054_061_GIAPPONE_EAST10

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Le riforme economiche di Koizumi cominciano a dare i primi risultati:
scende il tasso di risparmio e ripartono i consumi e le esportazioni. Ma
agli inevitabili mutamenti impressi alla sfera politica e a quella econo-
Giappone, dove passato e
futuro convivono al presente
REPORTAGE
di Silvia Sartori
mica non corrispondono analoghi cambiamenti della società, che continua ad apparire tenacemente legata alla cultura e ai comportamenti
Leonardo Pellegatta
tradizionali, vecchi di secoli
REPORTAGE
H
signori di città che qui venivano per divertirsi
e fare acquisti smodati. Nel 1841, poi, Asakusa
accolse i teatri kabuki, stile teatrale popolare
che racconta con linguaggio colorito vicende
storiche, d’amore e d’avventura ed era ritenuta una forma d’arte dissoluta nella capitale.
Quando il Giappone dovette porre fine al suo
secolare isolazionismo, nel 1868, Asakusa fu
nuovamente la prima ad assorbire i primi
segni di cambiamento esterno: qui vennero
aperti i primi studi fotografici, i primi centri
commerciali, il primo cinematografo, le prime
sale da ballo e di cabaret. E il primo bar, tuttora esistente.
Per certi versi la storia di Asakusa incarna l’anima del Giappone moderno, l’anima di un
Paese dove antico e nuovo, ancestrale e futuristico convivono quotidianamente, senza per
questo sentirsi a disagio l’uno accanto all’altro.
È una convivenza difficile da capire per chi
viene dall’esterno e cerca di decifrare una
società che, malgrado il forte processo di
modernizzazione, continua a costituire un uni-
Leonardo Pellegatta
amenari e il fratello Takenari stavano
pescando sul corso del fiume
Sumidagawa, quando nell’amo si impigliò una piccola statuetta dorata di Konnan, il
Buddha della Misericordia. I due la portarono
al loro maestro, Naji-no-Nakamoto, che dapprima la conservò in un piccolo altare domestico, per poi farci costruire, nei dintorni, un tempio vero e proprio.
Era l’anno 682 e così la leggenda traccia le origini del famoso tempio Senso-ji ad Asakusa,
una delle miriadi di cittadine che compongono
la costellazione della città di Tokyo.
Con l’inizio dello shogunato Tokugawa, nel
Diciassettesimo secolo, la capitale del
Giappone fu trasferita a Edo (l’attuale Tokyo),
e con questo iniziò l’epoca d’oro di Asakusa.
Quello che era poco più di un piccolo villaggio
di periferia divenne il ricettacolo del mondo
culturale più variegato e innovativo. Artisti di
strada, musicisti, acrobati, venditori ambulanti
affollavano le vie del quartiere, mentre case di
tè e di sake si moltiplicavano, ospitando i ricchi
GIAPPONE, DOVE PASSATO E FUTURO CONVIVONO AL PRESENTE
serve aiuto. Il loro inglese non è dei migliori,
spesso è proprio elementare, ma cercano
comunque di assisterti. Qualche mezzo inchino del viso, il consueto etto d’esordio, qualche
suono gutturale che ti fa capire che stanno
riflettendo. Ma alla fine la risposta di cui avevi
bisogno arriva. Magari non da quello che ti
aveva avvicinato, ma da qualcun altro che lui, a
sua volta, ha contattato per esserti più d’aiuto.
Rimani stupita e rallegrata da tutta questa cortesia e continui per la tua strada. Cammini per
minuti e minuti per passare da una linea all’altra della metropolitana, una maglia che conta
almeno dodici reti. Anche lì, ognuno è al suo
posto. Su di un lato la fila di quanti camminano in una direzione; nel lato opposto, ordinati,
quelli in direzione contraria. Guardano avanti
diritto, al massimo sussurrano qualche parola
e, di nuovo, non ti badano. Sali sul vagone successivo e ti passa davanti, sicura del fatto suo,
una bimbetta di non più di sei anni. Nella sua
impeccabile uniforme scolastica, con tanto di
cappellino blu e una rigidissima cartella blu
scuro alle spalle, cammina decisa verso il suo
posto a sedere. Da sola, torna a casa da scuola
avventurandosi senza nessuna difficoltà nel
labirintico groviglio della metro della capitale.
Questo sembra essere assolutamente normale,
Leonardo Pellegatta
verso a sé, senza eguali. All’apparenza molto
occidentalizzato, ma nella sostanza intrinsecamente diverso e antico.
Arrivata a Tokyo, vado all’ufficio delle ferrovie
per convalidare il mio abbonamento settimanale. L’addetta, gentilissima ed efficientissima,
ci impiega qualche secondo per sbrigare la pratica e marca la data d’inizio di validità del pass:
28 aprile 18. Diciotto? Già, diciottesimo anno
dell’era Heisei, ovvero dell’epoca dell’attuale
imperatore Akihito.
Sali in metro e ti trovi circondata da tanti figuri in blu, grigio e nero. Ognuno siede silenzioso al suo posto, ognuno con gli auricolari alle
orecchie: chi si lascia vincere dal sonno e crolla
il capo, chi nervosamente controlla lo schermo
di uno dei suoi cellulari, chi legge, assorto, un
libricino rivestito di carta gialla. Di fianco a
loro, gruppetti di studentesse in uniforme.
Loro un po’ chiacchierano, ma sempre premurandosi di non dar fastidio e appartate in un
angolo. E tu sei lì, diversa, che li osservi.
Mentre nessuno di loro sembra accorgersi che
tu ci sei, nessuno di loro ti getta uno sguardo
di curiosità e di interesse. O, perlomeno, sembrano essere indifferenti alla tua presenza. Poi,
però, ti vedono combattere con la piantina
della metro e ti si avvicinano, chiedendoti se ti
REPORTAGE
_I giapponesi si muovono e si comportano irreprensibilmente. Agiscono con la consapevolezza di essere membri
di un gruppo, di una comunità a cui devono continuamente rendere conto
dare responsi definitivi, ma le politiche riformistiche messe in moto dal premier Koizumi
rivitalizzano l’economia interna puntando sull’iniziativa privata che ha ridato vigore ai consumi e alle esportazioni verso l’Asia. Le privatizzazioni delle autostrade prima (ottobre
2005) e dei servizi postali poi (operativa da
ottobre 2007) stanno alleggerendo in modo
sostanzioso il fardello che grava sullo Stato (i
soli dipendenti postali costituiscono il 30%
dell’intero corpo dei dipendenti pubblici giapponesi!). Nel 2002, lo Special Measure Act for
Urban Revitalization ha creato 6.400 nuove
aree residenziali, calmierando così il mercato
immobiliare che si avvicinava ad un’altra pericolosa bolla. Nello stesso tempo è stata avviata
una politica di deregulation a livello locale,
tesa a promuovere la creazione di zone speciali.
A fare da pendant alle manovre riformistiche,
poi, vi è il tentativo di drastico risanamento dei
conti pubblici. Koizumi intende ridurre del
10% la spesa pubblica, sostanzialmente
aumentando la pressione fiscale nel biennio
2006-2007 e i costi dei servizi medici a carico
dei contribuenti. Col valore record del 20,4%
di popolazione sopra i 65 anni, il problema dell’invecchiamento costituisce, infatti, una
Leonardo Pellegatta
e tu sei l’unica a rimanere stupita, un po’ perplessa.
Disinvolte intorno a te, intanto, donne e ragazze alle prese col trucco. Davanti a specchi e
specchietti, si ritoccano il viso: cipria rosata
sulle guance, linea marrone delle sopracciglia,
matita sugli occhi e un ultimo tocco ai capelli.
Non ne trovi una leggermente scombinata o
scomposta, tutte sembrano in posa per un
grande evento. Con altrettanta cura sono
vestite, eleganti e distinte. Firmatissime,
soprattutto. Louis Vuitton, Gucci, Yves-Saint
Laurent, Prada stanno alle giapponesi (e anche
ai giapponesi!) come Benetton o Sisley alle italiane. Tant’è che, quando la recessione nipponica aveva raggiunto uno dei suoi momenti più
cupi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio
degli anni Novanta, c’era chi parlava di una
conseguente “Gucci depression”.
Ora le cose stanno andando meglio e il
Giappone sembra lasciarsi alle spalle l’ombra
della decennale recessione. È ancora presto per
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preoccupante spina nel fianco per la pubblica
amministrazione giapponese. Ad aggravare
ancora di più lo scenario, l’annuale censimento demografico ha di recente dichiarato che il
numero di bambini è in calo per il venticinquesimo anno consecutivo. Ad aprile, la popolazione sotto i 14 anni costituiva solamente il
13,7 % del totale della nazione, raggiungendo
valori inferiori addirittura a quelli dell’Italia
(14,2 %) e di Spagna e Germania (14,5 %).
La nuova linea politica ha comportato anche
un rivoluzionario cambiamento nel mercato
del lavoro. Lo storico impiego a tempo indeterminato con lauti benefit e bonus sta diventando sempre meno una certezza del sistema.
Contratti a tempo determinato o part-time si
moltiplicano, con remunerazioni salariali proporzionalmente molto più basse. Questo consente alle imprese un più ampio margine di
manovra nelle loro politiche di assunzione e al
contempo ha ridotto il tasso di disoccupazione,
ora assestato attorno a un più rassicurante
4,3%.
Mamoko, 22 anni, ha da poco terminato il
diploma universitario. Da qualche mese lavora
presso un noto centro linguistico di Tokyo. È il
suo primo impiego e non si lamenta dell’opportunità presentatale, ma già pensa a cambiare lavoro. Attualmente lavora sei giorni alla
settimana per uno stipendio mensile di
120.000 yen (840 euro circa). Il solo affitto le
costa ogni mese 60.000 yen, benché viva in un
appartamentino di meno di 50 metri quadrati,
che condivide con un coinquilino.
Considerando le spese per bollette e trasporti,
ogni mese le rimangono circa tre, quattromila
yen per campare. Di risparmi neanche parlarne: già fatica ad arrivare a fine mese.
Il suo, del resto, non sembra essere un caso isolato in un Paese in cui i risparmi si sono ridotti di due terzi rispetto agli anni Ottanta.
L’enigma dell’impermeabilità
Il Paese cambia, ma la società giapponese,
per molti versi, sembra indifferente, impermeabile, a qualsivoglia cambiamento. Si risparmia di meno e si spende di più, il lavoro
diventa più precario e le ditte arrivano persino
a multare i dipendenti che fanno gli straordi-
_Il Giappone sembra essere rinasto immune dalle tendenze omologanti. Camminando per la città è facile imbattersi in donne che indossano il kimono, così come imbattersi in geishe
nari. Già, perché si è cominciato a rendersi
conto che l’impiegato stakanovista, che si sacrifica per il lavoro, rischia di compromettere
la sua produttività, quindi meglio incoraggiarlo ad attenersi agli orari ufficiali di lavoro.
Eppure, intanto, la maggior parte delle donne
continua ad abbandonare la carriera dopo il
matrimonio. Al lavoro continuano a subire
pressioni proprio in quanto donne, al punto
che la stessa Yuriko Koike, ministro
dell’Ambiente, ha attribuito il suo recente
ricovero ospedaliero alle pressioni provocatele
dall’ambiente di lavoro. “Una donna deve
lavorare dieci volte più sodo di un uomo per
dimostrare che vale”, ha dichiarato. Akiko, giovane neolaureata, al suo primo giorno di lavoro ha ricevuto una giornata intera di formazione su come porgere i bigliettini da visita, come
rispondere al telefono e come inchinarsi, a
seconda dell’interlocutore con cui interagisce.
Questo benché lavori per una ditta americana.
Un mondo nuovo e un mondo antico che si
incontrano senza scontrarsi. E tu ti chiedi come
faccia questo Paese a rimanere così integralmente se stesso pur diventando così diverso,
così moderno e, chissà, forse occidentalizzato.
Sì, perché quando sbarchi in Giappone ti aspetti di trovarti dinanzi al culmine del progresso,
all’apogeo della modernizzazione occidentale.
Paradossalmente, nell’arcipelago asiatico ti
aspetti di trovare proprio l’anteprima di quanto l’Occidente sarà o, perlomeno, potrebbe
diventare. Poi, invece, cammini e ti guardi
attorno, visiti e parli con la gente e scopri che
la società e la forma mentis rimangono diverse. Neanche asiatiche, esclusivamente giapponesi. L’Occidente rimane necessariamente un
termine di confronto obbligato, ma non per
questo un modello da clonare in toto.
Sì, perché, vivendo in Cina, l’impressione
era che l’Asia stesse progressivamente estinguendosi, senza che gli asiatici stessi se ne dessero troppo cruccio. Osservo l’orgoglio con cui
i cinesi americanizzano il loro stile di vita e le
loro città, abbattono templi e giardini e ci costruiscono l’ennesimo centro commerciale o
palazzone che di cinese proprio non ha nulla.
Quello cinese, casomai, è un altro paradosso:
l’antipatia crescente nei confronti degli Stati
Uniti, potenza ritenuta “egemonica e arrogante”, convive con l’imitazione smodata e l’assorbimento acritico di quanto è di origine americana. Dopo tutto, però, questo si spiega con la
Leonardo Pellegatta
Il Giappone dei cinesi
naturale inclinazione cinese ad ammirare “il
Potente“, chiunque esso sia.
Vale un po’ lo stesso principio nei rapporti
sino-giapponesi, di questi tempi ai minimi storici. Ad alimentare i forti dissapori, culminati
un anno fa in gravi dimostrazioni di piazza,
sarebbero questioni storiche ancora aperte,
contenziosi territoriali, discordanti interpretazioni storiche. Più pragmaticamente, ragioni di
Realpolitik, inevitabili in epoca di impetuosa
rinascita cinese e di concorrenza regionale, se
non globale. In primis, la sete energetica dei
due Paesi, acuita, nel caso della Cina, dalle
dimensioni del Paese, nel caso del Giappone,
dalla pressoché totale mancanza di fonti energetiche sul territorio nazionale.
Si aggiunga, poi, una buona dose di sapiente
manipolazione politica da entrambi i lati e i
toni del “non dialogo” si esasperano facilmente. Guardo soprattutto ai cinesi, che nella loro
natura lasciano più facilmente trapelare le loro
opinioni (per quanto poi vadano decodificate) e
che non perdono occasione per confessare l’ostilità per il vicino insulare, magari senza
saperne esattamente la ragione. Penso al mio
agente immobiliare che, quando ha saputo del
mio prossimo viaggio in Giappone, mi ha detto
secco: “A noi cinesi non piacciono i giapponesi”. “Perchè?”, gli chiedo. Ribatte, dogmatico:
“Non lo so, ma non ci piacciono”.
Intanto, e qui ricompare il paradosso, i cinesi
sono sostenitori accaniti di musica giapponese,
affollano i ristoranti di sushi e teriyaki e vanno
matti per ogni tipo di gadget che provenga dal
Sol Levante. Sempre e ancora, il fascino del
nuovo e del potente.
Il Giappone, invece, nel corso della sua ripresa
post-bellica sembra essere rimasto immune
dalle tendenze omologanti. Cammini per la
città e ti imbatti ancora in donne che indossano il kimono, intravedi geishe che intrattengono uomini d’affari, scopri decine di negozi di
artigianato antico, scorgi case in stili architettonici tradizionali, fotografi giardini e fiori in
vecchi stili artistici. Agli incroci delle strade, in
cima a una collina, sotto le frasche di un
boschetto, trovi tempietti, shinto e buddisti.
Non sono lì decrepiti, scalfiti dal passare del
tempo o abbandonati all’incuria. Sono curati in
ogni loro dettaglio, con fiori freschi, tendaggi
colorati puliti e statuette di pietra, ricoperte
con panni rosa e rossi. Senti che il passato vive
ancora, che c’è qualcuno dietro che lo perpetua
e ci crede ancora sinceramente.
Kiyoko, nota giornalista musicale, mi racconta
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Olycom
GIAPPONE, DOVE PASSATO E FUTURO CONVIVONO AL PRESENTE
_Qui sopra, il Primo ministro Junichiro Koizumi, artefice
delle principali riforme economiche degli ultimi anni. A
fianco, un’immagine dei grandi magazzini Ando, nel
quartiere alla moda di Omotesando
che le ragazze amano ancora portare lo yukata, abito tradizionale estivo simile a un kimono. Non lo fanno per folklore o per ritualità,
ma semplicemente perché a loro piace. E sono
le stesse ragazzine che incontri per la città,
vestite all’ultimissima moda, truccate impeccabilmente, sempre a giocherellare nervosamente col loro telefonino ricoperto di gadget vagamente kitsch.
Il prezzo della tradizione
Guardi queste folle che si muovono e si
comportano irreprensibilmente. Capisci da
ogni loro azione che agiscono con la consapevolezza di essere membri di un gruppo, di una
comunità a cui devono continuamente rendere
conto, talvolta in forme silenziose, impercettibili, quasi occulte. E allora ti vengono in mente
le parole di Terzani il quale, dopo essere stato
espulso dalla Cina nel 1984 ed essersi trasferito in Giappone, concludeva che questo è l’unico Paese in cui il comunismo abbia mai davvero funzionato.
Un’estremizzazione, forse, ma sostanzialmente questa è la sensazione che permea da una
società così irreggimentata e ubbidiente, che si
sente sicura e protetta proprio dall’adesione
alla complicatissima rete di convenzioni che la
Leonardo Pellegatta
REPORTAGE
governano. A scapito, in parte, dell’indipendenza individuale, come lamenta anche
Kiyoko, che si vede circondata da giovani generazioni prive di mentalità e spirito indipendenti. Fino al dilagare del fenomeno otaku, quello
dei giovani fanatici dell’industria dell’animation e di videogiochi, che finiscono per rinchiudersi in casa per dedicarsi esclusivamente
a questa loro ossessione. Un fenomeno in continua crescita, una vera questione sociale che
ora sta assumendo anche dimensioni internazionali, con l’aumento di otaku stranieri che
arrivano per ricongiungersi “in patria”.
Al tempio di Soji-ji, nei pressi di Yokohama,
incontro
il
reverendo
Kimura.
Trentacinquenne, da circa vent’anni è monaco
della setta Soto del Buddismo Zen. Chiedo a
lui che cosa pensi delle nuove, giovani generazioni giapponesi. “Non sono felici”, mi risponde. Vivono schiave di una routine monotona
votata allo studio o al lavoro, con un’impronta
egoista. La religione? La conoscono, ma quello
che a loro interessa adesso è una vita piacevole.
Lui, invece, si sente felice. Avvolto nel suo
lungo abito nero, simbolo di moderazione e
modestia, vive da circa dieci anni in questo che
è, per importanza, il secondo tempio della setta
in Giappone. Ogni mattina si sveglia alle 3 e
30, alle 4 inizia i suoi esercizi zen, dalle 5 alle 7
canta i sutra e poi fa colazione. Terminato il
pasto, assieme agli altri monaci pulisce la stanza e i pavimenti, per poi riprendere a cantare i
sutra. Stesso ordine per il pranzo. La cena è
servita alle 5, alle 7 lo attendono gli esercizi
zen serali, seguiti dalla pulizia “del corpo e
della mente”. Una vita regolarmente cadenzata, che ha “scelto per destino”. Si dedica attivamente alla formazione dei giovani monaci,
attualmente centocinquanta nel monastero.
Otto anni fa, si è recato in visita a San
Francisco. Gli chiedo che impressione ne abbia
avuto. “Ci ho trovato la stessa serietà che c’è in
Giappone”, mi spiega. “Il posto era molto
bello, i monaci very nice”.
E la Cina, invece? Nella sua risposta aleggia un
profondo rispetto per quella Cina che per lui è
innanzi tutto la “missionaria” del buddismo in
Giappone. Vorrebbe andarci, un giorno, per
studiare. Ma il suo sogno prima di morire è di
poter andare in India, la vera culla del Buddha
Shakamuni.
Al termine del nostro incontro, richiude il
dizionarietto elettronico che aveva assistito il
suo inglese traballante. E senza abbandonare la
serenità che ha sempre dipinta in volto, con
fare sorridente si ferma un attimo a decantare
le lodi di questi frutti della tecnologia.
Un’altra piccola miniatura di come l’antico e il
moderno si sposino senza nessuna incongruenza.
Mi lascio alle spalle questo spicchio di mondo
sacro e antico e torno a Yokohama, zona
Minato Mirai. Qui si ripresenta, invece, un
altro spicchio del mondo futurista. Grandi
hotel lussuosi, una gigantesca ruota panoramica, una finta e, direi, poco realistica Burano
ricostruita sul lungo fiume, dipingono i tratti
di quella che è stata concepita come “modello
di città del futuro”. Tutto torna a farsi grande,
sfavillante, nuovo e, con questo, insapore e
artificiale. E tu ti senti come sul set di un film,
comparsa involontaria in una sorta di Paese
provetta. Più ti avvicini, più credi di poterlo
conoscere e meno lo capisci. E ricordi Oscar
Wilde, che sosteneva come “in realtà il
Giappone è un’invenzione pura. Non esiste un
tale Paese, non esiste un tale popolo… Il popolo giapponese altro non è che un modello di
stile, una squisita fantasia dell’arte”.
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