Giulietta Squeenz
Transcript
Giulietta Squeenz
LIBRO IN ASSAGGIO GIULIETTA SQUEENZ PULSATILLA GIULIETTA SQUEENZ IMPERFETTO Di fronte a noi abitavano i Bardellini. Erano una coppia di vecchietti con uno schnauzer nano e una nipotina, Giada, che già a sei anni era la più grande collezionista vivente di Barbie. Ettari e ettari di scatoloni contenenti decine e decine di Barbie, accatastate l'una sull'altra senza grazia, con un inquietante effetto da fossa degli ebrei: aveva qualcosa dello sterminio, quella massa di corpi magri e affastellati, gasati così a tradimento da avere ancora un sinistro sorriso stampato in faccia; e Giada, indubbiamente, aveva qualcosa dell'aguzzina, con quei piccoli orecchini d'oro e il sorrisetto da sfinge. Nel villino accanto, invece, abitava Mariella. Mariella aveva molti stupidi vezzi dai quali io mi sentivo esclusa, per esempio i buchi alle orecchie. Mi facevano anche un po' ribrezzo: si metteva di quinta davanti allo specchio e infilava i ganci dei pendenti nella carne del lobo, e io la occhieggiavo con una mano alla fronte, aspettandomi di vedere sgorgare fiotti di sangue da un momento all'altro. Aveva una sorella maggiore, Eleonora, da cui ereditava fondotinta, pendagli, costumi da bagno, scarpe, orpelli di varia foggia. Poi aveva un sacco di collane finte, braccialetti, orecchini a clip a forma di cuore e pietre preziose di plastica. Da grande, Mariella voleva fare la ballerina. TI suo cartone animato preferito era Creamy (una giapponesina con i capelli viola, dotata di bacchetta, che faceva innamorare i ragazzi declamando una formula magica che Mariella sapeva a memoria: "pàmpulo, pìmpulo, parìm pampù"). La sua cantante preferita era Madonna (la biondazza tutto pepe dell'epoca, che andava in televisione avvolta nei veli blu -"True Blue / baby I love you" -e si faceva scopare da Basquiat). Tra Giada e Mariella fu amore istantaneo: la comune passione di affogare i sensi nel rosa originò un'orgia di collane di perline, pettinini, scrigni tempestati di finti smeraldi. Purtroppo la passione si trasformò in una lotta senza quartiere quando fu il momento di decidere chi dovesse accaparrarsi Barbie Indossatrice. Giada, con cipi. glio da SS, decretò che spettava a lei e che Mariella poteva accontentarsi di un qualsiasi personaggio di sfondo, tipo Skipper o la Barbie di colore. A quel punto Mariella avrebbe dovuto contrattaccare con le sue, di Barbie, ma provenendo da una famiglia di basso lignaggio non aveva altro per rilanciare che un misero cordone di cani di peluche, flosci e datati; quisquilie, robetta. L'usufrutto, anche sporadico, di Barbie Indossatrice era così vitale per lei che provò a barattarlo con il suo set di pentoline, a cui, in extremis, era persino disposta a rinunciare per sempre. Non che fossero un granché, le sue pentoline di plastica (tarate male all'origine: troppo grandi per una Barbie, troppo piccole per una bambola), ma, di fronte a una prostrazione del genere, quella zoccola in miniatura di Giada avrebbe dovuto cedere per carità cristiana. Invece Giada rilanciò. In cambio dell'uso della Barbie voleva qualcosa all'altezza del suo rango. Voleva non pentoline qualsiasi, ma pentole vere. Voleva le pentole della signora Lina. La signora Lina. Madre di Mariella. Grassa e di origine cilentina. Aveva sposato un tipico brianzolo (magro, occhi chiari, sorriso cordiale che sottintendeva "stammi alla larga") e aveva assunto la parlata, la mentalità e i modi settentrionali ("l'Eleonora, la Mariella"). La signora Lina aveva due tette giganti. Ogni mattina apriva la porta del suo villino e io la spiavo. Si stiracchiava al sole, poi con voce vibrante diceva: "Evviva la libertà!" e aprendo le braccia sbatteva i suoi pagnottoni mammari in faccia al dio Apollo. Si agganciava il pareo in mezzo alle mammelle tremanti e andava in spiaggia strusciando gli zoccoli. TI pomeriggio si metteva sulla sedia in giardino e si tirava i peli del viso con la pinzetta. Con una mano teneva lo specchietto, con la lingua faceva dei bozzi sotto la pelle e con la pinza si strappava i peli dal mento. Mariella sgomitava per mettersi in braccio a lei: alla fine ci prendeva tutte e due, se © MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153 PAG. 2 necessario anche contro il mio volere, e ci piazzava una da un lato e una dall'altro, sospingendo delicatamente le nostre teste sulle tette. Prima di lasciarci andare ci faceva mettere il profumo: un po' dietro le orecchie, un po' sui polsi, un po' "sulle tettine". Dalla sua cucina si sprigionava sempre un odorino di sughi e polpette, perché adorava spignattare a tutte le ore del giorno e della notte. Il papà di Mariella non si vedeva mai. Il Sud non gli piaceva. Troppo caos. Preferiva la Brianza. Quando veniva nel Cilento, passava tutta la giornata in bicicletta: aveva una bici da corsa e l'elmetto da ciclista. Poi, quando raggiungeva l'esasperazione tornava su a Bergamo. Mariella piangeva e cominciava a portarsi il cuscino ovunque chiamandolo "papà". A me sembrava demenziale: "Perché lo chiami papà, non vedi che è un cuscino? Tuo padre è andato a Bergamo".Mariellanonvoleva sentireobiezioni,esenonle davo retta cominciava a darmi odiosi schiaffi frignanti. La zia di Mariella, il mio elemento preferito del loro albero genealogico, aveva la casa 11 dietro e ogni tanto veniva a prendersi il caffè dalla signora Lina. Parlava di suo marito come se fosse un cagnolino. Per esempio diceva: "Oggi gli ho fatto fare una passeggiata, poi gli ho fatto la cena e l'ho messo a dormire. Domani quasi quasi me lo porto in spiaggia," oppure: "Sono diversi giorni che non mi va più al bagno". Ora: rubare le pentole della signora Lina significava morte certa in quaranta secondi netti. Ci potevi rimettere l'orologio. L'unico modo era chiedergliele. Quando la signora Lina rispose che non se ne parlava, Mariella cominciò a piangere come un vitello scannato, rovesciò per terra una sedia e si buttò come un sacco di patate sul pavimento; e quando la signora Lina cominciò a sgambettare avanti e indietro per la cucina ignorandola completamente, i singhiozzi di Mariella si fecero così disperati da diventare un'apnea paonazza; e quando la signora Lina le allentò un bel ceffone, Mariella si alzò al ralenti, con le braccia distese in avanti come uno zombie, e si trascinò in camera da letto per andare ad abbracciare il cuscino, chiamandolo per l'ennesima volta, ci dispiace dirlo, "papà". lo mi tenevo ben fuori da tutto questo. Chi conosce il Cilento sa della sua esistenza per via di alcune località turistiche con il mare bello, tipo Palinuro o Maratea. Ecco, io non sono nata 11. lo sono nata nell'entroterra, in una cittadina con i palazzoni squadrati, non distante dalla costa ma completamente ignorata dalle traiettorie turistiche, perché non offre al visitatore niente di interessante se non una lunga fila di caseifici e macchine parcheggiate storte in seconda o terza fila. In uno di questi casermoni squadrati c'è una maternità, e in una delle stanze con l'intonaco scrostato di questa maternità io emisi il primo vagito, il giorno due novembre alle tredici e quaranta, mentre la gente normale mangiava i cioccolatini usciti dalla calza dei morti e qualcuno si suicidava, perché, giustamente, se uno vuole suicidarsi, quale giorno migliore del giorno dei morti. Penso che l'essere venuta al mondo quando le foglie cadono, la natura tracolla, le funi scorrono per stringere gli scorsoi e tutti i vecchi del villaggio intonano l'eterno riposo abbia determinato la mia netta propensione a farmi fuori. Come se non bastasse, mi battezzarono con un nome che mi predestinava a finire male. Per i funerali avrei lasciato scritto di suonare You can't always get what you want degli Stones, come nel Grande freddo. Poi sarei venuta a sapere che i morti suicidi non avevano diritto neanche al funerale, e avrei messo da parte i miei progetti musicali per una più sobria cremazione sul fornellino. La mia infanzia trascorse in perfetta solitudine, a cercare una coesistenza pacifica con il mio aspetto da ramarro. Inverni brevi in città, a leggere e a contare i camion che passavano sotto il balcone, lunghe estati lì al villaggio, a bersagliare i marciapiedi con la pallina di gomma e giocare coimiei amici immaginari. Pinter a carte contro di me perdeva sempre. Mi stufai presto di lui e m'inventai Dorelai, che però era bionda e molliccia e non sapeva tenermi © MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153 PAG. 3 testa nelle conversazioni, e allora mi inventai i gemelli Kosta, che mettevo in porta ma che non prendevano una palla. Mio padre era basso e aveva un fisico in tutto e per tutto uguale a uno scaldabagno. Mia madre, eccezion fatta per la scelta del marito, all'epoca aveva un discreto buon gusto. Di lei ricordo le lunghe dita piene di anelli che accarezzavano la mia testa e mi mettevano le ciocche dietro le orecchie. Mia madre sapeva quello che voleva nella vita. Quelle stesse dita avevano magistralmente portato il pene di mio padre in erezione perfetta per farsi mettere incinta. Quelle stesse dita avevano trascorso intere giornate accarezzando gatti e ricamando cuscini, perché mia madre aveva sempre trovato il modo per non lavorare. Aveva mani morbidissime, mani che hanno sempre trovato la strategia per rimanere in panciolle. lo avevo preso le mani di mio padre. Dopo la mia nascita, mio padre portò via i gatti per paura che saltassero nella culla. Li mise in macchina, li portò in campagna e li abbandonò. Mia madre pianse, i gatti erano suoi. Lui, per consolarla, le promise che avrebbe comprato una signorile residenza estiva con un giardino in cui avrebbero potuto far brulicare liberamente un sacco di micini. Come un prestigiatore tirò fuori dal cilindro delle visioni farlocche da paradiso terrestre: io, lui, lei, una villa col giardino dove passare i mesi caldi, tanti gatti. Naturalmente non aveva i soldi per comprare una casa del genere. Finimmo per comprarci la catapecchia sul litorale di fronte alla casa dei Bardellini. All'età di dieci mesi feci il primo bagno in mare: sguazzare mi piaceva e le mie mani un po' palmate fendevano bene l'acqua. Dopo il bagno fui infagottata nell'asciugamano e portata nella catapecchia: un buco, due stanze minuscole, piena e focosa terra di nessuno, al crocevia di monti, mare, roccia carsica. TI giardinetto promesso c'era, ma era venti metri quadrati volendo abbondare, ed era spiumato, tronchi mozzi, con un salice piangente malato che puzzava di verdura cotta. TI tocco di squallida creatività era dato da una barca rovesciata contro il muro, che nessuno avrebbe mai trascinato in mare, essendo priva del relativo e indispensabile carrello, ma che soprattutto nessuno aveva idea di come fosse arrivata Il. Sotto quella barca copularono e partorirono diverse decine di cagne; degli auspicati gatti, invece, non se ne vide mai l'ombra, nonostante le derrate di merluzzo che mia madre disseminava lungo il muretto. In questa casetta, l'autrice dei miei giorni trascorse le sue giornate estive a rigirarsi gli anelli intorno alle dita e a sbeccarsi lo smalto delle unghie per il nervosismo. Ogni tanto si metteva in macchina dicendo che sarebbe tornata in città e caracollava a casa di mia nonna, con cui aveva lo stesso rapporto che il parassita ha con l'albero: perversamente inseparabili, avevano sempre trovato l'una nell'altra la giustificazione al fatto di non aver mai combinato niente nella vita. Quando mia nonna si ammalò, i ruoli si invertirono (lei diventò il parassita, mia madre l'albero) ma la situazione rimase identica: sempre legate da un odio appiccicoso. Insieme a mio padre ero l’addetta alla vegetazione. Con lui raccoglievo le foglie secche in giardino, soprattutto quelle gialle cadute dagli oleandri, potavo i cespugli con delle forbici enormi e mettevo in fuga le bisce ballando la quadriglia con le mani sui fianchi o intonando una marcetta nazista. Mio padre mi aveva insegnato che per farmi gli amichetti sarei dovuta andare dagli altri bambini dicendo: "Tu come ti chiami?" oppure: "Giochiamo insieme?" Ma la mia mentalità prematuramente nicciana e impregnata di sfiducia nel prossimo mi impediva di presentarmi con questa fonnula sempliciotta, banale, svilente, priva di chiaroscuri. A me gli altri piaceva osservarli, giocarci no. E comunque tra adulti e bambini, preferivo gli adulti. Al contrario degli altri bambini io da grande volevo fare il meccanico. Avevo capelli corti, salopette, scarponcini ortopedici. nmio cartone preferito era Lo strano mondo di Minù (una vecchietta microscopica che salva gli animali, probabilmente collusa con l’Amaro Averna), la mia cantante preferita © MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153 PAG. 4 era Tracy Chapman ("Ma è un maschio!" era la bolsa obiezione che tutti mi facevano) e se mi fossi messa un velo di rossetto mio padre mi avrebbe staccato gambe e braccia. nmio adulto preferito si chiamava Tonino. Faceva la ronda tra i giardini del villaggio, girellava intorno agli arbusti con le mani in tasca, si faceva offrire il caffè e poi chiedeva di essere pagato. Anche se era giardiniere, non l'ho mai visto prendere il rastrello in mano: se non volevi che il tuo giardino andasse a catafascio, dovevi occupartene tu, mentre l'unica cosa che Tonino rastrellava erano i soldi. Se ti rifiutavi di pagarlo adducendo ridicole motivazioni di buon senso, tipo: "Signor Tonino, lei non mi ha mai curato il giardino, non vedo perché dovrei pagarla", una mattina tornando dalla spiaggia ti saresti trovato il prato disgraziatamente carbonizzato, e se ti fossi ancora rifiutato di pagare, la volta dopo la benzina sarebbe avanzata, questa volta nottetempo, fino a raggiungere il letto. Tutto questo per dire che noi Tonino lo pagavamo, e lui si complimentava sempre con mia madre per il caffè. Era l'unico che si complimentasse con mia madre per il caffè: il caffè di mia madre era sempre stato oggettivamente imbevibile. Ogni pomeriggio, dopo pranzo, mia madre mi obbligava a fare una pennichella con scopi sedativi e mi conduceva per mano in camera da letto. Levava rapidamente i cuscini, abbassava le tapparelle e mi faceva stendere, poi si chiudeva la porta alle spalle e spariva pronunciando la parola magica: "Dormi". "Dormi" cambiava sfumatura ogni giorno, a seconda dell'umore. A volte assumeva i toni della supplica, altre volte della minaccia, molto spesso era impregnata di un'allegria artificiale, atta a convincenni che dormire fosse l’avventura più divertente del mondo. Credo fermamente di non aver fatto una sola pennichella in vent'anni, e anche quando mia madre credeva che la stessi facendo, fingevo. […] Aggiornata il martedì 5 agosto 2008 Edizione Mondolibri S.p.A., Milano www.mondolibri.it © MONDOLIBRI S.P.A. – PIVA: 12853650153 PAG. 5