"L`intelligenza artificiale" di Irene Perfetti
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"L`intelligenza artificiale" di Irene Perfetti
Parto da quella che sarà la mia conclusione. È assurdo parlare di intelligenza artificiale. O meglio, ciò è possibile solo in riferimento al fatto che un Uomo ha creato una – chiamiamola genericamente – macchina (dunque è un “artificio”, nel senso di imitazione della natura, e in questo caso imitazione dell’uomo, fatta dall’uomo stesso), che mostra una sorta di intelligenza. Ma dietro ad una – sempre in senso generico – macchina, c’è un uomo. E l’uomo, non la macchina, per le sue caratteristiche naturali, sarà in grado di imparare da solo quelle che sono le funzioni base della vita e della quotidianità, e di sviluppare dei processi formativi. Tarzan (so bene che è frutto della fantasia, ma non è questo il punto), è un bambino selvaggio allevato nella giungla dalle scimmie: è l’archetipo di un bambino – poi uomo – che si adatta al posto in cui abita, e sviluppa delle conoscenze che gli sono utili per la sua sopravvivenza, nella gran parte dei casi, autonomamente e automaticamente. Charlie (anch’egli frutto della fantasia), è un bambino civilizzato cresciuto in una famiglia benestante di New York: questo bambino imparerà a fare cose diverse rispetto al primo, a vivere in una città fatta di strade, negozi, smog e macchine, ma – in modo uguale e parallelo – saranno utili per la sua sopravvivenza, e – di nuovo – lo farà in modo automatico e autonomo. La macchina, da sola, non può fare lo stesso: ha sempre bisogno di un input umano, di una mano che dia avvio al suo processo, e che crei algoritmi utili alla sua sopravvivenza. Il sostanziale limite della macchina è che questa non capisce ciò che fa, ma agisce in modo automatico. Ma soprattutto, lo fa grazie e in seguito alla volontà dell’uomo. Viviamo in un’epoca in cui l’uomo cerca di creare macchine quanto più simili a lui. Il dottor Andrea Bertolini ed Erica Palmerini, docente della scuola Sant’Anna di Pisa hanno concepito una personalità giuridica per i robot, prevedendo delle linee guida da concepire quali raccomandazioni etiche e giuridiche. Per ogni robot (in particolare, sono state previste quattro diverse tipologie di macchine) sono state studiate alcune problematiche connesse al loro utilizzo in situazioni quotidiane e concrete, e sono state prospettate alcune soluzioni giuridiche. Una sorta di codice di diritto robotico, che ben si lega alla “roboetica” (etica dei robot, e insieme dei comportamenti dei robot nei confronti dell’uomo e dell’ambiente circostante). Viviamo – inoltre - in un’epoca in cui l’uomo cerca di creare macchine sempre più intelligenti, e quasi autonome, e lo fa – probabilmente – per due ordini di motivi: il primo, per permettere ad un (s)oggetto di sostituirlo in gran parte delle mansioni, soprattutto quelle meccaniche; il secondo, per la mera tracotanza che caratterizza ogni essere umano, il quale cerca sempre di superare se stesso, in una continua lotta con gli altri. Ma il vero problema è che la macchina, essendo un prodotto dell’uomo, sarà sempre perfettibile e mai perfetta, come l’uomo. Inoltre, in quanto prodotto, è un derivato dell’uomo, e arriverà sempre seconda, anche quando la macchina, in realtà, vince. Mi spiego meglio. Tutti noi ci siamo trovati, almeno una volta nella vita, a batterci contro il computer in un videogioco. Fino a quando si rimane sul piano del mero divertimento, è utile poter giocare nonostante non si abbiano a disposizione amici per farlo. La situazione si complica quando si creano computer tanto “intelligenti” da farli scontrare contro i campioni mondiali di una particolare disciplina. AlphaGo ha battuto Lee Sedol nel gioco del go; DeepBlue ha battuto Garry Kasparov nel gioco degli scacchi; KukaRobot ha battuto Timo Boll nel gioco del ping pong; computer sono stati utilizzati nei quiz televisivi per rispondere a domande aperte; un robot è in grado di riscrivere il Corano con più velocità e precisione di qualsiasi amanuense. Queste sfide hanno dimostrato come le macchine possano essere progettate per superare l’uomo (attenzione: per una sola macchina, sono necessari più uomini di una intelligenza superiore alla media). Ma tutte hanno un lato debole: l’assenza di coscienza, improvvisazione, follia ed errore. L’uomo è fatto anche di questi elementi, che lo rendono – a pensarci bene – molto più perfettibile di qualunque macchina sofisticata. È attraverso il proprio bagaglio personale, l’improvvisazione, l’irrazionalità, l’incoscienza, la pazzia, e gli sbagli, che l’uomo vince una partita contro una macchina, o ha fatto le più grandi scoperte. Tutto questo la macchina non ce l’ha, e non può nemmeno imitarlo. La macchina è – per quanto sofisticata – semplice, chiara, univoca, ideale. Pensiamo alle leggi di Asimov, create appositamente per i robot: 1. Un robot non può recar danno a un essere umano e non può permettere che, a causa di un suo mancato intervento, un essere umano riceva danno; 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge; 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la sua autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge; 4. Un robot non può recar danno all’umanità e non può permettere che, a causa di un suo mancato intervento, l’umanità riceva danno. Ma che cosa è “danno”? Chi lo definisce? Chi lo quantifica? Il concetto di danno sembra legato al concetto di “male” (non solo fisico), e sul problema si sono arrovellate generazioni di filosofi, teologi, letterati e artisti. E nel caso di una contraddizione? L’uomo, grazie alle caratteristiche di cui sopra, riesce ad uscire dal sistema della contraddizione, ma una macchina no. E nel caso dell’informatica giuridica di tipo cognitivo? Probabilmente una macchina – a differenza dell’uomo – potrebbe virtualmente visualizzare l’intero scibile legislativo, ma come potrebbe prendere una decisione? È possibile che computi matematicamente la colpa di due soggetti, e decida semplicemente chi ne ha di più, ma non sono queste le nostre decisioni. Nella sentenza di un giudice subentrano molti altri fattori, inarrivabili e inimmaginabili per una macchina. Il diritto è dell’uomo creato per l’uomo. La macchina, in questo capo, può limitarsi a fungere come banca dati, o a fare delle previsioni, dei calcoli statistici. La macchina, in conclusione, non può essere lasciata sola: ha bisogno dell’uomo. È notizia di venerdì quella di Microsoft che ha creato un account Twitter, un bot per sperimentare un software di intelligenza artificiale: Tay era programmato per rispondere in modo automatico a chiunque decidesse di scriverle. L’obiettivo di Microsoft era fare in modo che Tay potesse rispondere in modo naturale, come farebbe una vera persona, imparando dalle cose che leggeva in altre conversazioni e che gli venivano scritte. L’esito è stato disastroso, almeno in parte: Tay è – infatti – diventata (anche) razzista e offensiva, perché funzionava in parte per imitazione, ripetendo ciò che la gente scriveva (e alcuni utenti, quelli definiti “troll”, accorgendosene, hanno sfruttato la cosa). In merito, è stata citata la “legge di Godwin” (“mano a mano che una discussione su Usenet [una sorta di antenato dei forum online] si allunga, la probabilità di un paragone riguardante i nazisti o Hitler si avvicina ad 1”), ma questa è un’altra faccenda. Un passo ulteriore, o forse solo più sgarbato, rispetto a Siri, che incassa ogni tipo di insulto e risponde in modo educato. Ma è davvero la macchina, il soggetto? Dietro a una grande macchina, c’è un grande uomo. L’uomo è la vera intelligenza. Sempre. Porto un esempio. Ho visto due film, “Lucy” (Luc Besson, 2014), e “Limitless” (Neil Burger, 2011). Entrambi sono incentrati sulla credenza, assai diffusa, secondo la quale le capacità intellettuali degli uomini non sarebbero sfruttate a pieno, ma solo al 10%. Questa teoria nacque all’Università di Harvard nel 1890, in seguito agli studi di due psicologi (William James e Boris Sidis), confermata da una ricerca neurologica a cavallo fra il XIX e il XX secolo, poi probabilmente avallata anche da Albert Einstein in alcuni dei suoi appunti personali. La credenza è però priva di fondamento scientifico, e come esistono tesi a supporto, ne esistono tante altre che la confutano: ad esempio, il neuroscienziato Barry Beyerstein. Sia Lucy (protagonista dell’omonimo film) che Eddie Morra (protagonista di “Limitless”), assumono una droga che gli permette di sbloccare ed amplificare le potenzialità della propria mente. Il fatto accade in circostanze diverse, e le pasticche in questione hanno anche nomi diversi (CPH4 nel primo film, NZT-48 nel secondo). Entrambi, però, nonostante – sempre – diverse vicissitudini, sfruttano le grandi capacità della propria mente per scopi benefici e altruistici. Lucy costruisce un grande computer di ultima generazione e consegna una chiavetta USB, contenente tutte le sue conoscenze (quindi, si potrebbe dire, lo scibile umano), nelle mani del professor Samuel Norman (studioso di biologia ed esperto conoscitore del potenziale della mente umana). Eddie Morra, che è riuscito, nonostante la disintossicazione, a mantenere parte delle sinapsi e nuove connessioni date dalla NZT, è – al termine del film – membro eletto del Senato; nel frattempo, porta avanti delle ricerche sul farmaco, adesso efficace senza effetti collaterali, e quindi fruibile per chiunque. E poi c’è “Italiano medio” (Maccio Capatonda, 2015), che rappresenta l’altra faccia della questione: Giulio Verme, il protagonista, assume delle pillole che gli permettono non di aumentare, bensì di diminuire le proprie facoltà al 2%, vivendo una vita frivola, superficiale e inetta. Credo che l’uomo, nella sua continua evoluzione, abbia sempre cercato di superare se stesso, abbattendo ostacoli e superando limiti di volta in volta più grandi. L’uomo è un essere curioso e ambizioso. Suppongo che la chimica e la tecnologia rispondano a questo scopo, utilizzate indifferentemente per sfruttare una percentuale sempre più alta delle risorse umane. In particolare, le intelligenze artificiali sono una sorta di promanazione dell’uomo, la sua longa manus. Sono l’”accessorio” che permette all’uomo di superare i propri limiti. Esattamente come “noi siamo nani sulle spalle del giganti” del passato (…”così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”, Bernardo di Chartres), così le macchine stanno sopra di noi, e vedono più lontano di noi. Ma le macchine sono – ancora – una creazione dell’uomo. Le macchine, la loro sopravvivenza, il loro sviluppo, dipendono dalla mente dell’uomo, il quale uomo può abbattere le barriere che – secolo dopo secolo, scoperta dopo scoperta – si pone. È un gioco di stretta e leale collaborazione. Macchina e Uomo sono le due mani di Escher che si disegnano l’un l’altra: una delle due – il nostro uomo – ha iniziato, ma entrambe, insieme – macchina e uomo – completano l’opera.