Vedi - Una Chiesa a Più Voci
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FORUM 412 (16 novembre 2014) http://www.koinonia-online.it Convento S.Domenico – Piazza S.Domenico, 1 – Pistoia Tel. 0573/307769 I – SUL FRONTE DELLA FAMIGLIA E DELLA SCUOLA: con quali armi? 1 - Giancarla Codrignani DI QUALE FAMIGLIA PARLIAMO? Dunque, abbiamo un anno per pensarci. Per ragioni di metodo vorrei sapere di che cosa dobbiamo parlare. Se ho capito bene, si tratta della “famiglia”. Dai resoconti del primo Sinodo e da molti commenti leggo che i problemi sono: se i divorziati possono essere ammessi alla comunione, se gli omosessuali vanno accolti come cristiani, se è ammissibile la contraccezione, forse qualcuno ha menzionato il celibato tra parentesi. Poco. Ma è la famiglia di tutti, la struttura sociale che chiamiamo con questo nome, che è in crisi totale in questa fase trasformativa di tutti gli assetti del mondo globalizzato. Come fa la Chiesa a non accorgersene? Come fanno i cristiani a non sentirlo nelle proprie case? Forse restiamo ancorati a percepire il sociale a partire dal desiderio che i principi trasmessi non cambino; mentre, affinché non cambino, vanno letti diversamente. Perché intanto cambiano: per esempio, da quando c'è la televisione è finito il dialogo familiare e oggi la sera i ragazzi o escono o imparano una solitudine non romantica davanti al proprio pc. I genitori si preoccupano dei figli, giustificandone gli errori e pretendendo dalla scuola indulgenza e non regole e legalità; mentre – non è un paradosso - chi oggi pensa al futuro dei propri figli, dovrebbe partire – non è un paradosso - dalla sonda spaziale che ha raggiunto la cometa. Ma torniamo alla “famiglia”. Il Sinodo è una buona occasione per pensarne la storia. Non solo alle origini, quando si ebbe consapevolezza che la congiunzione sessuale dava luogo alla riproduzione e il maschio inventò la famiglia in funzione proprietaria, cosa che alla donna che i bambini li fa senza bisogno di affermare alcun potere non sarebbe mai venuta in mente. La famiglia è poi diventata il perno dell'organizzazione sociale: per i Romani comprendeva anche gli schiavi e dipendeva da un capo-famiglia maschio e adulto. Le plebi per molti secoli vivevano sostanzialmente nella promiscuità, nonostante la crescita di sentimenti di cura e attenzione morale sostenuta, dopo la diffusione del Cristianesimo, in particolare dall'istituzione parrocchiale e dal riconoscimento formale dei matrimoni e dei battesimi (sapremmo poco del mondo antico senza gli archivi parrocchiali). La società si confermò come “fondata sul matrimonio”, legittimata e regolamentata; era il fondamento della società e oggi è, per gli Stati, ovunque, il migliore degli ammortizzatori sociali. Il sentimento della famiglia come luogo degli affetti venne formandosi in espressioni diverse, nei tempi e nei luoghi. Dalla famiglia patriarcale a quella nucleare a quella oggi convivente senza formalizzazioni passano non solo gli anni. Nemmeno i super-ricchi vivono più insieme con nonni e zie zitelle e la cucina di Fratta sembra una favola: non è cambiata solo l'edilizia abitativa. Perfino l'amore si è espresso in forme sempre diverse. Non mi riesce di interpretare l'intendimento di Papa Ratzinger nella sua sintesi “eros, philia, agape”; ma è mi ben chiaro che per Platone era un'altra cosa. Tutti quando si innamorano (ma davvero tutti si innamorano in senso proprio e non generico?) credono all'assoluto, perfino le ignare ragazze dell'Ottocento per le quali la prima notte era spesso uno stupro. Eterno è l'amore che viviamo; l'indissolubilità è un impegno di lealtà che comporta che prima ci sia l'amore. Solo don Giovanni Cereti, che io sappia, si è espresso (in un intervento scritto per il convegno presinodale dell'Associazione “Viandanti”) sull'amore che - piccolo particolare – è una “scoperta” del Vaticano II che ne fa il fondamento del matrimonio come “sacramento” cristiano (prima vigeva solo il materialismo gretto procreazione-mutua assistenza-remedium concupiscentiae). Dice don Giovanni: “Analogamente a quanto si dice per il mistero eucaristico, si deve affermare che il segno sacramentale è l'amore e la volontà degli sposi di essere marito e moglie, ma una volta venuto meno questo amore e questa volontà viene meno il vincolo coniugale e, di conseguenza, la grazia sacramentale del matrimonio. E la Chiesa ha il potere di assolvere tutti i peccati e di riconciliare tutti i peccatori”. Infatti, se gli esseri umani sono imperfetti e possono fallire, giustamente la Chiesa li sostiene anche negli errori più gravi: perdona l'omicida che si pente ma non può far rivivere il morto. Non si capisce la durezza nei confronti del divorziato che, certo ha prodotto danni dal fallimento, ma non può falsificare il senso della relazione privilegiata, che è appunto l'amore. Lo sanno bene i cattolici tradiizonali che hanno – tutti – almeno un figlio/a o un/a nipote divorziati o conviventi. La Chiesa probabilmente non ha ancora ben presente quale logica comporti l'amore umano. Perché fa conto di non sapere che la famiglia è anche il luogo in cui si commette la maggior parte dei reati, sia denunciati, sia privatizzati nelle sofferenze. Ha conosciuto l'umiliazione delle denunce di pedofilia la suo interno; ma non si è resa conto che il numero maggiore avviene dentro le mura domestiche. E sembra ignorare quanti siano i litigi, le offese, le infedeltà, le persecuzioni, gli schiaffi, le botte, le ferite (morali e fisiche), gli stupri (il marito non è proprietario di un corpo), i femminicidi. La parola femminicidio non è comparsa – che si sappia – nelle discussioni sinodali; eppure sono ormai anni che domina le cronache nere. Forse 191 vescovi e una cinquantina di laici cattolici, tra cui poco più di venti donne non rappresentano il massimo della competenza. Nella Relazione le donne sono menzionate in tre proposizioni: la 5 ne menziona i diritti insieme con quelli dei bambini (sic), la 8 denuncia discriminazioni e violenze “purtroppo anche all'interno delle famiglie”, e la 47 chiede aiuto per le famiglie monoparentali, in particolare “le donne che devono portare da sole la responsabilità della casa e l'educazione dei figli”, vale a dire le abbandonate, come se l'iniziativa del divorzio fosse solo maschile. Sembra che sopravviva sempre l'ambiguo principio della complementarietà uomo/donna, come se il principio dell'uguaglianza non prevedesse la parità. I matrimoni religiosi caleranno ancora se non ci si rende conto che le persone si sposano in chiesa perché credenti, in Comune perché non convinti del rito cattolico, oppure nella libertà di mantenersi uniti giocandosi ogni giorno una fedeltà non contrattuale. Ci sono argomenti su cui la società ha posizioni diversificate, ma che il magistero non può non prendere in considerazione, se intende ragionare sulla famiglia. Sono dati di realtà che la sessualità e l'affettività, se riconosciute come valori, comportino averne conoscenza nuova e nuova responsabilità; che la libertà procreativa e l'educazione sessuale nelle scuole vadano argomentate senza pregiudizi; che le dichiarazioni fatte a scuola di ragazzi e ragazze che dichiarano di essere gay o lesbiche meritino considerazione e non il tentativo del cardinale di Milano di indagare attraverso gli insegnanti di religione; che l'omosessualità colpevolizzi tutta l'ipocrisia sociale che le ha fin qui negato dignità e libertà; che siano rilevanti gli aspetti inediti del mercato e del costume della prostituzione; che sia dubbia l'opportunità di vietare la fecondazione assistita, che è il contrario dell'aborto.... Per non parlare degli aspetti morali e giuridici che obbligano a considerare le prospettive di ricerche scientifiche che già hanno dato la possibilità di congelare il materiale riproduttivo e di creare gli embrioni in provetta. Non parlo nemmeno delle evidenti difficoltà che mettono a rischio la famiglia per la mancanza di quel lavoro che non sarà mai più come prima, per i licenziamenti e per la disoccupazione forzata dei giovani che stanno producendo frustrazioni che minano le famiglie e impediscono di formarne di nuove e ad avere figli. I vincoli sociali si sono allentati perché non sono più gli stessi per le tante famiglie che passano la domenica nei centro commerciali, che mal sopportano gli anziani non autosufficienti, rifiuterebbero nelle scuole dei loro figli i bimbi stranieri o handicappati. Comunque questo è il contesto, anzi parte del contesto: sarebbe bene non aspettare le modificazioni antropologiche. La Chiesa ha grande responsabilità, se deve camminare con l'umanità. Oppure la deve lasciare sola richiudendosi nei valori non negoziabili che ignorano le sonde sulle comete? O, come dice un prete bolognese “dopo la famiglia.... la famiglia”: una forma storica può cedere il passo ad una migliore. Giancarla Codrignani 2 – Lettera aperta di Giovanni Covini a don Fabio Landi a proposito dell’invito rivolto agli insegnanti di religione (più di 6000) nella Diocesi di Milano Caro don Fabio Landi, non ci conosciamo ma in questi giorni molti parlano di lei. Ho voluto andare a leggere quella famosa mail agli insegnanti di religione e ne ho trovato soltanto un virgolettato sul sito dell’Ansa. “In tempi recenti gli alunni di alcune scuole italiane sono stati destinatari di una vasta campagna tesa a delegittimare la differenza sessuale affermando un’idea di libertà che abilita a scegliere indifferentemente il proprio genere e il proprio orientamento”. L’unica cosa che stento a capire è perché dopo aver scritto queste parole lei abbia sentito il bisogno di scusarsi per “il modo inappropriato”. Personalmente trovo il suo modo appropriatissimo, anche se il mio parere vale poco perché non appartengo direttamente alla comunità gay. E’ che troverei magnifico se il problema fosse un problema di modo. Piuttosto trovo che nelle sue righe ci siano diversi spunti pittoreschi. Non so, faccio un esempio. Pensare che “scegliere” un’identità e un orientamento sessuali siano cose che si fanno “indifferentemente” significa non aver capito niente di tutta la fatica e di tutto il dolore che ogni viaggio identitario comporta. Non solo. Significa non aver capito che orientamento e genere non si “scelgono”: si scoprono, si riconoscono, si identificano, si accettano. Perché non hanno a che vedere con le preferenze – qui sbagliano anche molti gay – ma con le appartenenze. E un’appartenenza è il luogo in cui Dio ti ha messo nel mondo. E’ il tuo nome. E’ la tua strada. La tua, non quella giusta, non quella approvata da un catechismo o da qualsiasi altro manuale ideologico o filosofico. E per come la vedo io, la tua strada è l’unica vera. Mi perdoni don Landi, ma in queste parole non sento offesa la comunità gay. Sento offesa la grandezza e la meraviglia di ogni identità. E mi scusi anche se vengo sul suo campo dove gioco maldestramente e in trasferta, ma la nostra identità non è proprio la parola di Dio su di noi? E se Dio è Parola l’uomo non potrebbe essere Ascolto? Tipo quando uno ti dice una cosa e tu la ascolti davvero, non rispondi niente e ne fai tesoro e basta, se è una persona di cui ti fidi. La meraviglia non era proprio che Dio aveva una Parola messa dentro a ognuno di noi in modo unico e specifico, quel quid che poi ci rende speciali? Lei per esempio fa il sacerdote, ne sa qualcosa credo di percorsi specifici e unici. Ecco, proprio in virtù di quel percorso che lei ha fatto per essere ora quello che è, le domando: ma quando si parla delle strade infinite di Dio e del suo amore di che cosa parlate davvero? Perché se Dio ha strade infinite la Chiesa gli mette i caselli? Mi colpisce anche il verbo “delegittimare” riferito alla differenza sessuale. Quindi l’appartenenza e la tendenza sessuali andrebbero “legittimate”. E io sarò lento ma continuo proprio a non capire. Perché la natura non ha alcun bisogno di essere legittimata, non essendo essa in alcuna relazione con alcuna legge se non con la propria. Anzi direi che se una legge umana trovasse illegale – che ne so – la forza di gravità, dovremmo fare strage di tutti coloro che ne sono soggetti oppure dovremmo cambiare la legge. Cambiare le idee. Oppure mettiamola così, senza giudizi sulle idee che lei porta avanti: possiamo provare a trovarne altre? A trovarne ancora? Altre idee, altri modi di vedere. Così, si potrebbe considerare di lanciarsi nella versione Chiesa 2.0? Tanto la versione 1.0 ce l’abbiamo di scorta e possiamo sempre tornarci se quel che troviamo. non.ci.piace. Per cui coraggio, don Landi, non si butti giù. Se aveva paura di essere stato maleducato stia tranquillo. E’ stato molto a modo. La pace sia con lei. Dico davvero. Giovanni Covini II – FARE MEMORIA DEL SIGNORE: “liturgia” ma non solo 1 - Da Don FRANCO MARTON (Treviso) Caro Alberto, ogni tanto Bruno e Livia mi invitano a entrare nel dibattito di Koinonia... Avevo intenzione di farlo già allora, perché apprezzo molto sia la 'rivistina'( ! ), come il Forum e il clima teologico che avete creato...Ma la vita si è complicata...Mi son trovato nel fegato il 'drago'!... Tuttavia, provocato dal tuo ultimo Koinonia-forum, ti informo che la mia ultima piccola pubblicazione, prima del 'drago', è stata un contributo su un tema che mi appassiona assai, da tempo: Eucaristia e storia. Si tratta di un articolo pubblicato in 'La Rivista del clero italiano', nel numero 2 del 2014, febbraio:”Presidenza dell'eucaristia e attenzione alla storia''. Era una riflessione che voleva entrare nella 'cittadella milanese', che si occupa sempre della 'presidenza' del prete... Aveva già scritto un mio collega e amico di Treviso. Con mille attenzioni per sfondare in quelle mura ho scritto sulla 'presidenza', ma il focus della mia riflessione riguardava proprio eucaristia e storia... Se hai tempo e voglia dagli un'occhiata: lo considero il mio contributo al dibattito di Koinonia... Mi piacerebbe sentirne la tua reazione. Qui a Teviso c'è stato il silenzio completo di tutti...amici e meno amici.. Ciao. Continua a provocare così. Don Franco Presidenza dell’eucaristia e attenzione alla storia (1) 1 - Essere ‘attenti al mondo’ L’urgenza di introdurre storia nelle eucaristie delle nostre comunità cristiane appare più chiaramente quando ci poniamo esta domanda: come mai tanti frequentatori abituali e sinceri delle nostre eucaristie domenicali non hanno avvertito in questi anni il silenzioso installarsi nella loro coscienza di atteggiamenti anti cristiani, come l’indifferenza al bene comune, l’esaltazione dell’individualismo, il rifiuto o la non accoglienza dello straniero, la negazione di fatto della fraternità universale…? Penso concretamente al nostro cattolico nordest, dove il fenomeno facilmente verificabile. Le risposte, tutte parziali, sono molte. Ma una può essere esta: le nostre liturgie, anche con la responsabilità di chi le presiede, sembrano sfiorare appena la storia degli uomini d’oggi Se le nostre eucaristie ‘trasudassero storia’, di domenica in domenica, nel cuore e nella vita dei discepoli crescerebbero quei segni del regno, capace non solo di arrestare la cosiddetta ‘deriva valoriale’, ma anche di fermentare la cultura e, come diceva Papa Benedetto XVI, di “aiutare la società civile a superare ogni possibile tentazione di razzismo, intolleranza ed esclusione” oppure, come ha detto Papa Francesco, di vincere la globalizzazione dell’indifferenza”. Il ministro che presiede l’eucaristia avere un grande ruolo in questa opera. Lampedusa: una liturgia ‘attenta’ alla storia Un modello di presidenza eucaristica ‘attenta’ alla storia ce l’ ha offerto Papa Francesco. Pur tenendo conto dell’eccezionalità della situazione di Lampedusa, vorremmo fermare la nostra attenzione solo sull’omelia dalla quale ci sembra sia venuta luce per il suo presiedere quell’eucaristia e può venir luce anche per le nostre ordinarie presidenze. Del resto sappiamo che l’omelia fa arte della liturgia E il Papa stesso a spiegato che nella luce della parola di Dio intendeva «proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti». E subito, davanti alle «due domande di Dio che risuonano anche oggi con tutta la loro forza» (“Dove sei Adamo”, “Caino, dov’è tuo fratello” il Papa fa fatto un’ammissione significativa: “Tanti di noi, mi includo anch ’io, siamo disorientati, non siamo i attenti al mondo in cui viviamo . È vero: vale per molti di noi e per molte nostre comunità. Tanto che si moltiplicano le analisi sociologiche che indagano sul fenomeno dell'estraneità ai fatti che colpisce parte della società e anche la Chiesa. Per le comunità cristiane gli esiti di questa 'disattenzione' sono gravi, perché rischiano di deformarle in gruppi spiritualisti, lontani dal Vangelo. Come non ricordare che proprio 'l'attenzione al mondo contemporaneo' fu il grande impegno globale del Vaticano II? E proprio a Lampedusa, forse, avrebbero potuto risuonare senza retorica le parole del Concilio: «Le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono sono pure le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»4. Ma il Papa ci ha fatto capire che non potevamo ancora ripetere in verità quelle grandi parole, perché «non siamo attenti al mondo in cui viviamo». Senza questa 'attenzione', o per dirla con il linguaggio della Gaudium et spes, senza la «lettura dei segni dei tempi», anche la nostra liturgia resterà snervata e in essa mancheranno non solo le 'tristezze e le angosce dell'uomo d'oggi', ma anche le 'sue gioie e le sue speranze', che pur ci sono, e vanno anch'esse portate nell'eucaristia. Potrà leggere i 'segni dei tempi', dice il Concilio, e «discernere i veri segni della presenza o del disegno di Dio» chi, «mosso dalla fede», «prende parte insieme agli altri uomini del nostro tempo» agli «avvenimenti, alle richieste e alle speranze»'. È quanto il Papa ha tentato di fare uscendo da Roma, «mosso dal pensiero che tornava continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza». Era il pensiero «di quelle barche, di quegli immigrati morti in mare». Questo 'prendere parte', che rende più vero il nostro presiedere, è il grande impegno che per lo più ancora ci manca e ci attende come compito. L'omelia di Papa Francesco ha sospinto la preghiera liturgica a riscoprire una tonalità che ci sembrava smarrita. La preghiera cristiana è sempre un dialogo che Dio apre con l'uomo, spesso anche interrogandolo. E le sue domande non sono astratte, ma sono quelle di un Dio che si fa carico delle sofferenze degli uomini e assumono il linguaggio stesso della loro sofferenza. «Sono domande che risuonano anche oggi, con tutta la loro forza!». E risuonano davanti a «tragedie come quella a cui abbiamo assistito». È il linguaggio della Bibbia che il Papa fa proprio, non quello 'composto' di troppe nostre preghiere. «La voce del sangue di tuo fratello grida fino a me...». Le voci di quanti «hanno trovato la morte, invece di accoglienza e solidarietà, salgono fino a Dio». «Dio chiede a ciascuno di noi: Dov'è il sangue del tuo fratello che grida fino a me? ». È il linguaggio dei profeti, dei Salmi, dell'Apocalisse. E ci sono anche gli 'svelamenti' propri delle tradizioni bibliche apocalittiche, a noi diventati inusuali. «Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare»: dietro tanta sofferenza e morte ci sono «le mani dei trafficanti, che sfruttano la povertà degli altri», c'è l'indifferenza «di coloro che nell'anonimato prendono decisioni socioeconomiche che aprono la strada a drammi come questo». E Papa Francesco prolunga su di noi da Lampedusa un'altra domanda biblica: «Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: "Rachele piange i suoi figli... perché non sono più"». Ed ecco la domanda che a quanti hanno potuto ascoltarla direttamente sembrava non dovesse finire mai: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?». «Chi ha pianto? Chi ha pianto oggi nel mondo?». E ritorna di nuovo lo `svelamento' apocalittico: «la globalizzazione dell'indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere». «Siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza... La cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone... Ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro». «Siamo caduti nell'atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell'altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo 'poverino', e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto». Questo riferimento, mi pare, interpella discretamente anche chi presiede o serve nella liturgia eucaristica. Riprende la parola profetica di Gesù sul culto che riecheggia quella dei profeti e arriva sino a noi. Dopo una simile omelia la preghiera assume spontaneamente il tono del grido e si ritrova dentro al linguaggio di preghiera della tradizione biblica, dall'Esodo all'Apocalisse passando attraverso i Salmi e i Profeti. Non solo il grido delle vittime, il loro pianto e lamento entravano nella preghiera liturgica, ma anche la domanda di perdono per quanti hanno accettato «l'anestesia del cuore», come pure per «coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi». Per una teologia e una spiritualità del grido C'è un grande teologo, J.B. Metz, che da anni, insieme ad alcuni colleghi, sta sviluppando una articolata e ardua riflessione sulla memoria passionis, partendo da Auschwitz e spingendosi a porre penetranti interrogativi alla teologia, alla comunità cristiana e anche alla sua liturgia(1). Scrive Metz: Noi cristiani, in forza del canone della nostra fede, in forza del centro del nostro Credo - «patì sotto Ponzio Pilato» - siamo rinviati alla storia, in cui si viene crocifissi, torturati, rotti dal pianto e solo di rado amati(2). Dopo aver analizzato a lungo la preghiera delle grandi tradizioni bibliche, che fa di Israele un 'luogo di grida', sostiene che proprio in queste grida Dio si faceva misteriosamente 'presente', come nell'oscurità della croce si verifica, nel grido del figlio abbandonato da Dio e che non ha mai abbandonato il Padre, la prossimità di Dio «che abita in una luce inaccessibile». Il grido del Figlio sulla croce fa da garante per la vicinanza del Padre nei cieli (3). E pone la domanda che ci interessa particolarmente: «Come si rap- porta il mondo della preghiera qui descritto (quello delle tradizioni bibliche) con la-liturgia che ci è familiare?» (4). Esiste infatti, secondo Metz, una reciprocità tra l'anamnesi cultuale («nella notte in cui fu tradito», «patì sotto Ponzio Pilato», «risuscitò il terzo giorno»), tra la memoria passionis et resurrectionis che il rito propone e la memoria passionis dell'intera storia del genere umano, che sfocia infine nel grido di Gesù: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Questa reciprocità tra culto, rito, liturgia e memoria passionis degli uomini, come può realizzarsi? Come può la preghiera del grido di chi soffre essere integrata nella preghiera della liturgia? Nella ricerca di questa integrazione possono essere rilevanti, tra le altre osservazioni. Il gridare a Dio per il dolore degli altri è, secondo Metz, caratteristica fondamentale della tradizione di preghiera biblica. E Gesù stesso, nella sua fede israelita, mostrò una straordinaria sensibilità per il dolore degli altri. Ma vivendo anche quell'eredità ebraica che vedeva un'unità indivisibile tra l'amore di Dio e l'amore del prossimo, per lui ‘gridare a Dio' voleva dire immediatamente coinvolgersi nella compassione per il dolore degli uomini. Nell'omelia di Lampedusa lo sguardo posato sulla sofferenza dei fratelli («Quanto hanno sofferto!») è diventato subito preghiera a Dio per loro e per noi, oltre che appello alla «responsabilità fraterna» e all'impegno sociale. Pregare gridando a Dio per il dolore degli altri è, come per Gesù, chiedere forza per il nostro coinvolgimento storico. Ma nella liturgia eucaristica non c'è sola la memoria passionis, c'è anche la memoria resurrectionis, la memoria del Crocifisso Risorto. La memoria del Vivente che porta i segni della sua compassione per noi: le piaghe del Risorto dicono che il suo grido sulla croce è ormai `permanente'. L'agonia di Gesù permane fino alla fine del mondo e non cessa perché lui è risorto. Anzi: solo perché è risorto può prolungarla per tutti i tempi e per tutti gli uomini. Il giubilo pasquale, dice Metz, non può rendere inudibile il grido dell'uomo crocifisso(5). L'alleluja porta sempre la memoria del «Perché mi hai abbandonato?». La gioia vissuta e promessa da Gesù ( G v 15,11; 17,13) è molto misteriosa nella sua profondità. Come la felicità di quanti lui ha dichiarato `beati' pur nella povertà, nella fame, nelle lacrime (Lc 6, 20-23)11. E quando la comunità cristiana `grida': «Vieni, Signore Gesù!» invoca il ritorno del Risorto - crocifisso. Ed è un grido di speranza per tutti. Il mistero celebrato nel rito è il mistero della speranza dell'umanità che soffre. Don Franco Marcon (1.continua) 1 J.B.Metz, Memoria passionis, Editrice Queriniana, Brescia 2009; Mistica con gli occhi aperti, Editrice Queriniana, Brescia 2013. 2 J.B.Metz, Memoria passionis, cit., p. 47. 38 1bi, p. 100. 4 Ibi, p. 105. 5 cfr. ibi, pp. 33-36; 2 - Da Valdo Pasqui (Pistoia) Carissimo Alberto, mi sono ricordato del libro letto 2 anni fa di Grun e Zink che ha un lungo capitolo sull'argomento eucaristia / cena del Signore. Ti invio un documento con una brevissima introduzione e alla fine una nota sulla Carta di Lima e poi il testo sulle prospettive di condivisione copiato integralmente (anche se ci sarebbero i diritti della Queriniana, ma sono meno di 2 pagine...).A presto, Valdo Nel 2009 esce per i tipi della casa editrice Verlag Kreuz un testo originale che nel 2011 è stato tradotto e pubblicato dalla Queriniana. Gli autori sono Anselm Grün e Jörg Zink ed il titolo italiano è La verità ci rende amici. Come i cristiani vogliono vivere insieme domani. Anselm Grün, nato nel 1945, è un monaco benedettino, dottore in teologia, dal 1977 al 2013 in qualità di economo ha gestito l'amministrazione dell’Abbazia di Münsterscharzach in Germania, ove risiede, è molto noto anche in Italia come autore di una vasta messe di testi di spiritualità pubblicati dalla Queriniana. Jörg Zink, nato nel 1992, è uno dei più noti teologi evangelici autore di molti testi di meditazioni e preghiera di cui tre sono stati pubblicati in Italia, due dalla Queriniana e uno dalla Claudiana Il testo è originale perché si tratta di un confronto stimolante tra due persone di grande cultura teologica e di profonda spiritualità che si confrontano con molta lucidità e il ben noto pragmatismo tedesco sulle tematiche più importanti discusse negli ultimi anni nell’ambito del dialogo ecumenico facendo il punto della situazione e tracciando anche una visione prospettica per il futuro. Il capitolo 7 “Come ci rapportiamo alla cena del Signore e all' eucaristia” è interamente dedicato all’argomento che padre Alberto ha proposto alla ripresa delle attività di Koinonia. Si tratta di una trentina di pagine in cui, attraverso specifici paragrafi, i due teologi descrivono il punto di vista cattolico e quello protestante e avvicinano il lettore alla comprensione di questo sacramento attraverso la spiegazione di cosa significa per il primo l’eucaristia e per il secondo la cena del Signore evangelica, rivelando così le proprie sensibilità e mostrando molti punti di convergenza. L’ultimo paragrafo del capitolo tratta le prospettive e il cammino per poter giungere ad una celebrazione comune tra cattolici e protestanti. Che cosa può aiutarci a raggiungere la celebrazione comune? JZ: Che cosa dice però la Parola e che cosa esprime il sacramento? Durante un'eucaristia non possiamo dirlo con parole nostre in modo che il partecipante incominci a udire questa voce del sacramento? Che sappia che ci si rivolge a lui? E che possa prepararsi a rispondere al sacramento? Forse possiamo farlo integrando le parole prescritte dal rito con un nostro rivolgerci all' assemblea, dicendo così: Questo è Cristo. Egli dice: Prendi e mangia! lo sono il pane. Vengo a te. Sono presso di te. Sono in te. Così come Dio è in te e opera in te. Tu vivrai in eterno. E ancora: Questo è Cristo. Egli dice: lo sono il vino. Voglio operare in te, maturare in te, finché sarai totalmente in Dio. Tu vivrai come me. In eterno. E forse in una moderna eucaristia, il cui significato del resto è divenuto estraneo anche a molti cristiani, potremmo spiegare in una breve interpretazione in che cosa consiste l'importanza della sua celebrazione. Si potrebbe, per esempio, dire ai partecipanti al rito: Tu appartieni a un gruppo di persone molto legato. In esso hai un posto fisso. Come membro di questo gruppo puoi tornare sempre, dopo ogni fallimento, a ricominciare. A questo tavolo non ottieni soltanto cibo, ma anche comprensione e intelligenza, fede e forza vitale. Vieni lasciato andare alla tua attività quotidiana dopo essere stato guarito e ristorato. Hai un futuro. Tutto sfocia nel regno di Dio e ci sarai anche tu. Porti con te le forze di benedizione di Dio in ognuno dei tuoi giorni. Vivi in pace con Dio. Dio ti è vicino. E in te. E tu sei presso Dio, sei in Dio. Un passo da quest'idea alla prassi dell'eucaristia lo compie il vescovo della chiesa veterocattolica, Joachim Vobbe, nel numero del 10 giugno 2001 della rivista Bonifatiusbote: «Ciò che abbiamo in comune attraverso i dialoghi di Lima, del 1982, non è soltanto il ruolo centrale dell' annuncio della Parola, ma anche la presenza reale richiesta da cattolici, nonché l"epiclesi', l'invocazione dello Spirito Santo sui doni che li rende il corpo e il sangue di Cristo. Esiste già, perciò, una regola liturgica unitaria di fondo a un livello molto alto. L'argomentazione generica, che un'ordinazione compiuta da ministri della chiesa attraverso l'imposizione delle mani non sarebbe valida solo perché la successione forse è stata interrotta, dev'essere spazzata via cancellando, senz'altro, dal lessico ecumenico i concetti di 'valido' e 'non valido', vocaboli provenienti dall' ambito del diritto canonico [ ... ]. Dei cristiani battezzati, che nella loro chiesa credono [. .. ] al Risorto nei doni eucaristici, possono forse farlo in maniera 'non valida'?». Il vescovo Vobbe chiede, «già a breve termine», il reciproco invito in qualità di ospiti all'eucaristia, nel rispetto dei seguenti principi: 1) un ministro ordinato presiede la celebrazione; 2) i doni vengono trattati con dignità; 3) colui che fa l'invito è Cristo e noi non abbiamo il diritto di escludere dei battezzati dalla comunione. «Alla tradizione ecclesiastica comune è noto il 'principio dell' oikonomia', il principio della generosità pastorale. Se qui fosse applicato in maniera responsabile, restituirebbe all'eucaristia qualcosa della dinamica che aveva ai tempi della chiesa delle origini. L'eucaristia, infatti, non è soltanto la meta, ma anche il motore dell'unità». Nel suo discorso Abendmahl und Eucharistie. Das Sakrament der Einheit in den entzweiten Kirchen [Cena del Signore ed eucaristia. Il sacramento dell'unità nelle chiese divise], tenuto nel 1999 durante la Giornata delle chiese evangeliche a Stoccarda, Fulbert Steffensky guarda in avanti e ci fa coraggio: «E tempo che obbediamo a Dio. E tempo che crediamo a un'unità che ha il suo fondamento in lui stesso. Lo dico anche di noi come popolo di Dio: è una nostra responsabilità non impastoiarci da soli in false questioni. Partecipate alla cena del Signore, cattolici! Partecipate alla comunione, protestanti! Vedrete che siete in grado di farlo! Alla fine persuade soltanto ciò che si fa». Per riassumere vorrei dire: il dialogo sull' eucaristia deve continuare. Un cammino dal lungo respiro. Con molta pazienza e apertura. Finché un giorno sarà ovvio che la celebriamo insieme. E allora a chi sarà permesso prendervi parte? Quando faccio questa domanda mi viene in mente nostra figlia. Quando una volta, a sette anni, venne con noi genitori a una cena del Signore, non soltanto partecipò anche lei con grande serietà e vigile attenzione, ma diede anche un pezzetto di pane al suo orsetto e gli mise il calice vicino alla bocca. E se pensiamo che l' orsetto non è un oggetto qualsiasi, ma una parte dell' anima del bambino, allora persino la partecipazione dell' orsetto alla cena del Signore ha un significato buono e importante. E tu come vedi il complesso di questi interrogativi? Qual è lo stato attuale delle cose? AG: Finora la porta del banchetto eucaristico comune è ancora chiusa. Ci sono sì abbastanza porticine attraverso le quali si può entrare al banchetto comune, ma il portone principale è ancora chiuso. Su questo punto non dovremmo accontentarci della situazione attuale. Già nel 1977 i rappresentanti dell' Alleanza riformata mondiale e del Segretariato per l'unità dei cristiani, nella loro dichiarazione La presenza di Cristo nella chiesa e nel mondo [ed. it., Claudiana, Torino 1979], hanno affermato: «Il rinnovamento della chiesa mediante l'eucaristia comprende un ammonimento costante all'unità della chiesa. La divisione delle chiese proprio sul punto in cui la chiesa, in realtà, dovrebbe mostrarsi nella sua natura autentica come chiesa una, santa, cattolica e apostolica, chiama urgentemente a un accordo sul significato dell' eucaristia e sul suo rapporto con la chiesa». Non dovremmo accettare con rassegnazione il fatto che ci siano ancora delle interpretazioni diverse sulla presenza eucaristica di Gesù Cristo. L'ottimismo con cui, nel 1982, a Lima, i teologi di tutte le chiese cristiane hanno parlato di comunanza di vedute sull'interpretazione teologica dell' eucaristia dovrebbe oggi tornare a rivivere e non dovrebbe essere dissolto sottolineando le differenze. Dovremmo tenere conto dell' ammonimento della conferenza di Lima: «Il fatto che i cristiani non possano riunirsi in piena comunione intorno alla medesima mensa per mangiare il medesimo pane e bere al medesimo calice, indebolisce la loro testimonianza missionaria, sia a livello individuale, sia come comunità». La questione I in passato tanto controversa, se l'eucaristia sia sacrificio o convito, a mio parere è stata sufficientemente chiarita. Attraverso la teologia del memoriale ci si è avvicinati anche nella questione della presenza reale di Gesù Cristo nel pane e nel vino. Anche nell'interpretazione del ministero, che per la chiesa cattolica è importante in riferimento alla celebrazione dell' eucaristia, ci si è avvicinati. Nella chiesa cattolica l'eucaristia dev'essere presieduta da un sacerdote, non perché questi trasformi i doni, ma perché egli rappresenta il fatto che è Cristo stesso a presiedere alla comunità. Nel dialogo tra i luterani e i cattolici ci si è potuti accordare sulla formula: «Secondo la dottrina sia cattolica sia evangelica, il ministero ecclesiastico è istituito per l'annuncio del vangelo e per l' amministrazione dei sacramenti». E anche nel dialogo tra riformati e cattolici si è giunti alla constatazione comune: «Non è la comunità a creare il ministero e ad autorizzarlo, ma è il Cristo vivente a donarglielo e a introdurlo nella sua vita». Nonostante tutte le formulazioni comuni, esistono ancora delle differenze nel rapporto concreto con il ministero e con la sua interpretazione teologica. Ma per me queste differenze non sono così importanti che si debba per questo vietare ai cattolici la partecipazione alla cena del Signore evangelica. Certo, la teologia cattolica non vieta l'eucaristia comune in modo poi tanto coerente. Nel suo già citato discorso della Giornata delle chiese evangeliche, Fulbert Steffensky chiede: «Ma quanto sono validi, in fondo, gli insegnamenti cattolici sul divieto della partecipazione di cristiani non cattolici alla celebrazione della messa cattolica? E chi ci crede ancora, in fondo?». Racconta: «Qualche tempo fa ero a un convegno. Si celebrò la cena del Signore evangelica e tutti i professori di teologia cattolici presenti vi parteciparono», e chiede: «Che cosa fanno e che dottrine insegnano? Qualche tempo fa ero a un convegno cattolico, al quale erano presenti anche alcuni vescovi. Si celebrò la messa e i vescovi mi invitarono esplicitamente ad accedere alla comunione. lo non sono soltanto evangelico ma, nell' ottica romana, anche scomunicato. Che cosa fanno e che dottrine insegnano? Un vescovo italiano invita un gruppetto di studiosi e discute con loro dei problemi di teologia morale. Una mattina il vescovo celebra la messa per il suo gruppo. Un membro protestante gli chiese se anche a lui è permesso comunicarsi. Il vescovo risponde: "Chi molto chiede, riceve molte risposte". E al professore è permesso fare la comunione. Che cosa fa il vescovo e che dottrina insegna? Il professore si chiama Chrystoph Morin, è un matematico polacco. Il vescovo si chiama Giovanni Paolo II, vescovo di Roma e papa. Luogo del fatto: Castel Gandolfo. Ripeto la mia domanda: Il divieto del convito comune non sta diventando piano piano una dottrina senza soggetti che la sostengono e ci credono? Questo divieto non è diventato un rituale privo di contenuto? Tra i teologi delle due parti bisogna cercare con la lente di ingrandimento coloro che lo vietano rigorosamente; e tanto più tra le teologhe. Un' altra questione, tuttavia, è se tutti dicono quello che pensano e credono». Steffensky continua: «Lo scandalo non è che non ci sia ancora la chiesa una. Lo scandalo è l'affermazione che le chiese sono divise e che per questo non è lecito partecipare insieme alla cena del Signore [ ... ]. Dovremmo davvero lasciarci dettare dalle autorità ecclesiastiche una verità a cui non crediamo più, e aggiungo: a cui non crede nemmeno la maggior parte dei rappresentanti di tali autorità». JZ: Steffensky ha senz'altro ragione, anche se l'incoerenza di un sistema coerente mi sembra di nuovo simpatica. Dopo una tale incoerenza non mi risulta più molto comprensibile la susseguente coerenza teorica. [Carta di Lima] In occasione dell’assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese a Lima del 1982 la Commissione Fede e Costituzione produsse il documento Battesimo, Eucarestia, Ministero (BEM), edizione italiana a cura di Paolo Ricca e Luigi Sartori, ELLE DI CI,– CLAUDIANA, Leumann - Torino 1982, reperibile all’indirizzo http://www.saemilano.gruppisae.it/Allegati/BEM.pdf