francesco Guarino della fine degli anni Trenta/primi anni Quaranta. In quella mattina di dicembre conoscevo giaÁ il nome da pronunciare. Ne trovai piena conferma alcuni giorni dopo la visita, quando, ripercorrendo certuni regesti archivistici noti da tempo, individuai la polizza di banco che va ricongiunta al Cfr. G. DavõÁ in Pietro Novelli e il suo ambiente, catalogo della mostra, Palermo 1990 [d'ora in poi Palermo 1990], pp. 230-231, cat. II.25. 2 N. Spinosa, Ribera. La obra completa, Madrid 2008 [d'ora in poi Spinosa 2008], p. 450, cat. A302; N. Spinosa in Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli, catalogo della mostra a cura di N. Spinosa, Napoli 2009 [d'ora in poi Napoli 2009], p. 94, cat. n. 1.25. Il dipinto era passato in precedenza sul mercato (Christie's London, 7 dicembre 2007, lotto 223) con il riferimento ad «Anonimo napoletano del XVII secolo». 3 Il parere di Finaldi eÁ riportato da Spinosa in Napoli 2009, p. 94, cat. n. 1.25. Sulla Maddalena di Pitti, cfr. S. Casciu in Caravaggio e caravaggeschi a Firenze, catalogo della mostra a cura di G. Papi, Firenze 2010, pp. 162-164, cat. n. 26, con bibliografia. 1 156 dipinto in questione, il cui punto di stile, una volta riprodotto il quadro da chi potraÁ farlo, confermeraÁ indiscutibilmente le riflessioni frattanto qui apportate. Un documento recante la data del 3 novembre 1634 attesta, come da «giorni sono», il pittore «Giovanni Riccio» avesse giaÁ compiuto un quadro raffigurante «Santa Francesca et Santa Elisabetta» per la cappella posseduta da donna Felice Maria Ursini, duchessa di Sermoneta, nella chiesa napoletana di Santa Maria in Portico; alla data, il medesimo pittore riceveva inoltre l'acconto per realizzare una Madonna del rosario, destinata all'altare principale, e i Santi Gennaro e Pietro, «vestiti pontificalmente», da porre alla mensa a «mano dritta», dati che permettono di stabilire come l'ancona descritta per prima si trovasse all'origine sul lato sinistro della cappella 4. Le sante indicate nella polizza di banco corrispondono negli attributi iconografici a quelle effigiate nella tela da me vista in collezione privata, in cui eÁ cosõÁ possibile riconoscere la terziaria francescana Elisabetta d'Ungheria affiancata dalla benedettina Francesca Romana, questa ultima vestita del saio nero e del velo bianco e accompagnata da un angelo secondo il piuÁ comune dettato iconografico. Quanto all'autore della tela, il testo d'archivio si riferisce, con chiarezza, a Giovanni Ricca, l'artista pagato nell'agosto del 1641 per la Trasfigurazione di Santa Maria della Sapienza (oggi in deposito presso la Prefettura di Napoli, fig. 3), e che si firma «Ioannes Ricca» nell'Adorazione dei pastori della chiesa di Santa Maria del Sepolcro a Potenza (fig. 4), opera significativamente attribuita in passato a Ribera e al Monrealese 5, persona dell'entourage riberesco, indagata per primo da Ferdinando Bologna nella monografia su Francesco Solimena e, poi, al fianco del nordico Hendrick van Somer 6. TorneroÁ in seguito sulle due commissioni pubbliche appena menzionate. Basti intanto tenere presente che, al confronto con esse, la tela con le Sante Elisabetta d'Ungheria e Francesca Romana pagata nel 1634 trova un piuÁ facile parallelo nel- 4 G.B. D'Addosio, Documenti inediti di artisti napoletani dei secoli XVI e XVII dalle polizze dei Banchi, in «Archivio Storico per le Provincie Napoletane», XXXVIII, 1913 [d'ora in poi D'Addosio 1913], p. 494; F. Bologna, Per Giovanni Ricca; con qualche aggiunta a Enrico Fiammingo, al Monrealese e a Gian Giacomo Manecchia, in Ricerche sul `600 napoletano. Scritti in memoria di Raffaello Causa. Saggi e documenti per la storia dell'arte 1994-1995, Napoli 1996 [Bologna 1996], pp. 9, 34, nota 6. 5 Per i documenti relativi alla Trasfigurazione, F. Bonazzi, Dei veri autori di alcuni dipinti della chiesa di Santa Maria della Sapienza di Napoli, in «Archivio Storico per le Provincie Napoletane», XIII, 1888 [d'ora in poi Bonazzi 1888], p. 126; D'Addosio 1913, p. 495; sulla tela di Potenza, Bologna 1996, p. 12, con bibliografia precedente; N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli da Caravaggio a Massimo Stanzione, Napoli 2010 [Spinosa 2010], pp. 377-378, cat. n. 378; sul dipinto della Sapienza, Bologna 1996, pp. 9-10, con letteratura; Spinosa 2010, p. 378, cat. n. 379. 6 F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958 [d'ora in poi Bologna 1958], p. 33; Bologna 1996. Sul pittore si veda anche N. Spinosa, La pittura napoletana del `600, Milano 1984 [Spinosa 1984], figg. 671-675; N. Spinosa, Aggiunte a Hendrick van Somer ``alias'' Enrico Fiammingo, in Napoli e l'Europa. Ricerche di storia dell'arte in onore di Ferdinando Bologna, a cura di F. Abbate e F. Sricchia Santoro, Roma 1995 [Spinosa 1995], p. 229; M. Lafranconi in Dipinti della Collezione D'Errico, Napoli 2002 [Dipinti 2002], pp. 30-31, con bibliografia. 157 l'Adorazione dei pastori di Potenza, segnatamente negli angeli, nonostante quest'ultima opera debba trovare posto in una fase avanzata del percorso del maestro. Un dato che si intende tanto piuÁ se si considera che la Trasfigurazione della Sapienza, la cui autografia eÁ difesa dall'evidenza documentaria, rappresenta una parziale deviazione stilistica nel percorso di Ricca tale da renderla un unicum della sua produzione. Le notizie sin qui note su Giovanni Ricca sono ben poche, senza tenere in conto ± e ne daroÁ qui prova ± che il catalogo delle opere cosõÁ come ricostruito da Ferdinando Bologna presenta numerosi tasselli eterologi da ricondursi sotto il nome di Hendrick van Somer. Il documento del 1634, collegato ad una pala d'altare di preciso gusto novellesco, dice piuÁ di quanto potessimo sperare. La stretta affinitaÁ culturale che si riscontra tra la pittura di Ricca e quella del Monrealese ad apertura degli anni Trenta sollecita, infatti, due ipotesi sugli esordi artistici di Giovanni. La prima eÁ che egli sia un maestro siciliano trapiantato a Napoli. Lo suggeriva giaÁ Ferdinando Bologna che, nel redigere una lista degli artisti recanti il cognome «Ricca», caldeggiava un collegamento in particolare: quello con l'argentiere palermitano Michele Ricca, attivo negli stessi anni in cui Giovanni dipingeva a Napoli 7. Si puoÁ precisare che Michele Ricca e Pietro Novelli risultano documentati collaboratori nel 1635, in occasione della realizzazione dell'Urna reliquaria di san Gerlando, giaÁ conservata nella cattedrale di Agrigento 8. Tra il 1632 e il 1633, quando si ritiene che il Monrealese abbia raggiunto la capitale del Viceregno, Giovanni Ricca pote trovarsi al suo seguito. Una seconda tesi ± alla quale sarei piuÁ incline per motivi che saranno a poco a poco chiari ± vede piuÁ semplicemente Ricca entrato in contatto con Novelli ad apertura del Quarto decennio, entrambi attratti nell'orbita di Ribera. Quanto al maestro siciliano, colgo rapidamente l'occasione per mettere in luce come una piuÁ attenta disamina stilistica della sua opera comporteraÁ necessariamente l'ipotesi di almeno un secondo soggiorno napoletano, da far cadere nella seconda parte degli anni Trenta. Ma il punto meriteraÁ una riflessione di ben altro respiro. La nobildonna menzionata nel documento del 1634 eÁ la stessa Felice Maria Orsini, duchessa di Gravina e di Sermoneta, a cui si deve la donazione di numerosi terreni per la fondazione della chiesa e del monastero di Santa Maria detti in Portico, affidati nel 1632 alla Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio di Lucca 9. Nella tela richiesta a Giovanni Ricca, la visione congiunta di due sante gentildonne, in un secondo momento della propria esistenza votatesi in toto alla vita monastica e alle attivitaÁ caritatevoli, doveva apparire quale un evidente richiamo alla generosa religiositaÁ dell'aristocratica committente. Dal documento si deduce, ancora, che a soli due anni dall'apertura al culto Bologna 1996, p. 35, nota 17. Palermo 1990, pp. 377 e fig. 8; 389, cat. III.15. 9 La lapide attestante tali notizie, ancora in situ, eÁ trascritta da C. De Lellis, Aggiunte alla Napoli Sacra di Cesare D'Engenio, Napoli 1654, p. 306. 7 8 158 della chiesa, Ricca, di cui si ignorano gli estremi biografici, era artista affermato al punto da essersi guadagnato la fiducia di un'altolocata mecenate e l'appalto di un'intera cappella. Un pittore di successo nel 1634 dovrebbe verosimilmente appartenere alla medesima generazione del collega sinora con lui piuÁ confuso, ossia il van Somer, nato nel 1607. Ignoro al momento le sorti degli altri due dipinti che secondo il testo d'archivio Giovanni Ricca avrebbe dovuto dipingere per la cappella Orsini tra la fine del 1634 e il 1635, ne sono in grado di stabilire per quali vie la tela con le Sante Elisabetta d'Ungheria e Francesca Romana sia finita in Spagna. EÁ noto che il vicere marchese del Carpio fu ospite del convento di Santa Maria in Portico appena giunto a Napoli alla fine del 1682, mentre attendeva la sistemazione del palazzo vicereale 10. Avevo dunque sperato di poter ritrovare tracce del dipinto in oggetto nei corposi inventari della collezione dell'alto aristocratico, ma non ho avuto successo. Le antiche guide cittadine ± persino l'attento canonico del Duomo Carlo Celano ± passano rapidamente sulla descrizione della chiesa di Santa Maria in Portico. Rimane cosõÁ solo un'ipotesi che la cappella gentilizia dell'Orsini sia da identificare nella terza della navata sinistra intitolata alla Madonna del Rosario ± questo il soggetto della pala d'altare menzionato nel testo del 1634 ± che Gennaro Aspreno Galante attesta essere stata rimodernata nel corso del Settecento, come quasi l'intero edificio sacro 11. Ho piuÁ sopra esposto l'opinione circa la contiguitaÁ stilistica che lega la tela Orsini appena ritrovata alla Maddalena in meditazione di collezione privata a Madrid (fig. 2). Quest'ultima, quando riferita a Ribera, ha sostenuto una ragionevole datazione intorno al 1640, fissata da Nicola Spinosa sulla base del confronto con la ragazza che ha prestato il viso alla Santa Agnese della galleria di Dresda e alla Maddalena in meditazione del Museo del Prado, firmata da Ribera nel 1641 12. Tenderei piuÁ precisamente a credere che la Maddalena in meditazione di Ricca debba trovare posto all'incirca tra il 1635 ed entro il 1641, al fine di non distanziarla eccessivamente dalla pala Orsini del 1634 e di farla precedere alla Trasfigurazione di Santa Maria della Sapienza del 1641. Il punto di stile del Duello tra donne compiuto dallo Spagnoletto nel 1636 (Madrid, Museo del Prado), o del femmineo Apollo che scortica Marsia effigiato nella rinomata tela di Napoli (1637), rappresenta un buon parallelo per supportare la cronologia qui proposta per la Maddalena in meditazione. Ma bisogna risalire nel tempo per comprendere a fondo le origini di tale ricerca coloristica: i preziosismi della veste e i lussureggianti capelli della peccatrice di Ricca vedono a monte le lussuose inclinazioni stilistiche per cui Ribera mostrava interesse da anni. Con il senno di oggi, eÁ, infatti, indubbio D. Confuorto, Giornali di Napoli dal MDCLXXIX al MDCCIC, a cura di F. Nicolini, Napoli 1930, I, pp. 94-95. 11 D.M. Pagano in G.A. Galante, Guida sacra della cittaÁ di Napoli, ed. commentata a cura di N. Spinosa, Napoli 1985, pp. 264-265. 12 Cfr. la bibliografia citata supra a nota 2. Sulle tele di Dresda e di Madrid, cfr. Spinosa 2008, p. 450, cat. A301-A302. 10 159 comprendere come un filo rosso leghi i primi esperimenti di tinte cangianti de La resurrezione di Lazzaro del Museo del Prado, caposaldo del passaggio del valenzano da Roma a Napoli, a quelli del grande Calvario di Osuna, eseguito ormai nel Viceregno (1618), e, almeno, della lussureggiante Maddalena in meditazione che fu in raccolta Chigi (Roma, collezione privata, 1618/1620). Un discorso straordinario di cui Ribera sembra essere l'assoluto inventore (in anticipo su Bartolomeo Cavarozzi e in un'accezione distinta dalle lucide iridescenze della linea Cecco del Caravaggio/Orazio Gentileschi, che pure influenzoÁ la pittura napoletana tra Battistello, Finoglio e Vitale); che vede un primo importante traguardo nella Trinitas terrestris, eseguita entro il 1628 per la chiesa francescana della TrinitaÁ delle Monache (Napoli, Museo di Capodimonte; il dipinto eÁ celebre e basteraÁ guardare al dettaglio della Vergine riprodotta nel Classico dell'Arte Rizzoli per trovare la prova di quanto affermato; fig. 5) 13, e un successivo arricchimento, in direzione neoveneta, nel corso del quarto e quinto decennio. 1.1. La `Santa Caterina d'Alessandria' di Torino ed altre congiunture guariniane. Esiste un celeberrimo testo pittorico che affonda interamente le sue radici nell'arte di Ribera, dipendendo, segnatamente, dai raffinatissimi accordi cromatici dello spagnolo sulla metaÁ degli anni Trenta. Una giovane donna, vista a tre quarti di figura, il corpo di profilo, poggia la destra sulla spada che la identifica nella aristocratica martire di Alessandria d'Egitto. Il viso porcellanato, incorniciato dalla ciocca ossigenata, ispirato alla Madonna ritratta nella Trinitas Terrestris (fig. 5); la stoffa magnifica annodata sul capo, vicina a quella sfoggiata dalla Sibilla del Museo del Prado, frammento di un Trionfo di Bacco (1635 ca.; fig. 6); i lineamenti scorciati nell'ombra, come nei cherubini affollatisi sotto Dio padre nella TrinitaÁ del Museo del Prado (1630/1632; fig. 7); la veste rossa screziata di bianco, sorella dell'ampio manto scarlatto e iridescente scorto nella medesima TrinitaÁ 14. Cito, se non lo si fosse ancora inteso, da quell'assoluto capolavoro che eÁ la Santa Caterina 13 La cronologia della Trinitas terrestris ± che eÁ opera forse da ricollegarsi ad una commissione giunta nel 1621 ± trova un ragionevole termine post quem non nei pagamenti a Cosimo Fanzago relativi alle parti marmoree dell'altare in cui essa era stata collocata (cfr. N. Spinosa in Ribera, catalogo della mostra, Napoli 1992 [d'ora in poi Napoli 1992], pp. 157-160, cat. n. 1.24). Per la riproduzione fotografica citata, N. Spinosa, Ribera. L'opera completa, Milano 1978 [Spinosa 1978], tav. XVI. 14 Fatale per il confronto il dettaglio fotografico edito da Spinosa 2008, pp. 132-133, che data l'opera al 1635/1636. G. Finaldi (in Ribera. `La Piedad', catalogo della mostra, Madrid 2003 [d'ora in poi Madrid 2003], pp. 100-103, cat. n. 4) ne sostiene una cronologia anteriore, ai primi anni Trenta, ma precedente al 1634, quando Ribera dava inizio ai lavori per il grande altare di Salamanca. Lo stesso studioso non ha mancato, peroÁ, di notare i possibili parallelismi con la Trinitas Terrestris della TrinitaÁ delle Monache: una cronologia ad apertura del decennio mi appare, di fatto, oggi la piuÁ verosimile, anche al fine di distribuire meglio le opere dello Spagnoletto nel corso degli anni Trenta. 160 d'Alessandria giaÁ in collezione Einaudi, dal 2006 parte delle raccolte di Palazzo Madama, museo civico di Torino (inv. 695; figg. 8-8a), con il dubbioso riferimento a Bartolomeo Bassante 15. Come eÁ noto, la tela fu pubblicizzata per la prima volta da Raffaello Causa con la doppia proposta di attribuzione, nel testo, al Maestro di Resina ± «una sorta di Bassante ingentilito e prezioso» ±, e nella didascalia al Bassante, nome seguito, peroÁ, dal punto interrogativo 16. Una perplessitaÁ di giudizio espressa anche da Nicola Spinosa nella scheda redatta per la mostra napoletana del biennio 19841985 e da Giuliano Briganti, il piuÁ lucido estimatore del quadro 17. Contemporaneamente, Gianni Romano classificava l'opera quale splendido «omaggio al `genio degli anonimi' », esemplare testo di sfida «anche per gli attribuzionisti piuÁ geniali» 18. Federico Zeri aveva frattanto suggerito il meno opportuno riferimento a Francesco Fracanzano 19. Poco dopo, Ferdinando Bologna lo incluse in un minigruppo di opere facenti capo all'anonimo autore di una Madonna del latte un tempo nella collezione del restauratore Pico Cellini, per lo studioso un maestro attivo a Napoli a partire dalla metaÁ del secondo decennio, poi mossosi in contemporanea con Francesco Guarino: propriamente, una «sorta di edizione cittadina del primo Guarino» 20. Con il riferimento al Maestro della Madonna Cellini, la Santa Caterina 15 Il Museo Civico di Arte Antica di Torino. Opere scelte, Torino 2006, p. 40. Su Bartolomeo Bassante, si veda il profilo tracciato da F. Abbate, Storia dell'arte nell'Italia meridionale. Il Secolo d'oro, IV, Roma 2002 [d'ora in poi Abbate 2002], pp. 77-79. 16 R. Causa, La pittura del Seicento a Napoli dal Naturalismo al Barocco, in Storia di Napoli, Cava dei Tirreni 1972 [d'ora in poi Causa 1972], V, p. 974, nota 5 e fig. 288. 17 N. Spinosa in CiviltaÁ del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984 [d'ora in poi Napoli 1984], I, p. 189, cat. n. 2.5; G. Briganti in Da Biduino ad Algardi. Pittura e scultura a confronto, catalogo a cura di G. Romano, Torino 1990 [Torino 1990], pp. 154-157, cat. n. 13. 18 Pittura italiana del `600 e `700, catalogo a cura di G. Romano, Milano 1990, pp. 13-14. 19 Il parere eÁ riportato da Gianni Romano (ivi, p. 14). 20 F. Bologna, Battistello e gli altri. Il primo tempo della pittura caravaggesca a Napoli [d'ora in poi Bologna 1991], in Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli, catalogo della mostra a cura di F. Bologna, Napoli 1991 [Napoli 1991], pp. 160, 321-322, cat. n. 2.90. Per la Madonna Cellini, ivi, p. 322, cat. n. 2.91. Il gruppo includeva anche l'Elemosina di santa Lucia di collezione privata romana (ivi, p. 323, cat. n. 2.92). G. Papi (Il genio degli anonimi. Maestri caravaggeschi a Roma e a Napoli, catalogo della mostra, Milano 2005 [Papi 2005], pp. 64-67) ha successivamente fatto di quest'ultima opera il name-piece di un artista romano o napoletano, autore anche di una piuÁ antica Sacra famiglia con san Giovannino del Museo di Nantes e di un'IncredulitaÁ di san Tommaso passata sul mercato antiquario con il dubitativo riferimento a Pietro Novelli. Lo stesso Papi eÁ tornato sull'argomento in occasione del convegno tenutosi a Lille in parallelo alla mostra su Paolo Finoglio (G. Papi, Il Maestro di Baranello, fra Salini e Napoli, in «Bulletin de l'Association des Historiens de l'Art italien», 17, 2011 [Papi 2011], pp. 10-23). Frattanto, S. Causa (La strategia dell'attenzione. Pittori a Napoli nel primo Seicento, Napoli 2007 [Causa 2007], pp. 70-71 e figg. 16-17) aveva riedito l'Elemosina di santa Lucia sotto il nome di «Ignoto pittore napoletano del primo quarto del Seicento» e attribuito la Sacra famiglia di Nantes a Giovanni Bernardino Azzolino. Come ho anche avuto modo di comunicare a Gianni Papi, non concordo su quest'ultima proposta: il dipinto esprime la medesima cultura di passaggio tra Cinque e Seicento che appartiene al Siciliano ± e d'altra parte il quadro era stato accostato a 161 di Torino eÁ stata quindi da ultimo commentata, con dovizia ed eleganza, da Stefano Causa, che l'ha posta nel novero di quella parte della pittura napoletana discendente dagli «effetti elettrizzanti, e lampeggianti» di Antonio De Bellis, dalla lezione del quale dipenderebbero, per l'appunto, il «tuttora imprendibile anonimo, suo autentico sosia [di De Bellis], autore della Santa Caterina» e Francesco Guarino 21. Nella medesima sede editoriale, lo stesso Causa, quasi non contento di questo primo giudizio e lamentevole «di non poter dare l'ultimo giro di vite a una delle quattro o cinque cime napoletane del secondo quarto del secolo», si eÁ spinto oltre, affiancando al quadro torinese alcune mezze figure del maestro di Solofra scalabili tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, «senza che si riesca, questo eÁ il punto!, a postulare l'identitaÁ di mano». L'anonimo pittore non eÁ piuÁ «una sorta di Bassante ingentilito e prezioso», ma «una sorta di Guarino ingentilito e prezioso» 22, un commento, questo ultimo, molto pertinente. Non era frattanto mancato in precedenza chi, altrettanto acutamente (ma il rinvio eÁ sfuggito agli esegeti del quadro), aveva accompagnato la riproduzione dell'opera Einaudi con l'intelligente didascalia di «Ignoto pittore napoletano di influenza novellesca» 23. In effetti, la bellezza smagliante, dal profilo alla greca, della giovane messa in posa, procede non solo dall'immaginario femminile e classicheggiante di Ribera, ma ricorda anche il tipo scelto da van Dyck per impersonare proprio la santa di Alessandria ritratta sul margine destro della Madonna del Rosario, la pala spedita dal maestro in San Domenico a Palermo nel 1627 (fig. 10), nonche punto di partenza imprescindibile per le ricerche del Monrealese. La bibliografia appena ripercorsa eÁ corposa, ma da essa non eÁ emerso alcun puntuale rimando all'opera di Ribera in persona. Chi ha insistito sul confronto con Guarino o con De Bellis non sbagliava, ma non ha tenuto conto delle piuÁ imponenti aperture al mondo del colore di un vero leader quale lo spagnolo. Oggi anche colui che non conosca dal vivo la Santa Caterina d'Alessandria potraÁ ricorrere alla magia di Adobe Flash-Player disponibile sul sito ufficiale di Palazzo Madama e Fabrizio Santafede dai curatori del museo francese ±, ma impensabile eÁ nell'Azzolino quel brano di vero naturalismo parariberesco che eÁ il volto di san Giuseppe. Contemporaneamente, mi interrogo sulla necessitaÁ di tenere in ambito partenopeo l'Elemosina di santa Lucia, opera che sembra meritare ulteriori riflessioni. Quanto infine alla Madonna del latte Cellini, Stefano Causa (ivi, pp. 164-165, nota 14) vorrebbe associarla ad una Madonna con Bambino di collezione privata, giaÁ edita sotto il nome di Guarino (R. Lattuada, Francesco Guarino da Solofra nella pittura napoletana del Seicento (1611-1651), Napoli 2000 [Lattuada 2000], pp. 192-193, cat. n. E18), e che peroÁ ben si adegua ai modi del maestro di Solofra. La tela Cellini, passata piuÁ di recente all'asta (Babuino Roma, 17 maggio 2005, lotto 45: «Filippo Vitale»; fig. 9) resta un'opera problematica, di cultura affine, ma forse non identificabile in quella di Giovanni Ricca, come attestano il piuÁ solido impianto della Vergine e il modellato mascolino delle mani. Non mancano in essa gli addentellati con le Nozze mistiche di santa Caterina, discusse, con il riferimento al Ricca, piuÁ avanti all'altezza della nota 28 (fig. 12). 21 Causa 2007, 123-124, nota 39; 126, nota 62. 22 Ivi, pp. 134-135. 23 M.G. Paolini, Preistoria di Pietro Novelli: proposte per la formazione, in Palermo 1990, p. 62 e fig. 6. 162 ripercorrere il quadro in ogni dettaglio: non mancheraÁ di riscontrare quanto appena sostenuto. Chi eÁ dunque l'autore di questa «epifania folgorante» (S. Causa)? Per quanto mi riguarda, non ho dubbi. La Santa Caterina eÁ il quarto tassello del catalogo di Giovanni Ricca cosõÁ come qui lo si propone: del tutto piana eÁ ai miei occhi la connessione stilistica con la Maddalena in meditazione di raccolta privata a Madrid (fig. 2), al punto da suggerire di tenere anche l'opera di Palazzo Madama nel secondo quinquennio degli anni Trenta 24. Gli studiosi che in passato si occuparono della tela non avevano ancora a disposizione tutti i tasselli; diversamente, coloro che se ne sono interessati piuÁ di recente avrebbero potuto leggere tra le righe di Spinosa e, ancora meglio, in quelle di Briganti, e ritrovarvi nascosta la soluzione attributiva, perche entrambi avevano giaÁ messo in luce le strette affinitaÁ culturali, se non proprio l'identitaÁ tra il maestro della Santa Caterina e Onofrio Palumbo, ai tempi ± si badi bene! ± creduto l'autore di quell'Adorazione dei pastori di Potenza da cui poi eÁ riemersa la firma di Giovanni Ricca 25. Dal dibattito bibliografico appena sopra ridiscusso hanno fatto frattanto capolino i nomi di Pietro Novelli e Francesco Guarino, ossia gli artisti evocati in apertura per comprendere la cultura della pala ordinata da Felice Maria Orsini nel 1634. Poche settimane or sono, ammirata dinnanzi ad un capolavoro ritrovato di Guarino, quale La disputa di Santa Caterina d'Alessandria con i filosofi pagani, una tela che Riccardo Lattuada aveva collegato al ciclo di casa Orsini a Gravina, databile sul 1642 26, mi erano naturalmente sovvenute alcune inflessioni linguistiche delle Sante Elisabetta d'Ungheria e Francesca Romana e della Maddalena in meditazione di raccolta privata spagnola. All'istante, non ricordavo affatto la pagina de La strategia dell'attenzione. Mi chiedo, dunque, se tale singolare tangenza tra Ricca e Guarino non possa trovare una migliore spiegazione nella circostanza che vede entrambi gli artisti protetti, sebbene in tempi diversi, da membri della famiglia Orsini: la lapide ancora esistente in Santa Maria in Portico garantisce, infatti, il titolo di duchessa di Gravina anche per donna Felice Maria. Non eÁ cosõÁ, forse, propriamente un azzardo ipotizzare l'influenza di Giovanni Ricca su Francesco Guarino, e non viceversa, se il primo aveva ottenuto l'appalto di un'intera cappella sin dal 1634, al tempo in cui invece il secondo, nato nel 1611, doveva circolare in ambito partenopeo ancora alla ricerca di un definito e personale partito stilistico. I quadri N. Spinosa (in Napoli 1984, I, p. 189, cat. n. 2.5) aveva suggerito di datare il dipinto poco dopo il 1640. 25 «Il pittore piuÁ a lui vicino mi sembra Onofrio Palumbo, quale ci appare almeno dalla Adorazione dei pastori della chiesa di San Sepolcro a Potenza, ammesso che quella pala d'altare sia proprio del Palumbo, come pensava il Causa, e non dello stesso Bassante» (G. Briganti in Torino 1990, p. 156). Con l'occasione, lo studioso (ibidem) precisava inoltre che non eÁ una replica autografa del dipinto di Torino la tela pubblicata da M. Marini, Pittori a Napoli. 16101656, Roma 1974, fig. 55 («Bartolomeo Bassante»). 26 Lattuada 2000, pp. 199-201, cat. E23. La serie comprende l'EsauÁ che vende la primogenitura a Giacobbe e l'Isacco che benedice Giacobbe di Pommerfeldsen (ivi, cat. E19-E20). 24 163 incassati nel soffitto ligneo della Collegiata di San Michele a Solofra, o sistemati nel medesimo complesso (penso, in particolare, alla magnifica Annunciazione che ora si vede incastonata nel soffitto della terza cappella a sinistra), difficilmente databili precedentemente al 1637 segnato nell'Annuncio a Zaccaria, non possono, infatti, pensarsi senza la profonda meditazione condotta dal giovane Guarino sulla pittura napoletana al principio del quarto decennio. La confusione attributiva tra Guarino e Ricca va registrata almeno nel caso ± da rettificare prontamente a favore di Giovanni ± di una Testa di santa Caterina di collezione privata napoletana (fig. 11) 27. A questa, sempre con il riferimento a Francesco Guarino, sono giaÁ state associate delle Nozze mistiche di santa Caterina (Napoli, collezione privata, fig. 12) 28, prospettanti una piuÁ complessa analisi stilistica, se i riscontri con le opere di Giovanni Ricca risultano piani nella figura della Vergine, mentre in quella della martire il dato di stile inclina verso NiccoloÁ De Simone. EÁ mia idea che entrambi i dipinti appena recensiti spettino al periodo 1645/1650. EÁ ancora possibile rimpolpare il catalogo di Ricca con l'aggiunta di due opere culturalmente situabili negli anni Trenta. La prima eÁ la Santa orante del Museo Diocesano di Napoli (fig. 13), forse raffigurante una Vergine immacolata o una Maddalena in preghiera, giunta in frammento dalla chiesa di Santa Maria dell'Aiuto, assegnata di recente ad «Ignoto napoletano del secondo quarto del Seicento» 29. La seconda eÁ una Testa di profilo di santa martire (Caterina?) ± una predilezione iconografica da parte del maestro, dunque! ±, che ho rintracciato esposta nel Museo Civico di Barletta (fig. 14), di un'eleganza quasi vouettiana piuÁ vicina alla Santa Caterina di Torino. Ripercorso fino a questo punto il cammino di Giovanni Ricca, eÁ possibile, immaginare un antefatto alla commissione del 1634? Mi sembra detenere tali requisiti stilistici un interessante Crocifisso con la Maddalena del Museo Diocesano di Napoli (fig. 15-15a), proveniente dal Palazzo Arcivescovile, di recente pubblicato con la didascalia di «Ignoto pittore napoletano del XVII secolo», ma nel testo cautamente associato al nome di Andrea Vaccaro 30. Come eÁ giaÁ stato correttamente indicato, l'impaginato della tela presuppone a monte la grande Crocifissione di Osuna di Ribera del 1618 e, ancora meglio, la Crocifissione di Paolo Finoglio della pinacoteca di Monaco di Baviera, situabile all'incirca sul 1626 (fig. 16) 31. In 27 Cfr. V. Pacelli, Pittura del `600 nelle collezioni napoletane, Napoli 2001 [Pacelli 2001], tav. 79, come di Francesco Guarino. 28 Ivi, tav. 78, come Guarino. 29 S. Causa in Il Museo Diocesano di Napoli. Percorsi di fede e di arte, a cura di P. Leone de Castris, Napoli 2008 [Museo 2008], p. 134, cat. n. 41. Lo studioso avvicina la tela, da un lato, a NiccoloÁ De Simone, dall'altro ± meno convincentemente ± a Girolamo de Magistro o dello Mastro, favorendo una datazione a ridosso della metaÁ del secolo. Al medesimo Causa non eÁ frattanto sfuggito il nesso stilistico tra il quadro in oggetto e il Crocifisso con la Maddalena discusso qui di seguito. 30 I. Maietta in Museo 2008 pp. 114-115, cat. n. 31. 31 Tale datazione, stabilita sulla base del rapporto con la Circoncisione della Sala del 164 questa ultima, la figura del Cristo, il solido modellato e il profilo del volto della Vergine, la pesante qualitaÁ dei tessuti rappresentano tutti ottimi testi di confronto per comprendere lo stile e la cronologia del Crocifisso con la Maddalena del Museo Diocesano, la cui proposta di datazione «attorno agli anni Venti» andraÁ ora precisata sullo scorcio di questo medesimo decennio. Il deciso partito luminoso, parabattistelliano, che plasma il corpo di GesuÁ e la linea del volto della Maddalena ± antenata della Maddalena in meditazione di Madrid ± testimonia la cronologia piuÁ antica di un'opera dall'impianto ancora caravaggesco, che riflette il portato delle sintetiche e tornite volumetrie e delle scintillanti eleganze di Paolo Finoglio, piuÁ che la dettagliata indagine del particolare, di marca fiamminga, cara a Ribera. 2. Revisioni e novitaÁ per il catalogo di Hendrick van Somer. L'inclusione del Crocifisso con la Maddalena nel catalogo di Giovanni Ricca permette di ampliare ulteriormente il raggio di osservazione. I dati di stile appena sopra descritti mi convincono dell'ipotesi di una formazione svoltasi in ambito napoletano piuttosto che in Sicilia, e di un percorso svolto in parallelo con Hendrick van Somer, anche in epoca precedente al comune impegno per la chiesa di Santa Maria della Sapienza. Il tipo di luce e l'ovale tornito della Maria inchinatasi alla sinistra della croce suggeriscono una lettura sinottica del quadro del Museo Diocesano con la Maddalena penitente di Palazzo Lanfranchi a Matera (fig. 17), della quale sono state a ragione messe in evidenza «la vigorosa soliditaÁ formale» e la «lucida perspicuitaÁ oggettiva di non pacifica collocazione nel quadro delle personalitaÁ attive in ambito partenopeo fra il terzo e il quinto decennio del secolo» 32. Ed infatti tali osservazioni non risultano idonee a definire la maniera di Andrea Vaccaro o di un anonimo a lui vicino, secondo le attribuzioni sinora avanzate per la tela 33: esse si rivelano bensõÁ giuste per individuare lo stile di un naturalista di ambito nordico, quale appunto van Somer. Sostengono l'attribuzione della Maddalena penitente al fiammingo il confronto tra il brano di natura morta e quello inserito nel San Girolamo in lettura giaÁ in Galleria Borghese, poi in Palazzo Corsini e attualmente conservato nei depositi di Palazzo Barberini, firmato da Hendrick nel 1652 (fig. 18-18a) 34, Capitolo di San Martino, eseguita nel 1626, appare piuÁ convincente di quella sul 1614/1615 supposta in passato da Ferdinando Bologna (cfr. L. Rocco in Paolo Finoglio e il suo tempo. Un pittore napoletano alla corte degli Acquaviva, catalogo della mostra (Conversano 2000), Napoli 2000 [d'ora in poi Conversano 2000], p. 149, cat. n. 11). 32 cfr. M. Lafranconi in Dipinti 2002, pp. 38-39, con bibliografia. 33 Ibidem. 34 Cfr. A. Schiattarella in Napoli 1984, I, p. 462, cat. n. 2.242, con bibliografia. La tela eÁ stata da ultimo esposta al museo di Lille (VelaÂzquez, Ribera, Giordano. Portraits de la penseÂe, catalogo della mostra a cura di A. TapieÂ-R. Contentin, Lille 2001 [d'ora in poi Lille 2011], p. 142, cat. n. 25). Il quadro dei depositi Barberini dipende dal San Girolamo in lettura della 165 come la fisionomia femminile della santa, dal volto pieno, lo sguardo fisso e la bocca disegnata che si ritrova (meno florida, dato il tema) nella Vergine della PietaÁ della chiesa di Santa Restituta, all'interno della Cattedrale di Napoli (fig. 19-19a). I lustri volumi della giovane penitente di Matera fanno propendere per una datazione anteriore al 1635 35. L'inclusione della tela nel corpus pittorico di Van Somer permette di accogliervi altre due opere alle quali sembra addirsi una medesima, precoce cronologia. Al confronto con la modella del quadro D'Errico passa al fiammingo, per proprietaÁ transitiva, la bella Santa Agata del Museo PusÏkin (fig. 20), giaÁ attribuita, nell'ordine, a Ribera, Stanzione e Guarino, e che daterei intorno al 1632, l'anno iscritto nella Guarigione di Tobiolo (Madrid, collezione dei duchi Medina de Las Torres; fig. 21), siglata «E.c S» 36. Nella posa del braccio piegato, il quadro richiama un'ulteriore tela riferita a van Somer, un David e Golia di raccolta napoletana (fig. 22), che apre a sua volta interessanti scenari sulla conoscenza da parte dell'artista del prototipo di Battistello Caracciolo in Galleria Borghese (1612; fig. 23) e, di riflesso, del repertorio romano di Simon Vouet e del suo ambito (fig. 24) 37. Pinacoteca di Praga, firmato da Ribera, forse nel 1646 (Spinosa 2008, p. 464, A33), in passato attribuito al proprio van Somer (cfr. l'archivio fotografico della Fondazione Federico Zeri; Spinosa 1978, p. 121, cat. n. 188: «van Somer o Ignoto imitatore del Ribera»), anche in considerazione della falsa firma dello Spagnoletto, seguita dalla data del 1649, che recava il San Girolamo Barberini precedentemente al restauro. 35 I confronti qui proposti acclarano definitivamente l'unione della personalitaÁ dell'«Errico fiammingo» della tradizione napoletana, ossia l'«Enrico de Somer», ma anche «de Semer», che nel 1636 dichiarava di avere ventinove anni (nato nel 1607) e di vivere a Napoli da dodici anni, quindi dal 1624 incirca, con l'«Enrico. S» che firma il San Girolamo in lettura del 1652, e che per Ferdinando Bologna (1958, p. 33, nota 12; Bologna 1991, pp. 164, 166-167 e note) eÁ, invece, un omonimo Hendrick van Somer nato nel 1615 a Roma e rientrato ad Amsterdam nel 1645, «pedissequo imitatore di Ribera» e autore di questo unico quadro. Il ragionamento eÁ stato giaÁ definito «inspiegabile» da Spinosa 1995, p. 230, nota 22; ma accetta ancora lo sdoppiamento tra i due van Somer, T. Scarpa in La collezione d'arte del San Paolo Banco di Napoli, a cura di A. Coliva, Milano 2004 [Collezione San Paolo 2004], pp. 108-109. Un primo tentativo di ricostruzione monografica del pittore si deve a G.J. Hoogewerff, Hendrick van Somer, schilder van Amsterdam, navolger van Ribera, in «Oud-Holland», 60, 1943, pp. 158-172; sull'artista si vedano anche le annotazioni di Causa 1972, p. 965. 36 Lattuada 2000, pp. 170-171, cat. E1, come Guarino, una datazione al 1635 circa, e una proposta di collegamento con la Maddalena di Matera, di cui lo studioso riferisce dell'attribuzione al Vaccaro. Sulla Guarigione di Tobiolo di collezione Medina de las Torres, cfr. Pintura napolitana de Caravaggio a Giordano, catalogo della mostra a cura di A.E. PeÂrez SaÂnchez, Madrid 1985, p. 352, dove sono pure riprodotte in facsimile la sigla e la data apposte sul dipinto. Spinosa 2010, pp. 395-396, cat. nn. 411-412, avanza il sospetto che la lettura dell'anno 1632 sia erronea. 37 Il David eÁ stato reso noto da Spinosa 1995, p. 226, nota 14 e fig. 180. Nell'inclinazione della testa, nel piglio contegnoso, nel berretto piumato, nella posa del braccio destro disteso e del sinistro piegato, la composizione, seppure tagliata a poco piuÁ che mezzo busto, appare in obbligo con il David e Golia compiuto nel 1612 dal Caracciolo per Scipione Borghese, piuÁ che con il prototipo di Guido Reni oggi al Louvre. Quanto al preciso dettaglio del gomito poggiante sulla grande testa mozzata, esso sembra tratto dal repertorio di Simon Vouet. Penso alla straordinaria 166 Hendrick van Somer va, poi, risarcito di un San Francesco in estasi sorretto da due angeli di collezione privata (fig. 27), anch'esso giaÁ edito sotto il nome di Francesco Guarino 38, come rivela il possibile parallelo tra l'angelo vestito di rosso e quello altrettanto ricoperto di porpora, e analogamente posto sul confine sinistro della scena, nella Guarigione di Tobiolo (collezione Intesa San Paolo, in deposito a Napoli, Villa Pignatelli; fig. 26). Il San Francesco, che nel piuÁ morbido impasto ripropone i modi della Guarigione di Tobiolo della raccolta Medina de las Torres (fig. 21), sembra precedere di qualche tempo l'esemplare di Intesa San Paolo, eseguito sul 1635 o poco dopo 39. In questo, la luce colpisce le forme sbalzandole, facendole rientrare, squadrando le mani di Tobiolo, ammaccando i volti e i panneggi delle donne, come eÁ possibile riscontrare nella Caritas romana, siglata da Van Somer «HS Fco» e datata «1635» (giaÁ Roma, collezione senatore Bosco; fig. 25) 40. Una risoluzione stilistica che pone l'artista in singolare sintonia con un altro nordico di stanza a Napoli, Matthias Stomer, residente in cittaÁ dal 1633 al 1637 incirca 41. Giuditta della Pinacoteca di Monaco di Baviera, che spetta al maestro in persona quanto meno nell'idea (cfr. a riguardo le osservazioni di V. Farina, Remarques sur le voyage geÂnois de Simon Vouet. Nouvelles reÁflexions aÁ propos du `Portrait de Giovan Carlo Doria', des preÂmisses de la galerie des portraits des poeÁtes e d'une nouvelle cronologie pour la `Crucifixion' du GesuÁ, in Simon Vouet en Italie, Actes de colloque (Nantes 2008) sous la direction de O. Bonfait & H. Rousteau-Chambon, Rennes 2011, pp. 95, 109, nota 50). Il David di van Somer non supera a mio giudizio il 1635, se lo si affianca, nel volto plasmato dalla luce, alla Pero della Caritas romana siglata in quell'anno (fig. 25a), e, nel panneggio, alla Guarigione di Tobiolo del gruppo bancario San Paolo di Torino (fig. 26), di poco successivo a questa ultima tela. Per altre due redazioni del tema del David con la testa di Golia, si veda oltre il testo. 38 Lattuada 2000, pp. 222-223, cat. E43, con una cronologia al 1645 incirca. 39 La Guarigione di Tobiolo proviene dalla collezione del Duca di Noja, dove era giaÁ attribuita a «Enrico fiammingo». Ritenuta da Ferdinando Bologna (1991, p. 166) una prova addirittura anteriore a quella del 1632 dei duchi di Medina de las Torres, e da Spinosa (1995, p. 228) opera dei primi del quinto decennio come il Sansone e Dalida allora sul mercato napoletano (ivi, fig. 179), eÁ stata da ultimo collocata, piuÁ ragionevolmente, all'incirca sul 1635 (T. Scarpa in Collezione San Paolo 2004, pp. 108-109). 40 Á E possibile che la tela sia la stessa indicata da Bernardo De Dominici (Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani [1742-1745], edizione commentata a cura di F. Sricchia Santoro e A. Zezza, Napoli, 2008 [d'ora in poi De Dominici ed. 2008], III, I, p. 26) in casa del marchese di Biscardi con il riferimento a Ribera. Su di essa Bologna 1991, p. 164; L. Rocco in Napoli 1991, p. 310, cat. n. 2.73, con bibliografia. Spinosa 1995, p. 224, nota 6, segnala l'esistenza di almeno due repliche autografe. 41 Per un punto sul percorso di Stomer, A. ZalapõÁ in Dipinti caravaggeschi nelle raccolte bergamasche, catalogo della mostra a cura di E. Pascale e F. Rossi, Bergamo 2000 (d'ora in poi Bergamo 2000), pp. 83-88. Rilevano la sintonia culturale tra van Somer e Stomer, Causa 1972, p. 965; Spinosa 1995, p. 227 (ma i Suonatori d'osteria un tempo a Parigi presso la Galerie de la Scala, citati all'altezza del commento e datati dallo studioso ai primi anni Quaranta ± ivi, p. 227 e fig. 177 ± non sembrano appartenere a Van Somer, ma a un caravaggesco nordico attivo a Roma tra gli anni Venti e i Trenta del Seicento); A. ZalapõÁ in Bergamo 2000, p. 87; Abbate 2002, p. 101. Come eÁ noto, difficile eÁ a tutt'oggi delineare lo sviluppo cronologico dell'arte di Matthias, proteso ad una maniera pressoche uniforme e che conosce pochi cambiamenti nel tempo. Due tele assegnate ai suoi primi anni italiani, Il Gusto e Il Tatto (collezione privata) 167 L'analisi dello stile consiglia di porre intorno al 1635 anche un San Girolamo che ascolta la tromba del Giudizio (fig. 28), venduto da Christie's New York (14/01/ 1993, lotto n. 161) con il corretto riferimento a Van Somer, in cui va scorta una rielaborazione dell'incisione di analogo tema siglata da Ribera nel 1621 (fig. 29) 42. Altri esemplari sinora non riferiti ad Enrico fiammingo rimarcano la questione del ruolo svolto dal pittore nella bottega del valenzano. Riconosco i modi dell'artista, in una data prossima alla metaÁ degli anni Trenta, in un Sant'Antonio abate in lettura tentato dal Demonio di raccolta Etro a Milano (fig. 31), il santo serenamente immerso nell'azione intellettuale, ignorando l'insidia del dragone scorto sul margine sinistro della scena; in un San Girolamo scrivente di attuale ubicazione ignota (fig. 32), che interpreta il tipo maschile di Ribera con un naturalismo asciutto, intatto da ricerche pittoricistiche, piuÁ caravaggesco strictu sensu e nella scelta delle luci e nella composizione, tale da farmi proporre una datazione precoce, al 1630 incirca; ancora, nel San Bartolomeo a mezzo busto del Birmingham Museum of Art dell'Alabama, deposito della Kress Collection (fig. 33), variante del San Bartolomeo di Ribera, parte dell'Apostolato del Museo del Prado (1630-1632 circa), da tempo relegato nel catalogo dei collaboratori dello Spagnoletto, ma forse vera e propria opera di collaborazione tra il maestro e van Somer 43. Altri dipinti piuÁ acerbi e impacciati nella composizione su cui vorrei ora soffermarmi suggeriscono un anteriore svolgimento dei fatti. Allo stato delle conoscenze su van Somer, il Martirio di san Sebastiano del Museo di Capodimonte (fig. 34), dal piuÁ rigido impaginato che testimonia la libera riflessione dell'artista sulla Flagellazione di Caravaggio e sul Martirio di san Bartolomeo inciso da Ribera nel 1624 (fig. 35), sembrerebbe ancora costituire uno dei primi tasselli del catalogo del maestro 44. Avanzo con cautela l'ipotesi che possa presentati in coppia alla mostra di Napoli (W. Prohaska in Napoli 2009, p. 121, cat. n. 1.44: «Roma, primi anni Trenta»), possono rappresentare un significativo parallelo per il punto di stile della Caritas romana siglata da van Somer nel 1635. Circa il possibile scambio attributivo tra i due nordici, eÁ intanto opportuno precisare che il bel David con la testa di Golia della raccolta Etro a Milano, di recente esposto sotto il nome di van Somer (N. Spinosa in Napoli 2009, p. 116, cat. n. 1.40), presenta i piuÁ tipici stilemi di Matthias piuttosto che di Hendrick: basti il confronto con La morte di Abele della Pinacoteca di Palermo (Pittori del Seicento a Palazzo Abatellis, catalogo della mostra a cura di V. Abbate, Milano 1990 [Palermo 1990b], pp. 156159, cat. n. 25). 42 Á E possibile che spetti a Hendrick anche una copia del San Girolamo della Galleria Doria Pamphilj firmato da Ribera nel 1629, venduta a Parigi da Tajan (22/06/2009, lotto 74: «entourage di van Somer 1640 circa»; fig. 30). Il quadro eÁ verosimilmente la replica dell'originale dello Spagnoletto che nel 1974 era presso la galleria Fischer di Parigi (Spinosa 1978, p. 97, cat. n. 33a: «copia secentesca»). 43 Spinosa 1978, p. 101, cat. 51d. Dal 1952 di proprietaÁ Kress, proviene forse dalla raccolta del duca di Medinacoeli; nel 1950 era a Firenze in collezione Contini Bonacossi, quando Longhi ne difese l'autografia con una proposta cronologica intorno al 1630. Il Suida fu pressappoco dello stesso parere, successivamente non accettato dagli esegeti di Ribera. 44 Lo si identifica nel quadro di 7,8x5,8 palmi, corrispondenti ai 205x154cm della tela, riferito ad Enrico Fiammingo nell'inventario del 1846 della collezione Sancio. Ceduto alla 168 precederlo l'Ecce homo della chiesa di San Michele a Baranello (fig. 36) ± dove si conserva un noto Compianto di Cristo di Battistello Caracciolo ±, quadro in cui Gianni Papi ha per primo ravvisato la tangenza culturale con Enrico fiammingo, sebbene egli abbia poi preferito identificarvi l'opera capogruppo di un anonimo maestro, di formazione napoletana, che dal luogo di conservazione della tela prende il nome 45. Intendo i confronti di Papi. Eppure, non mi sfugge la similitudine tra la cascata di pieghe del mantello di Pilato che ci osserva dal confine sinistro (per altro affine nel tipo al repertorio umano di Van Somer) e quella del soldato posto di spalle nel Martirio di san Sebastiano di Capodimonte; tra il fitto plisse del turbante dell'anziano governatore e la fusciacca intorcinata ai fianchi del santo; tra lo sguardo fisso dell'armigero sito alla destra del Cristo e quello imbambolato del martire romano. Anche la soprammenzionata PietaÁ di van Somer in Santa Restituta a Napoli puoÁ offrire un utile indizio per lo studio dell'Ecce homo di Baranello, se si confronta il dettaglio del piede tornito che sbuca al di sotto del manto della Vergine (fig. 19b) con l'arto, dall'unghia colpita da una svirgolata di luce, del soldato chiuso nella corazza posto sul confine destro dell'opera molisana (fig. 36a). Quanto alla tela della Cattedrale di Napoli (fig. 19), presentata inedita alla mostra del 1991, la si eÁ sinora ritenuta un prodotto della maturitaÁ di Van Somer 46. Galleria Reale di Napoli, fu rimesso sul mercato napoletano dove, nel 1920, lo acquisõÁ Roberto Longhi, definitivo donatore dell'opera all'istituzione partenopea. EÁ stato proposto al pubblico quale opera giovanile di van Somer da Ferdinando Bologna (Cfr. L. Rocco in Napoli 1991, p. 313, cat. n. 2.72, con bibliografia). Lo cita ancora Spinosa 1995, p. 224, nota 7. Il Martirio di san Bartolomeo giaÁ in raccolta Astarita, altra opera giovanile del fiammingo per Bologna (1958, p. 33; Bologna 1991, pp. 164 e 151, fig. 161; Spinosa 1995, p. 224, nota 7), non mi sembra invece spettargli, come rilevoÁ giaÁ Causa 1972, p. 965. Quanto alla cosiddetta Estasi sul tamburo, un tempo presso la galleria Lucani a Roma (Bologna 1991 153, fig. 165: «van Somer, primi anni Venti»; Spinosa 1995, pp. 224, nota 7, 227), Gianni Papi (La ``schola'' del Caravaggio. Dipinti dalla collezione Koelliker, catalogo della mostra (Ariccia 2006-2007), Milano 2006, p. 308) ha giaÁ avanzato un diverso, e ragionevole, riferimento ad Anonimo caravaggesco del Nord, attivo a Roma tra il terzo e il quarto decennio. 45 Papi 2005, pp. 108, 119, L10; Papi 2011, pp. 13-14 e fig. 8, 22, nota 13, con il rinvio alla letteratura precedente a firma del medesimo studioso. L'accorpamento del quadro di Baranello al gruppo dell'Omonimo mi rende ulteriormente perplessa dopo avere studiato dal vero due capisaldi di tale ricostruzione, tra loro effettivamente omogenei, quali i Quattro santi coronati del Museo di Roma e l'Incoronazione di spine del Museo PusÏkin di Mosca, attualmente esposti in Palazzo Venezia (cfr., rispettivamente, G. Becatti e V. Markova in Roma al tempo di Caravaggio, catalogo della mostra (Roma) a cura di R. Vodret, Milano 2011, pp. 288-289, cat. n. X.6 (con la vecchia proposta attributiva ad Orazio Riminaldi), e pp. 160-161, cat. n. VI.8 («Tommaso Salini»)). 46 Bologna 1991, p. 166: «nel momento ... del Battesimo della Sapienza [van Somer] si riconosceva nella PietaÁ di Santa Restituta»; L. Rocco in Napoli 1991, p. 313, cat. n. 2.77. Nell'ordine di inserimento delle fotografie relative alle schede di catalogo, la PietaÁ segue, infatti, il Battesimo del 1641 e precede il San Girolamo scrivente giaÁ presso le Trafalgar Galleries, siglato «HS F» e datato 1651 (fig. 62); la proposta cronologica di Ferdinando Bologna eÁ accolta da Spinosa 1995, p. 224, nota 7. 169 La composizione, che discende da modelli di Michelangelo, in linea con quanto sperimentato da Ribera e Azzolino, appare piuÁ rigida di quanto dovesse essere in origine per l'irreversibile e precario stato conservativo 47. CioÁ nonostante, il carattere arcaico che la contraddistingue puoÁ leggersi quale una prova da affiancare al giovanile Martirio di san Sebastiano appena sopra argomentato piuttosto che un segno di stanchezza nel percorso di van Somer. Se si accettasse il riferimento a Hendrick del quadro di Baranello, esso verrebbe a precedere le due opere giaÁ assegnategli, con una cronologia sullo scorcio degli anni Venti 48. Non eÁ da sottovalutare che la PietaÁ dipende dal celebre gruppo scultoreo di Michelangelo, perche tale interesse va letto in rapporto al clima di piuÁ generale curiositaÁ per il Buonarroti mostrata da Ribera e dal suo ambito. All'epoca del dipinto di Santa Restituta, una copia del celebre disegno della PietaÁ con angeli eseguito per Vittoria Colonna aveva infatti giaÁ ispirato, pressoche letteralmente, Giovan Bernardino Azzolino per la PietaÁ in San Domenico a Barletta (M. Pasculli Ferrara, Pittura napoletana in Puglia.II, in Seicento napoletano. Arte, Cultura e Ambiente, a cura di R. Pane, Napoli 1984, pp. 244-245) e, piuÁ liberamente, il proprio Ribera per la TrinitaÁ del Museo del Prado e per la PietaÁ inserita nella cimasa del retablo marmoreo de Las Augustinas di Salamanca, firmata e datata nel 1634 (G. Finaldi in Madrid 2003, pp. 100-103, cat. n. 4, 108-111, cat. n. 6). Il volto livido del Cristo ritratto nella TrinitaÁ dello Spagnoletto (fig. 7) rappresenta, inoltre, un ottimo testo di confronto per la corretta lettura dell'analogo dettaglio della pala di Santa Restituta (fig. 19c). 48 Sono invece da respingersi altre proposte per la giovinezza del pittore. EÁ il caso della Sant'Agata visitata in carcere da san Pietro e l'angelo di collezione privata a Bergamo (fig. 37), riferita al van Somer della fine degli anni Trenta-inizio anni Quaranta (Spinosa 2010, p. 394, cat. 409). La tela aveva giaÁ conosciuto una discreta fortuna critica (R. Contini in Dalla Banca al Museo. La collezione d'arte del Credito Bergamasco, catalogo della mostra (Bergamo) a cura di F. Rossi, Milano 1996, pp. 40-43, con bibliografia: «Artista caravaggesco nordico del secondo quarto del Seicento»; P. Leone de Castris in Conversano 2000, pp. 38, 41, nota 28: «Maestro delle Nozze mistiche di santa Caterina di Capua», dalla tela omonima del Museo Campano (Bologna 1991, pp. 20, 44, 66), un anonimo naturalista partenopeo degli anni Dieci; G. Papi in Bergamo 2000, pp. 38-41, cat. n. 3: «Pittore caravaggesco napoletano degli anni Venti»). In un primo momento Gianni Papi (in Artemisia, catalogo della mostra a cura di R. Contini e G. Papi (Firenze-Roma), Roma 1991, p. 60, nota 53) aveva giudicato il quadro opera di Artemisia Gentileschi nei primi anni Trenta. La tela sembra di fatto prodotta a Napoli intorno al 1635, da un artista ben addentrato nel linguaggio partenopeo della Gentileschi, dell'Adorazione dei magi della Cattedrale di Pozzuoli in particolare, e, sotto alcuni aspetti, vicino a van Somer e a Matthias Stomer. EÁ possibile piuÁ di un raffronto con il Pilato si lava le mani (Roma, collezione privata, fig. 38) attribuito da Bologna (1996, p. 26 e fig. 19) a Gian Giacomo Manecchia intorno al 1640. Quanto all'assegnazione al giovane Enrico fiammingo della Decollazione di san Giovanni Battista giaÁ in collezione Bernardini a Padova (Lecce, collezione privata; L. Galante 1988, Appunti per Vouet, Gargiulo e Finoglia, in «Itinerari di ricerca storica: pubblicazione periodica del Dipartimento di studi storici dal Medioevo all'EtaÁ contemporanea», UniversitaÁ degli Studi di Lecce, I, pp. 51-53; Spinosa 1995, p. 226 e fig. 176; Bologna 1996, p. 36, nota 30; C. Pastore in Echi caravaggeschi in Puglia, catalogo della mostra (Lecce-Bitonto 2010-2011) a cura di A. Cassiano- F. Vona [d'ora in poi Lecce-Bitonto 2010-2011], Irsina 2010, pp. 36-37, cat. n. 14), essa eÁ da respingersi a favore di uno spostamento dell'opera in ambito genovese (V. Farina, Echi caravaggeschi in Puglia. Review, in www.ilseicentodivivianafarina.com, 19 luglio 2011 [Farina 2011], p. 23, al n. 15 (dove, per errore, rinvio a Bologna 1991 invece che a Spinosa 1995), come sembrano indicare l'impasto pittorico, le scelte cromatiche della SalomeÁ e la tangenza con i modi di Giulio 47 170 Il Battesimo di Cristo di Santa Maria della Sapienza (in deposito presso la Prefettura di Napoli, fig. 39), compiuto da «Errigo Semer» nel 1641 49, rappresenta l'unico punto fisso per la ricostruzione del catalogo del maestro successivamente alla Caritas romana del 1635. Esso permette, in prima battuta, di confermare la paternitaÁ del fiammingo per i quattro tondi con Teste di santi del Museo di Capodimonte (riproduco solo il Santo pellegrino e il Sant'Antonio abate; figg. 40-41), dal Bologna caparbiamente assegnati a Giovanni Ricca, nonostante essi risultino inoppugnabilmente il frutto del lavoro della medesima mano autrice del Battesimo di Cristo, nonche della coppia con San Pietro e San Paolo di collezione privata partenopea 50. Alla serie del museo di Napoli si affiancano, inoltre, un inedito Santo in lettura (san Giacomo?) di attuale ubicazione sconosciuta (fig. 42), recante una tradizionale attribuzione a Ribera, e un San Giuseppe e un San Giacomo (?) venduti in coppia da Sotheby's London il 17 dicembre del 1998 (lotto 172; figg. 43-44). Altri dipinti riferiti da Ferdinando Bologna a Giovanni Ricca devono restituirsi all'autoritaÁ del van Somer in base all'analisi dello stile. Si tratta, nell'ordine, dei: 1) San Marco evangelista (Roma, collezione privata), a ragione collegato da Bologna ai tondi di Capodimonte, e al Sant'Antonio Abate in particolare 51. Il personaggio ritratto in questo ultimo quadro si rivede pure nel poco valorizzato San Paolo primo eremita del museo di Palermo (fig. 45), proveniente dall'abbazia di san Martino alle Scale 52 2) Il profeta Elia della Pinacoteca D'Errico di Matera (fig. 46), sovrapponibile, nel modello e nella fattura pittorica, al Giovanni Battista ritratto nella tela della chiesa della Sapienza (fig. 39a) 53. La cronologia al 1641 incirca che si assume per Il profeta Elia conferma il post quem del 1638 offerto dal prototipo di Ribera da cui il quadro discende, vale a dire l'Elia sito nella controfacciata della chiesa della Cesare Procaccini riscontrabili nelle teste al fondo. Sulla base del riferimento dell'esemplare Bernardini, eÁ stata, infine, attribuita a torto al van Somer pure la Decollazione di san Giovanni Battista della raccolta Iannuzzi a Napoli (Bologna 1996, p. 15 e tav. IV). L'ancora anonimo autore di quest'ultimo dipinto eÁ da rintracciarsi almeno in una seconda Decollazione di san Giovanni Battista della galleria di Clovis Whitfield a Londra, ivi attribuita a Belisario Corenzio, e, forse, in una terza edizione del soggetto della Pinacoteca dei Girolamini di Napoli (R. Middione-P. Leone de Castris, La Quadreria dei Girolamini, Napoli 1986: «Ignoto pittore attivo a Roma all'inizio del Seicento»). 49 Bonazzi 1888, pp. 121, 126. 50 Sui quadri di Capodimonte, Bologna 1958, p. 33, nota 12; Bologna 1996, p. 12; Spinosa 1995, p. 229, come Van Somer sui primi anni Quaranta. Sulle altre due opere, Bologna 1996, pp. 13, figg. 5-6 («Giovanni Ricca»), e 16. In particolare il San Paolo, nel dettaglio dell'elsa della spada, permette il confronto con l'analogo accessorio che si scorge nel giaÁ ricordato David con la testa di Golia di collezione privata napoletana (fig. 22). 51 Bologna 1996, pp. 17, 25 e fig. 14 52 D. Malignaggi in Palermo 1990b, pp. 170-171, cat. n. 29. 53 Bologna 1996, pp. 12, 15-16, e fig. 3: «G. Ricca»; M. Lafranconi in Dipinti 2002, pp. 30-31, con bibliografia (Esiste un ulteriore e precedente riferimento a Francesco Fracanzano): «G. Ricca». 171 Certosa di San Martino di Napoli. EÁ possibile, invece, che spetti effettivamente a Giovanni Ricca il simile Elia che si trovava a New York in collezione Spark, parimenti parafrasi del Ribera del 1638 54. Per quanto eÁ possibile indurre dalla fotografia 55, il manto del profeta Spark eÁ addobbato in un sistema di pieghe angolose e irregolari, meno vellutate che in Van Somer e rialzate da strisciate lucenti come eÁ in Ricca. La sigla «JR» (come «Joannes Ricca») e la data 1642 che vi sarebbero iscritte, di cui testimonia Ferdinando Bologna 56, potrebbero risultare, dunque, corrette, tanto piuÁ se si confronta l'opera con la Trasfigurazione di Santa Maria della Sapienza pagata a Ricca nel 1641. Analogamente, il gioco del manto e la piuÁ sciolta pennellata fanno propendere per mantenere sotto il nome di Giovanni Ricca il MoseÁ di collezione Biagio De Giovanni a Napoli (fig. 47), un esercizio di stile sulla seconda tela esposta dallo Spagnoletto nella controfacciata di San Martino nel 1638 57, da porre in ulteriore e sintomatico parallelo con la traduzione, parimenti riberesca, offerta dal Monrealese nel MoseÁ di Palazzo Abatellis (fig. 48) 58. 3) Il matematico (Anassagora?) di Reggio Emilia (Civica Galleria Parmeggiani, fig. 49), recante iscritto «1644» (meglio che «1641») sul margine interno del rotolo di carta stretto dall'anziano modello 59. Riuscito eÁ, inoltre, il parallelo tra quest'ultimo e il vecchio ceco protagonista della Guarigione di Tobiolo (Napoli, collezione privata, negli anni Trenta del Novecento a Londra presso Colnaghi; fig. 50), terzo esercizio sul tema dipinto da van Somer, questo di taglio orizzontale e di minore formato rispetto alle tele dei duchi di Medina de las Torres e del gruppo Intesa San Paolo, reso noto da Bologna con una proposta cronologica ai primi anni Trenta 60. Se la data del quadro Parmeggiani eÁ corretta, essa permette di avanzare verso il 1645 la appena menzionata terza edizione della Guarigione di Tobiolo, eseguita su di un punto di stile ingentilito e prezioso che trova migliore collocazione nei primi del quinto piuÁ che del quarto decennio, in parallelo con le coeve creazioni di Francesco Guarino. Sempre a riguardo di questa ultima tela, eÁ opportuno segnalare Bologna 1996, p. 16. Spinosa 1978, pp. 141-142, cat. n. 430a. 56 Bologna 1996, p. 16. 57 Ivi, pp. 12, 15-16 e fig. 4: «Giovanni Ricca»; Spinosa 1984, fig. 674: «H. van Somer»; Spinosa 1995, p. 229: «van Somer». 58 Quest'ultimo eÁ stato giaÁ datato tra il 1638 e il 1640 (I. Bruno in Genio e Passione. La pittura a Napoli da Battistello Caracciolo a Luca Giordano e le relazioni con la Sicilia, catalogo della mostra a cura di V. Abbate-N. Spinosa, Napoli 1997, pp. 90-91, con bibliografia). Nonostante i dati cartacei non possano documentare un secondo soggiorno napoletano del Novelli sullo scorcio degli anni Trenta, eÁ difficile spiegarsi altrimenti la indiscutibile discendenza dell'esemplare del museo di Palermo dal Mose di Ribera del 1638, come, piuÁ in generale, lo sviluppo dell'arte di Novelli al passaggio tra quarto e quinto decennio senza supporre ulteriori viaggi di aggiornamento. 59 Tradizionalmente riferito a Ribera. Bologna 1996, pp. 16 e fig. 7, 36-37, nota 38. 60 Bologna 1991, pp. 167, figg. ; L. Rocco in Napoli 1991, p. 313, cat. n. 2.74; accetta tale datazione Spinosa 1995, p. 224, nota 7. 54 55 172 come in altra occasione essa, che nel corso del XVIII secolo fu parte della raccolta napoletana dei Carafa d'Andria, sia stata edita sotto la dizione di «Anonimo italiano collaboratore di Matthias Stomer», in congiunto con due quadri di Stomer di cui eÁ certa la provenienza Carafa e che si ritiene possano avere fatto serie con essa, quali l'Isacco benedice Giacobbe di Birmingham (The Barber Institute of Fine Arts) e il Cristo tra i dottori di raccolta A. Taubman 61. Nell'angelo ritratto nella Guarigione di Tobiolo di van Somer, la tangenza con i modi del collega nordico eÁ tale da lasciare aperta l'ipotesi che Stomer, entro il 1640, abbia lasciato a Napoli incompiuta questa terza tela, poi completata da Hendrick; o, in alternativa, che van Somer abbia eseguito la Guarigione di Tobiolo a completamento della serie di Matthias e ispirandosi per l'occasione ai modi di quest'ultimo 4) MoseÁ fa scaturire l'acqua dalla roccia di attuale ubicazione ignota (fig. 51). Uno dei principali elementi indicati da Bologna a sostegno dell'attribuzione a Giovanni Ricca, quale il confronto tra la figura di Mose e la tela di analogo soggetto di collezione De Giovanni (fig. 47), non appare determinante (segnatamente in rapporto ad altri dettagli del quadro che risultano estranei ai modi di Ricca, cosõÁ come qui ricostruiti), ma bensõÁ valida testimonianza del serrato dialogo intessuto tra Hendrick e Giovanni nel periodo del comune impegno per le monache della Sapienza, quando entrambi sembrano essersi assiduamente esercitati su prototipi di Ribera di epoca pressappoco contemporanea. Numerosi sono i raffronti possibili tra il MoseÁ fa scaturire l'acqua dalla roccia ed alcune tele giaÁ correttamente assegnate a van Somer, a partire dall'analogia che vi eÁ tra la testa scorta nel dipinto in secondo piano a sinistra e il volto protagonista del Mose della Pinacoteca D'Errico (fig. 46). Gli espansi volumi delle figure femminili; il torso muscoloso che emerge dal margine destro della scena, modellato dalla luce e avvolto in un drappeggio, evocando analoghi passaggi del Battesimo di Cristo di Santa Maria della Sapienza, nonche naturale evoluzione dello scherano del Martirio di san Sebastiano del Museo di Capodimonte (fig. 34); il tipo con berretto posto sotto la 61 R. Verdi, Matthias Stom. Isaac blessing Jacob, catalogo della mostra, Birmingham 1999, pp. 37-39, a cui eÁ peroÁ ignota la pubblicazione di Bologna 1991. La vicenda eÁ complicata dal fatto che una Guarigione di Tobiolo di Matthias Stomer, sebbene di formato maggiore rispetto alle tele Carafa d'Andria (misura 156x213cm contro i 136x181cm delle seconde), passoÁ alla vendita Rospigliosi del 1932 (ivi, p. 39, nota 1). Secondo Verdi, la Guarigione di Tobiolo di van Somer, lievemente piuÁ piccola (123x153,5cm, o 120x160cm), potrebbe essere stata decurtata in basso. Su tale dipinto di van Somer si veda anche quanto commentato in relazione alla piuÁ tarda Guarigione di Tobiolo di Matthias Stomer della Fondazione Longhi (A. ZalapõÁ in La collezione di Roberto Longhi. Dal Duecento a Caravaggio a Morandi, catalogo della mostra (Alba) a cura di M. Gregori e G. Romano, Savigliano 2007, p. 134, cat. n. 39) e all'esemplare di analogo tema di raccolta privata a Berghamo (A. ZalapõÁ in Dipinti caravaggeschi nelle raccolte bergamasche, catalogo della mostra a cura di E. De Pascale e F.(o) Rossi, Bergamo 2000, p. 62). EÁ qui ribadita la stretta affinitaÁ che lega il quadro Carafa d'Andria di van Somer a quello Rospigliosi di Stomer. La bibliografia non eÁ segnalata nella scheda redatta da ultimo da Spinosa 2010, p. 394-395, cat. n. 411, che avanza per la Guarigione di Tobiolo di Hendrick giaÁ Carafa d'Andria una cronologia «oltre la metaÁ del quarto decennio». 173 fonte, ottenuto con un amalgama liquido, come si vede nei soldati che si affacciano nel Sansone e Dalida (Vidigulfo (Pv), castello dei Landriani) 62, sono tutti elementi che conducono al nome di Hendrick van Somer. Siamo ragionevolmente nei primi anni Quaranta 5) La Susanna e i vecchioni del MuseÂe Bertrand di ChaÃteauroux (fig. 54), riprodotta da Bologna al fianco del Mose che fa scaturire l'acqua dalla roccia, emendando, a torto, il parere giaÁ espresso da Spinosa a favore di Enrico fiammingo 63. Il nudo platealmente esibito della donna, dai seni lievemente cadenti, non occulta le origini dello schema compositivo, pari omaggio ai due importanti esercizi di Ribera e di Guido Reni, quali, rispettivamente, il disegno degli Uffizi (fig. 55), elaborato dal valenzano sulla scia delle composizioni dei cugini Carracci in un anno che, a mio avviso, non oltrepassa il 1620, e la celebre Susanna e i vecchioni di Londra, databile ai primi anni Venti (fig. 56), giaÁ modello per la Susanna e i vecchioni di Massimo Stanzione del museo di Francoforte. Da Reni van Somer ha tratto principalmente ispirazione per il capo inturbantato della ragazza e per il braccio destro, che, distendendosi, amplifica la torsione dell'intera figura, immortalata in un atteggiamento di cauta accoglienza piuÁ che di contegnosa repulsione 64. Attinenze nella posa della giovane e del vecchione a destra di chi guarda sono inoltre da ritrovarsi nella versione della storia di Susanna elaborata da Pacecco De Rosa nella prima metaÁ degli anni Quaranta (Napoli, Museo di Capodimonte; fig. 57). Il dipinto di van Somer trova collocazione tra il 1645 e il 1650 incirca, come possono indicare i volti degli anziani, in pari sintonia con il punto di stile del San Girolamo in lettura firmato Se ne dichiara una provenienza dalla raccolta dei Firrao principi di Sant'Agata dei Goti (Spinosa 1995, p. 228 e fig. 179, con una cronologia al principio del quinto decennio; Spinosa 2010, p. 395, cat. n. 412). La composizione del Sansone e Dalida (fig. 52) presenta piuÁ di un'analogia con il quadro di identico tema che si attribuisce a Claude Mellan (collezione Koelliker, fig. 53), principalmente sulla base dell'incisione con Sansone e Dalida recante l'iscrizione «C. Mellan G. Pinx. Et S./ Romae Sup. Pm» (cfr. Simon Vouet en Italie, catalogo della mostra (Nantes-BesancËon) a cura di D. Jacquot, Paris 2008 [d'ora in poi Nantes-BesancËon 2008], p. 197, cat. n. 88). 63 Erich Schleier ne aveva per primo individuato l'ambito napoletano, ad opera di un autore a metaÁ strada tra Stanzione e Beltrano (lo riportano A. BreÂjon de LavergneÂe-N. Volle, MuseÂes de France. ReÂpertoire des peintures italiennes du XVIIe sieÁcle, Paris 1988, p. 408, con bibliografia). Sulla tela, si veda poi Spinosa 1995, p. 227 e fig. 178 («Van Somer alla metaÁ anni Trenta»); Bologna 1996, pp. 17, 21, fig. 9 («Giovanni Ricca, anni Quaranta»). 64 Ne il modello di Ribera ne quello di Reni sono stati sinora invocati in relazione alla composizione di ChaÃteauroux. Erich Schleier aveva puntato sul nesso con la Susanna di Stanzione a Francoforte, mentre Ferdinando Bologna (1996, p. 17) ha preferito sottolineare l'analogia della posa dell'eroina biblica con quella della Cleopatra di Massimo Stanzione del Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo. Da tali composizioni non emergono, tuttavia, i dettagli della donna con i piedi immersi nell'acqua ± diretto prelievo di Ribera dalla stampa con Susanna e i vecchioni di Annibale Carracci (1595 circa) e giaÁ oggetto della potente riflessione esibita, intorno al 1612, nella Susanna e i vecchioni che era della Galleria Caylus di Madrid -, e dell'arto destro che, nel protendersi, crea l'ambiguo atteggiamento emotivo della giovane con gli anziani molestatori. 62 174 da Hendrick nel 1652 (fig. 18) e con quello di un altro San Girolamo in lettura, venduto da Sotheby's London il 17/04/1991, lotto 178 (fig. 58). Intorno al 1645 devono avere visto la luce anche il Sant'Onofrio eremita (Milano, collezione Cicogna Mozzoni) 65; il San Paolo eremita (collezione privata) 66; il Compianto sul Cristo morto che era a Roma in casa Ruspoli 67; il Lot e le figlie un tempo presso la galleria Heim di Londra (fig. 59), modellato quasi letteralmente, nel gruppo di sinistra e nello squarcio paesaggistico, sul Lot e le figlie di Massimo Stanzione della Pinacoteca di Cosenza (fig. 60) 68. EÁ mia idea che il Lot e le figlie Heim preceda, e non segua, una seconda replica del tema, contrassegnata dal monogramma «HSE», che era a Madrid presso Edmund Peel, proveniente dalla prestigiosa raccolta del vicere VII marchese del Carpio (fig. 61) 69. In questo secondo esemplare, la materia pittorica appare solidificata, meno impastata in senso neoveneto, e piuÁ evidente eÁ il gioco di velature e trasparenze, come nel Domenico Gargiulo della maturitaÁ e nell'ormai affermato Bernardo Cavallino; un tipo di ricerca che si ritrova analoga nel San Girolamo scrivente un tempo presso le Trafalgar Galleries di Londra (fig. 62). Quest'ultimo, siglato «H.S.F.» sul calamaio e con la data del 1651 appuntata sul margine superiore del tomo 70, permette di portare sulla fine del quinto decennale il Lot e le figlie Edmund Peel. A questo medesimo tempo spetteranno anche il fascinoso David e Golia del 65 Bologna 1991, p. 167: «circa il 1650»; Spinosa 1995, p. 224, nota 7; Bologna 1996, pp. 15, 18, tav. I. Il San Pietro orante di collezione milanese, affiancato al Sant'Onofrio (Bologna 1991, p. 167; Bologna 1996, pp. 15, p. 19, tav. II), replica il prototipo di Ribera acquisito piuÁ di recente dal Museo di Chicago (inv. n. 1993.60; Spinosa 2008, p. 364, cat. A100). 66 Bologna 1991, p. 153, fig. 166: «San Benedetto nell'eremo», datato entro il 1630; Spinosa 1995, p. 224, nota 7. Deriva dal San Paolo eremita, firmato da Ribera nel 1640 (Madrid, Museo del Prado). 67 Bologna 1991, pp. 167, 151, fig. 162, con una datazione entro il 1630, in virtuÁ della dipendenza dal Compianto sul corpo di Cristo di Ribera del Museo del Louvre, dallo studioso ritenuto opera del 1626-1628; accetta tale ipotesi Spinosa 1995, p. 224, nota 6. L'esemplare di van Somer mostra, peroÁ, un legame maggiormente significativo con il Compianto sul Cristo morto con cinque figure, il cui prototipo, replicato numerose volte, si identifica nella tela giaÁ a Napoli in collezione Schilizzi di cui da tempo si ignorano le sorti, firmata e datata dallo Spagnoletto nel 1644 (Spinosa 1978, p. 126, cat. n. 222; sull'argomento si veda anche Finaldi in Madrid 1993, pp. 37-47), sicuro ante quem non per il quadro in esame. EÁ invece opera solo tangenziale con lo stile di van Somer il Compianto sul Cristo morto che era nella chiesa di San Giacomo a Valva (Pathos ed estasi. Opere d'arte tra Campania e Andalusia nel XVII e XVIII secolo, catalogo della mostra a cura di V. de Martini, Napoli 1996, p. 70). 68 Spinosa 1984, fig. 217: «A. De Bellis»; Spinosa 1995, p. 228 e nota 18, e fig. 182: «Van Somer, negli inoltrati anni Quaranta»; Spinosa 2010, p. 396, cat. n. 413 (che, a torto, indica un rapporto di dipendenza dal Lot e le figlie di Stanzione nella doppia versione in Palazzo Reale a Napoli e nel museo di BesancËon. Sull'esemplare di Palazzo Arnone a Cosenza si veda ora ivi, p. 409, cat. n. 436, con letteratura). 69 Spinosa 1995, tav. X. 70 Cfr. Spinosa 2010, pp. 396-397, cat. n. 414, con letteratura (erroneamente riprodotto in controparte). 175 Museo di Nizza (fig. 63) e la replica con minime varianti, autografata «HS», di collezione privata a Roma, questi attestanti la riflessione condotta da van Somer su di un prototipo con David e Golia di Aubin Vouet (fig. 64), quadro celebre per l'incisione trattane a Parigi da Michel Lasne (fig. 65) 71. 3. Riberiana Methodus. `La morte di Adone' di Cleveland, l'`Apollo e Marsia' di Sarasota, l'`Adorazione dei pastori' di Madrid ed altro: postille al giovane Giordano. Un buon osservatore non mancheraÁ di scoprire l'analogia del dato di stile tra le opere appena recensite, in particolare del San Girolamo scrivente del 1651 (fig. 62), ed un'ulteriore invenzione di van Somer quale la Venere scopre la morte di Adone (Piacenza, collezione privata; fig. 67), intelligente rilettura non solo ± come si eÁ scritto ± della tela Corsini firmata da Ribera nel 1637 72, ma anche dell'Apollo e Marsia di Napoli, eseguito dal valenzano nel medesimo anno (figg. 68-69). Da ultimo Nicola Spinosa, nel riconfermare il dipinto di collezione privata a Piacenza al fiammingo, ha ribadito, come giaÁ nel 1995, la necessitaÁ di attribuirgli pure un quadro strettamente affine nell'impaginato: la spettacolare Venere scopre la morte di Adone, donata nel 1965 al Cleveland Museum of Art con il riferimento al Ribera (fig. 70) 73. La drammatica messa in scena, dall'ampio formato, eÁ da anni oggetto di dibattito tra gli studiosi dello Spagnoletto e del Seicento napoletano. Jeanne Chenault ne aveva prontamente indicato la discendenza dal passo saliente de L'Adone 71 Per il David con la testa di Golia di Nizza, recante sull'elsa della spada una sigla variamente interpretata e giaÁ riferito a Francesco Guarino, S. Loire in Barocco mediterraneo. Genova, Napoli e Venezia nei musei di Francia, catalogo della mostra (Marsiglia 1988-Napoli 1989), Napoli 1989 [d'ora in poi Napoli 1989], p. 198, cat. n. 60, con letteratura precedente; Spinosa 1995, p. 226, nota 14; Spinosa 2010, p. 393, cat. n. 408; sull'esemplare in collezione privata a Roma, Spinosa 1995, p. 226, nota 15 e fig. 181, con una proposta di datazione alla giovinezza di Hendrick. Entrambe le composizioni non sono state ancora messe in rapporto con l'invenzione di Aubin Vouet, fratello di Simon che con questo fu a Roma tra il 1622 e il 1627, autore con certezza solo del David del MuseÂeÁ des Beaux-Arts di Bordeaux (1620-1621 circa, fig. 64), riprodotto, con alcune varianti, secondo quanto eÁ peroÁ riscontrabile nell'intero repertorio inciso dell'entourage di Simon Vouet, nella lastra del Lasne (cfr. Nantes-BesancËon 2008-2009, p. 193, cat. n. 84). EÁ interessante notare come i David di van Somer risultino impaginati nel verso di osservazione della tela di Bordeaux. La composizione incisa da Michel Lasne (fig. 65) sembra invece importante per il David e Golia (cosiddetto Ritratto di Salvator Rosa quale David vincitore) che era a Londra presso le Trafalgar Galleries (fig. 66), edito con il dubbioso riferimento a Domenico Gargiulo secondo il parere di Federico Zeri (G. Sestieri in G. Sestieri-B. DapraÁ, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro paesaggista e `cronista' napoletano, Milano-Roma 1994, pp. 338-339, cat. n. 184), e bensõÁ opera tipica di Matthias Stomer, come giaÁ correttamente individuato da Benedict Nicolson (in Fine Old Master Paintings, London, Trafalgar Galleries, 1968, p. 369). 72 Spinosa 1995, p. 229 e fig. 183: «van Somer». Il quadro di Piacenza eÁ stato poi edito in La metamorfosi del mito, catalogo della mostra (Genova) a cura di M.A. Pavone, Milano 2003, p. 140. 73 Spinosa 2010, p. 394, cat. n. 410: «van Somer, verso la metaÁ degli anni Quaranta». 176 di Giovan Battista Marino, sostenendo a un tempo l'autografia di Ribera, in prima battuta accreditata pure da Raffaello Causa, che con tale didascalia riprodusse l'opera nella Storia di Napoli 74. Il medesimo Causa volse poi il pensiero al giovane Salvator Rosa, mentre Ferdinando Bologna preferõÁ la scelta di Antonio De Bellis, e Nicola Spinosa l'anonimato di un maestro, «forse anche spagnolo attivo a Napoli insieme al Ribera», prima di dirottarsi su Hendrick van Somer 75. Craig Felton fu il primo a rigettare la paternitaÁ dello Spagnoletto, seguito, al di laÁ dell'Oceano, da Jonathan Brown e John Elliott, concordi sul riferimento ad uno sconosciuto seguace di Ribera o a collaboratore di bottega 76. Nel museo il dipinto risulta ancora catalogato come di Anonimo napoletano intorno al 1650. Non posso nascondere lo stupore se non si eÁ ancora compreso di trovarsi dinnanzi ad un capolavoro di Luca Giordano. Lo stretto legame tra l'opera e la Venere scopre la morte di Adone di van Somer eÁ testimoniato dalla ripetizione, con varianti, della posa della dea, della straordinaria invenzione del cadavere riverso e di altri dettagli minori, come la lancia spezzata e il cane. Il confronto non testimonia, peroÁ, l'identitaÁ di mano, ma piuttosto la comune discendenza della tela di Cleveland e della composizione mitologia di Hendrick, non dalla Venere e Adone della Galleria Corsini, dove il giovane eroe appare raggomitolato, ventre a terra, in una complicata posa neomichelangiolesca, ma da un importante prototipo di Ribera, oggi disperso, la cui esistenza eÁ documentata dall'inventario della Guardarobba di Ramiro de GuzmaÂn duca di Medina de las Torres, vicereÁ di Napoli dal 1637 al 1644, e di sua moglie Anna Carafa di Stigliano, steso tra il 1638 e il 1641. Il «grande» quadro di Ribera, ivi descritto nel dettaglio, rimase poi a Napoli sino al 1655 77. Giusto in tempo per essere visto e rielaborato da Van Somer, Luca Giordano e almeno, con piuÁ spinto classicismo, nella Venere scopre la morte di Adone del J. Chenault, Ribera, Ovid and Marino: `Death of Adonis', in «Paragone», 259, 1971, pp. 68-69; Causa 1972, fig. 282. 75 Spinosa 1978, p. 138, cat. n. 386, dove si riportano i pareri di Causa e di Bologna. 76 Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto. 1591-1652, catalogo della mostra (Fort Worth) a cura di C. Felton-N. Jordan, Washington 1982 [Felton-Jordan 1982], pp. 178, 181, nota 3, con bibliografia precedente; J. Brown-J.H. Elliott, A Palace for a King. The Buen Retiro and the Court of Philip IV, New Haven, 1980, p. 269, nota 56. 77 L'opera appare cosõÁ menzionata nel documento (purtroppo senza l'indicazione delle misure): «Un altro quadro con la figura di Adone morto con una ferita al fianco con uno spedo di caccia, e cano con quattro figure de puttini, et una Venere con carro appresso co' paese e tronchi con cornice d'oro trasforata di lunghezza di palmi, e larghezza di mano del sud.[etto Gioseppe Ribera]» (F. Bouza, De Rafael a Ribera y de NaÂpoles a Madrid. Nuevos inventarios de la coleccioÂn Medina de las Torres-Stigliano (1641-1656), in «BoletõÂn del Museo del Prado», XXVII, 45, 2009 [Bouza 2009], p. 64, al n. 74). Un'altra carta, che ne attesta l'imbarco per la Spagna nel 1655, specifica che si trattasse di un «quadro grande» (ivi, p. 70, nota 55). La precisa corrispondenza tra il soggetto elencato e l'iconografia della Venere e Adone del Museo di Cleveland non autorizza, tuttavia, l'identificazione sostenuta da Bouza (ivi, pp. 53-54 e fig. 7: «AnoÂnimo napolitano h. 1640»; 70, nota 55), che viene a essere inficiata dall'incompatibilitaÁ esistente tra la cronologia dell'inventario del 1638-1641 e il punto di stile della tela di collezione americana. 74 177 MuseÂe Granet di Aix-en-Provence, opera riferita ragionevolmente ad Onofrio Palumbo intorno al 1650 (fig. 71) 78. Nella tela di Cleveland le creature alabastrine sono fatte di una materia solida, distinta dall'amalgama pittoricistico di Ribera: volumi rilucenti recanti in se l'ereditaÁ di un caravaggista del Nord quale van Somer. Ma nell'affiancamento, enorme appare il salto qualitativo dell'esemplare statunitense, privo di qualsiasi impaccio compositivo o di durezza di disegno, leggiadro nello squarcio paesaggistico, lontano dalla parafrasi di veduta alla Micco Spadaro tanto in voga a Napoli negli anni Quaranta. Chi, se non Giordano, avrebbe saputo cosõÁ abilmente far rivivere la poesia del mito come eÁ capace di fare Ribera; incupire le zone d'ombra, sovrapponendo gli scuri ai chiari e non sporcando il bianco di nero come il caposcuola; tratteggiare floridi putti di pari maestria, sintetizzandone a un tempo la minuziosa indagine del pennello sulle capigliature; riprodurne i biondi splendenti e i rossi cangianti; ripeterne negli sfondi, con modi propri, la stesura del colore, o liquida o impastata; realizzare l'abile controluce del pastore Clizio; drappeggiare e pieghettare con ineffabile bravura le stoffe. Un artista interessante, ma non geniale come Hendrick van Somer non eÁ capace di tali invenzioni pittoriche, che eÁ possibile rivedere, con qualche caduta di tono dovuta anche al peggiore stato conservativo, almeno in un secondo esemplare conservato al di laÁ dell'Oceano di cui il giovane Luca Giordano va prontamente risarcito: dell'Apollo e Marsia del Ringling Museum di Sarasota (1936-SN 355; fig. 72), anch'esso di grande formato, nonche esercizio di stile sul Ribera del 1637, attualmente esposto al pubblico sotto il nome di Antonio De Bellis, con una proposta di datazione tra il 1636 e il 1640. Vi eÁ un altro quadro, in cui si ambienta la parabola de Il buon samaritano, che espone il corpo semignudo dell'infermo in uno scorcio virtuoso; una composizione originale dello Spagnoletto, il cui successo eÁ attestato dalle repliche trattene, e di cui Fragonard ha lasciato un ricordo grafico realizzato nel corso del viaggio italiano tra il 1760 e il 1761. L'esemplare della Pinacoteca Comunale di Ravenna (fig. 73) possiede piuÁ di una credenziale per essere meglio valorizzato, sia che possa trattarsi dell'originale che di una copia di mano di Giordano 79. Una di tali derivazioni eÁ giunta nel 1998 al Museo di Capodimonte dopo avere dimorato nell'Atkins Museum di Kansas City. Per essa si eÁ fatto, forse non a torto, il nome del giovane Luca, sebbene si sia poi preferito tenerla genericamente nell'ambito di Ribera 80. Resta il fatto che la tela eÁ giaÁ stata messa in relazione con Il Sul quadro cfr. S. Loire in Napoli 1989, pp. 206-207, cat. n. 63. A. Mazza in A, Mazza, A. Tambini, G. Viroli, Pinacoteca Comunale di Ravenna. Museo d'Arte della cittaÁ. La collezione antica, catalogo a cura di N. Ceroni, Ravenna 2001, cat. n. 86: «Ribera, copia da». 80 R.T. Coe, A problem in Ribera studies: the Good Samaritan, in «The Nelson Galleries and Atkins Museum Bullettin», IV, 1971, 12, pp. 1-14; Spinosa 1978, p. 139, cat. n. 404; Spinosa 2008, p. 513, cat. D3, riferisce della possibile attribuzione a Giordano. Del dipinto ha tracciato la storia anche D.M. Pagano in Luca Giordano. 1634-1705, catalogo della mostra (Napoli78 79 178 buon samaritano del museo di Rouen, indiscusso esemplare di Giordano che Oreste Ferrari ritenne databile ai primi anni Sessanta 81. Se si immagina all'impiedi il giovane ferito disteso al suolo, si potraÁ riscontare un parallelo, nella posa delle gambe e nel modellato, con la figura protagonista del Martirio di san Bartolomeo, a Montecarlo nella raccolta di Barbara Piasecka Johnson (fig. 74), opera creduta autografa di Ribera e poi riconosciuta al Giordano intorno al 1660 82. Ad apertura e nei primissimi del settimo decennio ± oltre ad un caposaldo di meditazione su Rubens quale La visione della TrinitaÁ e dei simboli della Passione da parte della sacra famiglia, firmato e datato nel 1660 - 83, si collocano meglio, peroÁ, dipinti nei quali Luca rilegge il Ribera della fine degli anni Trenta con scuri piuÁ vigorosi e maggiore senso plastico della forma. EÁ il caso del Sansone spezza le catene del museo di Vienna o del Seneca morente della galleria di Monaco di Baviera 84. Il Martirio di san Bartolomeo Piasecka Johnson mostra, viceversa, la contaminazione di invenzioni disegnative di Ribera interpretate in termini coloristici ancora intrisi del neocinquecentismo veneziano in cui l'artista aveva eccelso tra il 1657 e il 1658, trovando dunque una piuÁ accorta collocazione all'incirca in questo ultimo anno, al tempo del Suicidio di Porzia (Londra, Trafalgar Galleries) 85. Nel 1657, con la duttilitaÁ universalmente riconosciutagli, Giordano firmava la Madonna del Rosario giaÁ in Santa Maria della Soledad, mescolando modelli e colore di Tiziano e van Dyck con la ricerca scultorea di Mattia Preti 86; nel 1658 egli lavorava alla macchine barocche delle chiese di San Nicola al Seggio di Nido e di Sant'Agostino degli Scalzi, potenziando la ricerca su Tiziano, Veronese e Pietro da Cortona cominciata all'atto di dipingere il San Nicola libera il giovane coppiere in Santa Brigida a Napoli, del 1655 87. Stando ai dati sicuri, nel 1654, Giordano, appena ventenne, aveva reinventato la pittura di Ribera e di Francesco Fracanzano Vienna-Los Angeles), Napoli 2001 [d'ora in poi Napoli 2001], p. 174, che riassume i pareri espressi a favore di Ribera (Coe), Salvator Rosa (R. Causa) e Luca Giordano entro gli anni 16551656 (Bologna). EÁ qui riportato anche l'elenco delle repliche e delle derivazioni della tela sinora rintracciate. 81 Ivi, pp. 174-175, cat. n. 47; O. Ferrari in O. Ferrari-G. Scavizzi, Luca Giordano. L'opera completa, Napoli 1992 (d'ora in poi Ferrari-Scavizzi 1992), I, cat. A139, con letteratura. 82 Spinosa 1978, pp. 123-124, cat. n. 200, ne metteva in risalto l'intensitaÁ cromatica che «anticipa soluzioni di Luca Giordano»; Felton-Jordan 1982, cat. n. 30: «Ribera, ca. 1638-1640» (il dipinto era allora presso le Trafalgar Galleries di Londra); Spinosa 2008, pp. 527-528, cat. F7. 83 Dalla chiesa di san Giuseppe a Pontecorvo, Napoli, Museo di Capodimonte (FerrariScavizzi 1992, I, cat. A147). 84 Ivi, I, cat. A113 e A5. 85 Ivi, I, cat. A118. 86 Napoli, Museo di Capodimonte (Ivi, I, cat. A50). 87 Si tratta, rispettivamente, del San Nicola in gloria del Museo Civico di Castelnuovo a Napoli, e delle due storie agostiniane con l'Estasi di san Nicola da Tolentino e l'Elemosina di san Tommaso da Villanova (Ivi, I, cat. A53, A54, A49). 179 nella ardita riproposizione, presupponente lo studio sui classici del `500 veneziano, delle tele di San Pietro ad Aram 88. Il breve excursus eÁ utile a comprendere la proposta cronologica che si puoÁ ragionevolmente avanzare per le opere argomentate al principio del paragrafo, per la Venere scopre la morte di Adone del Cleveland Museum of Art, l'Apollo e Marsia del Ringling Museum di Sarasota e, se si accettasse l'attribuzione al Giordano, per Il buon samaritano del Museo di Capodimonte. I modi pararibereschi qui squadernati non coincidono con quelli messi a punto nel Martirio di san Bartolomeo Piasecka Johnson, ne tantomeno permettono di inoltrare i quadri nel settimo decennio. Ho idea che questi, in particolare l'esemplare di Cleveland, contraddistinto da forme levigate, alabastrine e dalla accentuata tornitura, esemplifichino una prima `maniera alla Ribera' di Luca Giordano, secondo la terminologia usata dall'artista medesimo, che deve trovare posto tra il 1655 e il 1656 al massimo. Una scelta idiomatica che immagino lo sviluppo delle storie petriane di San Pietro ad Aram, verosimilmente maturata in parallelo con le prime ricerche barocche del San Nicola di Santa Brigida, se eÁ rinomato che il maestro seppe sorprendentemente esprimersi, in tempi coevi, in registri stilistici assai distinti tra loro 89. 88 Rappresentano, come eÁ noto, Cristo consegna le chiavi a Pietro e i Santi Pietro e Paolo condotti al martirio (Ivi, I, cat. A45). 89 Á E da assegnarsi al Giordano anche il San Sebastiano della Kelvingrowe Art Gallery di Glasgow (fig. 75), sovrapponibile, nel modellato e nelle luci, all'Adone morto del quadro di Cleveland. L'opera ripropone con evidenza il prototipo firmato e datato nel 1636 da Ribera e distrutto a Berlino nella seconda guerra mondiale (Spinosa 1978, p. 108, cat. n. 99). Ad esso va connesso il San Sebastiano a mezza figura che era dei marchesi di Santangelo (ubicazione ignota; fig. 76), una rielaborazione della tela di Ribera in San Martino (1651) pubblicata come autografa da Aldo De Rinaldis (La pittura del Seicento nell'Italia Meridionale, Verona 1929, cat. n. 5), ma respinta da Spinosa (1978, p. 136, cat. n. 351: «Imitatore del maestro, attivo a Napoli»). Parallelamente altre composizioni che possono spettare al giovane Giordano invitano a rimeditare sui piuÁ tardivi pensieri di Ribera dedicati al tema del martire romano, un soggetto lungamente indagato dal maestro valenzano, anche per mezzo dei disegni, a partire dal San Sebastiano di Osuna del 1617. Felice pastiche riberesco autografo di Giordano, o ripetizione di un prototipo perduto dello Spagnoletto, eÁ il San Sebastiano a figura intera del MuseÂe des Beaux-Arts di Le Havre (fig. 77), recante la firma di Jusepe de Ribera, ma giaÁ espunto da Craig Felton dal corpus originale del valenzano, come parrebbe confermare la relazione di restauro del 1994. Spinosa (1978, p. 139, cat. n. 405) riferõÁ di un'ignota ipotesi altrui a favore del giovane Salvator Rosa (R. Causa?), preferendo l'identitaÁ di un anonimo napoletano «attivo dopo il 1630»; Oreste Ferrari suggerõÁ inspiegabilmente un'attribuzione a NiccoloÁ De Simone, caldeggiata anche da Sebastian SchuÈtze (i pareri di entrambi sono recuperabili iscritti sul verso delle fotografie conservate presso la Documentation des Peintures del Museo del Louvre). Da ultimo Spinosa (2008, p. 527, cat. F6) ha proposto il nome di Andrea Vaccaro intorno al 1640. La composizione di Le Havre mostra uno stretto nesso compositivo con un grande San Sebastiano di collezione privata a Madrid, alto ben 2m e proveniente dalla raccolta di Don LuõÂs de Borbon, difeso, credo a ragione, quale autografo di Ribera da A. PeÂrez SaÂnchez in Madrid 1992, cat. Ad. 2. Entrambi i dipinti sviluppano l'idea messa a punto dallo spagnolo in un San Sebastiano che fu parte della raccolta di disegni di John A. Gere ed oggi di proprietaÁ del Cleveland Museum of Art. Va, infine, incluso senza indugi nel catalogo di Luca Giordano intorno al 1660 un San Sebastiano a mezza figura e in 180 L'amorino che aleggia nel margine superiore della Venere scopre la morte di Adone di Cleveland si rivede, con modifiche nella posa e in controparte, tramutato nel primo angelo da sinistra che sormonta il gruppo sacro in un dipinto di fama, in antico creduto dello Spagnoletto: l'Adorazione dei pastori dell'Accademia di San Fernando di Madrid (fig. 79). La grande pagina ricombina alcuni topos figurativi delle Adorazioni dei pastori del Ribera maturo, nel medesimo formato orizzontale utilizzato dal maestro nelle due composizioni dell'Escorial, conservate in ambienti generalmente non visibili al pubblico, e nel quadro della cattedrale di Valencia, distrutto nella guerra civile; ma anche in due disegni, meno citati, della Walker Art Gallery di Liverpool e del Museo di Berlino 90. I dipinti dell'Escorial, riaccolti tra gli autografi del maestro solo da una ventina d'anni, non sembrano avere condiviso la medesima antica provenienza, sebbene essi risultino complementari nel soggetto, rappresentando, alla moda del Correggio, un Giorno e una Notte, questa ultima identificata in un dono del vicere duca di Medina de las Torres e firmata dallo Spagnoletto nel 1640 (fig. 80-81) 91. Nel buio si svolge anche la pantomima della Accademia di san Fernando, che dal notturno di Ribera trae l'ispirazione pure per la Vergine arretrata di un piano e per la vecchia astante dal capo ricoperto di bianco, e da Il Giorno quella per il giovane recante la pecora tra le braccia. Erano, invece, nell'Adorazione dei pastori di Valencia, secondo i piuÁ antichi referti autografata da Ribera nel 1643, i pensieri della Madonna dal viso alzato e del Giuseppe, col capo chino intento ad osservare formato orizzontale venduto da Christie's London il 21 luglio del 1989, lotto 34 («Neapolitan School circa 1640»; fig. 78). 90 Il disegno britannico proviene dalla raccolta del duca di Leicester, a Holkham Hall, e fu correttamente datato da J. Brown (Jusepe de Ribera. Prints and Drawings, catalogo della mostra, Princeton 1973 [d'ora in poi Brown 1973], pp. 132-133 e fig. 35) agli anni Quaranta; il foglio di Berlino, che amplia a destra lo schema del disegno di Liverpool, fu invece posto da Brown (ivi, p. 178, cat. n. 38) nel medesimo momento dell'Adorazione dei pastori del Louvre, segnata da Ribera nel 1650. Esso era stato reso noto giaÁ da W. Vitzthum, I disegni dei maestri. Il Barocco a Napoli e nell'Italia meridionale, Milano 1970, tav. 5. Come si eÁ anticipato, si tratta di composizioni di formato orizzontale. Si sviluppano viceversa in altezza il quadro del Louvre e il disegno del Metropolitan Museum of Art (K. Christiansen in Jusepe de Ribera. 1591-1652, catalogo della mostra a cura di A.E. PeÂrez SaÂnchez-N. Spinosa, New York, 1992, p. 228, cat. n. 118 e p. 192, fig. 29). Quest'ultimo foglio non eÁ stato messo ancora in relazione con l'inquadernato, affine in piuÁ di un elemento, dell'Adorazione dei pastori che si dice conservata nel monastero del Las Augustinas di Salamanca, ritenuta non autografa da Spinosa (1978, p. 142, cat. n. 441), e bensõÁ della stessa mano autrice dell'Adorazione dei pastori del museo di Aachen (Spinosa 2008, p. 517, cat. D7). Quest'ultima opera eÁ da attribuirsi con certezza a Giovanni Ricca. TorneroÁ sul tema. 91 La visita notturna eÁ anche il soggetto trattato nel disegno di Liverpool. Su La Notte dell'Escorial, A.E. PeÂrez SaÂnchez in Jusepe de Ribera. 1591-1652, catalogo della mostra a cura di A.E. PeÂrez SaÂnchez-N. Spinosa, Napoli 1992 [d'ora in poi Napoli 1992], pp. 250-251, cat. n. 1.84, con bibliografia; Bouza 2009, p. 64, al n. 76; Spinosa 2008, pp. 441-442, cat. A279 [per errore la foto appare al cat. A280]; sul Il Giorno, ivi, p. 442, cat. A280 [ma riprodotto al cat. A279]. 181 il Bambino, in posizione emarginata a destra, dunque distinto da come Ribera lo ha ritratto nella rinomata pala del Louvre del 1650 92. Un antico restauro ha irrimediabilmente compromesso la patina pittorica dell'Adorazione dei pastori di Madrid, che risulta appiattita e impoverita nei mezzi toni. I dettagli fotografici che ne ho tratto non sembrano, peroÁ, permettere dubbi sull'autografia di Luca Giordano, che ha lasciato una traccia ineluttabile negli angeli, come pure nei brani del Bambino avvolto nel morbido, candido e neoveneto, tessuto, nella plastica delle mani della Madre, nel rotolo di carta adagiato sulla paglia, nel brandello di camicia che fuoriesce dalla manica del pastore inginocchiato. La figura, insieme con quelle dei due anziani che la affiancano, lascia meglio intendere l'antico dubbio a favore dell'autografia riberesca, mentre nei toni plumbei dei volti levigati di Giuseppe, del pastore recante la pecora e del muso dell'asino l'autore tradisce meno i suoi modi. Si eÁ di certo dinnanzi ad una prova giovanile, in cui gli stilemi dell'artista non rispondono a criteri comuni e sono tali da avere lasciato ampio spazio ai dubbi circa la paternitaÁ di Luca Giordano. Frattanto nel medesimo Luca va pure riconosciuto l'autore della Madonna con Bambino del Museo del Louvre (fig. 82), in cui si ripropone il gruppo cardinale del quadro di Madrid, con la variante principale del piuÁ intenso modellato del volto della Vergine, da porre in ulteriore confronto con la posa del San Simeone e GesuÁ bambino firmato da Ribera nel 1647 (Madrid, collezione P. Arango, fig. 83) 93. Agli albori della carriera, un brillante PeÂrez SaÂnchez, perplesso del riferimento dell'Adorazione dei pastori al Ribera riportato nei piuÁ antichi inventari dell'Accademia di San Fernando, aveva difeso l'autoritaÁ del Giordano 94. Successivamente ± come eÁ noto ± ha prevalso tutt'altra teoria di ambito partenopeo, sviluppatasi sulla base di un suggerimento orale di Roberto Longhi, secondo la quale l'Adorazione dei pastori di Madrid andrebbe collegata all'Adorazione dei pastori della sagrestia della chiesa napoletana della PietaÁ dei Turchini (fig. 84), la tela che le fonti antiche assegnano a Juan Do, pittore nativo di Jativa come Ribera, dal 92 Il dipinto di Valencia, difeso tra Otto e primo Novecento, fu bocciato dalla Trapier e da Bologna inserito nel corpus di Juan Do per presunte affinitaÁ stilistiche con l'Adorazione dei pastori della chiesa della PietaÁ dei Turchini (Spinosa 1978, p. 143, cat. n. 451). 93 Traccia la storia della tela del Louvre, giaÁ riferita a Ribera e allo stato accolta nel catalogo di Juan Do, S. Loire, Peintures italiennes du XVIIe sieÁcle du MuseÂe du Louvre, Paris 2006, pp. 124-126. Il riferimento al Do eÁ giaÁ in Spinosa 1978, p. 142, cat. n. 433, sulla base del confronto con il quadro dell'Accademia di San Fernando, ritenuto da Bologna opera del medesimo Juan (ivi, p. 141, cat. n. 419). 94 A.E. PeÂrez SaÂnchez, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Inventario de las pinturas, in « Academia », 18 (1964), p. 49. Il moderno catalogo del museo (B. Piquero LoÂpez in Real Academia de San Fernando, Madrid. GuõÂa del museo, Madrid 2004, pp. 130-131) non argomenta il riferimento al Giordano ± con cui attualmente la tela eÁ esposta al pubblico - , ma si limita ad accettare il parere del grande studioso iberico. Lo rigettoÁ invece Ferdinando Bologna (Spinosa 1978, p. 141, cat. n. 419; Bologna 1991, p. 134). Non si tratta affatto, dunque, di un'attribuzione attestata, cosõÁ come intende G. Bozzo, L' ``Adorazione dei pastori'' di Londra e l'opera giovanile di Ribera, in «Paragone», 61, 2010 [Bozzo 2010], p. 41, nota 16. 182 1623 incirca residente a Napoli e dal 1626 marito di Grazia De Rosa, sorella Di Pacecco, noncheÂ, a detta di Bernardo De Dominici, fedele copista dello Spagnoletto e autore indipendente di un'altra sola tela di analogo tema, non rintracciata, in origine conservata nella chiesa del GesuÁ e Maria 95. Tuttavia, nel riconsiderare il dipinto della PietaÁ dei Turchini con mente libera, meno ossequiosa dell'autorevole opinione altrui, si dovraÁ assumere che, fatte salve alcune affinitaÁ compositive e tipologiche, esso non puoÁ giudicarsi un prodotto del piuÁ stretto entourage di Ribera, cioÁ che dovremmo aspettarci da una maestranza quale il Do. L'autore del quadro si esprime in un altro idioma, preferendo l'accostamento di colori vivi ad un amalgama granuloso e impastato, ritratti di vecchi piuÁ vicini a quelli di Guido Reni che di Ribera, panneggi morbidi come lana a stoffe di rigido taffettaÁ, come in Francesco Cozza piuttosto che nel valenzano. Siamo, inoltre, dinnanzi ad un'opera del periodo 1645/1650, da leggersi in concomitanza con gli esperimenti di Ribera, forse anche con l'Adorazione dei pastori del Louvre e del disegno del Metropolitan Museum (figg. 85-86), viceversa difficilmente inquadrabile nel percorso della pittura napoletana della fine degli anni Venti 96. Il confronto che qui si ripropone tra il dettaglio di GesuÁ bambino e l'analogo passo del quadro di Madrid (figg. 84a e 79) non sembra lasciare piuÁ spazio all'ipotesi di un'identitaÁ di mano 97. Parallelamente, la medesima attribuzione al Do della tela della PietaÁ dei Turchini eÁ allo stato piuÁ difficile da sostenere dopo il recente ritrovamento, nel grande retablo della cattedrale di Granada, di una copia del giovanile Martirio di san Lorenzo di Ribera (di cui manca, forse, ancora all'appello l'originale), firmata a lettere cubitali da Juan nel 1639 98. Come, ancora, non risulteraÁ superfluo rimar- De Dominici ed. 2008, III, I, pp. 37-38 e nota 73 di A. Zezza. Raffaello Causa (La Madonna nella pittura del `600 a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1954, pp. 24-25) propose per primo l'unificazione di mano tra le tele della PietaÁ dei Turchini e di Madrid, mettendone in luce la ulteriore affinitaÁ con l'Adorazione dei pastori della National Gallery di Londra. Accettarono in seguito il riferimento dell'intero gruppo al Do, includendovi anche Il Giorno e La Notte dell'Escorial, allora ritenute opere non autografe di Ribera, Bologna e Spinosa 1978, cat. nn. 392-393, 419, 451 (che riporta e condivide i suggerimenti del primo); sul tema si veda poi Bologna 1991, pp. 128, 134, 286-287, cat. n. 2.40. 96 Questa la datazione di Bologna (ibidem); Causa 1954, p. 24; Causa 1972, p. 929, aveva suggerito la medesima cronologia («da collocarsi in datazione indubbiamente precoce, certo non dopo il '30»). 97 Scrive Ferdinando Bologna (1991, p. 128): «Certo, sebbene sia impensabile fuori del contesto napoletano dell'avanzato terzo decennio, essa [la tela della PietaÁ dei Turchini] eÁ l'opera ± tutto sommato ± meno napoletana di quel contesto, e basterebbe a provarlo il particolare del Bambino sul lenzuolo stazzonato e quasi lanoso, che nel peculiare `bell'impasto del colore' (De Dominici) puoÁ trovare riscontro nei neo-venetismi naturalizzati (o, eventualmente, riformati alla fiorentina) circolanti fra Liguria e penisola iberica dalla fine del secolo precedente, ma non a Napoli, almeno in quei termini». Causa 1972, pp. 928-929: «La NativitaÁ che eÁ nella sacrestia della PietaÁ dei Turchini, del tutto avulsa dalle correnti formule del battistellismo e del riberismo, ...». 98 Sul dipinto di Granada, P. JimeÂnez DõÂaz, El retablo de JesuÂs Nazareno y los lienzos de Jose de Ribera, in Esplendor recuperado. Proyecto de investigacioÂn y restauracioÂn de los retablos del 95 183 care l'impossibilitaÁ di riferirgli la fantomatica Adorazione dei pastori della National Gallery di Londra, da ultimo oggetto di roboanti, quanto illogiche attribuzioni 99. Nel corso della giovinezza, Luca Giordano si provoÁ in ulteriori esercizi sul tema della visita dei pastori alla sacra famiglia, secondo schemi di impaginato orizzontale liberamente ispirati a quelli di Ribera, a La Notte dell'Escorial in particolare (fig. 81). Ne rintraccio un importante esempio in un disegno delle raccolte del British Museum, attualmente riferito a Francesco Fracanzano (fig. 87), ma ignoto agli studi sul Seicento napoletano, recante sul verso due Studi per un'Annunciazione e per un Martirio di san Bartolomeo (fig. 88) 100, quest'ultimo credibilmente ispirato alla nota incisione di analogo soggetto dedicata dallo Spagnoletto a Emanuele Filiberto di Savoia nel 1624 (fig. 35). Il recto, lavorato a penna e inchiostro con intensitaÁ chiaroscurale che echeggia la ricerca luminosa dell'acquaforte (un aspetto che potrebbe avere spinto il Popham a riferirlo al Grechetto), risente profondamente dello stile grafico dello Spagnoletto, come attesta in prima battuta la linea vibrante e interrotta che contorna le figure secondarie, tanto da giustificare il riferimento ad un membro del piuÁ stretto entourage del valenzano quale il Fracanzano. Se lo stile disegnativo puoÁ Nazareno y la Trinidad de la Catedral de Granada, a cura di J.J. LoÂpez-G. MunÄoz, Granada 2009, pp. 31-45. In considerazione del ritrovamento Spinosa (2010, pp. 240-241, cat. n. 144) rimarca ora l'impossibilitaÁ di collegare la persona di Do al quadro della PietaÁ dei Turchini; sull'argomento si veda pure l'opinione del maggiore sostenitore dell'identificazione tra Juan e Do e il Maestro degli Annunci ai pastori (G. De Vito, Juan Do collaboratore di Ribera, in Ricerche sul `600 napoletano. Saggi e documenti 2010-2011, Napoli 2011, con il rinvio alla lunga letteratura anteriore). 99 Spetta a Roberto Longhi la prima proposta di muovere l'esemplare di Londra in ambito partenopeo, specificamente sotto il nome di Francesco Fracanzano; la candidatura di Juan Do fu difesa invece da Martin Soria (in G. Kubler-M. Soria, Art and Architecture in Spain and Portugal 1500-1800, Harmondsworth 1959, p. 232); e cosõÁ Bologna 1991, p. 137, con una cronologia al momento spagnolo del pittore, dunque entro il 1623. Sulla tela si veda anche il referto di B. Navarrete y Prieto in De Herrera a VelaÂzquez. El primer naturalismo en Sevilla, catalogo della mostra a cura di. A.E. PeÁrez SaÂnchez- B. Navarrete y Prieto, Sevilla-Bilbao 2006, pp. 32-33, 188-191, cat. n. 30 («Anonimo intorno al 1615/1620»), con bibliografia. Il collegamento che qui si propone con il modello dell'Adorazione dei pastori eseguita nel 1612 da Abraham Bloemaert (Parigi, Museo del Louvre), poi incisa nel 1618 da Boetius a Bolswert (ivi, p. 31, fig. 16), appare piuÁ calzante per Il Giorno di Ribera del monastero dell'Escorial. Impossibili da accettare sono, poi, le pur nutrite argomentazioni a favore del giovane Ribera di Bozzo 2010, pp. 28-43. L'ipotesi che la tela di Londra spetti ad un maestro nordico passato per Roma e Napoli rimane allo stato la piuÁ convincente. Nell'opera non sono pochi i nessi culturali con Matthias Stomer. 100 Inv. nr. 1946-7-13-726. Proviene dalle collezioni Phillips e Fenwick (A.E. Popham, Catalogue of Drawings in the Collection formed by Sir Thomas Phillipps, Bart., F.R.S., now in the possession of his Grandson, T. Fitzroy Phillipps Fenwick of Thirlestaine House, Cheltenham, London, 1935, p. 133, cat. n. 4 (attribuito a G.B. Castiglione). Tale schema dell'Adorazione dei pastori conobbe almeno una traduzione di ambito giordanesco. Al disegno britannico si affianca infatti, per affinitaÁ di impaginato, un'Adorazione dei pastori di Giuseppe Simonelli, attualmente esposta al principio della parete della navata destra della chiesa napoletana di San Diego all'Ospedaletto. 184 avere sinora tratto in confusione, eÁ perche Luca Giordano mostra qui una profonda, quanto inedita, meditazione sui fogli tardivi di Ribera, come l'Adorazione dei pastori del Metropolitan Museum di New York (fig. 86), potenziandone il tratto essenziale in direzione di un piuÁ vigoroso modellato e di luci piuÁ contrastate. La mano di Luca eÁ ben riconoscibile nei volti paffuti, di veneziana memoria, della Vergine e dei pastori siti agli estremi opposti della scena, come, sul verso, dell'angelo annunciante, che sono da ritrovarsi nell'immaginario pittorico del maestro tra lo scorcio degli anni Cinquanta e i primi del decennio successivo. Un punto di riferimento sicuro quanto ad attribuzione e cronologia, quale La sacra famiglia ha la visione della TrinitaÁ e dei simboli della Passione eseguita da Giordano nel 1660 (Museo di Capodimonte; fig. 89), sebbene distinto nel tema, puoÁ offrire un ottimo termine di confronto per immaginare il passaggio dal disegno alla pittura della testa della Vergine, del san Giuseppe chino alla sua destra, del GesuÁ bambino e dei giovani pastori, del tutto affini ai serafini e agli angeli che nella tela attorniano Dio padre. Rintraccio, inoltre, il tipo neotizianesco della Madonna e l'idea, ardita, della testa bovina che entra da destra nella NativitaÁ dell'Hospital de Tavera di Toledo (fig. 90), opera non riprodotta nella monografia sul Giordano, tradizionalmente riferita negli inventari del duca di Lerma a Tintoretto; un indizio importante, questo, per una nuova proposta di datazione al momento neoveneto dell'artista napoletano, al 1658/1660 incirca, piuttosto che sul 1682 come sinora supposto 101. Se il foglio del British Museum spetta ugualmente, come eÁ mia opinione, ad apertura del settimo decennio, anche l'intenso chiaroscuro che lo caratterizza potrebbe spiegarsi meglio con la parallela e giovanile, quanto rara, attivitaÁ incisoria di Giordano. Sebbene il disegno non sembri avere conosciuto una traduzione a stampa, scorgo una profonda affinitaÁ tra la Vergine dal collo allungato, drappeggiata di pieghe tubolari dall'effetto lanoso, e la Madonna ritratta nell'incisione con il Riposo durante la fuga in Egitto, firmata da Luca (fig. 91) 102. In questa, inoltre, va scorto il debito contratto da Giordano con il Riposo durante la fuga in Egitto autografato da Aniello Falcone nel 1641 (Napoli, Museo Diocesano, dalla sagrestia del Duomo; fig. 92), un quadro proveniente dall'ereditaÁ di Olimpia Piccolomini van den Eynden (1708) che, a sua volta, l'aveva ricevuto in dono da Gaspar Roomer, il piuÁ forte mecenate di Falcone. Si aggiunge cosõÁ un ulteriore tassello all'idea che Luca Giordano abbia conosciuto la collezione del mercante fiammingo sin dalla sua giovinezza 103. O. Ferrari in Scavizzi-Ferrari 1992, p. 300, cat. A295. Ivi, p. 381, I, cat. S2; II, p. 920, fig. 1073. 103 Per la prima di queste notizie, R. Ruotolo, Mercanti collezionisti fiamminghi a Napoli. Gaspare Roomer e i Vandeneynden, in Ricerche sul `600 napoletano, Massa Lubrense 1982, pp. 67. EÁ noto che, a detta di De Dominici, Giordano avrebbe prontamente studiato il Festino di Erode di Rubens (museo di Edimburgo), giunto nel 1640 incirca nella collezione di Roomer (O. Ferrari in Ferrari-Scavizzi 1992, I, p. 30). 101 102 185 4. Sottrazioni agli epigoni dello Spagnoletto: il `San Girolamo' della Galleria Spada, il `Filosofo' di Douai ed altri Ribera ritrovati. Nel febbraio del 1701 il cardinale Fabrizio Spada acquistoÁ un lotto di dieci dipinti appartenuti al cardinale napoletano Girolamo Casanate, defunto a Roma l'anno precedente. Uno di questi si trova attualmente esposto nella quarta sala della Galleria, inventariato al n. 147, e rappresenta un San Girolamo in lettura assegnato a Hendrick van Somer (fig. 93). L'opera era, peroÁ, entrata nella raccolta accompagnata da tutt'altra prestigiosa nomea. Essa figura nell'elenco dei beni Casanate al numero 37, descritta come «un quadro di San Girolamo, di quattro e cinque [palmi] con cornice dorata del Ribera, venduto al cardinale Spada» 104. Il riferimento allo Spagnoletto eÁ mantenuto negli inventari Spada redatti nel corso del Settecento e del secolo successivo; un'opinione ritenuta ancora valida nel 1925, sebbene non fosse mancato il dissenso tardo settecentesco di Giuseppe Vasi, che riconosceva nel dipinto la mano di Luca Giordano imitatore del Ribera 105. Fu Federico Zeri a dubitare in modo sostanziale delle antiche annotazioni cartacee e ad attribuire il quadro a Hendrick van Somer, sulla base del confronto con il San Girolamo in lettura dei depositi Barberini (fig. 18), allora in Galleria Borghese, che il restauro del 1942 aveva scoperto firmato da Enrico fiammingo 106. Ed eÁ a tale opinione che hanno prestato fede gli studiosi romani della tela, sinora sfuggita agli esegeti di Ribera. Il maestro iberico va invece prontamente risarcito del San Girolamo in lettura della Galleria Spada. Il santo eÁ qui ritratto sito all'impiedi sul margine destro, visto di profilo sinistro sino al principio delle gambe, preceduto dal tavolo, il teschio posatovi in cima, lo spigolo abilmente arretrato, sopravanzato in primo piano da un lembo del manto. Girolamo legge, la testa in scorcio seguendo la lieve torsione del busto all'interno, gli occhi strizzati in rughe profonde, il torso vigoroso curvato in avanti, il braccio destro disteso, il sinistro flesso, le mani che srotolano il testo in ebraico, il fondo bianco sporcato di nero, come una sigla. Un dipinto che abbraccia il naturalismo di Caravaggio, ma che si fonda sul principio di chi eÁ uso a esercitarsi su carta con penna, inchiostro e acquarello alla mano. Il guizzare delle luci sul tronco neomichelangiolesco ne eÁ la prova tangibile. Si eÁ molto lontani dalla meno originale pagina del San Girolamo in lettura firmata da van Somer nel 1652, e ci si R. CannataÁ in R. CannataÁ-M.L. Vicini, La Galleria di Palazzo Spada. Genesi e storia di una collezione, Roma 1992, p. 142, nota 56. Le misure indicate nel documento corrispondono a circa 90x112cm, poco piuÁ dei reali 103x75,8cm. In carte di epoche successive il formato del quadro eÁ piuÁ genericamente indicato all'uso romano come una «tela d'imperatore», corrispondente a circa 100x130cm. Il caso si ripete identico nella classificazione del San Gregorio Magno di Palazzo Barberini piuÁ avanti discusso. 105 Per questa ed altre informazioni sulla tela si rinvia alla dettagliata scheda redatta da M.L. Vicini, Il collezionismo del Cardinale Fabrizio Spada in Palazzo Spada, Roma 2006, pp. 202203: «Hendrick van Somer». 106 F. Zeri, La Galleria Spada in Roma, 1954, pp. 128, 159, cat. n. 598. 104 186 trova bensõÁ dinnanzi ad un'opera degli anni romani dello Spagnoletto, al passaggio tra il 1614 e il 1615. Confronti serrati si rintracciano, infatti, in quadri che la piuÁ recente definizione stilistica del corpus pittorico del Ribera consiglia ± se non costringe, direi ± a tenere in questo medesimo lasso di tempo. Punto di riferimento imprescindibile eÁ il San Girolamo scrivente del museo di Toronto, dono dei coniugi Tanenbaum (fig. 94), opera firmata per esteso da Ribera sul dorso del libro, e cioÁ nonostante accolta faticosamente tra gli autografi del valenzano 107. Gianni Papi la identifica, ragionevolmente, nel quadro che, dopo l'acquisto e in accompagnamento di una missiva, Giulio Mancini inviava al fratello Deifebo nel giugno del 1615 108. Il futuro autore delle Considerazioni sulla pittura cosõÁ si esprimeva a riguardo: «Il San Girolamo eÁ del Spagnioletto che venendo a Roma, avendo studiato in Parma, dette speranza e mostroÁ gran cose, poi si raffreddoÁ; capitandomi questo, che mi parse che fusse ritornato nel primo stato, l'ho preso» 109. Successivamente, in due lettere del 1617, Mancini invitoÁ il congiunto a tenere da conto il dipinto, eseguito «al piuÁ in due giorni» da Ribera, ormai artista «reputatissimo» 110. Tali giudizi possono rivelarsi utili anche per l'interpretazione della tela della Galleria Spada, eseguita su di un punto di stile particolarmente affine a quello dell'opera canadese. EÁ stato scritto che nella missiva del 1615 appare implicito il pensiero di Mancini circa la divisione in due fasi, ovvero in due stati, della produzione romana di Ribera 111. Si aggiunga che per l'archiatra papale il primo stato, espresso da Ribera proprio nel San Girolamo «capitato» tra le sue mani, veniva a coincidere con il momento pittorico in cui lo spagnolo aveva maggiormente aderito alla tendenze `lombarde', ossia emiliane, se il medesimo Mancini si dichiara convinto che il pittore «avendo studiato in Parma, dette speranza e mostroÁ gran cose» 112. Il raffreddamento stilistico a cui lo scrittore allude eÁ da intendersi quale giudizio negativo circa l'evoluzione della maniera del valenzano in data precedente alla lettera, e, forse, in senso propriamente letterale. Intorno al 1615, i modi dello spagnolo (come si riconosce anche modernamente) si avviavano a quel processo di 107 G. Papi, Ribera a Roma, Firenze 2007 [d'ora in poi Papi 2007], pp. 16-17, 152-153, cat. n. 34, con bibliografia («in prossimitaÁ del 1615»);G. Finaldi in El Joven Ribera, catalogo della mostra a cura di J. Milicua-J. Portus, Madrid 2011 [Madrid 2011], pp. 124-125, cat. n. 10 («1614-1615»). 108 Lo studioso (Papi 2003, p. 153) ne suggerisce un ulteriore passaggio collezionistico nella raccolta di Agostino Chigi (personaggio legato al Mancini da dati documentari), proponendo un collegamento con la mezza figura di San Girolamo scrivente di palmi 5x4 attribuita allo Spagnoletto nelle carte Chigi del 1698. Secondo i piuÁ approssimativi sistemi di misurazione secentesca, il quadro di Toronto, di 123x100cm, e il quadro della Galleria Spada verrebbero cosõÁ a corrispondere anche nel formato. 109 Ricavo Il passo della lettera, ritrovata da Michele Maccherini, da Papi 2003, doc. I.13. 110 Ivi, doc. I.16-17. 111 Papi 2007, pp. 16-17. 112 Come eÁ noto, la prioritaÁ del soggiorno parmense su quello romano eÁ poi ribadito da Mancini 1621, I, p. 249. 187 solidificazione della materia pittorica e di abbassamento della gamma cromatica che caratterizzoÁ poi i primi anni napoletani del pittore. Aggiungerei, ancora, che eÁ il tema del colore ad avere indirizzato il cambio di rotta del gusto di Mancini. Qualche tempo dopo, egli avrebbe poi appuntato circa l'enorme stima dimostrata da Guido Reni a Ribera, «facendo gran conto della sua resolutione e colorito, quale per il piuÁ eÁ per la strada del Caravaggio, ma piuÁ tento e piuÁ fiero» 113. Ossia piuÁ intenso, acceso, deciso, in quei primi anni romani piuÁ vicino alle scelte del Reni che del Merisi, cosõÁ come Ribera, a mio modo di vedere, ha messo a frutto e nella tela di Toronto e in quella della raccolta Spada. Anche a chi volesse ritenere ininfluente per l'arte dello spagnolo l'anno speso a Parma al seguito di Mario Farnese (ma invita a pensare ben diversamente lo sviluppo dell'idioma grafico del maestro), ricorderei che al tempo dell'arrivo di Ribera nella cittaÁ dei papi Guido Reni era all'apice della sua fama capitolina. I due furono, ad ogni modo, insieme a Roma, all'atto di pagamento della quota dovuta all'Accademia di San Luca nell'aprile del 1614 114, una data piuÁ che significativa riguardo alla cronologia che va assegnata ai due San Girolamo appena argomentati. Lo Spagnoletto, da vero genio pittorico quale egli fu, seppe con grande intelligenza comporre «la maniera che fu sua propria», «accoppiando alla fierezza del Caravaggio lo scelto del naturale, ed il bel colore della scuola lombarda»: la definizione, per una volta riuscita, era offerta giaÁ nel Settecento dal napoletano De Dominici 115. Il San Girolamo di Toronto rappresenta un essenziale tassello per accettare quali caratteristiche autografe di Ribera la sciolta esecuzione pittorica e la calda gamma cromatica del San Girolamo Spada, che, nella tecnica esecutiva della testa, trova un felice riscontro anche nel bel Sant'Antonio Abate di collezione El Conventet a Barcelona (fig. 95), argomentato da Jose Milicua verso il 1615 116. Un riscontro sul piano compositivo va invece ricercato nel San Gregorio Magno di Palazzo Barberini a Roma (fig. 96), grazie alla principale indicazione dell'inventa- 113 Ivi, p. 250. Rilevo a margine che il napoletano Bernardo De Dominici (ed. 2008, III, I, p. 11), nel profilo intitolato al Ribera, si esprime con terminologia piuttosto affine, quando insiste sul superamento di Caravaggio da parte del valenzano nel campo del colore, erede «della scuola lombarda». Si assume generalmente, peroÁ, che lo scrittore partenopeo non abbia avuto conoscenza del manoscritto di Mancini. Anche Filippo Baldinucci, nelle Notizie per il signor Luca Giordano, a 17 marzo 1681 [ma 1682] (riportate in Papi 2007, p. 255), sostiene che Ribera avesse appreso da Guido Reni «il modo di colorir fino». 114 M. Gallo, Ulteriori dati sulla chiesa dei SS. Luca e Martina e sugli esordi di Jusepe de Ribera, in «Storia dell'Arte», 93/94, 1998, pp. 335-336 115 De Dominici ed. 2008, III, I, p. 11. TorneroÁ con maggiore ampiezza sulla questione. Sui temi del viaggio a Parma e della relazione culturale con Guido Reni rinvio, intanto, ai diversi pareri di J. Lange, ``Opere veramente di rara naturalezza''. Studien zum FruÈhwerk Jusepe de Riberas mit Katalog der GemaÈlde bis 1626, WuÈrzburg 2003, pp. 53-111, Capitolo III; Papi 2007, p. 19; G. Finaldi, `Se eÁ quello che dipinse un S. Martino in Parma...'. MaÂs sobre la actividad del joven Ribera en Parma, in Madrid 2011, pp. 17-29. 116 J. Milicua in Madrid 2011, pp. 128-129, cat. n. 12, con bibliografia. 188 rio post mortem di Vincenzo Giustiniani del 1638, accolto nel catalogo del valenzano dopo l'invalso riferimento a Carlo Saraceni 117. Sebbene il quadro Spada non sfoggi la medesima audace inventiva di questo ultimo dipinto, dove il santo si presenta quasi di spalle, secondo un'idea rivisitata ne Il Tatto (Danesi Squarzina; fig. 97), le due opere si accomunano in numerosi dettagli, dalla vista laterale della figura, all'inserimento del tavolo, alla testa ossuta scorta di tre quarti, l'epidermide senile tesa, solcata dall'etaÁ, gli occhi ridotti a due fessure incavate, l'osso parietale sporgente, l'orecchio ripiegato e rifinito dall'ombra, come nei piuÁ tardi Studi di orecchie, incisi dallo Spagnoletto nel 1622 (fig. 98). Nella lastra con San Bernardino da Siena, nota per l'unico esemplare della Biblioteca Nazionale di Parigi (fig. 99) 118, Ribera avrebbe poi fatto tesoro di quanto tentato nel San Gregorio Magno, riproponendone il tipo, innovato nel labro prominente di leonardesca memoria, la mano dalle grosse dita, le grinze della pelle, gli effetti della luce che spiana lo zigomo, stavolta ottenuti modulando la corrosione del metallo. Egli pote dunque metterla a stampa anche in una data vicina al periodo 1614-1615 relativo alla tela Giustiniani, e non necessariamente intorno al 1620, termine orientativo fissato da Jonathan Brown per aprire il catalogo grafico del maestro e mai piuÁ messo in discussione negli studi successivi. D'altra parte, gli esperti di Ribera, in una anacronistica forzatura del ruolo di seguace di Caravaggio tout court che gli si vuole assegnare, continuano a sottovalutare l'esperienza dell'Accademia di San Luca - dove il pittore risulta per la prima volta documentato nell'ottobre del 1613 119 -, che va, viceversa, ritenuta fondamentale per il corretto inquadramento dello sviluppo della pratica del disegno e dell'incisione sin dagli anni Dieci. Immaginata al di sotto dello stupefacente manto scarlatto, anche la figura del San Gregorio magno spicca per prestanza, cioÁ che rimarca l'unitaÁ di concezione temporale dell'opera con il San Girolamo Spada, che puoÁ dunque condividerne la proposta di datazione sul 1614-1615. Peccato che il quadro, corrispondente all'esemplare di Palazzo Barberini pure nel formato (rispettivamente 103x75,8cm, il primo, 102x73cm, il secondo), non possa identificarsi nel «San Girolamo dello Spagnoletto» che completava la serie dei dottori della chiesa menzionata nelle carte dell'ereditaÁ Giustiniani, se questo figura ancora nell'inventario del 1793 120, novantadue anni dopo l'acquisizione da parte del cardinale Spada del San Girolamo qui in oggetto. Eseguita circa alla metaÁ della seconda decade del Seicento, la tela del museo romano si configura quale prototipo di un tema che, come eÁ noto, incuriosõÁ lungamente il pittore spagnolo. In tempi immediatamente successivi, Ribera ne modificoÁ 117 L'attribuzione eÁ di S. Danesi Squarzina, La collezione Giustiniani. Inventari I, Torino 2003 [Danesi Squarzina 2003], pp. 321-325. Il San Gregorio Magno era parte di un ciclo con i quattro dottori della chiesa. Sul quadro si veda Papi 2007, pp. 157-158, cat. n. 41 («1614/ 1615»), con bibliografia. 118 Brown 1973, p. 66, cat. n. 2, con una datazione intorno al 1620. 119 Gallo 1998, p. 333. 120 Cfr. Danesi Squarzina 2003, p. 324. 189 l'impaginato, escogitando le sostanziali varianti della testa rivolta all'esterno e della piuÁ intensa angolazione delle braccia, come si vede nel San Girolamo in lettura di collezione privata (fig. 100), anch'esso in tela d'imperatore (125x101cm), edito di recente con una cronologia sul 1615/1616 121, avanzabile agli esordi napoletani del pittore, al 1616-1617. A confronto con il dipinto della Galeria Spada, la materia pittorica appare diversamente strutturata, la gamma cromatica abbassata, il michelangiolismo muscolare contenuto. Questo ultimo aspetto della ricerca attrasse ancora Ribera, che lo mise a frutto all'atto di elaborare la figura di Gerolamo, seduto in terra e concentrato nello studio, immortalato in una celebre stampa (fig. 101), la parte superiore del corpo, se immaginata invertita, in rapporto inequivocabile con i precedenti pittorici appena sopra argomentati, con l'esemplare della Galleria Spada in particolare. A mio avviso la lastra - che, di fatto, non rispecchia un'idea pittorica adeguata al 1624 incirca che ancora le si assegna a causa di una vecchia ipotesi di Brown - non dove seguirli di molto nel tempo 122. La prova principale eÁ nel possibile parallelo, finanche nei rigidi panneggi sfaccettati, con l'immaginario figurativo del San Girolamo e l'angelo del Giudizio del Museo della Collegiata di Osuna (fig. 102), uno dei quattro quadri eseguiti dallo Spagnoletto per Don Pedro GõÂron III duca di Osuna, vicere di Napoli dal 1616 al 1620, oggi documentabile al 1617 123. 121 E. Nyerges in Il giovane Ribera tra Roma, Parma e Napoli. 1608-1624, catalogo della mostra a cura di N. Spinosa, Napoli 2011 [Napoli 2011], p. 140, fig. 60. La composizione eÁ nota anche per il tramite di una replica autografa di raccolta privata a Barcelona, di formato lievemente inferiore (Spinosa 2008, p. 322, cat. A31, con bibliografia). Il San Girolamo scrivente del Museo di Budapest, che eÁ stato esposto come originale nella sede partenopea della mostra sul giovane Ribera, eÁ invece da ritenersi una copia antica di un possibile prototipo disperso, tantomeno assegnabile al Van Somer, come si legge tra le righe della scheda di catalogo (E. Nyerges in Napoli 2011, pp. 138-141, cat. n. 21). 122 Jonathan Brown (1973, pp. 74-75, cat. n. 13) aveva segnalato l'esistenza di un unico esemplare (Museo di Berlino) recante la dedica, del 1624, a Emanuele Filiberto di Savoia, il vicere di Sicilia al quale Ribera aveva offerto nel medesimo anno l'incisione con il Martirio di san Bartolomeo. Successivamente, si eÁ appurato che la stampa di Berlino recava piuÁ semplicemente incollata un'iscrizione, precedentemente ritagliata, proveniente da una versione del supplizio di san Bartolomeo. CioÁ nonostante, il San Girolamo in lettura reca a tutt'oggi attribuita una cronologia intorno al 1624 (cfr. A. Bayer in Napoli 1992, p. 380, cat. n. 3.13, con bibliografia). 123 Dalla lettera indirizzata, il 23 gennaio del 1618, dall'agente toscano a Napoli, Cosimo del Sera, al segretario granducale Andrea Cioli a Firenze, si apprende della stima maturata dal toscano per Ribera, a suo giudizio artista piuÁ valente di Fabrizio Santafede, «avendo fatto tre quadri di santi al V[ice] R[e] che sono molto stimati...»; da una successiva missiva del 6 marzo si ricava l'ulteriore notizia che «Lo Spagniuolo e dattorno a un Crocifisso della S.a V Regina» (A. Parronchi, Progetti e sculture di Michelangelo Naccherino, in «Prospettiva», 20, 1980, p. 40). Non vi eÁ dubbio che le epistole, generalmente collegate al solo grande Calvario del museo di Osuna (G. Finaldi, The Patron and Date of Ribera's Crucifixion at Osuna, in «Burlington Magazine», CXXXIII, 1991, pp. 445-446), facciano riferimento pure a tre dei quattro dipinti analogamente conservati nella cittadina sivigliana, dono dei duchi di Osuna. Non ho fatto in tempo a rendere nota la notizia prima di Gabriele Finaldi (cfr. Madrid 2011, pp. 162-173), che ora collega tali missive alle polizze di banco ritrovate da Fernando Bouza, attestanti l'impegno di Ribera per la 190 A partire dal febbraio del 1618, mentre il valenzano era impegnato nelle commissioni dei duchi di Osuna, egli lavorava pure a un dipinto richiesto da Cosimo Del Sera, intermediario a Napoli del granduca di Firenze Cosimo II 124. Si trattava di un «Martirio del glorioso San Bartolomeo», che, giaÁ «consignato», veniva saldato a Ribera nell'ottobre del 1618 da parte del nuovo agente mediceo a Napoli, Vincenzo Vettori 125. Il quadro va identificato nel Martirio di san Bartolomeo della Galleria Pallavicini di Roma (fig. 103), forse proveniente da un'ereditaÁ Colonna 126, il cui stile risulta del tutto contiguo a quello del San Girolamo e del Martirio di san Bartolomeo della Collegiata di Osuna, del 1617 e del 1618. La composizione ben si adatta, inoltre, alla descrizione fornita dalla Guida di Bocchi e Cinelli di un Martirio di san Bartolomeo dello Spagnoletto, sito in casa Capponi a Firenze 127, piuÁ volte, invece, identificato nel Martirio di san Bartolomeo di Palazzo Pitti. Quest'ultima opera, entrata nelle collezioni granducali in data sconosciuta, eÁ tuttavia databile al 1628 incirca, in ottimo parallelo stilistico con il Martirio di sant'Andrea di Budapest firmato da Ribera in quell'anno, e, dunque, difficilmente collegabile ad una polizza di banco anteriore di un decennio 128. coppia vicereale dal luglio del 1617, quando veniva fornito al pittore un acconto per il San Sebastiano, dunque il primo quadro della serie, sino al 1619. Concordo con Finaldi circa la possibilitaÁ di identificare nel Martirio di san Bartolomeo l'ultimo dei quattro dipinti con santi a cui Ribera lavoroÁ nel corso del 1618, contemporaneamente alla stesura del Calvario, ma non intendo perche egli voglia scalarne l'esecuzione sino al 1619. Le didascalie delle foto allegate all'edizione spagnola del catalogo della mostra sul giovane Ribera assegnano, rispettivamente, le date «1617-1618» al San Girolamo (ivi, p. 163), «1617-1618» al San Pietro penitente (ivi, p. 164), «1617» al San Sebastiano (ivi, p. 165) e «1618-1619» al Martirio di san Bartolomeo (ivi, p. 172). La rapiditaÁ lavorativa di Ribera eÁ, peroÁ, un fatto storico assodato, anche in casi (tantomeno equiparabili a questi) di tele a numerose figure, ne esiste ± cosõÁ almeno intendo ± una polizza di pagamento che costringa a prolungare tale cronologia. Tenuta in debito conto l'informazione contenuta nella lettera redatta da Cosimo Del Sera nel gennaio 1618, assumo che il San Girolamo di Osuna rientri nella prima tornata di quadri eseguiti da Ribera nel 1617. Il punto di stile, che risente ancora dei modi romani del maestro, conferma tale ricostruzione. 124 Parronchi 1980, p. 40. 125 E. Nappi, Un regesto di documenti editi ed inediti, tratti prevalentemente dall'Archivio Storico del Banco di Napoli, riguardanti Giuseppe Ribera e una conferma della presenza a Napoli nel novembre 1630 di VelaÂzquez, in Ricerche sul `600 napoletano, Milano 1990, p. 181, doc. n. 8 126 Spinosa 2008, p. 339, cat. A65 127 F. Bocchi-G. Cinelli, Le bellezze della cittaÁ di Firenze, Firenze 1677, p. 287: «S. Bartolomeo intero maggior del naturale: StaÁ il Santo di Dio in atto di ricevere il martirio con le mani in alto sopra la testa legate ad un tronco col restante del corpo pendente, ed un ginocchio piegato; da una parte eÁ l'empio esequtore dell'ingiusta sentenza col coltello affilato per dar principio a trargli la pelle: Son belle a meraviglia amendue le figure, ed il torso del santo eÁ cosa di stupore ... opera singolare di mano dello Spagnoletto». 128 G. Finaldi in Napoli 1992, p. 395, aveva proposto di collegare il documento del 1618 ad un Martirio di san Bartolomeo, composizione di formato verticale e a piuÁ figure, noto attraverso numerose repliche, la migliore ± a mio giudizio comunque non autografa ± un tempo presso la Galleria Shickman di New York (Spinosa in Napoli 1992, p. 114, cat. n. 1.2), poi presso Clovis Whitfield Fine Arts ed oggi al Museo di Israele a Gerusalemme (Spinosa 2008, p. 516, 191 Intorno al 1616, Jusepe aveva pure realizzato una prima versione della figura semidistesa che appare nei panni del San Girolamo e l'angelo del Giudizio di Osuna: mi riferisco al San Girolamo scrivente donato nel 1894 al MuseeÂe des Beaux-Arts di BesancËon come opera di Ribera (fig. 104). Sotto il nome del valenzano la tela eÁ figurata nei cataloghi di primo Novecento, sino al sopraggiunto parere contrario di Arnauld BreÂjon, favorevole alla paternitaÁ di Hendrick van Somer, tuttora accettata dall'istituzione francese 129. L'alta qualitaÁ di tale invenzione pittorica, che sviluppa l'idea messa a punto nel San Girolamo in lettura che fu delle Trafalgar Galleries di Londra (se si accetta che questo sia un originale di Ribera del 1612 incirca, fig. 105) 130, testimonia invece l'autografia dello Spagnoletto, sancita dalla forza straordinaria del ritratto senile, pressoche sovrapponibile ai volti del Girolamo di Osuna e del Bartolomeo Pallavicini (figg. 102-103), dalla mano che scrive, dal libro spampinato quale un fiore maturo. Come nell'esemplare di Osuna, Ribera ha posto la figura in diagonale, cercando la profonditaÁ, arretrandola dal primissimo piano in cui giacciono i brani superbi di natura morta, mostrando l'originale ripresa di modelli antichi e rinascimentali, attestata dalla posa del protagonista, appoggiato sul gomito, le gambe semidistese e sfalsate come un dio fluviale a cui non sono estranee le riletture di Michelangelo. Di questo concetto il pittore avrebbe poi fatto splendido uso, se ci si daÁ conto che il grasso Sileno ebbro del quadro firmato nel 1626 (Napoli, Museo di Capodimonte) ripete il medesimo schema. Tra i quadri inavvertiti come possibili originali di Ribera, e bensõÁ meritevoli di essergli restituiti, ritrovo anche il Filosofo matematico (Eraclito?) del MuseÂe de la Chartreuse di Douai (fig. 106), che ho potuto esaminare di recente, esposto al museo di Lille sotto la fuorviante, nonche riduttiva didascalia di «atelier di Luca Giordano» 131. La tela eÁ allo stato identificata in una delle numerose copie tratte dall'esemplare, pressoche identico nell'iconografia, ma, come si vedraÁ, non nello stile, dell'Arizona University Museum of Art a Tucson (fig. 107), forse parte della serie con filosofi dell'antichitaÁ eseguita da Ribera intorno al 1630 per il vicere cat. D5, «copia da Ribera», ancora con la collocazione presso Whitfield). Spinosa 2003, p. 106, aveva invece promosso la candidatura del Martirio di san Bartolomeo di Palazzo Pitti (sul punto si veda anche l'argomentato parere di E. Fumagalli in «filosofico umore» e «maravigliosa speditezza». Pittura napoletana del Seicento dalle collezioni medicee, catalogo della mostra a cura di E. Fumagalli, Firenze 2007, pp. 34-35). La descrizione di Bocchi e Cinelli si adatta meglio, peroÁ, ad un'opera a sole due figure, cosõÁ come mostra l'esemplare della Galleria Pallavicini. Avanza con dubbi la possibilitaÁ di riconoscere in questo ultimo il quadro pagato dal Vettori, Spinosa in Napoli 2011, p. 87 («sia o non sia...»). 129 A. BreÂjon de LavergneÂe in Peintures napolitaines. MuseÂe des Beaux-Arts et de ArcheÂologie de BesancËon, catalogo della mostra, BesancËon 1982, pp. 45-46, cat. n. 26. L'attribuzione al fiammingo ottenne il beneplacito di Nicola Spinosa che segnaloÁ per l'occasione una ripetizione della tela in una collezione privata romana. 130 Papi 2007, pp. 137-138, cat. n. 11; Spinosa 2008, pp. 308-309, cat. A11. 131 A. Bachelot in Lille 2011, p. 187, cat. n. 41. Se ne propone l'identificazione in Eraclito, Archimede o in un architetto. 192 Fernando EnrõÂquez AfaÂn de Ribera, duca di AlcalaÁ 132. L'opera statunitense reca la firma di Jusepe de Ribera, presumibilmente autografa, inserita nello spazio bianco del foglio, al centro dello schizzo geometrico (fig. 107a), dove non appare, invece, l'anno 1631 segnalato nell'ultima monografia intitolata al maestro; nel medesimo punto, il dipinto di Douai, che dovrebbe replicare la tela di Tucson, esibisce solo l'indicazione «F. 1637» (fig. 106a). Il termine cronologico non si addice peroÁ allo stile dell'opera, e tantomeno a quello dell'esemplare americano, cosõÁ che bisogneraÁ ammettere di trovarsi dinnanzi ad un'aggiunta successiva. I due filosofi, pressoche sovrapponibili all'apparenza, posti a un piuÁ attento confronto, rivelano una condotta esecutiva profondamente diversa. In peggiore stato di conservazione, consistente nell'alterazione dei mezzi toni e nel depauperamento della superficie pittorica, il Filosofo di Tucson si allinea facilmente alla produzione di Ribera sul principio degli anni Trenta, dal tipico impasto pittoricistico: il rinvio al Democrito del Museo del Prado, firmato nel 1630, parte della serie dipinta per il duca di Alcala poco innanzi citata, eÁ indicativo a riguardo. Il quadro di Douai appare invece contraddistinto da un piuÁ consistente e lucido amalgama, caratterizzante i dipinti del primo periodo napoletano. Ribera ideoÁ la scena sviluppando lo schema dei Sensi (fig. 97), dove le figure protagoniste giganteggiano nello spazio arretrate rispetto al piano di osservazione, occupato dal tavolo su cui giacciono gli oggetti, ora ribassato sino a coincidere con il bordo della tela. Sebbene meno energico nella fattura, il quadro francese rivela stretti nessi culturali con il Geografo sorridente (Democrito) appartenuto a Piero Corsini (Svizzera, collezione privata; fig. 108), rilevabili nella resa degli incarnati del volto e della mano, nel mobile scorrere della luce su di essi, nell'abbinamento tra il marrone tabacco e il bianco, nel compatto volume del libro e nel pollice dall'unghia sudicia che sbuca dalla pergamena. Brani, questi ultimi, che sanciscono incontrovertibilmente l'autografia riberesca di un'opera eseguita agli albori partenopei del maestro. Possibile eÁ, poi, anche il parallelo tra la testa del filosofo, inclinata verso l'interno e lambita dall'ombra, e quella del piuÁ antico Sant'Antonio abate di Barcelona (fig. 95), che offre riscontro ai colpi di beige posti a illuminare la zona sottostante l'occhio e le grinze della fronte, e ai grigi argentati che spruzzano la tempia e il principio della barba. Nella tela, che a mio giudizio condivide la cronologia del Democrito sul 1616/ 1617, va dunque identificato il prototipo da cui discende il Filosofo di Tucson, e non 132 Si ritiene che il quadro di Tucson rappresenti Archimede o, piuÁ probabilmente, Eraclito. Ritenuto autografo dal Mayer e dal Suida, il dipinto era stato spostato tra le opere di bottega dal Felton. Spinosa (1978, p. 99, cat. n. 41) lo mise invece in collegamento con il Democrito del Prado, firmato nel 1630, proponendone l'identificazione in un pezzo della serie di filosofi dell'antichitaÁ dipinta per il duca di AlcalaÁ tra il 1629 e il 1631, serie elencata a Siviglia nella Casa de los Pilates, e poi in una vendita genovese successiva al 1637, oggi solo parzialmente ricostruita (Spinosa 2008, pp. 367-368, cat. A107; 364-367, cat. A102-106, 368-370, cat. A108A110). La tela di Douai non eÁ schedata da Nicola Spinosa, che elenca tra le repliche del dipinto di Tucson una «mediocre copia» giaÁ in collezione Matarazzo a Napoli (Spinosa 1978, p. 99, cat. n. 41a), una «modesta derivazione» del museo di BesancËon (ivi, cat. n. 41c, tradizionalmente riferita a Luca Giordano), e una replica di bottega a Palazzo Ferretti ad Ancona (ivi, cat. n. 41b). 193 viceversa. Siamo cosõÁ dinnanzi ad un interessante caso di studio, che non rimarraÁ certo unico, di esemplari finora giudicati copie tardive e che possono piuttosto rivelarsi ripetizioni autografe licenziate dallo stesso Ribera. Come interpretare, quindi, la data 1637 che si trova iscritta nel quadro in alternativa all'ipotesi di una banale opera di falsificazione postuma? EÁ forse da ritenersi una semplice coincidenza la realizzazione, in quel medesimo 1637, di una seconda serie di filosofi greci, nel numero di sei alla metaÁ del XVIII secolo nella raccolta del principe di Liechtenstein, che, almeno nell'impaginato, possono affiancarsi al dipinto di Douai 133? Ci si trova dinnanzi ad una aggiunta apocrifa o ad una data apposta successivamente dallo Spagnoletto in persona su di un quadro rimasto in bottega da tempo, al momento rivelatosi utile per completare una serie? La precoce cronologia che qui si assegna alla tela francese comporta la ulteriore riflessione sulla altrettanto precoce attenzione di Ribera per un genere tematico, destinato ad un pubblico intellettuale, che lo rese celebre e imitato, in epoca ben anteriore alla commissione dei Filosofi per il duca di AlcalaÁ. Testimone d'eccellenza di tale giovanile interesse eÁ, d'altronde, l'Origene della Galleria Nazionale di Urbino, del 1614 incirca, proveniente dalla raccolta del colto marchese Vincenzo Giustiniani 134, al quale ben spetterebbe il ruolo di ispiratore del fortunato filone pittorico. 133 Sull'argomento, Felton-Jordan 1982, pp. 152-159. Per lo schema, si veda in particolare il Protagora di Hartford (ivi, cat. n. 17); l'Aristotile di Indianapolis (ivi, cat. n. 18) eÁ invece utile per il riscontro dello stile grafico dell'iscrizione «F. 1637». Tali quadri corrispondono nelle misure ± centimetro in piuÁ o in meno ± alla tela di Douai (122x97cm). 134 Sulla tela, Papi in Napoli 2011, pp. 130-131, cat. n. 17, con letteratura. 194