Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Virata verso il giallo di un Virzì che pesca in un romanzo americano ambientato nel Connecticut e trasporta la
storia in Brianza – ma potrebbe essere un po' ovunque. La trama di genere, ottimamente congegnata, sorregge
molto bene la messa a nudo di una realtà che cambia a seconda dei punti di vista, ma che, in ogni caso, sotto lo
sguardo lucido del regista, mostra i segni lividi di una contemporaneità alla deriva.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musica:
distribuzione:
109 MINUTI
ITALIA
2014
PAOLO VIRZÌ
STEPHEN AMIDON
FRANCESCO BRUNI, FRANCESCO PICCOLO, PAOLO VIRZÌ
JÉRÔME ALMÉRAS, SIMON BEAUFILS
CECILIA ZANUSO
CARLO VIRZÌ
01 DISTRIBUTION
interpreti:
VALERIA BRUNI TEDESCHI (Carla Bernaschi), FABRIZIO BENTIVOGLIO (Dino
Ossola), VALERIA GOLINO (Roberta Morelli), FABRIZIO GIFUNI (Giovanni Bernaschi), LUIGI LO CASCIO (Donato
Russomanno), GIOVANNI ANZALDO (Luca Ambrosini), MATILDE GIOLI (Serena Ossola), GUGLIELMO PINELLI
(Massimiliano Bernaschi), GIGIO ALBERTI (Giampi), BEBO STORTI (L’ispettore), VINCENT NEMETH (Avvocato
Pierret), PIA ENGLEBERTH (Signora Ester), NICOLA CENTONZE (Jean-Philippe).
Paolo Virzì
Paolo Virzì è nato a Livorno nel 1964. Figlio di un carabiniere siciliano e di madre livornese, dopo aver trascorso
l'infanzia a Torino torna con la famiglia nella città natale. Fin da bambino è un avido lettore di romanzi,
soprattutto Mark Twain e Charles Dickens. Durante l'adolescenza recita, dirige e scrive testi teatrali insieme ad
alcuni amici, e fin da quel tempo stringe un forte sodalizio artistico con Francesco Bruni, compagno di liceo, che
diventerà scrittore e sceneggiatore e suo co-sceneggiatore di fiducia. Frequenta per qualche tempo Lettere e
Filosofia all'Università di Pisa e gira alcuni film amatoriali. Quindi, come Caterina, lascia Livorno e 'va in città': si
trasferisce a Roma. Qui frequenta il corso di sceneggiatura del Centro sperimentale di cinematografia: tra i suoi
insegnanti ci sono Gianni Amelio e Furio Scarpelli. Scarpelli gli fa da guida e lo chiama a collaborare, lanciandolo
nel mondo del cinema come sceneggiatore. Debutta poi alla regia nel 1994 con La bella vita, film ispirato alla
commedia all'italiana classica che viene premiato con il Ciak d'oro, Il Nastro d'Argento e il David di Donatello
nella categoria Migliore Regista Esordiente.
Nel successivo Ferie d'agosto (1995), interpretato da un cast di rilievo (Silvio Orlando, Laura Morante, Ennio
Fantastichini, Sabrina Ferilli, Piero Natoli), l'isola di Ventotene è il teatro del conflitto tra due famiglie italiane in
vacanza: sullo sfondo l'Italia dell'avvento del sistema maggioritario e della discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Ferie d'agosto vince il David di Donatello come miglior film dell'anno.
Il successivo film, Ovosodo (1997), dal nome di un quartiere di Livorno, ha uno straordinario successo: la giuria
del Festival di Venezia, presieduta da Jane Campion, gli attribuisce il Gran premio della giuria.
Nel 1999 dirige Baci e abbracci, una miscela di favola, commedia sociale e racconto natalizio alla Dickens, che
racconta di un gruppo di ex operai intenzionati ad aprire un allevamento di struzzi nella Val di Cecina.
Nel 2002 esce, dopo una lavorazione travagliata a causa dei problemi economici del produttore (Cecchi Gori) My
name is Tanino (2002), girato tra Sicilia, Canada e Stati Uniti. Nel frattempo Virzì fonda una sua piccola casa di
produzione, la Motorino Amaranto. Maggior fortuna ha Caterina va in città (2003), nel quale la piccola
protagonista viene catapultata dalla quieta provincia al caos della capitale per volontà del padre. N (Io e
Napoleone) (2006) mette insieme commedia all'italiana e film storico: al centro il rapporto tra intellettuali e
potere, non senza riferimenti all'attualità.
Con Tutta la vita davanti (2008) Virzì si avvicina ai temi amari della precarietà. Il film ottiene numerosi
riconoscimenti, tra i quali il Nastro d'Argento e il Globo d'oro come miglior film, il Ciak d'Oro come miglior film e
miglior regia.
Nell'ottobre del 2008 il "Festival di Annecy, Cinema Italien" consegna a Virzì il Premio Sergio Leone,
riconoscimento alla sua opera in generale.
Con la Motorino Amaranto gira nel 2009 a Livorno La prima cosa bella, che narra le vicende di una famiglia dagli
anni Settanta ai giorni nostri: protagonista è Anna, madre esuberante che finisce per rovinare la vita ai propri
figli, Bruno e Valeria. Il film ha ricevuto diciotto candidature al David di Donatello, ottenendo tre riconoscimenti:
per la miglior sceneggiatura, firmata dallo stesso Virzì con Francesco Bruni e Francesco Piccolo, per la miglior
attrice protagonista (Micaela Ramazzotti, con cui Virzì si è nel frattempo sposato) e il miglior attore protagonista
(Valerio Mastandrea).
Dall'edizione del 2013 ricopre il ruolo di direttore del Torino Film Festival.
La parola ai protagonisti
Note di regia
All’origine di questo progetto c’è innanzitutto un vero colpo di fulmine per lo splendido romanzo di Stephen
Amidon, Human capital, ambientato nel decennio scorso in un sobborgo residenziale del Connecticut. Quei
personaggi, quella vicenda, ci sono apparsi subito come emblematici di questo nostro momento, anche in Italia:
la ricchezza che non trae origine dal lavoro, ma dalle più spregiudicate speculazioni finanziarie, le speranze mal
riposte di elevazione sociale, l’ansia procurata dal denaro, una generazione di figli costretti a pagare il prezzo più
alto in termini di felicità, a causa della spasmodica ambizione dei loro genitori, o della loro frustrazione.
La storia di Drew Hagel, l’immobiliarista smanioso che approfitta del presunto fidanzamento della figlia con il
rampollo di un ricco broker per cercare di diventare socio di un aggressivo fondo d’investimento, ci è sembrata
subito familiare, sembrava scritta apposta per raccontare qualcosa che ci riguarda. Così l’abbiamo trasformata in
quella di Dino Ossola, immobiliarista in cattive acque, che ha iscritto la figlia Serena ad un prestigioso liceo
privato che a malapena può permettersi. E abbiamo immerso quel mosaico di storie e di personaggi in una
Brianza di oggi, a cavallo tra la ricchezza e la disperazione. Abbiamo scelto di strutturare la vicenda come un vero
e proprio thriller, con un morto fin dalle prime pagine: un ciclista investito in una notte gelida alla vigilia delle
feste di Natale. E tutto il copione, nel seguire i passi dei diversi personaggi, ricostruisce pezzo dopo pezzo quel
che è successo quella notte. E racconta come quell’episodio potrebbe cambiare le vite di tutti i personaggi. Ma
soprattutto si narra di come il denaro, l’ansia di moltiplicarlo, l’angoscia di perderlo, determini la vita affettiva, il
destino, il valore delle persone.
Intervista a Virzì
Com'è arrivato a toni così critici nei confronti dell'Italia di oggi?
La tenerezza de La prima cosa bella mi era venuta ripensando ai nostri padri, madri, nonni. a un’Italia che ne
aveva viste tante senza smettere mai di lottare con un’energia e un gusto per la vita che noi, figli del benessere
incapaci di godere degli affetti, dovremmo saper ritrovare. Invece, l’amarezza de Il capitale umano nasce dalla
rabbia per ciò che stiamo diventando, dallo sconcerto che magari si prova andando a guardare da vicino i
protagonisti di un banale fatto di cronaca. Uno di quegli incidenti che sul giornale locale meritano poco più di un
trafiletto in cronaca. Il libro di Amidon mi aveva colpito per la sua trama da giallo che si adoperava per raccontare
paesaggi umani di una società contemporanea e questioni spinose del nostro tempo.
La novità, rispetto ai miei film precedenti in cui mescolavo dramma e ironia facendo prevalere la comicità, è
l’elemento del thriller. L’omissione di un evento narrato, che viene scoperto poco a poco nel racconto alla
maniera delle narrazioni di genere.
Una storia americana è diventata italianissima...
Abbiamo trovato un bel lavoro già fatto nelle pagine di Amidon, non solo perché si trattava di traslare un
racconto ambientato nel Connecticut in un altro contesto socio-geografico, ma anche perché questo materiale
romanzesco era molto più ampio e diffuso di quanto lo sia il film. Si poteva fare una serie a puntate per la tv. Il
tentativo era quello di cercare un tono, un’atmosfera, un’inquietudine. E quindi: vicenda americana, un
paesaggio per me umanamente inconsueto, sommato alla mia poca confidenza con la provincia ricca lombarda,
mi ha fatto creare un tipo di film estraneo ma centrato.
Come mai l'Italia del Nord?
Mi ha colpito quello che racconta il paesaggio. Ho visto vari borghi rurali, bellissimi e abbandonati accanto a
nuovi comprensori di villette moderne; un’idea della ricchezza e della bellezza un po’ mortifera, che forse non ho
compreso del tutto. E questo però non è un problema solo della Lombardia, ma di tutta l’Italia.
È stata una sfida molto ben affrontata dall'eccezionale cast di cui ti sei circondato
Sì, ho voluto circondarmi di fuori classe, in più molti di loro sono anche registi. Rispetto al romanzo, ci siamo
immaginati un agente immobiliare del Varesotto, osservando dei tipi che prendevano l’aperitivo e Bentivoglio,
che è l’opposto di Ossola, sobrio, riservato e con una sua dolcezza pacata e malinconica, invece si è gettato nel
personaggio con un ardimento e una sfacciataggine commoventi. Gifuni che è l’immagine della rettitudine,
dell’uomo equilibrato e democratico, qui ha indossato i panni di una persona aggressiva, feroce e competitiva. O
la Bruni Tedeschi che diventa donna patetica, ricca e infelice, mentre la Golino è donna giudiziosa, con una
sindrome di accudimento verso casi umani disperati, tra cui forse il suo compagno. Il cuore della storia però sono
i tre ragazzi, bravissimi.
Dove li hai trovati?
Mi piace scovare nuovi attori. Ce ne sono sempre nei miei film. Ho fatto provini per mesi. Giovanni Anzaldo, che
fa il problematico Luca, proviene dallo Stabile di Torino. Mentre Matilde Gioli e Guglielmo Pinelli, i rampolli delle
famiglie protagoniste, sono degli esordienti
La polemica sul film raccontata da una brianzola: Marita Toniolo di BestMovie.it
Avete presente come nasce una valanga? Una piccola massa di neve si stacca dalla sua sede e precipitando verso
valle raccoglie altri cumuli fino a diventare enorme e velocissima. Sono i termini in cui ci sembra si possa
riassumere la polemica sorta attorno a Paolo Virzì e al suo Il capitale umano, travolto da una polemica che dalle
pagine dei quotidiani e da Twitter è giunta in Parlamento nei termini di interrogazione della Lega Nord contro il
regista toscano, affinché restituisca quei 700mila euro di contributo che il Ministero ai Beni culturali gli ha
elargito per realizzare il film.
Riassunto delle puntate precedenti: Natalia Aspesi e Concita De Gregorio intervistano Virzì, che parlando delle
location del suo ultimo film – Arese, Osnago, Varese e Como – si riferisce a «un paesaggio gelido, ostile,
minaccioso». Poi calca la mano su Como, sottolineando (con un eccesso di giudizio, bisogna ammetterlo) «il
degrado culturale di una città che lascia morire il suo unico teatro, il Politeama, e più in generale di tutta la
Brianza» (parafrasi nostra, ndr).
Apriti cielo, ma soprattutto fuoco alle polveri. A cavallo della polemica si piazza subito il direttore di Libero,
Maurizio Belpietro, che si indigna con le giornaliste di sinistra – a suo dire “prezzolate” – che beatificano il regista
sinistrorso che di qualche villetta berlusconiana fa un unico fascio, denigrando una regione che coi suo dané
manda avanti tutto il Paese. A Belpietro fa da spalla Giovanni Sallusti, che scrive un post bello sapido contro Virzì,
chiedendo anch’egli che Virzì restituisca allo Stato la sovvenzione statale, visto che infama un territorio che
dovrebbe invece valorizzare. Qui, parere personale, Virzì sbaglia ancora perché scende sul piano della polemica
di basso livello, giungendo quasi alla rissa con Sallusti e gli amministratori locali di Monza Brianza et similia. Le
cadute di stile raramente si perdonano (qui sotto uno degli esempi più garbati dello scambio)…
Il regista toscano si riabilita sul Fatto Quotidiano, spiegando che la sua è una “Brianza immaginaria” che funge da
metafora e che tra ispirazione dal Connecticut del romanziere Stephen Amidon, da cui Il capitale umano prende
spunto e che nel suo cinematografare non ha mai risparmiato niente e nessuno, compresa la natìa Livorno.
Polemica spenta direte voi? E invece no, la valanga continua a rotolare e arriva fino in Parlamento, dove due
deputati parlamentari proprongono un’interrogazione parlamentare contro Virzì, affinché restituisca i 700mila
euro ingiustamente ricevuti per parlare male di una delle regioni più nobili e produttive del suo paese.
Concludendo, molto rumore per nulla… e non solo perché nel Paese delle tifoserie e delle “conventicole” (per
citare Virzì stesso) questa battaglia consumata sui mezzi di informazione è l’ennesima dimostrazione di
discussione sterile tipica del nostro dibattito culturale, ma perché banalmente quei 700mila euro sono un
contributo che la produzione di Virzì, come qualsiasi altra, è tenuta a restituire e che con gli incassi al botteghino
che sta conquistando si è già praticamente pagato. Prima di disturbare un Parlamento che ha problemi ben più
importanti da gestire bisognerebbe quanto meno informarsi…
Quanto alla questione di principio più generale, ovvero se il toscanaccio abbia veramente creato un danno alla
Brianza nel suo dipingerla così gelida e spietata, è tutto da verificare. Intanto, noi brianzoli dovremmo dire grazie
a Virzì anche solo per essere stati considerati e non ignorati come avviene di solito con gli altri registi, che
solitamente preferiscono occuparsi di altre città e Grandi bellezze varie.
Quanto al ritratto umano che dal film emerge del “brianzolo tipo” capisco che non se ne possa andar troppo fieri
(ma chi può dire di non averne incontrati a pacchi di scemi alla Bentivoglio?), ma considerare la questione in
termini così campanilistici mi sembra frutto di una visuale davvero ristretta. (…) Il capitale umano è in primo
luogo una riflessione amarissima sul decadimento più generale dell’italiano e ancora più in generale dell’essere
umano, specie se alto o medio borghese, perché talmente obnubilato e rammollito dalla sete di denaro e di
potere, da aver perso la bussola dei valori.
E’ che Virzì ci ha spiazzato con uno schiaffo inaspettato e invece di fare autocoscienza, abbiamo cominciato a
strillare “comunisti” e “nemici del plusvalore”.
Recensioni
Valerio Caprara. Il Mattino
Può ancora servire a qualcosa la critica? Se ci fosse speranza, non perdetevi “Il capitale umano”, un grande film
italiano dal respiro universale che non ha bisogno della consueta slavina di aggettivi promozionali. L’unico
problema dell’opus n°11 di Paolo Virzì è quello di farci pensare al fatidico Gulliver: un gigante imbracato con mille
lacci e lacciuoli dai formicolanti lillipuziani decisi a capire se possa tornargli utile. Complici poche tessere della
(peraltro magnifica) sceneggiatura fuori controllo, infatti, a leggere o sentire qualcuno sembra che il suo valore
stia tutto nei messaggi estraibili col minimo sforzo: un modo di porsi al cospetto del puzzle venato di noir,
liberamente tratto da un romanzo dell’americano Amidon, meschino e sconfortante. Perché i riferimenti diretti,
penetranti, spietati al nostro paese, a un suo emblematico habitat provinciale, ai meccanismi della finanza
d’assalto che fa pagare i costi della crisi sul piano mondiale (dunque c’entrano poco le presunte induzioni al
disastro degli “avidi e corrotti” imprenditori italiani), dell’aspirazione all’ascesa sociale e delle intensificate
collisioni tra giovani e vecchi, piccoloborghesi e benestanti, inquadrati e alternativi, altroché se ci sono e pesano
nell’ossatura narrativa; ma ridurre un procedimento un po’ alla Simenon (o alla Tom Wolfe per restare in ambito
letterario Usa) al solito predicozzo dei “migliori” contro i “peggiori” connazionali fa torto al regista e ai suoi
complici scrittori Bruni & Piccolo.
L’espressione “Il capitale umano”, che parametra il costo dell’indennizzo in caso di morte di un assicurato, qui
serve a mettere in luce i confini etici, civili, legali fino ai quali dovrebbe o potrebbe spingersi ciascuno di noi
schivando o accettando la tentazione dell’imbarbarimento. Otto personaggi si dispongono, così, in un ciclo di
quattro capitoli visti da diversi punti di vista come in un “Rashomon” della Brianza a partire dal notturno
incidente stradale che ha ridotto in fin di vita un cameriere reduce da un catering e fatto scattare una tenace
indagine della polizia locale. Assoluto è il controllo che Virzì applica a questo congegno, teso, allarmante, cupo,
ma attraversato da picchi improvvisi d’isterica ridicolaggine e scorci di un conturbante erotismo chabroliano; così
come superiore è la qualità del suo sguardo rivolto ai grandi spazi verdi, ai circuiti chiusi degli eleganti centri
storici, alla sontuosa immobilità delle ville e al vitalismo residuale dei locali dello svago e del consumismo.
L’affresco poliedrico e beffardo convince anche e soprattutto per le recitazioni calibrate come non si vedeva da
anni in un film nostrano: lo strepitoso Gifuni con bieca quanto strenua immedesimazione escludente didascalie di
comodo; la Bruni Tedeschi torpida sognatrice nel ruolo che vale la carriera; Bentivoglio micro-immobiliarista
convinto di fare il colpo della vita come nel classico “La fiamma del peccato”; il velleitario professorino sinistrese
Lo Cascio; la rivelazione Gioli nella parte della figlia e il simil-“Trota” Bernaschi in quella del suo scapestrato, ma
non malvagio fidanzato; il giovane misero Anzaldo e lo zio Pierobon nient’affatto protetti dall’aureola di devianti
perseguitati dal perbenismo borghese.
Gianluigi Rondi. Il Tempo
L'anno comincia con un evento felice per il cinema italiano, il nuovo film, 'Il capitale umano' che un autore come
Paolo Virzì si è scritto insieme con i suoi due fidi sceneggiatori, Francesco Bruni e Francesco Piccolo, già coronati
da molti successi, e con la partecipazione di alcuni fra i più noti e validi interpreti del nostro cinema, da Valeria
Bruni Tedeschi, a Fabrizio Gifuni, a Fabrizio Bentivoglio, a Valeria Golino, a Luigi Lo Cascio. Il clima scelto è quello
del noir suggerito a Virzì da un romanzo americano di Stephen Amidon che poi, con trovata intelligente, ha
ambientato in una zona montuosa della nostra Lombardia, la Brianza, scegliendo tra i personaggi principali
soprattutto grandi imprenditori tutti votati, al culto, spesso affannoso, del denaro. Tre capitoli sempre intitolati ai
personaggi che ci faranno seguire da vicino lo svolgersi della vicenda. (...) Con un disegno fine e attento delle
singole psicologie, analizzando, insieme con quelle degli adulti quelle dei giovani che, tra alcol e droga, non
tardano a rivelarsi non molto diversi dai loro genitori. Con tensioni, risvolti drammatici, contrasti e sorprese che
propongono sempre l'azione in cifre ansiose e dolenti, specie quando ci si imbatte nella desolante povertà del
'capitale umano' di tutta quella gente. Vi danno magnifico rilievo Fabrizio Gifuni, un rigido Giovanni, Fabrizio
Bentivoglio, il viscido Dino. In primo piano, tra le figure femminili, Valeria Bruni Tedeschi, una Carla di forte e
complessa intensità.
Paolo Mereghetti. Il Corriere della Sera
Con questo film - il suo undicesimo lungometraggio - Paolo Virzì sembra voler imprimere una svolta al suo modo
di fare cinema, una svolta che allenta i «legami» con la forma-commedia a favore di una più complessa struttura
narrativa e una più equilibrata lettura psicologica. A favorirlo è il romanzo di Stephen Amidon il cui titolo resta
invariato anche per il film, 'Il capitale umano', e di cui rispetta la complessità temporale ma non l'ambientazione
(dal Connecticut alla Brianza) scrivendo la sceneggiatura con Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Non un
passaggio al dramma tout court ma un'evoluzione dal genere in cui si era esercitato fino a ieri verso una
narrazione più complessa e ambiziosa. Bisogna però aggiungere, per evitare ambiguità, che Virzì non perde la sua
capacità di graffiare attraverso l'ironia (...) e soprattutto affina la capacità di ottenere il meglio dai suoi attori,
come dimostra per esempio Fabrizio Gifuni (...). Per non parlare dei giovani, esordienti o quasi, tutti ottimi. Dove
convince meno è quando sottolinea le inflessioni lombarde - da baùscia vanziniano, alla Nicheli - nel personaggio
affidato a Fabrizio Bentivoglio: (...) si comporta - specie all'inizio del film - come fosse in una commedia
ridanciana, inanellando sbruffonate e ostentando urticanti familiarità. (...). Gli exploit lombardi, comunque,
passano in secondo piano quando i vari personaggi del film iniziano a essere coinvolti nella tela gialla che ha
steso il caso (...). Tutta questa materia, Virzì la racconta da tre punti di vista, così che gli stessi fatti trovino
spiegazioni e informazioni diverse. Ma più che la soluzione del giallo (che pure arriverà alla fine) gli interessa la
descrizione di un mondo che, come dice la moglie di Bernaschi, «ha scommesso sulla sconfitta dell'Italia. E ha
vinto». Mai come in questo film, lo scontro generazionale tra genitori e figli è così netto e deciso: l'età non è un
discrimine di bontà o cattiveria ma di responsabilità. Soprattutto i padri (veri o «putativi», come quello di Luca)
sono lo specchio di un Paese che ha tradito qualsiasi ideale in nome del denaro e le cui azioni finiscono
inevitabilmente per far sentire le proprie conseguenze sugli altri membri della famiglia: con un maggior grado di
corresponsabilità sulla moglie, con effetti più distruttivi sui figli. 'Il capitale umano' questo quadro lo racconta con
forza e durezza, senza concedere facili sconti a nessuno (...) e con un acre senso di beneaugurante moralità,
soprattutto dopo l'eccesso natalizio di commediole assolutorie e pacificatrici. Qui alla fine tutti escono sconfitti,
anche quelli che sembrano convinti di aver vinto, lasciando allo spettatore il compito di riflettere sui valori per cui
vale davvero la pena di combattere.
Dario Zonta. Mymovies
In un paesotto della Brianza che finisce in "ate", eretto alle pendici di una collina una volta incredibilmente
boscosa, un cameriere da catering neanche più giovane torna a casa a notte fonda (...). Il giorno dopo, la vita di
due famiglie diversamente dislocate nella scala sociale brianzola viene toccata da questo evento notturno in un
lento affiorare di indizi e dettagli che sembrano coinvolgere il rampollo di quella più ricca, assisa nella villa che
sovrasta il paese, e la figlia dell'altra, piccolo borghese con aspirazioni di ribalta. Uno a uno sfilano i presunti
protagonisti: il padre della giovane ragazza, un ingenuo stolto e credulone, titolare di un'agenzia immobiliare,
pronto a giocarsi quello che non ha per entrare nel fondo fiduciario del magnate della zona al quale accede per
un eccesso di fiducia e grazie all'entratura garantitagli dalla figlia, fidanzata con il giovane rampollo della ricca
famiglia; il magnate, cinico e competitivo, perfetto prodotto brianzolo, forgiato con la tempra di chi ha abbattuto
ettari di bosco per costruire quell'impero economico, inno del malcostume e del cattivo gusto: le moglie dell'uno
e dell'altro, la prima psicologa tutta presa dalla sua missione e dall'imminente maternità, tardiva e sofferta, la
seconda sposa tonta con il sogno del teatro, obnubilata dalla ricchezza e dal troppo avere: in ultimo i rispettivi
figli, non più incolpevoli, mai più adolescenti, complici dell'orrore in questa "tragedia" balzachiana che della
commedia ha solo i tipi.
Paolo Virzì fa un salto in avanti nel personale viaggio politico nell'Italia del suo presente, puntando finalmente la
bussola verso il nord del Paese, trovando un cuore nero che non fa ridere proprio per niente. La goliardia
toscana, il cinismo burlone romano (modi e luoghi che hanno caratterizzato la sua commedia) sono lontani,
lontanissimi, senza quasi più alcun eco in queste lande brianzole, disegnate come fossero terre straniere abitate
da genti aliene che comunicano in un linguaggio misterioso e duro. Virzì si fa suggestionare dal suo limite, un
misto di gap culturale e sociale (un livornese in Brianza), che presto trasforma nella sua arma migliore,
abbandonando il facile gigioneggiare nelle disgrazie del malcostume centroitaliano per addentrarsi nei meandri
di un apologo potente e inaspettato.
Liberamente tratto dal thriller di Stephen Amidon, ambientato nel Conneticut, con l'aiuto di Francesco Piccolo e
Francesco Bruni, Il capitale umano vanta un cast variamente composto su cui domina Fabrizio Bentivoglio che
interpreta senza alcun timore il personaggio di Dino Ossola. Ecco, crediamo che questo tipo unico di "scemo" sia
in assoluto una delle migliori descrizioni di un certo italiano contemporaneo, degno della migliore tradizione del
cinema nostrano.
Dario Zonta. L'Unità
Uno dei motivi (non pochissimi, ultimamente) per i quali si prova disgusto per il sistema-Italia è la pessima
abitudine di commentare e attaccare i film senza averli visti. Le polemiche leghiste su Il capitale umano, il nuovo
lavoro di Paolo Virzì accusato di «insultare i brianzoli», non sono solo pretestuose: sono profondamente
scorrette. Il sospetto che si usi un film importante come pretesto per finire sui giornali è fortissimo, per cui non
facciamo nomi e finiamola qui. Anzi, cominciamola: andate a vedere Il capitale umano perché è un film notevole,
e uno dei motivi per cui lo è si nasconde proprio nel contesto che racconta: una Brianza che, per inciso, non è
quella delle «fabbrichette» e della gente che lavora, ma quella degli arricchiti che giocano pesante con la finanza
e fanno i loro sporchi affari a Milano, Londra o Wall Street; o quella degli «impoveriti» - nel caso specifico, un
agente immobiliare strozzato dalla crisi - che sperano, frequentando gli squali di cui sopra, di azzeccare la
speculazione giusta per uscire dai guai. Per cui, compagni brianzoli, state tranquillissimi: nessuno fabbrica mobili
in questo film e il paesino di Ornate dove tutto si svolge manco esiste, quindi nessuno insulta nessuno. Virzì e i
suoi sceneggiatori (Francesco Bruni e Francesco Piccolo) raccontano una storia che potrebbe avvenire in
Piemonte, in Veneto o nell'Emilia rossa, o persino in Connecticut (dove si svolgeva il romanzo di Stephen Amidon
al quale il film si ispira). Dovunque, insomma, esista un'élite di pochi ricchi onnipotenti e un ceto diffuso di ex
benestanti terrorizzati dalla contingenza economica. Andando avanti e indietro nel tempo, con una struttura che
potrebbe ricordare Rapina a mano armata di Kubrick, Il capitale umano parte da (…). È incredibilmente denso e
verosimile il contesto sociale che Virzì, Piccolo e Bruni riescono a ricostruire: Il capitale umano è veramente il
ritratto dell'Italia di oggi, colta anche nella sua stratificazione sociale (si va dai ricchissimi ai proletari, o a ciò che
rimane di loro). Ma è anche azzeccatissimo il lavoro sui personaggi: tutti hanno dei doppi fondi, come la ricca
signora Bernaschi che è un'ex attrice e si eccita quando il locale professore di teatro (Lo Cascio) le porta in dono
un dvd di Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene; o come la psicologa che annuncia, nel momento così
sbagliato che più sbagliato non si può, di essere incinta. Il talento degli sceneggiatori si misura anche sui
personaggi minori: su tutti, il poliziotto che indaga sull'incidente, magnificamente interpretato da Bebo Storti.
Ma tutto il cast è encomiabile, anche se la nostra personalissima palma va, da milanesi, al non milanese Gifuni
che ha fatto uno straordinario lavoro sull'accento per calarsi nei panni di un pirata della finanza interessato solo
ai «danée». È il primo film drammatico di Virzì (anche se qualche risata, qua e là, ci scappa) e, insieme a Tutta la
vita davanti e a La prima cosa bella, è il suo migliore.
Concita De Gregorio. La Repubblica
Con Il capitale umano Paolo Virzì ha cambiato passo. È andato in Brianza a raccontare com’è cambiata l’Italia, lo
ha fatto come se partisse per l’Alaska. Ha messo in valigia i suoi attrezzi da sarto di storie e come un esploratore si
è addentrato di soppiatto nella terra dei ricchi. Di quelli che “hanno scommesso sulla rovina del nostro paese, e
hanno vinto”. Gli speculatori, i maghi della finanza, quelli che ti promettono di guadagnare il 40 per cento sui tuoi
risparmi e che poi se li mangiano, con la tua vita intera. Che calcolano con un algoritmo quanto costa la tua
morte, il «capitale umano» del titolo: il risarcimento agli eredi per l’assenza. Il film è bellissimo, il migliore di Virzì.
Potente, lieve, preciso. Il regista dirige un gruppo di attori eccezionali rendendo ciascuno di loro, se ancora
possibile, una sorpresa. La storia avviene alla vigilia di Natale in un piccolo paese della Brianza. C’è una cena di
gala, c’è un incidente (...) c’è un colpevole ignoto. Affresco polifonico e corale (riscrittura del romanzo di Stephen
Amidon). L’America è qui, in Brianza.
Roberto Escobar. L'Espresso
La commedia è finita. Così vien da dire quando si chiude "Il capitale umano" (Italia e Francia, 2013, 109').
Ambientato in Brianza, il film di Paolo Virzì e dei cosceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo riprende il
romanzo omonimo dell'americano Stephen Amidon. Al posto del Drew Hagel del libro ora c'è Dino Ossola
(Fabrizio Bentivoglio). Agente immobiliare dagli affari malmessi, Dino immagina di risolvere i suoi problemi
investendo centinaia di milioni di euro (che non ha) nel fondo azionario del potente e spregiudicato Giovanni
Bernaschi (Fabrizio Gifuni). (…) La vicenda di "Il capitale umano" è raccontata, anzi è riraccontata dai punti di
vista dei vari personaggi, da Dino a Serena. Ogni volta, il cambio di prospettiva è segnato dal ritorno alla
sequenza della Bmw che arriva nella villa dei Bernaschi. Da qui la sceneggiatura riparte, illuminando la vicenda
da un'angolatura nuova e inaspettata. Quel che ne viene è un ritratto spesso crudele di questi nostri anni di
volgarità morale e prepotenza finanziaria, dominati da chi ha scommesso sulla rovina del Paese e ha vinto, come
al marito Giovanni dice Carla (Valeria Bruni Tedeschi), non si sa se più colpevolmente ingenua o più stupida. In
ogni caso, pare suggerire Virzì, ora la commedia è finita. È finita (forse) la messinscena di una élite finanziaria che
non riesce più a nascondere d'essere criminale. È finita la corsa verso il suo stesso modello di vita da parte dei
vari Dino Ossola. E insieme è finita (per ora) la possibilità di raccontare l'una e l'altra con gli stilemi della
commedia, appunto. Difficile non concordare. P.S. Se così è, perché la sceneggiatura più di una volta si affida a
stereotipi che ripetono stancamente, e con volgarità, l'italica commedia di costume? E soprattutto, perché si è
indotto il povero Bentivoglio a recitare come un Alberto Sordi redivivo, fuori tempo e inverosimile?
Yamina Oudai Celso. Il Fatto Quotidiano
“A man who knows the price of everything and the value of nothing”: è così che Oscar Wilde, in una celebre
battuta de “Il Ventaglio di Lady Windermere” delinea i tratti dell’uomo cinico. Un aforisma di quelli folgoranti,
che non ha smesso di riecheggiarmi in testa durante tutta la visione del nuovo film di Virzì, ‘Il Capitale Umano‘, di
cui mi sembra possa rappresentare una sintesi quasi ottimale. L’interrogativo di fondo è tanto semplice quanto
cruciale: cosa resta del singolo individuo, della sua dignità ed irripetibile unicità, in un mondo in cui il denaro e il
profitto economico rappresentano il solo incontrastato parametro valutativo di persone e cose?
E come vive poi quella società che –per dirla appunto con Wilde– determina aritmeticamente il prezzo di tutto
(vite umane incluse) senza conoscere l’intimo valore di nulla?
Compiendo un’operazione per certi versi analoga a quella del Tornatore de ‘La Migliore Offerta’, Virzì altera
vistosamente i codici del proprio linguaggio cinematografico abituale, abdicando alla solarità mediterranea per i
toni asciutti ed incalzanti della commedia noir. Ed è nell’ipotetica cittadina brianzola di Ornate che le vicende
della facoltosa famiglia Bernaschi si intrecciano con quelle della middle class incarnata dagli Ossola. Già qui
sceneggiatura e regia bypassano brillantemente la prima insidiosa trappola di un soggetto del genere: al cinema
(ma anche in letteratura, teatro e affini) cosa c’è di più visceralmente detestabile dell’ingenuità delle
rappresentazioni manichee, ovvero lo schieramento dei buoni da una parte e quello, altrettanto univoco e
stereotipato, dei cattivi dall’altra, o –altra possibile variante– dei ricchi scintillanti e corrotti contrapposti ai poveri
pulciosi e bonaccioni? Nulla di simile, per fortuna, nel film in questione: avidità, violenza, istinto di sopraffazione
(e i loro contrari) albergano indistintamente, con modi ed accenti ovviamente diversi, in ciascuna delle categorie
sociali coinvolte, dall’arrogante magnate allo zio tossico che cerca di derubare il nipote orfano e pregiudicato.
Sullo sfondo, quasi come una sorta di incombente “giardino dei ciliegi” contemporaneo, la vicenda di un teatro in
rovina, destinato ad essere trasformato in supermercato o condominio. Ne scaturisce un affresco eloquente e
corrosivo, molto ben recitato, denso di paradossi, ossessioni e nevrosi tipiche dei nostri tempi, che quasi quasi mi
ricorda, per alcuni aspetti, l’American Beauty (1999) di Sam Mendes. Ad arricchire ulteriormente l’impianto
narrativo, una costruzione molto rigorosa e geometrica del plot, raccontato per tre volte da altrettanti punti di
vista diversi corrispondenti a tre dei personaggi principali: un espediente interessante, che consente tra l’altro al
regista di sottolineare ripetutamente come realtà ed apparenza difficilmente coincidano, e come la medesima
scena possa assumere un significato totalmente diverso col variare dell’angolazione visuale (...).
Moltissimo si è già detto e scritto di quest’ultima opera di Virzì, che, nel bene e nel male, ha evidentemente
centrato il bersaglio dell’immaginario collettivo, ma forse non si è sufficientemente sottolineato fino a che punto
si tratti di un film convintamente ed integralmente femminista: le figure femminili principali sono tutte portatrici
di empatia, cura, attenzione, capacità di comprensione profonda e realistica delle cose a fronte di una pletora di
maschi confusi, incapaci di elaborare le emozioni, monopolizzati dagli obiettivi sbagliati, perdenti anche quando
si illudono di vincere e così goffamente tormentati che ti verrebbe quasi voglia di difenderli.
Francamente pretestuosa e patetica appare invece la reazione polemica, a mezzo stampa, dei sedicenti “offesi” in
nome e per conto dei cittadini brianzoli: (...) quel che davvero sorprende è che i suddetti “offesi” stranamente
non si sentano tali quando vengono rappresentati attraverso i peti, i rutti e le parolacce dei “cumenda” o di altri
personaggi lombardi folkloristici dei cinepanettoni. Ma i newyorkesi, allora, dovrebbero forse imbufalirsi contro
Woody Allen per come vengono spesso parodiati nei suoi film?
Se magari qualcuno frequentasse, oltre al Bagaglino, anche altri teatri, potrebbe farsi un’idea di come Cechov
descrive i suoi connazionali russi, Brecht i tedeschi, Molière i francesi e così via, e forse capirebbe che l’essenza di
ogni rappresentazione artistica –tanto teatrale quanto cinematografica, letteraria etc.– consiste esattamente in
questo meccanismo di rispecchiamento o immedesimazione dello spettatore reale nella finzione scenica: sentirci
chiamati in causa, sorprenderci, indignarci, difenderci, assolverci, commiserarci, ma comunque riflettere su noi
stessi e sulla nostra condizione, fa parte integrante di questo “gioco” antichissimo che ogni narratore, in quanto
tale, è chiamato ad innescare con le sue opere, eccelse o mediocri che siano.
Polemiche a parte, chiunque conosca la cinematografia precedente di Virzì, fin dai tempi di ‘Ferie d’agosto’,
‘Caterina va in città’ o del più recente ‘Tutta la vita davanti’, rimarrà stupito nel constatare l’assenza di quella sua
tipica ironia, magari feroce o sarcastica ma pur sempre inscritta in una levità o serenità di fondo. Qui, a parte
pochissime gag assestate con la precisione chirurgica di una stilettata, il regista livornese rinuncia quasi del tutto
alla propria abituale bonomia. Il freddo incalza, senza che neppure lo struggente sottofondo de “l’inverno” di
Vivaldi riesca a mitigarlo, e il retrogusto dell’intera vicenda è gelido come le chiazze di neve sul paesaggio
brianzolo. Quasi a volerci perentoriamente ammonire che adesso, nel periodo storico che stiamo vivendo, no,
non è davvero più tempo di scherzare.
Simona Santoni. Panorama
(…) Come di fronte a La grande bellezza di Paolo Sorrentino alcuni romani hanno storto la bocca, inevitabilmente
ora sono alcuni brianzoli, per lo più senza aver ancora visto il film, ad arrabbiarsi per come è stata dipinta la loro
terra. Ad aver aizzato gli animi è stata soprattutto l'intervista rilasciata da Virzì a Repubblica, dove spiegava di
aver cercato "un paesaggio che mi sembrasse gelido, ostile e minaccioso". Andrea Monti, assessore leghista al
Turismo della Provincia di Monza e Brianza, ha replicato sul suo blog scrivendo che Virzì si è limitato a una
"caricatura di alcuni stereotipi falsi, una vera e propria opera di mistificazione, probabilmente un po' frutto della
voglia di additare in negativo la Brianza identificata come la terra del nemico politico, e tanto, diciamolo, frutto di
ignoranza vera e propria", notando tra l'altro che Il capitale umano ha anche "ricevuto un contributo di 700.000
euro dal Ministero dei Beni Culturali". Anche l'assessore alla Cultura di Como Luigi Cavadini se l'è presa male per
alcune parole di Virzì sul teatro locale ("Como esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il
Politeama, chiuso e in rovina"), e ha replicato: "È vero, il teatro Politeama si trova in una situazione di degrado,
ma non capisco come si possa, per questo, estendere il giudizio alla città".
La polemica poi si è trasferita ed è in corso su Twitter, con tanto di proposta di boicottaggio del film - e anche con
tanti che difendono la pellicola -. E con tweet infuocati tra Virzì e Monti.
Virzì intanto ha definito la querelle "una polemica buffa e scomposta, del tutto infondata", aggiungendo: "credo
che chi dice e scrive queste cose anzitutto non ha visto il film e non sa che l'ambientazione è in una Brianza
immaginaria". Non a caso il luogo in cui avviene l'incidente è stato chiamato Ormate Brianza, nome fittizio.
Io ho visto il film, frequento la Brianza che rispetto molto per la sua operosità pur senza essere particolarmente
affascinata dal suo paesaggio, e posso dire che non ho sentito alcuna offesa diretta al popolo brianzolo
guardando Il capitale umano. Il film potrebbe essere ambientato anche in qualche altro angolo d'Italia, certo
meglio sotto un cielo più spesso livido settentrionale che non in uno scorcio meridionale. Il capitale umano parla
di competizione e ricchezza, del ruolo marginale della cultura, parla di una faccia dell'Italia contemporanea. Parla
dell'Italia, appunto, non solo della Brianza. Parla della società contemporanea in genere (e infatti nasce da una
storia americana). È un buon film, ed è questo quello che conta. (...)