Multipolarismo e policentrismo, scontro di vilt

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Multipolarismo e policentrismo, scontro di vilt
Multipolarismo e policentrismo, scontro di civiltà, bipolarismo: chi avrà ragione?
di Eugenio Orso
A partire dagli anni novanta dello scorso secolo, in conseguenza del grande cambiamento
geopolitico e dei rapporti di forza planetari che la fine dell’Unione Sovietica e della
conseguente contrapposizione dei due più potenti blocchi nel mondo ha prodotto – anche
sotto il profilo economico e sociale – mettendo in movimento nuove forze e in qualche caso
autentici demoni “in sonno” nella fase bipolare, sono nate speranze, che oggi sappiamo
essere del tutto infondate, di generale miglioramento della situazione internazionale e dei
rapporti fra popoli e nazioni, con una progressiva riduzione della conflittualità a livello
internazionale ed un progressivo miglioramento delle condizioni di vita, e
contemporaneamente si è affermato il sogno, che in breve si è rivelato nefasto, di un pianeta
dominato da un’unica superpotenza, la quale avrebbe esportato i suoi modelli in ogni dove,
a partire dal liberismo economico refrattario a qualsiasi regola e pubblico controllo fino alla
fiducia irrazionale in uno sviluppo materiale illimitato, dalla democrazia di matrice liberale
fino alla poltica-spettacolo svuotata di contenuti che si fa in televisione, in altri termini
l’esportazione indiscriminata – con una sola espressione che ci rende pienamente la sintesi
di questi modelli – dell’american way of life.
Molti analisti hanno ben sottolineato il fatto che la fine del mondo bipolare ha avuto come
principale effetto quello di liberare, nella realtà, gli “spiriti animali del capitalismo” con una
profonda ristrutturazione degli apparati produttivi – iniziando da quegli Stati Uniti
d’America, vincitori indiscussi in apparenza della contesa ultra decennale, nei quali questi
spiriti hanno trovato, durante il corso di tutto il ventesimo secolo, un’ideale dimora – ed ha
alimentato le fiducie in un mondo completamente omologato, da un punto di vista dello stile
di vita e della gestione politica, nonché completamente dominato dai meccanismi del
mercato regolatore di sé stesso e di ogni aspetto della vita umana, con illimitate possibilità
di espansione per il capitale produttivo e di circolazione e d’accrescimento dei capitali
finanziari.
Tutto ciò avrebbe dovuto portare ad un miglioramento, progressivo e in tempi rapidi, delle
condizioni di vita delle popolazioni, anche di quelle fino a quel momento escluse dai
benefici materiali del capitalismo liberista, oltre che all’aumento dell’efficienza nelle
produzioni di beni e di servizi, alla riduzione dei costi, assicurando sostegno illimitato al
tasso di profitto e a quello di sviluppo economico – misurato dalla crescita del PIL, quale
autentico feticcio dell’epoca –, alla diffusione delle nuove tecnologie e ad una riduzione
della conflittualità fra gli stati e fra i gruppi sociali, etnici, religiosi soggetti ad un rapido
processo di omologazione all’interno degli stati stessi.
A qualcuno è addirittura sembrato di scorgere, dietro l’angolo, la definitiva fine della storia
che tanti lutti e tribolazioni ci ha riservato – e continuerà a riservarci purtroppo –, la
comparsa di un ultimo uomo, diffuso su tutto il globo terracqueo e molto prossimo al
fantomatico “individuo” partorito dal pensiero liberale, come nel caso di Francis Fukuyama,
autore pentito di The End of History and the last man.
L’affermazione della “società aperta” popperiana è senz’altro un utile compendio, che si
situa in questo solco, ed è funzionale alla rottura dei vecchi equilibri per accogliere l’utopia
di quello che doveva essere il mondo nuovo del ventunesimo secolo.
Anche il celeberrimo progetto per un nuovo secolo americano – con l’inquietante piano
Rebuilding America’s Defenses: Strategy, Forces and Resources for a New Century dei
neoconservatori che ha informato, nelle sue “linee guida” e particolarmente dopo il fatidico
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11 settembre del 2001, l’azione internazionale della recente, disastrosa amministrazione
federale Bush, saldandosi agli interessi dei giganti statunitensi del petrolio e dell’apparato
militare e industriale nord americano – ha un certo peso nello sconquasso che all’inizio del
terzo millennio tutti noi stiamo vivendo, popolo americano compreso.
Società aperta fondata sulla democrazia liberale del principio di maggioranza e della
rappresentatività – con conseguente negazione delle tradizioni, delle culture particolari,
degli aspetti non razionali, teologici e sovramondani dell’esistenza, e priva di una vera idea
unificatrice –, diffusione forzata della democrazia, anche laddove sopravvivono aspetti
culturali e religiosi fortemente contrari alla sua affermazione, omologazione degli stili di
vita, diffusione dell’ideologia neoliberista per il dominio del libero mercato e, come
conseguenza concreta, di interessi privati transnazionali, presenza invasiva di una super
potenza superstite che funge da garante del nuovo ordine ed anche da gendarme, sono
alcune delle caratteristiche salienti di un mondo che sembrò delinearsi come definitivo
traguardo per l’umanità poco dopo la fine del bipolarismo USA-URSS, ma che nel
momento attuale e già verso la conclusione del primo decennio del ventunesimo secolo, le
incontrollabili correnti della storia e le pesanti crisi planetarie contemporaneamente
scatenatesi – finanziaria, energetica, alimentare ed ecologica – stanno mettendo rapidamente
e profondamente in discussione.
Mentre le crisi avanzano e si approfondiscono, rischiando di travolgere o quantomeno di
danneggiare seriamente anche i nuovi attori che di recente si sono affacciati sulla scena
internazionale, finalmente comprendiamo che gli Stati Uniti d’America – vero epicentro di
una di queste crisi, quella finanziaria, ma corresponsabili anche delle altre – abbiano potuto
godere appieno dello status di unica super potenza soltanto per un brevissimo periodo, che
rappresenta poco più di un istante della pluri-millenaria storia umana e una sorta di
“interregno” fra la fine della divisione del mondo in due blocchi, nel conflitto intercapitalista che li vedeva ideologicamente contrapposti, e il sorgere nel prossimo futuro di un
ordine nuovo, con rinnovate relazioni internazionali e diversi rapporti di forza fra l’oriente e
l’occidente del mondo, oppure, quale minacciosa alternativa, il progressivo e rapido
scivolamento in una sorta di caos in cui i conflitti regionali – complici le crisi in atto, il
degrado economico e dopo quella per l’energia la prevista competizione per la disponibilità
dell’acqua potabile sempre più scarsa – si moltiplicheranno inesorabilmente, delineando uno
scenario pre-politico del “tutti contro tutti” di hobbesiana memoria.
Per sperare di poter mantenere, almeno in parte, una posizione preminente nel mondo –
anche se non di unica super potenza, dato il probabile effetto debilitante sul piano
economico e quindi su quello militare che avranno i recenti rovesci finanziari e la
ricomparsa della minaccia russa, rinata con Putin e grazie alle disponibilità energetiche oggi
proiettata ben al di là della dimensione regionale caucasica – gli U.S.A. dovranno
preoccuparsi di rinsaldare sempre di più i legami con i paesi membri della N.A.T.O. ed in
particolare con quelli che fanno parte dell’Unione Europea, ben consapevoli che questa
ultima non potrà più essere ridotta al rango di semplice utensile – o ancor meglio, di
“magnete inanimato” fascinoso per le sue attrattive, saldamente nelle mani della lonely
superpower – e che la prosecuzione della partnership fra le due sponde dell’Atlantico sarà
fondamentale per la stessa “tenuta” della potenza americana.
Ci sarà purtroppo la necessità, per far fronte a conflitti ormai inestinguibili in alcune parti
del mondo particolarmente “sensibili”, scatenati dall’improvvida amministrazione Bush e
per ora limitati all’Afghanistan e all’Iraq, di coinvolgere sempre di più gli alleati nel
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logorante e infruttuoso sforzo bellico e, quindi, di una migliore “concertazione” con loro su
un piano, se non di parità, almeno di maggior equilibrio.
Ciò comporterà un cambiamento notevole, fin nei fondamenti della politica estera
dell’amministrazione federale, e ci dovrà essere l’abbandono completo delle fallimentari e
ambiziose teorizzazioni del P.N.A.C., il quale, nella persona dell’influente Robert Kagan
autore del noto e discusso Paradise and Power. America and Europe in the New World
Order, concepisce americani ed europei come abitanti di diversi pianeti: Venere per i molli
europei, tutti dediti alla ricerca della vita comoda e del piacere, proiettati in un paradiso
post-storico di pace e relativo benessere, nell’ottica kantiana della “pace perpetua”, Marte
per gli americani, investiti del compito, della storica missione di esercitare il potere in un
mondo insidioso, onde assicurare la difesa e l’affermazione, a spada tratta, dell’ordine
liberale … e garantire, anche con l’uso delle armi, la prosecuzione dei processi di
mondializzazione economica, possiamo ben aggiungere.
Naturalmente le proporzioni del dissesto finanziario in atto, che nei prossimi mesi potranno
ingigantirsi contagiando la sfera dell’economia reale, imporranno agli Stati Uniti d’America
quanto meno un ridimensionamento degli ambiziosi obbiettivi strategici partoriti dal
pensiero neocon, limitando drasticamente le risorse a disposizione per le proiezioni di
potenza imperiale e per l’ulteriore ampliamento e ammodernamento dell’apparato militarindustriale che le supporta.
C’è da augurarsi fin d’ora che le nuove amministrazioni americane si ispirino, nelle linee
guida della politica internazionale, quanto meno all’oraziana aurea mediocritas, rifiutando
gli eccessi che hanno caratterizzato la politica estera degli U.S.A. negli ultimi anni e
cercando il giusto mezzo fra la tentazione unipolare, che tanti lutti ha già cagionato in molti
angoli della terra, ed un possibile insorgere e affermarsi nel tempo della tendenza contraria,
quella isolazionista, che renderebbe troppo sbilanciato il confronto fra Occidente e Oriente a
favore di questo ultimo, con il rischio, per la vecchia Europa, di finire letteralmente
schiacciata sotto il tallone russo-asiatico.
Non è un azzardo affermare che il mondo intero, oggi, si trova ad un bivio ed ha davanti a
sé due strade:
1) Una che sfocerà nel caos, con la progressiva frantumazione di alleanze, federazioni,
confederazioni e delle stesse entità statuali, nonché lo scoppio di un’infinità di
conflitti per il controllo delle risorse sempre più scarse, riportando gli orologi della
storia a ben prima dei trattati di Westafalia in quanto a relazioni internazionali [non
certo a causa di quella sfuggente rete terroristica, di matrice islamica, specializzata
nelle tecniche di guerra asimmetrica, contro la quale l’America neocon ha promosso
l’infinita Guerra al Terrore] e degradando in modo inesorabile i sistemi economici e
sociali esistenti, già compromessi dalla globalizzazione e dal recente crollo della
dimensione finanziaria, nonché pregiudicando le fondamenta stesse della civiltà.
2) L’altra che vedrà stabilmente il sorgere di un contraltare alla potenza statunitense,
non più la sola – anche se sola non lo è mai stata veramente, al più per un pugno
d’anni … – e non più in grado di imporre la propria “visione del mondo” e il proprio
stile di vita a chiunque, la conseguente fine dello sciagurato sogno unipolare i cui
effetti si stanno ritorcendo contro il sognatore, il tentativo di tornare a società più
chiuse e legate alla tradizione, la ricomparsa di più solide economie nazionali dopo
l’ubriacatura finanziaria, nonché un inevitabile arresto, quantomeno temporaneo, dei
processi di mondializzazione economica.
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Se la storia umana imboccherà questa seconda strada, com’è auspicabile data l’alternativa,
potremo finalmente verificare quale fra le teorie che in questi ultimi anni hanno cercato di
spiegare una realtà in rapido mutamento e la direzione seguita dal mutamento avrà avuto
ragione.
Si va, tanto per ricordarne qualcuna, da quella che forse è la più celebre e che è stata definita
dai detrattori, in modo fin troppo sbrigativo, una “rozza teoria geopolitica”, cioè lo scontro
delle civiltà del professor Samuel P. Huntington autore di The Clash of Civilization and the
Remaking of World Order, alle attese di affermazione definitiva di un mondo multipolare
che riesca a garantire la convivenza fra potenze diverse e riesca a stare in equilibrio – con
una centralità riconosciuta agli ampi spazi dell’Eurasia e in accordo con il pensiero del
teorico neo-tradizionalista russo Aleksandr Dughin – migliorando auspicabilmente le
condizioni di vita dei popoli e preservandone la specificità da Pietroburgo fino alla
Manciuria, espresse con convinzione, in Italia, dal piccolo gruppo di pensatori del
Coordinamento del Progetto Eurasia, fra i quali il professor Claudio Mutti, fino alla teoria
che possiamo definire a pieno titolo post-marxista elaborata dal professor Gianfranco La
Grassa con l’apporto dei pensatori del gruppo Ripensare Marx, la quale ha il pregio di
riportarci alla realtà, nella fase storica che stiamo vivendo, analizzando il conflitto
all’interno del capitale fra i gruppi dominanti al fine di affermare la loro supremazia in
formazioni sociali particolari, con una visione decisamente policentrica-multipolare del
destino futuro del mondo e il conseguente riconoscimento che quello che chiamiamo
comunemente “capitalismo” non è unico, ma rappresenta più modi di produzione in
formazioni sociali diverse, le quali sono spesso in competizione fra loro.
Tutte queste teorizzazioni – per quanto profondamente diverse le une dalle altre, com’è
diversa l’origine di coloro che le hanno formulate – hanno almeno un importante elemento
in comune che ne costituisce, con tutta probabilità, il pregio principale e un indubbio punto
di forza: il definitivo superamento di quelli che possiamo definire in parte l’illusione e in
parte l’azzardo unipolare, mettendo così in discussione la concreta possibilità
dell’affermarsi di un mondo “normalizzato” a guida americana in cui le tutte le barriere e i
confini sono destinati a cadere per effetto della mondializzazione, e la riproposizione, per
contro, dei cambiamenti, ma anche delle asprezze, delle contrapposizioni e delle insidie
imposte da una storia che non ha alcuna intenzione di finire.
I difetti più evidenti, i principali punti deboli comuni a queste teorizzazioni che rischiano di
invalidarle, sono essenzialmente due.
Il primo consiste nel sottostimare gli effetti della globalizzazione, che pur sono tangibili e
stanno trasfigurando il mondo, non considerando che l’avvenuta affermazione di una classe
dominante globale, apolide e transnazionale, che non si sente legata a civiltà o a formazioni
politiche e sociali particolari – come, del resto, in prospettiva futura al dollaro e alla potenza
americana –, che costituisce il culmine dell’individualismo post-moderno, che ha potuto
disporre e dispone di ingenti risorse finanziarie, che ha ai suoi piedi la tecnologia più
avanzata e che può esercitare in molta parte del mondo, pur in modo indiretto, il suo spietato
dominio, sposta significativamente i termini della questione e richiede un’ulteriore modifica
dell’angolo visuale.
La questione è molto complessa, se si pensa che gli interessi di vecchi settori dell’alta
borghesia occidentale – e non soltanto occidentale – spesso configgono con quelli della
nuova classe, determinando uno scontro, e ciò avviene presumibilmente anche all’interno
dei principali circoli di riferimento del potere economico e finanziario che conta, quale, ad
esempio, il Bilderberg club.
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Seppure l’influenza della così detta global class finirà per essere confinata nella porzione
occidentale del mondo, in seguito alla débâcle finanziaria in corso e alla ripresa di potenza
della Russia, non potrà non avere rilevanza e una certa influenza nei rapporti fra stati,
blocchi e particolari formazioni politico-sociali.
Questa nuova aristocrazia, il cui potere è basato non soltanto su denaro e finanza, ma anche
sulla tecnoscienza, sul controllo dell’informazione e delle produzioni culturali, su rapporti
di dipendenza dei poteri politici nazionali – tali da renderli sub-dominanti, secondo il
linguaggio lagrassiano – e può estendersi e consolidarsi grazie al procedere della
mondializzazione, non vedrà di buon occhio la probabile “marcia indietro” verso le
economie e gli stati nazionali, con la ripresa dell’intervento pubblico – il quale diventa oggi
una mera necessità, per evitare che la crisi finanziaria intacchi la sfera dell’economia reale e
la danneggi irreparabilmente – ma potrà temporaneamente adattarvisi nell'attesa di tempi
migliori, “cavalcando la tigre” del momento, non essendo certo disposta ad abdicare e a
perdere il controllo sulle risorse già acquisito.
Il secondo difetto, in questo contesto di maggior rilievo, consiste nell’immaginare una
pluralità di attori che intervengono nel gran gioco delle relazioni internazionali e sullo
scenario mondiale, come se potessero godere di pari dignità e di analoghe possibilità di
affermazione.
A titolo d’esempio, Huntington ci propone ben nove civiltà, dalla Occidentale all’Africana,
passando per la Sinica e l’Ortodossa, in cui gli elementi unificatori sono diversi, con
particolare attenzione per gli aspetti religiosi e ideologici, in cui gli equilibri sono incerti e
complessi e non sempre vi è un paese-leader ben definito e riconosciuto in grado di
dirimere le controversie interne e con l’esterno dei singoli membri, come nel caso della
civiltà Islamica, lasciando però presumere scenari futuri che potrebbero portare ad
aggregazioni stabili di civiltà in autentici blocchi, sulla base di comuni interessi.
Dobbiamo a questo punto ricordare che per molta parte della storia umana – fin dagli antichi
imperi d’Egitto e d’oriente – c’è sempre stata, in realtà, la contrapposizione culturale,
militare ed economica, fra due soli grandi contendenti: impero egizio versus impero ittita,
civiltà greca delle polis versus impero persiano, impero romano versus impero persiano e,
facendo un salto di secoli, impero spagnolo versus nascente potenza coloniale inglese,
impero inglese [nel XVIII e nel XIX secolo] versus impero e potenza coloniale francese,
fino ad arrivare, dopo le turbolenze che hanno caratterizzato la prima metà del XX secolo
con le due devastanti guerre mondiali, alla contrapposizione USA–URSS della seconda
metà del secolo scorso.
Nel periodo della così detta guerra fredda c’è stato il tentativo di rompere il ferreo
bipolarismo da parte dei “paesi non allineati”, che aspiravano a rappresentare un terzo polo
di aggregazione, ma tale tentativo non ha portato a vistosi e decisivi successi e men che
meno alla rottura del quadro bipolare in atto, mentre la Cina – per la situazione economica
di allora, per i problemi interni di rapporto non proprio positivo fra popolazione e risorse,
nonché per il vistoso ritardo tecnologico nei confronti dei due grandi contendenti – non
potuto rappresentare, in quei decenni, un vero e proprio blocco alternativo, con pari dignità
rispetto ad americani e sovietici.
Anche durante il breve “interregno” in cui stiamo vivendo e che sta giungendo rapidamente
alla fine, in occasione della seconda guerra americana in Iraq è sembrato emergere un nuovo
polo di aggregazione, alternativo agli USA anzitutto nel campo della politica estera, ma si è
trattato soltanto di un’effimera “fronda” sviluppatasi all’interno del campo occidentale e
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guidata dalla Francia di Chirac e de Villepen, autoproclamatisi per l’occasione difensori
degli arabi, ai quali si sono accodati la Germania, il Belgio e persino la Federazione Russa.
A sostegno della tesi dell’inevitabilità dell’affermarsi di un compiuto multilateralismo,
quale futuro ordine mondiale, si fa spesso notare come la delocalizzazione dell’industria, i
trasferimenti di know-how, la libertà di circolazione del capitale finanziario, l’apertura e la
liberalizzazione dei mercati, gli accordi all’uopo stipulati per il commercio internazionale
hanno fatto emergere sulla scena internazionale una pluralità di nuovi attori, un tempo di
secondaria o marginale importanza ma che oggi sottraggono quote rilevanti di mercato ai
paesi di più antica industrializzazione, con tassi di crescita annuali del prodotto elevati, o
addirittura a due cifre, quali la Cina, l’India, il Brasile, la Federazione Russa.
Questi soggetti, per il potere economico che stanno acquisendo e per l’accumulazione di
capitali che ormai li caratterizza, rappresenteranno sempre di più nuove potenze in grado di
competere con il gigante americano.
Molte recenti analisi confermano questa tendenza anche per i prossimi decenni, prevedendo
il deciso superamento degli Stati Uniti d’America da parte della Cina, in termini di P.I.L. ed
entro il 2050, nonché la decisa avanzata, ai primi posti della “top ten” planetaria, di paesi
come l’India, il secondo colosso demografico del mondo.
Pur condividendo in parte quanto precede – se il trend economico in atto non subirà qualche
brusca interruzione, con un lungo periodo d’inversione di tendenza – non possiamo non
notare che soltanto la Russia di Putin, di Gazprom, di Lukoil, delle contromisure allo scudo
spaziale statunitense e dell’armata federale, possiede i requisiti e le potenzialità per imporsi
come competitore credibile e insidioso, a tutto campo, della potenza americana, e questo al
di là del recente intervento militare nella Georgia filo-occidentale.
In primo luogo, la Federazione Russa dispone di ampie riserve energetiche che sono alla
base della sua ripresa di potenza, dopo il fosco periodo eltsiniano, e che il potere attuale
utilizza e utilizzerà sempre di più, in futuro, come armi di pressione o di vero e proprio
ricatto nei confronti dei paesi importatori e dell’Europa, per volgere l’esito dello scontro con
gli americani a suo favore, mentre la Cina è da tempo passata dallo status di produttore
d’energia a quello d’importatore, come imposto dal suo vertiginoso sviluppo, e la sua
“fame” di energia potrà rappresentare una debolezza nella misura in cui la renderà
dipendente da certi esporatori.
Se la vecchia Unione Sovietica era caratterizzata dalla ormai mitica “industria pesante”,
quale concreta base del paradigma imperiale, la nuova Russia di Putin, che pur dispone
dell’acciaio di Severstal, punta sull’industria energetica e, oltre al petrolio con il quale fa
concorrenza ai sauditi, sulla “industria del gas” in quanto primo produttore di gas naturale
del mondo, aprendo e talvolta minacciando di chiudere i rubinetti al resto d’Europa.
In secondo luogo, le capacità militari russe in termini convenzionali sembrano essere in
netta ripresa, con la produzione di nuovi sistemi d’arma e grazie al significativo incremento
delle disponibilità di bilancio per la difesa, e l’armamento non convenzionale di cui la
Federazione dispone, a partire dal nucleare, è secondo solo a quello degli USA – il che
consente ai russi di supportare i piani nucleari iraniani e di inviare bombardieri strategici nel
Venezuela di Chavez, in funzione anti-americana – mentre non altrettanto si può dire degli
altri emergenti, Cina e India in testa, benché in possesso di aliquote di armi nucleari, dotati
di loro produzioni e attivi da tempo sul terreno dell’ammodernamento degli arsenali
convenzionali di cui dispongono.
Se fosse proseguito ancora per qualche anno il degrado dell’apparato militare russo e la
mortificazione, anche sul piano economico, dei quadri dell’armata, iniziati con l’avvento di
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Eltsin, la decadenza di tale apparato si sarebbe rivelata irreversibile – come hanno
ammonito fin dalla prima metà degli anni novanta gli esperti di cose militari – ma con tutta
evidenza Putin e il suo nuovo gruppo di potere hanno saputo invertire la rotta in tempo.
Si profila, oggi, lo scontro fra gli Stati Uniti d’America, sempre più colpiti da serie crisi che
minacciano di intaccare i fondamenti della loro economia e della loro influenza di stampo
imperiale, e la rinata potenza russa, che fin d’ora è troppo limitativo definire regionale.
Anche l’escamotage del multipolarismo o policentrismo asimmetrico, che postula pur
sempre una pluralità di attori indipendenti e in competizione fra loro, fra i quali ne spiccano
però soltanto uno o due, non spiega in modo adeguato la nuova situazione che oggi si sta già
delineando e che si svilupperà pienamente nel prossimo decennio, impatto delle crisi
planetarie permettendo.
Si tratta sostanzialmente di due blocchi, come hai tempi del confronto USA-URSS, con gli
Stati Uniti d’America che possono ancora contare al momento attuale, attraverso
l’organizzazione nord atlantica, sull’apporto di ausiliari e socii europei, nonché
dell’appendice israeliana che hanno mantenuto in vita come “testa di ponte” in Medio
Oriente e su qualche altro alleato importante, quale il Giappone o la Corea del Sud, mentre
la Russia, più che sulla Confederazione degli Stati Indipendenti – una sorta di
Commonwealth di fine impero a “maglie” decisamente larghe, nato subito dopo la
scomparsa dell’URSS –, conta e conterà forse di più in futuro su nuove alleanze e intese
come quelle stabilite attraverso l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che
legano a lei la Cina e repubbliche asiatiche della vecchia Unione Sovietica oggi
formalmente indipendenti, nonché su alleanze e trattati con singoli paesi da consolidare in
più punti del globo, dal Medio Oriente all'America latina.
Per tale via la Russia sembra dare una risposta, in primo luogo, all’esigenza impellente di
rompere l’accerchiamento americano e di non subire essa stessa una deriva e un processo di
frantumazione simile a quello jugoslavo, creando così imbarazzi a Washington e ponendo
una seria ipoteca sulla possibilità di estendere all’infinito il suo spazio imperiale, ma nel
contempo tesse quella tela di relazioni planetarie che indubbiamente caratterizza una grande
potenza e che sembra essere condizione sine qua non per la sua definitiva affermazione.
Quello della rediviva potenza russa si delinea fin d’ora come un quadro di alleanze – o
meglio di vere e proprie dipendenze dalla Russia, spesso e in primo luogo da un punto di
vista militare – molto eterogeneo, che va dal Venezuela socialisticheggiante di Chavez
all'Iran teocratico e alla Siria della "dinastia" alauita degli Hassad.
Le aree di influenza saranno, date le premesse che possiamo già scorgere, più instabili e
meno definite di quanto accadde durante i decenni di confronto USA-URSS, con un
maggior rischio di conflitti diretti conseguenza prima di tale instabilità, e non avrà in tale
contesto una rilevanza preminente la matrice ideologica.
Vi sarà anche una significativa probabilità che alcuni paesi, in particolare europei,
passeranno repentinamente da un campo, ad esempio da quello statunitense – la potenza che
oggi appare declinate e che potrebbe assumere il ruolo, in un più lungo periodo, della parte
perdente – a quello russo, in forza di paura o per impellenti necessità legate
all'approvvigionamento energetico.
Non resterà molto spazio, se tale confronto si approfondirà e si estenderà ben oltre la
regione caucasica – come sembra molto probabile – per la formazione di altri blocchi in
grado di uguagliare anzitutto sul piano della potenza militare i due contendenti, con al
seguito i loro alleati nelle rispettive aree di influenza, e se ciò non accadrà e la
contrapposizione che dividerà nuovamente il pianeta sarà fra gli Stati Uniti d’America e la
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rinata potenza russa, non si potrà correttamente parlare della nascita di un mondo
multipolare o policentrico.
A meno dell’inizio di una lunga stagione di caos geopolitico dovuto all’aggravarsi oltre
misura della crisi finanziaria, fino alla metastasi, con effetti devastanti sull’economia reale,
sugli assetti sociali e il conseguente insorgere di gravissime emergenze planetarie, alta è
dunque la probabilità che la contesa sarà fra una potenza sempre più malconcia e ormai
fondata su un crescente debito pubblico, esito maligno del default finanziario in atto e
un’altra, potremmo dire risorgente, che dispone di uno spazio bi-continentale ereditato
dall’antecessore sovietico ma soprattutto di gas naturale e petrolio, i quali ultimi
costituiscono buona parte delle sue entrate e i due terzi delle sue esportazioni, nonché la
vera origine delle sue fortune.
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