elias cannetti. il gioco degli occhi storia di una vita (1931
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elias cannetti. il gioco degli occhi storia di una vita (1931
elias cannetti. il gioco degli occhi storia di una vita (1931-1937) titolo originale: das augenspiel lebensgeschichte 1931-1937 traduzione di gilberto forti biblioteca adelphi :::::::::::::::::::: copyright 1985 carl hanser verlag münchenwien copyright 1985 adelphi edizioni s" p'à milano adelphi edizioni All'inizio di questo libro, il terzo della sua autobiografia, Canetti ci appare circondato dai relitti fumanti del rogo in cui sono stati distrutti i libri di Kien, il protagonista di Auto da fé. Attorno a sé, vede il deserto e un'incombente rovina. Poi, a poco a poco, la scena ricomincia a popolarsi, e le figure che vi si mostrano sono memorabili. Innanzitutto Hermann Broch, che ci viene incontro come "un uccello, grande e bellissimo, ma con le ali mozze". Poi Hermann Scherchen, l'infaticabile direttore d'orchestra "sempre alla ricerca del nuovo". Poi Anna Mahler, figlia del compositore, con la quale Canetti intreccia un complesso rapporto amoroso. Poi lo scultore Fritz Wotruba, irruento e selvaggio, come "una pantera nera che si nutrisse di pietra". Infine Musil, "sempre in armi, pronto alla difesa e all'attacco", nel suo totale isolamento; e Alban Berg, che si espone al mondo nella sua totale gentilezza d'animo, mentre un lieve cenno di ironia gli sfiora la bocca. E, ogni volta, in questi ritratti in movimento, avvertiamo lo straordinario dono fisiognomico di Canetti. Un gesto, un modo di respirare, un accento, una reticenza, tutto diventa cifra di una figura, emblema di un qualcosa di unico, che però svela un tratto della natura di cui siamo fatti. Dietro a quel dono riconosciamo una fonte inesauribile dello scrittore Canetti: la sua "passione per le persone". A mano a mano che si delineano i profili delle figure, risalta anche, come una presenza palpabile, lo sfondo: Vienna. Di questa città, vista nei suoi ultimi anni di grandezza, nessuno ha saputo tracciare un ritratto altrettanto preciso e affascinante. Come la Vienna dell'Uomo senza qualità, sull'orlo della prima guerra mondiale, questa di Canetti, negli anni che precedono l'annessione nazista, è un sistema di orbite planetarie, dove conducono esistenze parallele alcune forme pure ed estreme del vero e del falso. Per Canetti, il vero erano sei o sette persone che "seguivano una propria strada e non se ne lasciavano distogliere da nessuno". Il falso era un fitto "gracidio di rane", che proveniva da un mondo culturale pieno di vanità e di sapienza mondana, prodigiosamente abile nel giocare le sue carte e insieme inconsistente nel suo ultimo fondo. In questi anni, Canetti attraversa tutte queste orbite incompatibili e qui le descrive con la trascinante immediatezza del romanziere. Ma il vero centro di questo sistema, il suo Sole, è una singola persona, il dottor Sonne, che vuole dire appunto "sole". Osservato per lungo tempo ai tavoli del Café Museum, poi conosciuto e ammirato, quest'uomo che "parlava come Musil scriveva" diventa a poco a poco il centro di gravità nella vita di Canetti, un'ombra benefica, un "invisibile" Sarastro. A differenza dei tanti che si gonfiano e che si agitano, Sonne non ha, apparentemente, un'opera a cui dedicarsi e non si lascia prendere dall'eccitazione. Parla di tutto fuorché di sé, e ogni volta la sua parola illumina quella singola cosa che cade sotto il suo sguardo. In una città sonnambolica e straparlante, è colui che veglia, come la luce discreta e solitaria dietro una finestra, di notte. Col personaggio di Sonne, Canetti ha svelato uno dei suoi segreti e costruito una grande figura romanzesca. Ma non soltanto questo: ha trovato l'occulto punto di equilibrio da cui osservare i rotanti astri viennesi, che solo da quel punto diventano pienamente percepibili. Elias Canetti, premio Nobel 1981 per la letteratura, è nato nel 1905 a Rustschuk (Bulgaria) da una famiglia ebraica di origine spagnola, ed è vissuto lungamente a Vienna e poi a Londra e Zurigo. Presso Adelphi sono in corso di pubblicazione le sue opere complete. a hera canetti Parte prima - Nozze Büchner nel deserto "Kant prende fuoco" (1) - questo era allora il titolo del romanzo - aveva fatto il deserto dentro di me. L'incendio che aveva distrutto i libri era qualcosa che non potevo perdonarmi. Non credo che fosse rimasto in me qualche rammarico per la sorte di Kant (colui che poi sarebbe diventato Kien). Durante tutta la stesura del libro Kant era stato talmente bistrattato e io mi ero talmente tormentato per reprimere ogni compassione verso di lui, per non lasciare in me neppure la minima traccia di compassione, che dal punto di vista dell'autore il mettere fine alla sua esistenza era piuttosto una liberazione. Ma per questa liberazione erano stati coinvolti i libri, e il fatto che essi fossero finiti in fiamme lo sentivo come se fosse accaduto a me stesso. Mi sembrava di aver sacrificato non soltanto i miei libri personali, ma quelli del mondo intero, perché la biblioteca del sinologo conteneva tutto ciò che aveva qualche valore per il mondo, i libri di tutte le religioni, quelli di tutti i pensatori, quelli delle letterature orientali, quelli delle letterature occidentali, solo che avessero conservato anche un minimo di vita. Il fuoco aveva distrutto tutto questo, io lo avevo permesso senza fare neppure un tentativo di salvare qualcosa, e adesso rimaneva un deserto, non c'era nient'altro che il deserto, e io ne portavo la colpa. Perché ciò che avviene in un libro simile non è mero gioco, è una realtà di cui si deve rispondere, e non tanto di fronte alle critiche esterne quanto davanti a se stessi; e se anche si può essere costretti a scrivere cose simili dall'angoscia più grande, resta pur sempre da riflettere, da domandarsi se con esse non si affretta proprio ciò che si paventa così intensamente. Il senso della rovina era ormai annidato in me, e non potevo liberarmene. Aveva cominciato a imprimersi sette anni prima, attraverso Gli ultimi giorni dell'umanità, ma ora aveva assunto una forma molto personale che scaturiva dalle costanti della mia vita: dal fuoco, di cui il 15 luglio 1927 avevo scoperto la relazione con la massa assistendo all'incendio del Palazzo di Giustizia di Vienna; e dai libri, che costituivano la mia frequentazione quotidiana. Sebbene il protagonista del romanzo fosse diverso da me per molti aspetti, ciò che io gli avevo prestato era così essenziale che non potevo riprendermelo intatto, impunemente, dopo che lui aveva raggiunto il suo scopo. Il deserto che mi ero creato con le mie mani cominciò a ricoprire ogni cosa. La minaccia che incombeva sul mondo in cui si viveva non mi era mai sembrata così pesante come allora, dopo la rovina di Kien. L'inquietudine in cui ricaddi somigliava a quella dei giorni in cui avevo abbozzato il progetto della "Comédie humaine dei folli", con la differenza che nel frattempo era accaduto qualcosa di decisivo e io mi sentivo colpevole. Era un'inquietudine che non ignorava la propria causa. Di notte, ma anche di giorno, percorrevo a passi veloci le stesse strade. Neanche lontanamente potevo più pensare di dedicarmi a un altro romanzo o a un libro della serie che una volta avevo progettato: il progetto gigantesco era rimasto soffocato nel fumo del rogo dei libri, senza rimpianto, e al suo posto, dovunque mi trovassi, non riuscivo ormai a vedere più nulla che non fosse minacciato da una catastrofe che poteva sopravvenire da un momento all'altro. Ogni conversazione di cui, passando, coglievo al volo qualche frammento mi sembrava l'ultima. Sotto l'imperio di una forza terribile, ineluttabile, accadeva ciò che doveva accadere negli ultimi momenti. Ma ciò che accadeva alle vittime future si ricollegava nel modo più stretto al loro stesso comportamento. Erano state loro a mettersi nella situazione dalla quale non c'era scampo. Si erano sforzate in ogni e più bizzarra maniera di essere tali da meritare la propria fine. Ogni volta che ascoltavo una conversazione, i due interlocutori mi apparivano tanto colpevoli quanto lo ero io stesso da quando avevo attizzato quel fuoco. Ma mentre questa colpa compenetrava ogni cosa come un etere tutto speciale, senza risparmiare nulla, per il resto gli uomini rimanevano esattamente quelli che erano. Conservavano il loro accento e il loro aspetto, le situazioni in cui si trovavano erano inconfondibilmente le loro proprie, non dipendevano da colui che le osservava e le registrava. Questi si limitava a dare ad esse una direzione e a caricarle della propria paura come di un carburante. Ognuna delle scene a cui assisteva col fiato sospeso e che registrava con la passione dell'osservatore, in cui l'osservare è diventato l'unico dei sensi, si concludeva con la rovina. Egli le annotava precipitosamente e in caratteri giganteschi, come graffiti sui muri di una nuova Pompei. Era come la preparazione a un terremoto o a un'eruzione vulcanica: qualcuno si rende conto che sta per arrivare, molto presto, inevitabile, e annota ciò che è accaduto prima, ciò che gli uomini hanno fatto prima, divisi dal loro operare e dalle circostanze, ignorando l'approssimarsi del loro destino, inalando col loro respiro quotidiano l'atmosfera dell'asfissia, e proprio per questo, prima ancora che tutto sia davvero cominciato, respirando in una maniera un poco più ostinata e febbrile. Io buttavo sulla carta una scena dopo l'altra, e ciascuna era autonoma, nessuna era legata all'altra, ma ciascuna aveva una conclusione violenta e solo da questa era legata all'altra; e se ora esamino ciò che di esse mi è rimasto nella memoria, mi sembrano come scaturite dai bombardamenti notturni della guerra mondiale che stava per venire. Una scena dopo l'altra, ed erano molte, scritte come di corsa, con una furia ossessiva, e ciascuna portava alla rovina, e subito dopo cominciava una scena nuova, con altre persone, e non aveva nulla in comune con la precedente se non la meritata rovina in cui sfociava. Era come un tribunale cui non si poteva sfuggire, che inglobava tutto; e la condanna più dura era inflitta a chi pretendeva di saperne più degli altri. Poiché colui che voleva evitarlo lo portava con sé. Era lui che capiva la mancanza d'amore di quelle persone. Egli le sfiorava passando, le vedeva e già le aveva lasciate indietro, udiva il suono delle loro voci, che non gli usciva più dall'orecchio, lo trasmetteva alle altre che erano altrettanto prive d'amore, e quando la testa minacciava di scoppiargli per l'accumularsi delle voci dell'egoismo, allora si sentiva costretto a mettere sulla carta le più incalzanti. In quelle settimane la cosa che mi tormentava di più era la mia stanza nella Hagenberggasse. Da oltre un anno convivevo con le riproduzioni della pala di Isenheim, che mi erano penetrate nel sangue con gli spietati particolari della crocifissione. Finché ero occupato a scrivere il romanzo mi sembrava che fossero al posto giusto, come un aculeo insistente mi pungolavano sempre nella stessa direzione. Erano ciò che io volevo sopportare, non mi ci assuefacevo, non le perdevo mai di vista, si trasformavano in qualcosa che apparentemente non aveva niente in comune con loro: chi potrebbe essere così temerario e così mentecatto da paragonare le sofferenze del sinologo con quelle del Cristo? Eppure si era stabilito come un legame tra le riproduzioni alle pareti e i capitoli del libro. Quelle immagini mi erano diventate così necessarie che non le avrei mai sostituite con nient'altro. Non valeva a dissuadermi neanche il raccapriccio delle poche persone che venivano a trovarmi. Ma quando le fiamme ebbero divorato la biblioteca e il sinologo, avvenne uno strano cambiamento, qualcosa che non mi ero aspettato. Grünewald ricuperò tutta intera la sua forza. Non appena smisi di lavorare al romanzo il pittore tornò ad essere lì soltanto per se stesso, e lui solo rimase operante nel deserto che io avevo creato. Quando rincasavo, la vista delle pareti della mia stanza mi riempiva di paura. Tutto ciò che di minaccioso io sentivo prendeva nuovo vigore in Grünewald. In quei giorni neanche la lettura poteva soccorrermi. Non solo avevo perduto il mio diritto ai libri perché li avevo sacrificati in nome di un romanzo, ma anche quando mi costringevo a superare questo senso di colpa e allungavo la mano per prenderne uno, come se ci fosse ancora, come se il fuoco non l'avesse bruciato e annientato, quando mi costringevo anche a leggerlo, subito ero preso dal disgusto, e il disgusto era tanto più forte per i libri che conoscevo meglio, per quelli che amavo da più tempo. Ricordo la sera in cui la nausea fu causata da Stendhal, che pure mi aveva stimolato al lavoro per un anno, ogni giorno. Lasciai cadere il libro in un impeto di collera, e non sul tavolo, ma sul pavimento, ed ero così disperato per la delusione provata che non lo raccattai neppure ma lo lasciai dov'era. Un altro giorno mi venne l'idea assurda di provare con Gogol", e questa volta perfino Il cappotto mi parve così insulso e arbitrario che mi domandai che cosa potevo aver trovato di tanto eccitante in quella storia. Nessuna delle cose care che mi avevano formato poteva aiutarmi. Forse con l'incendio dei libri avevo davvero distrutto tutto il passato. In apparenza i libri erano ancora lì, ma il loro contenuto era bruciato, in me non ne era rimasto più niente, e ogni tentativo di rianimare le ceneri provocava collera e resistenza. Dopo alcuni penosi tentativi, tutti falliti, non presi più in mano nulla. La libreria, con i volumi stessi che avevo letto infinite volte, rimase intatta. Era come se addirittura i libri non ci fossero più: io non li vedevo nemmeno, non li cercavo, e il deserto intorno a me era diventato totale. Poi, una notte, in una condizione di spirito che non poteva essere più sconsolata, trovai la salvezza in qualcosa di sconosciuto, qualcosa che era lì già da tempo ma non avevo mai toccato. Era un libro di Büchner, alto, stampato a grossi caratteri, rilegato in tela gialla, collocato nello scaffale in modo tale che non si poteva non vederlo, accanto a quattro volumi delle opere di Kleist, nella stessa edizione, di cui ogni singola lettera mi era familiare. Sembrerà incredibile, ma non avevo mai letto Büchner. Sapevo benissimo quanto fosse importante, e probabilmente sapevo anche che per me avrebbe avuto ancora molta importanza. Potevano essere passati due anni da quando avevo messo gli occhi su quel volume nella libreria Vienna della Bognergasse, l'avevo comprato, portato a casa e collocato accanto alle opere di Kleist. Tra le cose essenziali che si preparano dentro di noi vi sono gli incontri rinviati. Può trattarsi di luoghi e di uomini, di quadri come di libri. Vi sono città per le quali provo un'attrazione così forte come se fossi predestinato a trascorrervi una vita intera fin dall'inizio. Con mille astuzie evito di andarvi, e ogni volta che si presenta l'occasione di visitarle e vi rinuncio, sento aumentare a tal segno la loro importanza che si potrebbe quasi pensare che io sono ancora al mondo soltanto per quelle città e che sarei già scomparso da un pezzo se non ci fossero loro che continuano ad aspettarmi. Vi sono persone di cui mi piace sentir parlare, e allora ascolto quanto più è possibile e con tale avidità che si potrebbe quasi pensare che in fondo so di loro più di quanto ne sappiano esse stesse - ma evito di guardare una loro fotografia e mi sottraggo a ogni raffigurazione visiva, come se un divieto particolare e legittimo impedisse di conoscere la loro faccia. Vi sono anche persone che mi incontrano per anni sul medesimo percorso, che mi danno motivo di riflettere e mi appaiono come enigmi di cui sono chiamato a trovare la soluzione, e tuttavia io non rivolgo loro la parola, proseguo in silenzio per la mia strada, come esse fanno con me, e tutt'e due ci scambiamo sguardi interrogativi, tutt'e due teniamo le labbra ben chiuse: io penso a quello che sarà il nostro primo colloquio e mi eccito all'idea di tutte le cose inaspettate che scoprirò allora. E infine vi sono persone che amo da anni senza che esse possano averne il minimo sospetto, e intanto io divento sempre più vecchio, e ormai deve apparire come un'assurda illusione l'idea che io glielo dica mai, sebbene io viva sempre nell'attesa di questo momento stupendo. Senza questo minuzioso prepararmi al futuro non sarei capace di vivere, e per me, se mi studio attentamente, questi preparativi non sono meno importanti delle improvvise sorprese che arrivano come dal nulla e lasciano senza parola. Non vorrei nominare i libri ai quali continuo ancora oggi a prepararmi. La lista comprende alcune delle opere più celebri della letteratura mondiale, opere del cui valore non potrei dubitare perché hanno avuto in passato il consenso di tutti coloro le cui opinioni sono state per me determinanti. E" evidente che l'imbattersi in uno di tali libri dopo vent'anni di attesa diventa qualcosa di sconvolgente: forse solo così è possibile arrivare a quelle resurrezioni spirituali che ti preservano dalle conseguenze della routine e della decadenza. Allora, in ogni modo, si dava il caso che io, a ventisei anni, conoscessi da tempo il nome di Büchner e che da due anni avessi in casa un volume piuttosto appariscente con le sue opere. Una notte, in un momento di estrema disperazione - ero sicuro che non avrei più scritto una riga, ero sicuro che non avrei più potuto leggere una riga -, allungai la mano verso il volume giallo e lo aprii a caso: era una scena del Wozzeck (a quel tempo si usava ancora questa grafia), esattamente quella in cui il dottore parla a Wozzeck. Fu come se il fulmine mi avesse colpito. Lessi quella scena, tutte le altre del frammento, rilessi l'intero frammento più volte, non so quante, ma dovettero essere innumerevoli perché lessi tutta la notte, non lessi nient'altro nel volume giallo, sempre ricominciando dal principio il Wozzeck, ed ero in un tale stato di eccitazione che uscii di casa prima delle sei del mattino e corsi giù alla ferrovia urbana. Lì presi il primo treno che portava in città, mi precipitai nella Ferdinandstrasse e svegliai Veza dal sonno. Alla porta non c'era la catena, e io avevo la chiave dell'appartamento. Avevamo deciso così per il caso che un'inquietudine improvvisa mi spingesse fuori di casa di buon mattino, ma il nostro amore resisteva già da sei anni e non era mai accaduto niente di simile. Se adesso accadeva per la prima volta, sotto l'effetto di Büchner, Veza non poteva non esserne allarmata. Veza aveva respirato di sollievo quando si era concluso l'anno ascetico dedicato al romanzo, e forse nessun lettore, in seguito, ha provato un uguale senso di liberazione allorché il lungo e magro sinologo muore tra le fiamme. Veza aveva temuto nuove svolte, una ripresa e un proseguimento della vicenda. Prima di scrivere l'ultimo capitolo, "Il gallo rosso", mi ero concesso qualche settimana di pausa, e Veza aveva male interpretato quell'indugio come un mio dubbio sulla conclusione del romanzo. Immaginava che Georges, nel viaggio di ritorno, fosse preso da scrupoli improvvisi e si rendesse conto all'ultimo momento, ma ancora in tempo, delle vere condizioni di spirito del fratello: come aveva potuto abbandonarlo così! Alla prima stazione scendeva dal treno e ripartiva in senso inverso. Era di nuovo davanti alla casa di Kien e ne forzava l'ingresso. Senza tanti complimenti lo impacchettava e se lo portava a Parigi per farne uno dei suoi pazienti. Un paziente insolito, certamente, che si opponeva al fratello con tutte le forze, ma ogni resistenza era inutile, e a poco a poco anche lui trovava in Georges il suo padrone. Veza sospettava che mi stuzzicasse l'idea di far proseguire, in quella nuova situazione, la lotta tra i due fratelli, il loro dialogo occulto che si era avviato in un lungo capitolo senza tuttavia esaurirsi. Alla notizia che finalmente "Il gallo rosso" era scritto, che il sinologo era riuscito nel suo intento, Veza aveva reagito dapprima con incredulità. Pensava che io volessi placarla, perché mi erano ben noti i suoi dubbi sul mio modo di vivere in tutto quel periodo. Nella terza parte del romanzo c'erano molte cose che le erano penetrate fin nelle ossa, e Veza si era messa in testa che quel frugare senza fine nella mania di persecuzione del sinologo non poteva non avere effetti perniciosi sul mio stesso stato mentale. Nessuna meraviglia, dunque, se Veza aveva respirato di sollievo ascoltando la lettura dell'ultimo capitolo; e mentre per me cominciava il periodo peggiore, quello che ho chiamato il "tempo del deserto", lei avrebbe voluto credere che il peggio era passato. Ma si accorse che proprio adesso mi tenevo alla larga da lei come da tutti gli altri, e benché in verità, per il momento, non facessi nulla di particolare, non trovavo tempo né per lei né per i pochi amici. Quando poi ci incontravamo, ero taciturno e imbronciato, mentre tra noi non c'era mai stato questo tipo di silenzio. Una volta Veza perse talmente il controllo da dire: "Da quando è morto, quel tuo uomo dei libri ti è entrato nel sangue, e tu sei come lui. E" il tuo modo di prendere il lutto per la sua morte". Veza aveva con me una pazienza infinita, ma io non le perdonavo il senso di liberazione che provava per la fine del sinologo. E quando una volta mi disse: "Peccato che la tua Therese non sia una vedova indiana, altrimenti avrebbe dovuto buttarsi nel fuoco anche lei", io ribattei con rabbia: "Lui aveva amici migliori di una donna, aveva i suoi libri, che conoscevano il loro dovere e sono bruciati con lui". Da allora Veza si aspettava che mi facessi vivo improvvisamente, una notte o una mattina, con la notizia che temeva più d'ogni altra: che cioè avessi cambiato parere sull'ultimo capitolo e lo avessi cancellato, anche perché non era scritto nello stesso stile del resto del libro. Così Kant ritornava in vita e tutto ricominciava da capo, come se il romanzo continuasse in un secondo volume, ciò che mi avrebbe tenuto occupato almeno per un altro anno. Veza si spaventò molto quando la svegliai dal sonno in quel mattino büchneriano. "Ti meravigli che io venga così presto? Finora non è mai successo". "No," disse lei "ti aspettavo"; e già pensava disperata al modo di distogliermi dal dare un seguito al romanzo. Ma io attaccai subito con Büchner. Conosceva il Wozzeck? Naturalmente: chi non lo conosceva? Lo disse con impazienza, aspettando il peggio, proprio quello che secondo lei mi stava veramente a cuore. Nel tono della sua risposta c'era qualcosa di sprezzante, e io mi sentii offeso per Büchner. "Ma come? Tu tratti il Wozzeck come una cosa da niente?". La mia reazione fu così minacciosa e ostile che Veza capì all'improvviso di che cosa si trattava. "Chi? Io? Ma che cosa credi? Per me è il dramma più grande di tutta la letteratura tedesca". Non credevo alle mie orecchie, e dissi così per dire: "Però è soltanto un frammento!". "Frammento! Frammento! Lo chiami un frammento? Quello che manca è ancora meglio di quello che c'è negli altri drammi, nei migliori. Bisognerebbe averne tanti, di frammenti così". "Ma tu non mi hai mai parlato del Wozzeck. E" molto che conosci Büchner?". "Lo conoscevo prima di conoscere te. L'ho letto piuttosto presto. Al tempo in cui mi sono imbattuta nei diari di Hebbel e in Lichtenberg". "Ma hai sempre taciuto! I brani di Hebbel e di Lichtenberg me li hai mostrati spesso, ma del Wozzeck mai una parola. Si può sapere perché? Perché?". "L'ho nascosto, addirittura. Il volume di Büchner non saresti riuscito a trovarlo in casa mia". "Ho passato tutta la notte a leggere il Wozzeck. A leggerlo e a rileggerlo. Non volevo credere che esistesse qualcosa di simile. Non ci credo ancora. Sono venuto a dirti quello che meriti. Prima ho pensato che forse non lo conoscevi. Ma poi mi sono reso conto che non era possibile. Con tutto il tuo amore per la letteratura, come potevi non conoscerlo? E infatti lo conosci, naturalmente. Ma me l'hai tenuto nascosto. Da sei anni parliamo di tutte le cose meravigliose che ci sono. Büchner non l'hai nominato una sola volta. E adesso vieni a dirmi che mi hai tenuto nascosto il libro. Non è possibile. Conosco ogni angolo della tua stanza. Dammi la prova! Mostramelo! Dove l'hai nascosto? E" un grosso volume giallo. Non è così facile nasconderlo". "Non è né grosso né giallo. E" un'edizione in carta India. Adesso vedrai con i tuoi occhi". Aprì l'armadio in cui custodiva i suoi libri più cari. Pensai al momento in cui me l'aveva fatto vedere la prima volta. Ormai lo conoscevo meglio delle mie tasche. E il Büchner era nascosto lì? Veza tolse alcuni volumi di Victor Hugo. Dietro, schiacciata di piatto contro il fondo dell'armadio, c'era l'edizione di Büchner dell'InselVerlag. Veza mi porse il volume. A me non piaceva vederlo in quel formato ridotto. Avevo ancora negli occhi i grandi caratteri della notte, e ormai volevo averlo sempre davanti con quegli stessi caratteri. "Mi hai nascosto qualche altro libro?". "No, questo è l'unico. Sapevo che non avresti mai tirato fuori un libro di Victor Hugo, perché non t'interessa. Lì dietro, Büchner era al sicuro. Del resto, proprio lui ha tradotto due drammi di Victor Hugo". (2) Me lo mostrò, e io, irritato, le restituii il volume. "Ma perché, insomma? Perché me l'hai nascosto?". "Dovresti essere contento di non averlo letto. Se no, credi che saresti stato capace di scrivere qualcosa? Büchner è anche il più moderno di tutti gli scrittori. Potrebbe essere di oggi, solo che oggi nessuno è come lui. Non si può prenderlo a modello. Si può solo vergognarsi e dire: "A che scopo scrivere?". Si può solo tenere la bocca chiusa. Io non volevo che tu tenessi la bocca chiusa. Io credo in te". "Nonostante Büchner?". "Di questo non voglio parlare, per il momento. Ci devono pur essere cose che restano irraggiungibili. Ma l'irraggiungibile non deve schiacciarci. Adesso che hai finito il romanzo, devi leggere qualche altra cosa ancora. C'è un altro frammento di Büchner, un racconto: Lenz. Leggilo subito!". Mi sedetti e senza dire altro lessi il più meraviglioso brano di prosa. Dopo la notte del Wozzeck spuntava il mattino del Lenz, senza un attimo di sonno tra l'uno e l'altro. E io vidi crollare in pezzi il mio romanzo: l'opera di cui ero stato così fiero non era più che polvere e cenere. Fu un duro colpo, ma salutare. Veza, dopo avere ascoltato la lettura di tutti i capitoli di "Kant prende fuoco", mi giudicava uno scrittore di teatro. Era vissuta nel timore che non trovassi più la strada per uscire dal romanzo. Aveva visto come vi ero rimasto irretito e quanto mi aveva coinvolto. Fosse quel romanzo o un altro, uno nuovo, al quale potevo accingermi, Veza scopriva in me la fatale inclinazione a imprese che si protraevano per anni. Ricordava gli abbozzi per una "Comédie humaine dei folli", quella serie di romanzi di cui le avevo parlato spesso. La vista dello Stein -hof dalla mia finestra, che all'inizio le aveva fatto tanta impressione, non le piaceva più da un pezzo. Aveva la sensazione che con la stesura del romanzo fosse ancora cresciuto il fascino che gli invasati e gli anormali esercitavano su di me. Anche la mia amicizia con Thomas Marek (3) la preoccupava. La mia solidarietà con Marek era veemente e aggressiva, e una volta, quando ero arrivato al punto di sostenere che quel giovane paralitico contava più di tutti quelli che se ne vanno in giro ignari e ingrati sulle loro gambe, lei mi aveva contraddetto rimproverandomi la mia stravaganza. Veza era davvero in ansia per me. Nel mio romanzo, nel capitolo intitolato "Un manicomio", c'era una dichiarazione d'amore a tutti coloro che passano per matti, e lei ne aveva tratto la convinzione che io avessi varcato un confine pericoloso. La tendenza all'isolamento, l'ammirazione per chiunque fosse diverso, il desiderio di abbattere tutti i ponti tra noi e una umanità inferiore - tutto questo le dava molto da pensare. A proposito delle allucinazioni di certe persone di mia conoscenza mi ero espresso con lei in termini ammirativi, come se fossero opere d'arte perfette, e mi ero sforzato di ricostruire passo per passo la genesi di una di quelle allucinazioni. Veza, anche per motivi estetici, si era spesso mostrata infastidita dalla minuziosità con cui avevo ricostruito un caso di mania di persecuzione, e io usavo ribattere che non si poteva fare altrimenti, che ogni particolare, ogni minimo passo aveva la sua importanza. Scendevo in campo contro precedenti rappresentazioni della follia nella letteratura e cercavo di dimostrarle quanto poco corrispondessero alla realtà. Veza pensava che doveva pur essere possibile rappresentare quelle situazioni in una forma condensata e quindi ottenendo un'efficacia maggiore. Ma io obiettavo, nella maniera più energica, che allora non veniva a galla la verità, bensì l'autocompiacimento degli autori, la loro vanità di pavoni. Bisognava finalmente decidersi a capire che la follia non ha niente di spregevole, essendo un fenomeno pieno di significati e di relazioni particolari che cambiano da un caso all'altro. Lei negava tutto questo ed era pronta a difendere, contro la sua natura e solo per il mio bene, le classificazioni dominanti nella psichiatria. In questa sua difesa mostrava una certa propensione per il concetto di "pazzia maniacodepressiva", mentre aveva qualche riserva a proposito della "schizofrenia", che allora stava diventando un concetto di moda. Sapevo bene che Veza in realtà mirava soprattutto a distogliermi da quel genere di romanzi. Io ero deciso, ferocemente deciso, a non lasciarmi consigliare da nessuno, neanche da lei, e contrapponevo come un'arma quello che consideravo un romanzo riuscito. Anche se mi sentivo colpevole come incendiario e soffrivo molto di questa colpa, ciò non toglieva nulla alla qualità del romanzo, di cui ero fermamente convinto. Sebbene, ora che l'avevo finito, tutto mi spingesse verso il teatro drammatico, non potevo assolutamente escludere che dopo un periodo di esaurimento mi sarei dedicato a un altro romanzo, non meno lungo, che di nuovo avrebbe avuto per tema un caso di follia. Ma la notte in cui avevo scoperto il Wozzeck e la mattina seguente in cui il Lenz mi aveva sorpreso in uno stato di eccitata spossatezza, ebbero effetti decisivi. In poche pagine avevo trovato tutto ciò che si poteva dire sulla peculiarità della condizione di spirito di Lenz, e sarebbe stato terribile immaginare tutto questo nella forma minuziosa di un romanzo. L'orgoglio e la tracotanza mi avevano abbandonato. Non scrissi un altro romanzo, e passarono mesi prima che ritrovassi la mia fiducia in "Kant prende fuoco". Ma allora ero già tutto preso dal progetto di un dramma: Nozze. Se adesso dico che non avrei scritto Nozze senza la folgorazione notturna del Wozzeck potrà sembrare sulle prime un'esagerazione. Ma non posso aggirare la verità solo per evitare questa impressione. Non devo farlo. Le visioni di rovina che avevo allineato fino allora risentivano pur sempre dell'influsso di Karl Kraus. Tutto ciò che accadeva, e accadeva sempre il peggio, accadeva senza motivo e accadeva per giustapposizione, una cosa accanto all'altra. Veniva captato da uno scrittore ed era messo alla gogna, irriso. Era irriso dall'esterno, appunto da colui che scriveva, e su tutte le scene dello sfacelo lui teneva alta la sua frusta. La frusta non gli dava requie, lo incalzava continuamente, e lui si fermava solo quando c'era qualcosa da frustare; ma non appena la punizione era inflitta, la frusta tornava a incalzarlo. In fondo accadeva sempre di nuovo la stessa cosa: gli uomini, nelle loro faccende più quotidiane, pronunciavano le frasi più banali stando ignari sull'orlo dell'abisso. Allora arrivava la frusta, li spingeva giù, ed era lo stesso abisso quello in cui cadevano tutti. Non c'era nulla che potesse salvarli dall'abisso. Perché le loro frasi non cambiavano mai, erano commisurate alla loro statura, e colui che aveva preso le loro misure era sempre lo stesso, lo scrittore con la frusta. Il Wozzeck mi aveva fatto scoprire una cosa per la quale trovai un nome solo in seguito, quando la chiamai autoirrisione. Se si esclude il protagonista, i personaggi che fanno l'impressione più forte si presentano da sé. Il dottore e il tamburo maggiore infieriscono su ciò che li circonda. Aggrediscono, ma in modi così diversi che si esita a usare per entrambi la stessa parola "aggressione". Eppure è un'aggressione, e come tale agisce su Wozzeck. Le loro parole, che non sono intercambiabili, si rivolgono contro Wozzeck e hanno le conseguenze più terribili. Ma le hanno solo in quanto rappresentano se stesse, e cioè il parlante, il quale, col proprio io, vibra un perfido colpo, un colpo che non si può dimenticare e dal quale lo si riconoscerebbe sempre e dappertutto. I personaggi, come ho detto, si presentano da sé. Nessuno li ha spinti avanti a frustate. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, si mettono alla gogna da sé, e in questo comportamento c'è più irrisione che punizione. Stanno davanti a noi, comunque siano, prima che su di loro sia stato pronunciato un giudizio morale. Certo, si pensa ad essi con disgusto, ma al disgusto si mescola la soddisfazione, perché si presentano senza immaginare l'orrore che suscitano. C'è una specie di innocenza nell'autoirrisione: non è stata ancora tesa una rete giuridica che la riguardi, una rete che, se mai, potrà essere gettata su di essa in seguito; ma nessun atto d'accusa, neanche quello del satirico più violento, potrebbe avere il peso dell'autoirrisione, poiché questa comprende anche lo spazio in cui un uomo esiste, anche il suo ritmo, la sua paura, i suoi respiri. E" giusto che a queste creature si conceda senza riserve il pieno uso della parola "io" che il satirico puro non riconosce a nessuno, tranne che a se stesso. La vitalità di questo "io" immediato, non chiuso tra parentesi, è enorme. Questo "io" dice di sé più di qualsiasi giudice. Per il giudicante quasi tutto è contenuto nella terza persona, e perfino il discorso diretto, nel quale si dicono le cose peggiori, è usurpato. Solo quando ricade nel suo io il giudice è presente in tutta la terribilità degli atti che compie, ma allora anche lui è diventato personaggio ed è lui, il giudicante, a presentarsi ignaro nella sua autoirrisione. Il capitano, il dottore, il reboante tamburo maggiore fanno la loro apparizione come per forza spontanea. Nessuno ha prestato loro la voce, essi dicono il proprio io, si scatenano tutti sulla stessa persona, appunto Wozzeck, e affermano la propria esistenza in quanto lo colpiscono. Egli serve a tutti e tre, è il loro centro. Senza di lui non esisterebbero, ma Wozzeck lo ignora, non meno di quei tre; e si potrebbe perfino sostenere che egli trasmette ai suoi tormentatori il contagio della propria innocenza. Essi non possono essere diversi da quello che sono, è nella natura dell'autoirrisione comunicare questa impressione. La forza di questi personaggi, di tutti i personaggi è la loro innocenza. Si deve odiare il capitano, si deve odiare il dottore perché potrebbero essere diversi, solo che lo volessero? Si deve sperare in una loro conversione? Deve forse il dramma essere una scuola missionaria che i personaggi frequenteranno fino a quando si lasceranno descrivere in maniera diversa? Il satirico si aspetta dagli uomini che siano diversi. Li frusta come se fossero scolaretti. Li prepara per tribunali morali a cui essi dovranno forse rispondere un giorno. Sa perfino come potrebbero essere migliori. Dove attinge questa incrollabile sicurezza? Se non l'avesse, non potrebbe neppure mettersi a scrivere. Tutto comincia perché lui è impavido come Dio. Senza dirlo esplicitamente, il satirico è il rappresentante di Dio e si sente a suo agio in questa veste. Non si sofferma nemmeno un attimo a pensare che forse lui non è proprio Dio. Dal momento che questa istanza esiste, l'istanza suprema, da essa discende un potere di rappresentanza: si tratta solo di conquistarlo. Ma c'è anche un altro atteggiamento, totalmente diverso, che si vota alle creature e non a Dio, un atteggiamento che s'interessa alle creature in opposizione a Dio e forse arriva fino al punto di prescindere interamente da lui per occuparsi solo delle creature. Allora appare l'immutabilità delle creature, per quanto si possa volerle diverse da quelle che sono. Con l'odio o con le pene non si ottiene nulla dagli uomini. Gli uomini si accusano presentandosi come sono, ma è la loro autoaccusa, non l'accusa di un altro. La giustizia dello scrittore non può consistere nel condannarli. Egli può individuare colui che è la loro vittima e mostrare tutte le loro tracce su di lui come impronte digitali. Il mondo pullula di tali vittime, ma sembra che la maggiore difficoltà stia nel prendere una vittima e nel farne un personaggio, nel farla parlare in modo che le tracce rimangano riconoscibili e non si cancellino nelle accuse. Wozzeck è questo personaggio, e il dramma ci fa vivere ciò che egli subisce di volta in volta, e non c'è da aggiungere neanche una parola di accusa. In lui sono riconoscibili le tracce delle autoirrisioni. Quelli che si sono scatenati contro di lui sono davanti a noi, e quando per lui è la fine essi rimangono in vita. Il frammento non mostra come finisce Wozzeck: mostra ciò che egli fa, la sua autoirrisione dopo quelle degli altri. NOTE: (1) In tedesco Kant fängt Feuer: era il titolo primitivo del romanzo che Canetti aveva terminato nel 1931 e che pubblicò nel 1935 col titolo Die Blendung ("L'abbagliamento"). Per l'edizione inglese del 1946 e per quella italiana del 1967 l'autore ritornò al concetto del fuoco scegliendo il titolo Auto da fé. Alla genesi del romanzo Canetti ha dedicato il saggio "Il mio primo libro: Auto da fé nel volume La coscienza delle parole (Adelphi, Milano, 1984, pp" 327-344). Si veda anche il capitolo finale di Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931) (Adelphi, Milano, 1982) ?N" d'T"*. (2) I due drammi tradotti da Büchner sono Lucrezia Borgia e Maria Tudor ?N" d'T"* . (3) Per l'amicizia di Canetti con Thomas Marek, un geniale studente di filosofia paralizzato alle braccia e alle gambe, si veda Il frutto del fuoco, ai capitoli "L'ammansimento", "Il sostegno della famiglia" e "Passi falsi" ?N" d'T"*. Occhio e respiro I miei rapporti con Hermann Broch furono segnati, più di quanto avvenga di solito, dalle circostanze del nostro primo incontro. Io dovevo tenere una lettura del mio dramma Nozze nella casa di Maria Lazar, una scrittrice viennese che entrambi conoscevamo. C'erano alcuni invitati. Due di questi erano Ernst Fischer e sua moglie Ruth, ma non so più chi fossero gli altri. Broch aveva promesso di venire, tutti lo aspettavano, ma era in ritardo. Stavo già per cominciare quando lo vidi arrivare, all'ultimo momento, in compagnia di Brody, il suo editore. Ci fu appena il tempo per una rapida presentazione: prima ancora che ci fossimo scambiati qualche parola, diedi inizio alla lettura. Maria Lazar aveva raccontato a Broch quanto io ammirassi I sonnambuli, che avevo letto nell'estate di quel 1932. Lui non conosceva niente di mio, né poteva, dal momento che niente avevo pubblicato. Dopo l'impressione che avevo ricevuto dalla trilogia I sonnambuli, e soprattutto da uno dei volumi, Huguenau, vedevo in lui un grande scrittore, mentre io ero per lui un giovane scrittore che lo ammirava. Poteva essere la metà di ottobre, e avevo terminato Nozze sette od otto mesi prima. Avevo letto il dramma ad alcuni amici, separatamente, ed erano amici che avevano una certa fiducia in me. Non era mai accaduto che si trovassero insieme in buon numero. A Broch, e questo è il punto importante, capitò così di ascoltare l'intero dramma in un colpo solo, in tutta la sua violenza, e senza sapere niente di me. Io lessi con passione, i personaggi presero vita e spicco a uno a uno, ben definiti dalle loro maschere acustiche - in questo non è più cambiato niente, in tanti anni che sono passati. Durò più di due ore, e lessi tutto d'un fiato. L'atmosfera era densa, compatta: oltre Veza e me ci sarà stata forse una dozzina di persone, ma la loro presenza si faceva sentire come se il pubblico fosse ben più numeroso. Avevo Broch proprio davanti a me, e mi colpì il modo in cui seguiva la lettura. La sua testa da uccello sembrava un po'' incassata tra le spalle. Notai i suoi occhi durante la scena del portinaio Kokosch, l'ultima del prologo, quella che adesso mi è cara più di tutte le altre. La battuta che la Kokosch morente rivolge al marito: "Ehi tu, devo dirti una cosa", la battuta che è costretta a ricominciare più volte e che non riesce a terminare, segna per me il momento dell'incontro con gli occhi di Broch. Se gli occhi potessero respirare, quelli avrebbero trattenuto il fiato. Aspettavano che la frase fosse pronunciata fino in fondo, e quegli attimi di sospensione e di disperati tentativi erano riempiti dalle parole di Kokosch che raccontava la fine di Sansone. Era una doppia lettura, e al dialogo ad alta voce, che ormai non c'era più perché Kokosch non ascoltava le parole della moribonda, era subentrato un dialogo sotterraneo, tra gli occhi di Broch, che si erano concentrati sulla moribonda, e me, che ricominciavo ogni volta quella battuta e mi facevo interrompere dalle frasi bibliche del portinaio. Questo accadeva nella prima mezz'ora della lettura. Poi venne il dramma vero e proprio, che cominciava con una grande spudoratezza della quale però non mi vergognavo affatto, allora, tanto mi riusciva odiosa. Forse non avevo un'idea precisa del realismo di quelle scene disgustose. Una fonte era Karl Kraus, ma vi era stato anche un altro influsso: quello di George Grosz, del quale avevo ammirato e detestato la cartella dell'Ecce homo. Per la maggior parte si trattava di cose che avevo udito con le mie orecchie. Quando leggevo ad altri le squallide scene centrali non prestavo mai attenzione a ciò che mi circondava. Era abbastanza naturale: a un certo punto, sei come invasato e allora credi di librarti nell'aria, trasportato da frasi volgari e terribili che non hanno niente, assolutamente niente a che fare con te ma ti esaltano sempre più, ti gonfiano a tal segno che cominci a volare sulle loro ali - come uno sciamano, forse, sebbene a quel tempo non potessi saperlo. Ma quella sera le cose andarono diversamente. Durante tutta la parte centrale del dramma sentii la presenza di Broch. Il suo silenzio era più tangibile di quello degli altri. Broch si tratteneva, così come si trattiene il respiro. Non sapevo quale fosse esattamente il meccanismo, ma sentivo che aveva a che fare con la respirazione, e credo di essermi reso conto, quella sera, che Broch respirava in maniera diversa da tutti gli altri. Contro il chiasso spaventoso che facevano i miei personaggi s'innalzava il suo silenzio. Era un silenzio che aveva un che di corporeo ed era voluto e manovrato da lui, un silenzio che si produceva da sé: oggi so che dipendeva dal suo modo di respirare. Nella terza parte del dramma, col crollo vero e proprio e con la danza dei morti, non avvertii più nulla di ciò che mi accadeva intorno. Trascinato dallo sforzo e dalla tensione, ero così preso dal ritmo, che in quelle scene è l'elemento decisivo, da non poter individuare le reazioni di questo o quell'ascoltatore; e quando ebbi finito mi ero dimenticato perfino della presenza di Broch. Avevo perso la nozione del tempo, doveva essere successo qualcosa, e può darsi che fossi tornato nella stanza in cui avevamo aspettato l'arrivo di Broch. Fatto sta che egli mi rivolse la parola e disse che non avrebbe scritto il suo dramma se avesse conosciuto Nozze. (Sembra che proprio allora stesse lavorando a un dramma, e sarà stato quello che fu poi rappresentato a Zurigo). Disse altre frasi che preferisco non riportare, sebbene rivelassero con quale acutezza era penetrato nella genesi del dramma. Io non conoscevo ancora Broch, ma capivo che era scosso, che c'era stata una vera partecipazione. Brody, il suo editore, si limitò a un sorriso cerimonioso, un ghigno che non mi piacque affatto. Per lui non era successo niente, forse lo avevano irritato i furibondi attacchi alla borghesia, ma non voleva farlo vedere e si nascondeva dietro la cerimoniosità. Ma forse Brody era sempre così, non si lasciava mai scuotere. Non saprei dire che cosa lo legasse veramente a Broch, ma non c'era dubbio che era suo amico. I due non si trattennero a lungo, erano già attesi da qualche altra parte. Broch, sebbene fosse arrivato in compagnia del suo editore e questa circostanza facesse pensare a un certo sussiego, mi sembrò alla fine della lettura un uomo assai fragile. Era una bellissima fragilità che aveva il suo presupposto in un animo sensibile e dipendeva dagli avvenimenti e dalle oscillazioni nei rapporti tra le persone. Ai più sembrerà debolezza, ma io posso permettermi di chiamarla così perché la considero un privilegio, anzi una virtù, quando arriva a un tale grado di consapevolezza. Quando però sento parlare della "debolezza" di Broch da persone dell'ambiente mercantile, quello in cui egli era vissuto, o di altri ambienti simili, mi viene una gran voglia di farle tacere con uno schiaffo. Non mi riesce facile scrivere di Broch, perché non so come rendergli giustizia. Dovrei ricordare la trepidazione con cui mi avvicinai a lui, la corte impetuosa che gli feci fin dall'inizio e alla quale cercava di sottrarsi, la cieca fiducia che mi faceva apprezzare tutto di lui, la bellezza dei suoi occhi, in cui mi sembrava di leggere tutto fuorché il calcolo: che cosa non ho visto di nobile in lui, e con quanta ingenuità e leggerezza mi sono lasciato andare a una specie di fanatismo senza nascondere la mia immensa ignoranza! Per quanto avessi uno spirito aperto e ansioso di sapere, questa ansia non aveva ancora dato i suoi frutti. Oggi, se provo a misurare quello che ero, mi rendo conto che avevo imparato ben poco, e addirittura nulla nel campo in cui Broch aveva una preparazione particolare: la filosofia contemporanea. Aveva una biblioteca principalmente filosofica e non rifuggiva, come me, dal mondo dei concetti, ai quali era dedito come altri sono dediti ai locali notturni. Broch è stato il primo "debole" che ho incontrato. Non gli interessava vincere e neanche prevalere e meno che mai mettersi in mostra. Si guardava bene dall'enunciare grandi propositi, perché gli ripugnava profondamente, mentre io non sapevo pronunciare due frasi senza dire: "Ci scriverò sopra un libro" non riuscivo a esprimere un pensiero o forse soltanto un'osservazione senza aggiungere subito: "Ci scriverò sopra un libro". Ma la mia non era pura millanteria, perché avevo scritto un lungo libro, "Kant prende fuoco", e il manoscritto era già pronto, anche se pochi ne conoscevano l'esistenza, mentre mi ero prefisso di dedicare la vita a un altro libro, per me molto più importante, quello sulla massa, per il quale esistevano al momento soltanto alcune esperienze, che però andavano molto in profondità, e ampie e voraci letture che ad essa ritenevo collegate - mentre in verità si riferivano a "tutto" non meno che alla massa. La mia vita era dunque votata a una grande opera, e ne ero così convinto che potevo dire senza la minima esitazione: "Certo, ci vorranno decenni". Il fatto che io volessi includere tutto nei miei propositi e nei miei progetti, questo programma così vasto e inesauribile dovette sembrare a Broch il segno di una passione autentica. Ciò che lo contrariava era il fanatismo crudele che faceva dipendere il miglioramento dell'umanità da un intervento punitivo, da un'autorità di cui io mi ero eletto tranquillamente organo esecutivo. Questo era uno dei frutti dell'insegnamento di Karl Kraus. Non avrei mai osato imitare Karl Kraus consapevolmente, ma da lui avevo assorbito un'infinità di cose, e in particolare, quando nell'inverno 1931-32 scrivevo Nozze, il suo furore. Con questo furore, che era diventato mio attraverso Nozze, mi ero presentato a Broch la sera della lettura del dramma. Lui se n'era lasciato soggiogare, ma non c'era niente altro in me che potesse soggiogarlo. Per il resto, come si vide poi, se accettò qualcosa di mio, lo fece alla sua maniera, in un modo che compresi molto più tardi, soltanto dopo la sua morte: assimilando e facendo propri gli impulsi di una volontà estranea dai quali non sapeva difendersi altrimenti. Broch cedeva sempre, e solo cedendo assimilava. Non era un processo complicato, era la sua natura, e credo di aver visto giusto collegando anche questo processo al suo modo di respirare. Ma tra le innumerevoli cose che assimilava ce n'erano alcune troppo prepotenti per lasciarsi conservare tranquillamente come in un magazzino. Questi elementi perturbatori, che lo colpivano come fitte dolorose e che Broch condannava moralmente, si trasformavano in seguito, presto o tardi, in sue iniziative personali. Dopo l'emigrazione in America, quando decise di occuparsi della psicologia delle masse, non poteva certamente aver dimenticato i nostri colloqui su questo argomento. Ma il contenuto delle mie osservazioni, la sostanza vera, non l'aveva toccato in alcun modo. L'ignoranza dell'interlocutore, che non sapeva colorare le proprie parole con nessuna delle terminologie filosofiche dominanti, gli faceva trascurare del tutto il contenuto del discorso, anche quando aveva una sua originalità. Ciò che lo colpiva era l'energia dei propositi, la pretesa di enunciare una nuova teoria che un giorno avrebbe preso forma; e sebbene questa teoria non esistesse affatto - se non in qualche gracile spunto - lui accoglieva quei propositi come un comando e lasciava che quel comando fermentasse dentro di lui, come se a lui fosse diretto. Se in sua presenza cominciavo a parlare del mio progetto, lui captava una voce che gli diceva: "Fallo tu! ", ma non capiva subito fino a che punto fosse un'imposizione e si congedava da me con dentro il germe di un compito per lui che fiorì poi in un altro ambiente ma non diede frutti. Mi accorgo di anticipare molte cose e di scompigliare così la chiara linea dei nostri rapporti; ma comunque siano cominciati, adesso è inevitabile, dopo tanti decenni, che io veda le cose così come andarono realmente tra noi già all'inizio, senza che nessuno di noi lo sapesse, neanche lui. Non di rado, nelle sue frettolose camminate, Broch veniva a trovarci nella Ferdinandstrasse. Mi pareva di vedere in lui un uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare. Non si era mai riavuto da quella mutilazione, da ciò che gli era successo. Avrei voluto fargli qualche domanda, ma allora non ne avevo il coraggio. La sua particolarità di bloccarsi nel discorso traeva in inganno, forse Broch avrebbe anche accettato di parlare di sé. Ma prima di parlare rifletteva, e da lui non c'era da aspettarsi qualcuna delle facili confessioni a cui mi avevano abituato tante persone che conoscevo a Vienna. Avrebbe parlato senza riguardi per se stesso, perché tendeva ad accusarsi. In lui non c'era traccia di autocompiacimento, si apriva con molta insicurezza, ma era, così mi sembrava, una insicurezza acquisita. Benché lo irritasse il mio tono risoluto, era troppo riguardoso per darlo a vedere. Me ne accorgevo, tuttavia, e quando lui se ne andava mi restava addosso un senso di vergogna. Mi facevo dei rimproveri perché avevo l'impressione di non riuscirgli simpatico. Broch avrebbe voluto ispirarmi qualche dubbio su me stesso, forse educarmi cautamente a dubitare di me, ma proprio non gli riusciva. Io lo mettevo su un piedistallo, ero entusiasta dei Sonnambuli perché vi aveva dimostrato una capacità che io non avevo. L'atmosfera, in un'opera letteraria, non mi aveva mai interessato, pensavo che fosse qualcosa da lasciare alla pittura. Ma in Broch l'atmosfera era presente in un modo che non poteva lasciare insensibili. Era una capacità che ammiravo, perché ammiravo tutto quello che mi era negato: non mi faceva perdere di vista ciò che mi prefiggevo, ma era meraviglioso scoprire che c'era qualcosa di totalmente diverso che aveva un suo diritto di esistere e che attraverso la lettura liberava da se stessi. Per uno scrittore queste trasformazioni dovute alla lettura sono essenziali: egli può veramente ritornare a se stesso e ritrovarsi solo se è stato trascinato via con violenza da qualcun altro. Broch portava subito nella Ferdinandstrasse ogni brano di prosa che gli veniva pubblicato. Per lui aveva una particolare importanza ciò che appariva nella "Frankfurter" e nella "Neue Rundschau". Non avrei mai immaginato che tenesse tanto al mio giudizio. Quale bisogno avesse di consenso lo compresi solo più tardi, alcuni anni dopo la sua morte, quando furono pubblicate le sue lettere. Sebbene lo irritasse il mio modo di parlare, così affermativo, accettava volentieri un giudizio perentorio quando riguardava lui, e lo citava addirittura nelle sue lettere ad altre persone. A quel tempo avevo trovato una spiegazione quasi mitica alla frettolosa andatura di Broch: lui, il grande uccello, non sapeva rassegnarsi all'idea che gli avessero mozzato le ali. Non poteva più ritrovare la libertà di quell'atmosfera, unica, in cui si librava sopra tutti gli uomini. Ma in compenso, in mezzo agli uomini, non si lasciava sfuggire uno solo di quelli che io chiamo campi di respirazione. Altri scrittori facevano collezione di uomini, lui raccoglieva i loro campi di respirazione, contenenti l'aria che avevano inalato e poi espulso dai polmoni. Da questa aria accumulata lui desumeva la loro natura, definiva gli uomini attraverso i loro rispettivi campi di respirazione. A me sembrava qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa in cui non mi ero mai imbattuto. Sapevo di scrittori che si lasciavano guidare da ciò che è visivo, di altri che si affidavano all'udito. Non avrei mai pensato che uno scrittore potesse lasciarsi guidare dal suo modo di respirare. Broch era molto riservato e, come ho già detto, dava un'impressione di insicurezza. Dovunque posasse lo sguardo, risucchiava tutto in sé, non col ritmo di chi inghiotte ma con quello di chi inspira. Non toccava, non urtava nulla, tutto rimaneva com'era, immutabile, e conservava il proprio particolare alone d'aria. Sembrava che Broch assorbisse le cose più disparate per custodirle in sé. Diffidava dei discorsi troppo impetuosi, e per quanto fossero animati da buone intenzioni vi fiutava il male. Per lui nulla era di là del bene e del male; e il fatto che fin dal primo momento, fin dalla prima frase assumesse un atteggiamento responsabile e non se ne vergognasse, gli valse tutta la mia ammirazione. Questo atteggiamento si rivelava anche nel ritegno con cui dava un giudizio, in quello che io chiamai ben presto il suo "bloccarsi". Questo suo "bloccarsi" - e cioè la sua tendenza a chiudersi in lunghi silenzi, lasciando però trasparire con quanta intensità rifletteva - io lo spiegavo col desiderio di non affliggere l'interlocutore, chiunque fosse. Soffriva a dover badare al proprio interesse. Sapevo che apparteneva a una famiglia di industriali e che suo padre era stato il proprietario della filanda di Teesdorf. Broch vi aveva lavorato controvoglia perché desiderava invece diventare un matematico. Alla morte del padre dovette occuparsi di tutta l'azienda, non per il proprio tornaconto, ma perché bisognava provvedere alla madre e agli altri membri della famiglia. Continuò a studiare per una specie di sfida e in seguito studiò anche filosofia. Quando lo conobbi, frequentava il seminario di filosofia dell'Università di Vienna e ne parlava come di una cosa molto seria. Intuivo che le origini mercantili avevano suscitato in lui una reazione simile alla mia: un'avversione profonda che ricorreva a ogni mezzo per opporre una barriera difensiva. E poiché non poteva smettere di dedicarsi alla fabbrica paterna, neanche da adulto, neanche nella maturità, aveva bisogno di difese particolarmente efficaci. Le sue inclinazioni lo portavano verso le scienze esatte, ed era disposto ad accettarle e a subirle anche nella loro forma accademica. Io cercavo di immaginarlo nella veste di studente, un uomo spiritualmente così ricco e vivo. Se era tanto saggio da rimanere insicuro, come poteva trovare sicurezza nei seminari? Gli interessava il dialogo, ma poi si comportava come se fosse sempre lui a dover imparare, mentre nella maggior parte dei casi non poteva essere così, poiché saltava agli occhi la sua superiorità sugli interlocutori. Da tutto questo desumevo che fosse la bontà d'animo a trattenerlo dall'umiliare il suo prossimo. Al Café Museum feci la conoscenza di Ea von Allesch, l'amica di Broch. C'eravamo incontrati, io e lui, non so dove. Mi disse di avere un appuntamento con Ea e di averle promesso di condurre anche me. Mi sembrava vagamente impacciato, aveva un tono diverso dal solito ed era arrivato molto in ritardo. "Ci sta aspettando da un pezzo" disse. Affrettò l'andatura e alla fine superò la porta girevole quasi volando e trascinandomi a rimorchio dentro il locale. "Abbiamo fatto tardi" disse subito, quasi umilmente, prima ancora di presentarmi. Poi disse il mio nome e aggiunse in un tono neutro che non tradiva più nessuna preoccupazione: "E questa è Ea Allesch". Quel nome l'avevo già sentito da lui qualche volta, e mi era sembrato strano, perfino enigmatico, sia il nome che il cognome. Non avevo domandato a Broch da dove venisse quell""Ea", e neppure in seguito ho voluto saperlo. Era una donna non giovane, sulla cinquantina, aveva la testa di una lince, ma di velluto, e i capelli rossicci. Era bella, e io pensai quasi sbalordito quanto doveva essere stata bella. La voce era morbida e sommessa, ma così insistente da ispirare subito un po'' di paura. Era come se lei, senza accorgersene, ti avesse messo gli artigli addosso. Ma dava quell'impressione solo perché si sentiva in dovere di contraddire Broch a ogni frase, inesorabilmente. Domandò dove ci eravamo attardati e disse che era lì ad aspettare da un'ora, ormai convinta che non saremmo più venuti. Broch le spiegò dove eravamo stati; ma sebbene mi chiamasse in causa, come se io fossi lì per testimoniare, lei aveva l'aria di non credere una parola: non fece alcuna obiezione, ma non si rassegnava; e anche quando eravamo seduti lì da un bel po', tornava alla carica con una frase in cui il suo dubbio era ormai consolidato, come se fosse già diventato storia e lei volesse soltanto far notare che lo aggiungeva a tutti gli altri suoi dubbi. Cominciò tra noi una conversazione letteraria. Broch, per deviare il discorso dal nostro ritardo, accennò alla serata in cui, subito dopo la lettura di Nozze, era andato da Ea nella Peregringasse e le aveva parlato del mio dramma. Era come se Broch volesse pregarla di prestarmi un po'"di attenzione, e lei non trovò niente da ridire sulle circostanze di quella serata, ma le rivoltò subito contro di lui. Raccontò che Broch, dopo la lettura, era molto depresso e si era lagnato di non essere un vero drammaturgo, perché dopo tutto aveva scritto un solo dramma, quello che aveva mandato al teatro di Zurigo e che adesso avrebbe preferito ritirare. Da qualche tempo, disse ancora Ea, Broch si era messo in testa di dover solo scrivere; e chi sa chi gli aveva fatto venire un'idea simile, probabilmente una donna. Tutto questo era detto in un tono soave, quasi accattivante, sebbene lì non ci fosse nessuno da accattivarsi; e l'effetto era micidiale. Ea aggiunse di aver capito già dalla grafia di Broch che lui non era un vero scrittore, e di averglielo anche detto: lei era grafologa, infatti, e bastava confrontare la scrittura di Broch con quella di Musil per capire la differenza. Io ero talmente imbarazzato che colsi al volo l'accenno a Musil per domandarle se lei lo conosceva. Certo che lo conosceva, da decine di anni, fin dal tempo in cui era sposata con Allesch, anzi da prima ancora, prima di conoscere Broch. Quello sì era uno scrittore, disse, e il tono era totalmente cambiato. Quando poi aggiunse che Musil non aveva una grande considerazione per Freud e non si lasciava facilmente prendere per il naso, mi resi conto che la sua animosità si rivolgeva contro tutto ciò che per Broch contava, mentre Musil godeva della sua ammirazione incondizionata. Lo aveva visto spesso negli anni del suo matrimonio con Allesch, che era il più vecchio amico di Musil, (1) e qualche volta lo vedeva ancora, nonostante il tempo trascorso dal divorzio. Dava molta importanza alla propria esperienza di grafologa e aveva le sue idee anche in fatto di psicologia. "Io sono Adler," disse indicando se stessa "e lui è Freud" aggiunse indicando Broch. Quest'ultimo era veramente devoto a Freud, vorrei dire in modo religioso - non che fosse diventato un fanatico, come tanti altri che conoscevo a quel tempo, ma era impregnato di Freud come di una dottrina mistica. Broch non era uomo da nascondere le proprie difficoltà. Non andava in giro a mostrare soltanto la facciata. Non so perché avesse voluto condurmi all'appuntamento con Ea così presto, quando la nostra conoscenza era appena cominciata. Sapeva benissimo che lei non lo portava in palma di mano. Forse, sentendosi disprezzato da Ea come scrittore, voleva opporle qualcuno che invece lo stimava molto; ma questo è un particolare che allora mi sfuggì. Solo a poco a poco venni a conoscenza dei meriti che Broch si era fatto come mecenate: era un industriale che anteponeva le cose dello spirito alla propria fabbrica e che trovava sempre il modo di aiutare gli artisti. Aveva conservato il suo animo nobile, ma ormai si capiva che non era più un uomo ricco. Non si lamentava delle sue ristrettezze, bensì della mancanza di tempo. Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero voluto vederlo più spesso. Col suo atteggiamento Broch induceva l'interlocutore a parlare di sé, a infervorarsi, a non smetterla più. L'interlocutore si convinceva che la sua persona, i suoi propositi, i suoi grandi progetti suscitavano in Broch un interesse particolare, mentre sarebbe bastato conoscere I sonnambuli per capire che l'interesse di Broch si rivolgeva a ogni persona. In realtà tutto questo dipendeva dal suo modo di ascoltare, che soggiogava. Ci si effondeva nel silenzio di Broch, non s'incontrava mai un ostacolo. Si sarebbe potuto dire tutto, lui non respingeva niente, non si provava timore se prima una certa cosa non era stata detta fino in fondo. Mentre di solito in queste conversazioni si arriva a un punto in cui si ha un soprassalto e si dice tra sé: "Alt, fin qui e non oltre!", perché il desiderio di abbandonarsi è stato già largamente appagato e comincia a diventare pericoloso - infatti, come si può poi tornare indietro e ritrovare se stessi, come si potrà essere di nuovo soli? -, con Broch questo punto e questo momento non venivano mai, non c'era niente che ordinasse l'alt, non s'incontravano mai segnali di pericolo o linee di demarcazione, si continuava ad arrancare, sempre più avanti, sempre più in fretta, e come in uno stato di ubriachezza. E" un'esperienza sconvolgente scoprire quante cose abbiamo da dire su noi stessi; e quanto più ci avventuriamo e ci smarriamo in questo territorio, tanto più la corrente s'ingrossa: dal sottosuolo erompono le sorgenti calde, diventiamo un paesaggio di geyser. Le eruzioni di questo tipo non mi erano ignote, le avevo subite io stesso da altri, con la differenza che io ero abituato a reagire: dovevo dire la mia, non potevo star zitto, e nel parlare prendevo posizione, giudicavo, consigliavo, lasciavo trasparire simpatia o antipatia. Broch invece, in una situazione simile, taceva. Non era un silenzio freddo o calcolato, un silenzio come quello della psicoanalisi, dove in sostanza un uomo si consegna irrimediabilmente a un altro che non deve permettersi alcun sentimento, né favorevole né contrario. Il silenzio con cui Broch ascoltava era interrotto da piccoli, percettibili, respiri, i quali dimostravano all'interlocutore che non era stato solo ascoltato, era stato accolto, come se ogni frase gli avesse aperto l'accesso a una casa in cui poteva accomodarsi a suo agio. I piccoli suoni che accompagnavano i respiri erano gli onori che l'anfitrione rendeva all'ospite: "Chiunque tu sia, qualunque cosa tu dica, entra pure, sei mio ospite, rimani finché vuoi, ritorna, resta pure per sempre!". Quei piccoli suoni erano una reazione ridotta al minimo, mentre parole e frasi compiute avrebbero comportato un giudizio e avrebbero avuto il valore di una presa di posizione prima ancora che tu avessi messo piede nella casa ospitale con tutto quello che ti eri portato dietro. Lo sguardo dell'anfitrione era sempre puntato su di te e, nello stesso tempo, verso l'interno delle stanze in cui ti invitava. Sebbene la sua testa somigliasse a quella di un grosso uccello, l'occhio non celava mai propositi rapaci. Lo sguardo di Broch si perdeva in una lontananza che quasi sempre inglobava l'interlocutore che gli stava vicino, e ciò che vi era di più profondo in lui, mentre guardava, si collocava nello stesso rapporto di vicinanza e lontananza. Era un'accoglienza arcana, quella che ti riservava, e per quell'accoglienza ti lasciavi soggiogare da Broch. A quel tempo non conoscevo una sola persona che non la desiderasse ardentemente. Quell'accoglienza non aveva "segni premonitori", non aveva un prezzo, e nelle donne diventava amore. NOTE: (1) Johannes Gustav von Allesch (1882-1967), autore di fondamentali studi sulla percezione dei colori, docente di psicologia in diverse università tedesche. Musil ideò per lui un apparecchio per la valutazione della sensibilità ai colori. Allesch dedicò all'amico il saggio "Robert Musil nel movimento intellettuale del suo tempo" ?N" d'T"*. Inizio di un contrasto Nel corso dei cinque anni e mezzo in cui Broch fu presente nella mia vita, mi sono reso conto solo a poco a poco di una cosa che oggi, mentre una minaccia perentoria sovrasta ogni forma di vita, può apparire naturale: la nudità del respiro. Il mezzo principale con cui Broch percepiva e assimilava il mondo circostante, il senso che in lui primeggiava, era il respiro. Mentre altri sono costretti a vedere e udire in continuazione, senza fine, e si concedono un po'"di riposo solo di notte, ritirandosi nel sonno, Broch era senza tregua in balia del proprio respiro: non poteva liberarsene e cercava di scomporlo con quei suoni, appena percettibili e rauchi, che io ho chiamato la sua punteggiatura respiratoria. (1) Compresi ben presto che Broch non era capace di scrollarsi di dosso nessuno. Mai una volta gli ho sentito pronunciare un "no". Gli riusciva più facile scrivere un "no", perché allora la persona a cui era diretto non gli stava di fronte e non gli mandava il proprio respiro. Per strada uno sconosciuto avrebbe potuto rivolgergli la parola e prenderlo per il braccio: Broch lo avrebbe seguito senza la minima resistenza. Non mi era mai accaduto di assistere a una scena simile, ma me la immaginavo e mi domandavo dove Broch avrebbe seguito quell'uomo: fino in un luogo che era determinato dal respiro dello sconosciuto. Quella che comunemente si chiama curiosità assumeva in Broch una forma particolare che si è tentati di definire "avidità respiratoria". Ho scoperto allora, attraverso Broch, che ogni atmosfera è un mondo peculiare e separato in cui si può trascorrere una vita senza avere coscienza di questa peculiarità. Ogni essere respirante, e quindi ogni persona, poteva catturare Broch. Era stupefacente il modo in cui si esponeva, alla sua età, dopo tante esperienze e dopo essersi occupato Dio sa di quante cose. Per lui ogni incontro era un rischio, perché non sapeva più sottrarvisi. Per liberarsene, aveva bisogno di persone che lo aspettassero già da qualche altra parte. Fissava dei punti d'appoggio, sparsi in tutta la città e magari molto distanti l'uno dall'altro. Quando arrivava in un posto, per esempio da Veza nella Ferdinandstrasse, andava subito al telefono e chiamava Ea Allesch. "Sono dai Canetti," diceva "arrivo subito". Sapeva che là era già atteso, e dava una spiegazione rispettabile del proprio ritardo. Ma questo era il motivo apparente e superficiale della telefonata, un motivo dettato dall'atteggiamento ostile di Ea. Non telefonava soltanto a Ea: anche quando l'aveva appena lasciata e lei sapeva benissimo da chi era andato, Broch si rivolgeva a Veza, che non aveva ancora finito di salutarlo, e le domandava: "Posso telefonare?". Dall'altra parte c'era qualcuno a cui diceva dove si trovava in quel momento, e sembrava naturale che ci fosse sempre una persona che lo aspettava con cui doveva giustificare i suoi invariabili ritardi. Ma in realtà, credo, era ben altra l'operazione che Broch cercava di compiere. Si premuniva, si assicurava la strada che lo conduceva dall'una all'altra persona. Si preparava a dover percorrere in fretta la prossima tappa. Nessuna sorpresa doveva impedirglielo, nessuna "cattura". La fretta con cui camminava quando lo si vedeva per caso in giro, era la sua unica difesa. La prima cosa che diceva - in tono molto cortese, benché sostituisse il saluto - era: "Ho una gran fretta"; e muoveva le braccia, le sue ali mozzate, come se volessero levarsi in volo, le agitava un paio di volte e le lasciava ricadere scoraggiato. In quei momenti mi faceva pena. Pensavo: "Poveretto, peccato che non possa volare! E" sempre costretto a correre!". La sua era una doppia fuga: doveva strapparsi da coloro con i quali stava in quel momento, perché altri lo aspettavano, e lungo il cammino doveva sfuggire a tutti quelli che potevano incontrarlo e cercavano di trattenerlo. A volte lo seguivo con gli occhi mentre scompariva in fondo alla strada: la sua pellegrina svolazzava al vento come un paio d'ali. La rapidità del movimento era più apparente che reale. Quella testa d'uccello e la pellegrina davano nell'insieme l'idea di un volo tarpato che però non era mai indecoroso o scomposto. Quel tipo di deambulazione era diventato qualcosa di naturale, di congenito. Ho voluto accennare subito a ciò che vi era di incomparabile in Broch, a ciò che lo distingueva da tutte le persone che ho conosciuto. Se si prescinde da quei misteriosi processi respiratori che condizionavano il suo aspetto e le sue reazioni fisiche, ogni conversazione con Broch era così interessante che dispiaceva interromperla. Io gli avevo dedicato una devozione intatta e appassionata, rovesciandogli addosso un vero diluvio di opinioni, convinzioni, progetti; ma qualunque cosa esponessi, qualunque cosa arrischiassi, in lui restava sempre incancellabile la prima, violenta impressione provocata da Nozze dopo oltre due ore di lettura. Questa impressione rimase dietro a tutto ciò che mi disse negli anni seguenti, ma Broch era troppo riguardoso per farlo notare. Non si lasciò mai sfuggire una frase da cui potessi desumere che con me si sentiva a disagio. La casa di Nozze era crollata e tutti erano scomparsi nel crollo. Broch si rendeva conto dello stato di disperazione da cui era nato il mio dramma. In quegli anni era una disperazione condivisa da non poche persone, anche da lui. Ma la forma spietata in cui l'avevo espressa lo metteva in sospetto, come se io stesso facessi parte della minaccia che incombeva su tutti noi. Non credo che da questo egli traesse qualche conclusione. Aveva conosciuto Karl Kraus molto prima di me - io avevo diciannove anni meno di lui - e non era rimasto indifferente a Kraus e alla sua violenza, tanto superiore alla mia. Nelle nostre conversazioni il nome di Kraus non ricorreva spesso, ma Broch lo nominava con particolare rispetto. Non mi è mai successo, al tempo in cui vi partecipavo, di vedere Broch a una delle serate di Kraus. Una testa come la sua non l'avrei dimenticata. Forse evitava le letture pubbliche di Kraus da quando si era dedicato ai propri libri, forse non ne sopportava più ciò che vi era di soffocante. In questo caso avrebbe dovuto infastidirlo l'incontro con un'opera come Nozze, pervasa anch'essa di paure apocalittiche. Le mie, comunque, sono congetture: non potrò mai stabilire da che cosa dipendessero le reazioni segrete di Broch, forse cercava soltanto di sottrarsi alla mia impetuosa infatuazione per lui come a ogni altra infatuazione. Per le nostre prime conversazioni ci incontravamo al Café Museum all'ora di pranzo, ma nessuno dei due era solito mangiare qualcosa. Erano conversazioni animate, alle quali anche lui partecipava vivacemente (solo in seguito fui colpito dal suo silenzio, sempre più colpito). Ma non duravano a lungo, forse un'ora, e proprio nel momento in cui la discussione si era fatta così interessante che sarei rimasto lì per tutta la vita, lui si alzava di colpo e diceva: "Devo andare dalla dottoressa Schaxl". Era la sua analista. Broch era in analisi da anni, e poiché faceva in modo che c'incontrassimo poco prima della seduta, io avevo la sensazione che andasse dall'analista ogni giorno. Mi sembrava di ricevere una mazzata sulla testa: quanto più libero e schietto era il tono con cui mi rivolgevo a lui - ogni sua frase aveva l'effetto di aumentare il mio slancio -, quanto più sapienti e penetranti erano le sue risposte, tanto più soffrivo per quell'interruzione improvvisa; e per di più mi sentivo offeso da quel nome ridicolo, Schaxl. C'erano lì due persone impegnate nella conversazione, e lui, l'uomo di cui mi bevevo le parole, l'uomo che aveva scritto un'opera come I sonnambuli, lui si alzava, lasciava una frase a metà e correva via per andare a parlare ancora una volta, come ogni giorno (così mi sembrava), con una donna che si chiamava Schaxl e faceva l'analista. Io restavo interdetto, sgomento, mi vergognavo per lui e non osavo immaginarlo nello studio di quella Schaxl, costretto a stendersi su un divano e a dirle cose che nessun altro poteva ascoltare e di cui forse egli non teneva neppure un appunto. Bisogna aver conosciuto Broch, la serietà, la dignità, la bellezza con cui stava lì seduto ad ascoltare, per comprendere quanto appariva umiliante il fatto che si stendesse su un divano per parlare - e senza guardare in faccia nessuno con quei suoi occhi. Ma è anche possibile, così penso adesso, che Broch cercasse di salvarsi dal diluvio delle mie parole, che non potesse sopportare il protrarsi di quelle conversazioni e che quindi scegliesse di proposito l'ora dell'appuntamento con me in modo che precedesse di poco la seduta dall'analista. D'altra parte Broch era così devoto a Freud che non rifuggiva neppure da usarne i termini, in tutto il loro significato e senza un'ombra di dubbio, anche nel corso di una conversazione seria e spontanea. Questo particolare non poteva non impressionarmi, perché sapevo della vasta cultura filosofica di Broch; ed era un'impressione poco gradevole, perché stava a indicare che egli metteva Freud sullo stesso piano di Kant, che pure adorava, di Spinoza e di Platone. I termini che nel linguaggio viennese di allora erano diventati banalità quotidiane, lui li pronunciava accanto a parole santificate da una venerazione secolare, compresa la sua. Ci conoscevamo da poche settimane quando Broch mi domandò se avevo voglia di tenere una lettura all'Università popolare di Leopoldstadt. Lui stesso vi era andato a parlare qualche volta, e volentieri mi avrebbe presentato all'uditorio. Mi sentii molto onorato dalla proposta e accettai. L'organizzatore, il dottor Schönwiese, fissò la lettura per il 23 gennaio 1933. Prima che finisse l'anno vecchio portai a Broch il manoscritto di "Kant prende fuoco". Alcune settimane dopo, eravamo già in gennaio, egli mi chiese di andare a trovarlo nella Gonzagagasse, dove abitava. "Che cosa vuol dire con questo?". Furono le sue prime parole, accompagnate da un gesto indefinito con cui mi indicò il manoscritto del romanzo, posato sul tavolo accanto a lui. La domanda mi lasciò talmente stupito che non seppi rispondere. Mi sarei aspettato qualsiasi altra domanda. Come si poteva riassumere in poche frasi ciò che si è voluto dire con un romanzo? Balbettai qualche parola quasi incomprensibile, certamente senza molto senso, ma dovevo pure rispondere qualcosa. Broch chiese scusa e ritirò la domanda. "Se lei lo sapesse, non avrebbe scritto il romanzo. La mia è stata una pessima domanda". Capì che non avevo un discorso bell'e pronto da tirar fuori per l'occasione, e tentò di circoscrivere l'argomento escludendo un po'"alla volta tutto ciò che a suo giudizio non poteva costituire il vero intento del romanzo. "Immagino che lei non avrà voluto scrivere semplicemente la storia di un pazzo. Non può essere stata questa la sua vera intenzione. Né, credo, voleva soltanto darci una figura grottesca alla maniera di Hoffmann o di Poe". Confermai che non era stata questa la mia intenzione, e lui annuì. Poiché lo aveva colpito l'aspetto grottesco dei personaggi, mi sentii in dovere di portare il discorso su Gogol", che in effetti era stato un mio modello. "Ero piuttosto sotto l'influsso di Gogol"" dissi. "Dovevano essere personaggi estremi, spinti fino ai limiti del possibile, comici e spaventosi insieme, in modo che lo spaventoso non si possa separare dal comico". "Lei mette addosso alla gente una bella paura. Vuole proprio spaventarla?". "Sì. Intorno a noi tutto suscita paura. Non c'è più un linguaggio comune. Nessuno capisce l'altro. Credo che nessuno voglia capire l'altro. Nel suo Huguenau mi ha molto colpito il fatto che gli uomini sono insediati entro diversi sistemi di valori e che fra loro non c'è possibilità di comprensione. Huguenau è quasi un personaggio come lo concepisco io. Non che questa situazione si esprima nel suo linguaggio, poiché Huguenau parla ancora con gli altri. Ma alla fine del libro c'è un documento, c'è la lettera di Huguenau con la sua richiesta alla vedova Esch, scritta tutta nel linguaggio che gli è proprio: la lingua tipica del mondo mercantile. Ebbene, qui lei porta al limite estremo la separazione di quest'uomo da tutte le altre creature del romanzo. Ciò corrisponde in pieno a quello che ho in mente. A questo io ho voluto attenermi sempre, in ogni personaggio e in ogni momento del mio romanzo". "Ma questi, allora, non sono più uomini reali. Tutto si trasforma in qualcosa di astratto. Gli uomini reali sono composti di molti elementi. Hanno in sé impulsi contraddittori che si combattono tra loro. Si può dare un'immagine veritiera del mondo se si prescinde dal mondo? E" lecito deformare le creature fino al punto che non sono più riconoscibili come esseri umani?". "Sono figure, personaggi. Uomini e personaggi non sono la stessa cosa. Il romanzo come genere letterario è cominciato con i personaggi. Il primo romanzo è stato il Don Chisciotte. Che cosa pensa lei del protagonista? Forse non le sembra credibile perché è talmente estremo?". "Erano altri tempi. Allora, mentre imperversavano ancora i romanzi cavallereschi, era un personaggio credibile. Oggi ne sappiamo di più, sul conto degli uomini. Esiste una psicologia moderna e ci dice sugli uomini cose davanti alle quali non possiamo semplicemente chiudere gli occhi. La letteratura dev'essere, intellettualmente, all'altezza del proprio tempo. Se rimane indietro rispetto al proprio tempo, diventa qualcosa di Kitsch e serve a scopi diversi che stanno al di là della letteratura e dunque sono illeciti". "In altre parole, il Don Chisciotte non dovrebbe dirci più niente. Per me non è soltanto il primo romanzo, ma rimane ancora e sempre il più grande. Non mi fa rimpiangere nulla, neanche le scoperte moderne. Arriverei perfino a dire che evita certi errori della moderna psicologia. L'autore non si propone un'indagine sull'uomo, non vuole mostrare tutto ciò che forse si nasconde in un singolo uomo, ma crea certe unità che delinea nettamente e contrappone l'una all'altra. Dalla loro azione reciproca nasce ciò che egli ha da dirci sull'uomo". "Ma così non possono essere dette molte delle cose che oggi c'interessano e ci affliggono". "Certo no, le cose che allora non esistevano non possono essere dette. Ma oggi si possono concepire personaggi nuovi, e chi sa farli agire esprime le cose che oggi c'interessano". "Devono esserci metodi nuovi anche nell'arte. Nell'età di Freud e di Joyce non può restare tutto come prima". "Credo anch'io che oggi il romanzo dev'essere diverso, ma non perché viviamo nell'età di Freud e di Joyce. La sostanza del tempo è un'altra, e ci vogliono personaggi nuovi per mostrarla. Quanto più si distinguono l'uno dall'altro, quanto più sono portati all'estremo, tanto più forti sono le tensioni tra loro. Quello che conta è il tipo di queste tensioni. Esse ci fanno paura, la paura che riconosciamo come nostra propria. Esse servono a inculcare questa paura. Anche nella ricerca psicologica ci imbattiamo nella paura e ne definiamo i contorni. Così, si applicano i mezzi nuovi, o nuovi almeno in apparenza, che devono liberarcene". "Ma questo non è possibile. Che cosa potrebbe mai liberarci dalla paura? Si può forse attenuarla, ecco tutto. Ciò che lei ha ottenuto, nel suo romanzo e anche in Nozze, è una intensificazione della paura. Lei colpisce l'uomo nella sua malvagità, come se di questa volesse punirlo. So che la sua intenzione più profonda è quella di costringerlo a convertirsi. Viene spontaneo pensare a una predica, a un quaresimale. Ma lei non minaccia l'inferno, lei lo rappresenta, e già in questa vita. Lei non lo rappresenta oggettivamente, affinché la gente ne abbia una visione più esatta e una conoscenza reale, ma lo rappresenta in modo che la gente ci si senta già dentro e ne sia angosciata. Ma il compito dello scrittore è quello di portare più paura nel mondo? Le sembra uno scopo così nobile?". "Lei, per il romanzo, segue un altro metodo. E lo ha applicato con coerenza nella struttura di Huguenau. Lei contrappone differenti sistemi di valori, buoni e cattivi, in modo che il contrasto salti all'occhio. A ridosso del mondo mercantile di Huguenau c'è il mondo religioso della ragazza dell'Esercito della Salvezza. Così lei introduce una compensazione e toglie un po'"della paura che incute col personaggio di Huguenau. Ho letto la sua trilogia tutta d'un fiato, me ne sono lasciato compenetrare, ed essa ha creato in me molti spazi che sono rimasti e resistono ancora oggi, sei mesi dopo la lettura, dentro di me. Non c'è dubbio che con la sua trilogia lei ha allargato le mie vedute e mi ha arricchito. Ma lei mi ha anche acquietato. Capire acquieta. Ma è lecito che la comprensione acquieti soltanto?". "Lei invece vuole intensificare l'inquietudine fino a farla diventare panico. In Nozze vi è certamente riuscito. Il risultato finale è uno solo: distruzione e rovina. Ma lei vuole questa rovina? Si intuisce che lei vuole esattamente il contrario. Lei vorrebbe poter fare qualcosa per indicare una via d'uscita, ma non ne indica nessuna: a tutt'e due le opere, al dramma come al romanzo, lei dà un epilogo crudele e spietato, con la distruzione. C'è in questo una intransigenza che bisogna rispettare. Ma questa intransigenza significa che lei ha rinunciato alla speranza, che lei stesso non riesce a trovare la via d'uscita? O significa che dubita addirittura della possibilità di una via d'uscita?". "Se ne dubitassi, se avessi davvero rinunciato alla speranza, non potrei più vivere. No, io credo semplicemente che noi sappiamo ancora troppo poco. Lei si richiama volentieri alla psicologia moderna, e mi sembra che ne sia orgoglioso, poiché essa ha avuto i natali, per così dire, nell'ambiente che le è più familiare, in questa cerchia particolare del mondo viennese. Per questa psicologia lei nutre una specie di affetto patriottico. Forse ha la sensazione che avrebbe potuto scoprirla lei stesso. Qualunque cosa essa dica, lei la ritrova subito dentro di sé, non ha nemmeno bisogno di andare a cercarla. Ebbene, a me questa psicologia sembra del tutto insufficiente. Essa si occupa dell'individuo, e qui è anche arrivata a qualche risultato, ma c'è poi un altro terreno dove non sa neanche da che parte cominciare, ed è la massa, che è la cosa più importante, quella su cui sarebbe necessario sapere di più, perché ogni nuovo potere che sorge ai nostri giorni si ciba deliberatamente della massa. In pratica, chi mira al potere politico sa come bisogna operare sulla massa. Solo gli altri, le persone consapevoli che queste operazioni portano diritto alla nuova guerra mondiale, non sanno come influire sulla massa per evitare che venga manovrata a danno di tutti noi. Bisognerebbe scoprire queste leggi del comportamento di massa. Ecco il punto, ecco il compito più importante davanti al quale ci troviamo oggi: di questa scienza non esistono ancora neppure i primi rudimenti". "Non possono esistere. Lì tutto è vago e incerto. Lei è su una pista sbagliata. Lei non può trovare le leggi della massa perché non esistono. E" un peccato che sprechi così il suo tempo. Mi ha già detto più di una volta che questo è il vero scopo della sua vita, di essere ben deciso a dedicarvi anni, decenni, anche l'intera vita, se è necessario. Sarebbe una vita buttata al vento. Si dedichi piuttosto ai suoi drammi. Lei è uno scrittore. Non può votarsi a una scienza che non è tale e non lo sarà mai". Non fu questo il solo colloquio che ebbe per tema le ricerche sulla massa. Broch, come ho già detto, era sempre pieno di riguardi verso l'interlocutore, come se temesse di fargli male esprimendosi in modo troppo reciso. Si preoccupava prima di tutto della natura di chi gli stava di fronte, del suo carattere e delle premesse che lo facevano "funzionare". Così accadeva raramente che la conversazione prendesse un tono aspro, per Broch era impossibile umiliare qualcuno, e quindi evitava di insistere troppo a voler avere ragione. Tanto più riuscivano memorabili le poche occasioni in cui la discussione si faceva accanita. Broch disapprovava severamente il nome che avevo scelto per il protagonista dei mio romanzo, il quale si chiamava ancora Kant nel manoscritto che gli avevo dato da leggere. Anche il titolo "Kant prende fuoco" lo irritava, come se io volessi sottintendere che il filosofo Kant era una creatura fredda, insensibile, e che ora, in quel libro crudele, era costretto a prender fuoco. Su questo punto Broch non si esprimeva a chiare lettere, diceva tuttavia che gli sembrava inopportuno l'uso di un nome per il quale nutriva la massima venerazione. Non per niente la sua prima osservazione critica fu appunto: "Lei deve cambiare il nome"; ed era così poco disposto a ricredersi che quasi a ogni incontro mi domandava: "Allora, ha cambiato il nome?". Io gli spiegavo che il nome e il titolo erano sempre stati provvisori e che prima ancora di conoscere lui mi ero reso conto della necessità di cambiarli se il libro fosse arrivato alla pubblicazione. Ma queste spiegazioni non gli bastavano. Non era soddisfatto e mi domandava: "Perché non li cambia subito? Lo faccia adesso, sul manoscritto". Io provavo una certa riluttanza, era come un comando impartito da una persona che non poteva dare ordini perché non si addiceva alla sua natura. Volevo restare fedele il più a lungo possibile al mio titolo originario, anche se provvisorio. Lasciai il manoscritto com'era e aspettai il momento in cui avrei fatto le correzioni di mia volontà e non su pressione altrui. Ho già detto qual era il secondo punto su cui Broch insisteva: l'impossibilità di una psicologia della massa. Il suo giudizio non mi faceva la minima impressione, e per quanto ammirassi Broch come uomo e come scrittore, per quanto rinnovassi i miei vani sforzi per attirarmi anche la sua simpatia, non mi sarei mai sognato di dargli ragione su questo punto solo per usargli un riguardo. Al contrario, cercavo di convincerlo che il futuro poteva avere in serbo cose del tutto nuove, che c'erano nessi e situazioni su cui, stranamente, non si era mai riflettuto. Lui mostrava scarso interesse e, pur ascoltando le mie parole, si limitava quasi sempre a sorridere. Sembrava indignato quando io criticavo le concezioni di Freud. Una volta tentai di chiarire che occorreva distinguere tra panico e fuga di massa: il panico è sì una vera disgregazione della massa, ma vi sono anche casi - e lo si può vedere per esempio nelle mandrie - vi sono casi in cui le masse in fuga non si disgregano, restano compatte e anzi traggono vantaggio proprio dal senso vivissimo di essere una massa. Quel giorno Broch mi domandò: "E lei come fa a saperlo? Le è capitato di essere una gazzella in un branco in fuga?". Per contro non tardai a scoprire che c'era qualcosa che gli faceva sempre effetto, ed era la parola "simbolo". Quando usavo l'espressione "simbolo di massa", tendeva l'orecchio e si faceva spiegare esattamente il significato che le attribuivo. A quel tempo avevo fatto le mie riflessioni sul nesso tra fuoco e massa, e Broch, poiché ricordava, come tutti a Vienna, l'incendio del 15 luglio 1927, meditava su ciò che gli avevo detto e ogni tanto ritornava sull'argomento. Ma soprattutto gli piacque un certo mio discorso sul mare e sulle sue gocce prese singolarmente. Gli avevo raccontato come io provassi una sorta di compassione per le gocce isolate che mi cadevano sulla mano, perché erano separate dal grande insieme al quale appartenevano. Lo colpiva tutto quello che toccava o sfiorava la sfera dei sentimenti religiosi, e quindi anche la semplice parola "compassione" che avevo adoperato a proposito delle gocce; e si abituò a vedere qualcosa di religioso nelle mie ricerche sulla massa e a parlarne in questo senso. Per me era come una riduzione del mio impegno, e perciò reagivo vivacemente, ma alla fine rinunciai a discuterne con lui. NOTE: (1) Si veda, in La coscienza delle parole, il discorso tenuto da Canetti a Vienna, nel novembre 1936, per il cinquantesimo compleanno di Hermann Broch ?N" d'T"*. Il direttore d'orchestra Teneva le labbra ermeticamente serrate perché non ne sfuggisse una parola d'elogio. Imparare a memoria con precisione era per lui una questione di vita o di morte. Ancora giovanissimo, quando faceva una vita di stenti, si era avvicinato a testi difficili e se ne era impadronito a pezzi e bocconi nei pochi momenti strappati al lavoro con cui campava. Mentre faceva il violinista nei locali notturni, ed era ancora un ragazzo di quindici anni, pallido, con molto sonno arretrato, teneva Spinoza sul leggio, sotto i suoi fogli di musica, e anche negli intervalli più brevi studiava a memoria l'Etica, frase per frase. Ciò che imparava non aveva niente a che fare col suo mestiere, ma era come un gradino a sé stante della cultura. Studiava molte altre cose, e a parte lo sforzo che tutte gli costavano in uguale misura, non ce n'era una che avesse un reale rapporto con l'altra. Prevaleva sempre la volontà, era una volontà indistruttibile, aveva bisogno di cose nuove in cui esercitarsi e continuò a trovarne per una vita intera. Fino alla vecchiaia fu la volontà a decidere, un appetito inestinguibile che però era diventato, per la costante consuetudine con la musica, un appetito ritmico. La smania di imparare, con cui si era elevato da giovane, rimase la stessa in tutte le fasi successive della sua vita. Si potrebbe dire che l'aveva conservata come vocazione quando già aveva una professione. Era diventato direttore d'orchestra precocemente, nonostante tutte le difficoltà, ma non era ancora contento di quello che aveva sotto mano. Forse quell'attività non bastava da sola a riempirgli la vita, e forse per questo non è mai diventato un direttore d'orchestra veramente grande. Teneva gli occhi puntati su tutto ciò che era diverso, perché lì c'era ancora da imparare. Gli anni in cui la musica si rinnovava e per rinnovarsi si ramificava come non era mai avvenuto, furono per lui una manna dal cielo. Ogni scuola musicale, purché fosse nuova, gli poneva dei problemi, e lui poteva, e con tutte le forze voleva, risolvere problemi nuovi. Ma nessun problema, neanche il più grande, poteva per lui essere tale da eclissarne altri. Lui si accollava quel problema, ci si accaniva, non si lasciava intimidire da nessuna difficoltà, ma intanto si teneva in serbo tutti gli altri problemi che per altri versi si presentavano come nuovi, e anche tutti quelli che prima o poi si sarebbero delineati in futuro. Per lui era un doppio impegno: doveva imparare cose nuove che voleva far sue in tutto e per tutto (per quanto è possibile, senza escludere interamente altre cose); ma poi si trattava anche - ed era il punto più importante - di portare queste cose nuove alla vittoria, cioè di presentarle nella forma più perfetta a un pubblico impreparato per il quale erano nuove e da principio irriconoscibili, inusitate e repellenti, in apparenza orribili. Per lui era una prova di forza che aveva un doppio volto: bisognava far violenza ai musicisti costringendoli a eseguire quelle novità, e poi, presi in pugno i musicisti, far violenza al pubblico, e tanto meglio se il pubblico era particolarmente riottoso. La sua specialità, si potrebbe anche dire la sua libertà, consisteva nel far violenza usando mezzi sempre nuovi e diversi, nel non impegnarsi in una direzione precisa per volgersi invece da qualunque parte dove gli si proponesse un problema difficile. Era dunque il primo che avesse presentato al pubblico questa o quella cosa assolutamente ignota, prima di chiunque altro: era lui lo scopritore, si potrebbe dire. E gli premeva che queste scoperte si sommassero l'una all'altra, che ce ne fossero sempre di più, e poiché il loro numero e la loro varietà gli facevano crescere l'appetito, a volte non si accontentava della musica e provava una gran voglia di estendere il suo potere ad altri territori e di annettersi, per esempio, anche il teatro drammatico: allora pensava di organizzare dei festival che accogliessero un dramma nuovo insieme con la musica nuova. Fu in uno di questi momenti della sua vita che io lo incontrai. Hermann Scherchen era sempre alla ricerca del nuovo. Quando arrivava in una città in cui doveva dirigere per la prima volta, tendeva l'orecchio per scoprire di chi si parlava. Conosceva l'accento con cui la gente pronunciava il nome di chi destava scandalo e sorpresa. Cercava di mettersi in contatto con lui, gli faceva dire di presentarsi durante le prove e disponeva le cose in modo che "l'uomo nuovo" lo trovasse in piena attività e ci fosse appena il tempo per una stretta di mano, perché di là c'era l'orchestra che lo aspettava. Se il "nuovo" gl'interessava, glielo lasciava capire, ma purtroppo il colloquio doveva essere rinviato a una prossima volta, e non era detto che allora ci fosse più tempo. Bastava questo perché il "nuovo" si sentisse onorato: dopo tutto, gli intermediari gli avevano detto e ripetuto quanto il direttore d'orchestra tenesse a quell'incontro. Il primo contatto era dunque piuttosto freddo, ma poteva dipendere dalla mancanza di tempo, ci voleva poco a capire quanto fosse arduo il compito che il direttore si era assunto, per di più in una città come Vienna, che aveva una pessima fama per il suo inveterato conservatorismo in fatto di musica. Non si poteva volerne a quel pioniere del rinnovamento se era tutto assorto nel suo lavoro, anzi bisognava ancora essergli grati se manifestava il desiderio di un secondo incontro in un'occasione più favorevole. Era giusto dimostrargli comprensione, accettare con entusiasmo. Perfino in quei momenti tumultuosi delle prove era facile rendersi conto che un uomo come lui si aspettava qualcosa dal candidato di turno, e poiché gli stavano a cuore soltanto le cose nuove, ciò che si aspettava era qualcosa di nuovo; e dunque il candidato, prima ancora di essersi fatto conoscere, si sentiva incluso tra coloro che avevano il diritto di annoverarsi tra i nuovi. Poteva succedere che vi fossero ancora alcuni incontri successivi senza che si arrivasse a un vero colloquio, ma ogni rinvio rendeva il colloquio sempre più importante. Se però tra gli intermediari c'era una creatura di sesso femminile che lo stuzzicava, la faccenda non andava tanto per le lunghe. Dopo una prova il maestro faceva il suo ingresso al Café Museum con qualche persona al seguito e si accingeva ad ascoltare in silenzio il candidato. Lo costringeva a parlare dell'argomento essenziale generalmente di una composizione, nel mio caso di un dramma -, guardandosi tuttavia dal pronunciare anche una sola parola in proposito. In occasioni simili si era colpiti in primo luogo dalle sue labbra sottili, ermeticamente serrate. C'era perfino da dubitare che stesse ascoltando, perché non si apriva in alcun modo, il viso restava liscio e controllato, senza mai un'espressione che tradisse approvazione o rifiuto, la testa ben alta e dritta su un collo un po'"grassoccio e sulle spalle rigide, inflessibili. Quanto più efficace era il suo silenzio, tanto più il candidato parlava; e a poco a poco, senza accorgersene, si trovava ridotto a recitare la parte del postulante al cospetto di un principe che si riservava ogni decisione il più a lungo possibile, forse per sempre. Eppure Hermann non era propriamente un uomo taciturno. A conoscerlo meglio, si restava increduli scoprendo quanto parlava e con quale velocità. Ma erano per lo più parole di autoincensamento, si potrebbe dire inni di vittoria se la voce non fosse stata così incolore e monotona. C'erano anche momenti in cui si piccava all'improvviso di stabilire un arbitrario collegamento tra cose che per caso gli erano appena capitate sott'occhio. Allora le disponeva in un certo ordine, come se fosse autorizzato e ben deciso a dar loro forza di legge. "Intorno al 1100 avanti Cristo c'è stata un'esplosione nell'umanità". Intendeva un'esplosione di energia artistica, perché per il resto non aveva molta simpatia per la parola "esplosione". Ero stato con lui in un museo ed era passato piuttosto in fretta, secondo la sua solita andatura, davanti a oggetti dalle provenienze più diverse: cretesi, ittiti, assiri, babilonesi. Sulle targhette con le date lui aveva letto due o tre volte l'indicazione 1100 à c'e ne era rimasto colpito. Precipitoso e capriccioso com'era, aveva tirato subito la sua conclusione: "Intorno al 1100 avanti Cristo c'è stata un'esplosione nell'umanità". Era taciturno, spietatamente taciturno, quando aveva davanti a sé qualcuno che pensava di scoprire o di spingere avanti. Per lui, allora, era una questione di vita o di morte non lasciarsi scappare una parola di lode. Se ne stava lì con le labbra serrate e si era talmente abituato a lesinare ogni sillaba, e soprattutto ogni elogio, che la stessa espressione del viso ne era condizionata a dovere. Fu H'a mandarmi da Anna Mahler con una sua lettera. Non lasciava nulla di intentato. L'aveva conosciuta quando lei, giovanissima, era sposata al compositore Ernst Krenek. Allora, essendo all'inizio della carriera, H" non poteva pretendere molta attenzione da parte di Anna. Del resto la giudicava ancora immatura, tanto è vero che si sottometteva a Krenek, pronta a servirlo nel suo lavoro. Krenek non faceva che comporre, rapido e instancabile, mentre Anna se ne stava rannicchiata accanto a lui a ricopiare ogni nota. Era ancora il periodo in cui per lei esisteva soltanto la musica. Aveva imparato a suonare sette od otto strumenti e a turno si teneva in esercizio con l'uno o con l'altro. Era sempre stata un'ammiratrice del talento prolifico e vedeva il segno del genio in una produzione copiosa, continua, senza pause. Questo culto della fecondità ininterrotta le rimase in tutti i periodi successivi della sua vita. Ammirava soltanto i creatori o quelli che riteneva tali. Quando poi passò dalla musica alla letteratura, fecero colpo su di lei i romanzi lunghi e gli autori che, finito un romanzo, ne sfornavano subito un altro. Negli anni del matrimonio con Krenek il culto della fecondità si limitava ancora alla musica, e Anna sembrava ben contenta di servire quel giovane creatore. Krenek era stato uno dei primi a entrare nella galleria dei talenti scoperti da H". (1) Quest'ultimo aveva notato Anna fin da allora, ma non si sentiva attratto dall'ancella di un altro. Adesso, giunto a Vienna con la testa piena di mirabolanti progetti, si diede a riallacciare tutte le vecchie relazioni, com'era sua abitudine, e così fu invitato nel palazzo della Maxingstrasse che apparteneva all'editore Paul Zsolnay. Li trovò Anna, divenuta la padrona di quella grande magione, una donna dai capelli biondo chiaro, con le sue ambizioni nel campo dell'arte e con una fama incipiente di scultrice. Forse H'andò a trovarla anche nell'atelier, sebbene sia poco probabile, ma di sicuro la vide durante un ricevimento in casa Zsolnay. H" non godeva della stima di Alma, la madre di Anna, della quale conosceva il potere nella vita musicale di Vienna. Tanto più teneva dunque ai favori della figlia. Allungò le sue antenne e cercò di ingraziarsela scrivendole una lettera che io stesso dovevo consegnare ad Anna personalmente nel suo atelier. H'era ben disposto verso di me, alla sua maniera, e fu lui a preparare la mia prima visita ad Alban Berg. Gli aveva fatto impressione una lettura di Nozze alla quale aveva assistito nella casa di Bella Band, cioè in un ambiente ideale, proprio l'ambiente del mio dramma trasferito nel mondo della grande borghesia. Non che avesse speso una sola parola per esprimere le sue reazioni: dopo due ore di lettura - due ore di baldoria nuziale con l'epilogo catastrofico - era rimasto muto come un pesce. I lineamenti restarono freddi e impassibili come sempre, e le labbra, l'ho già detto, ermeticamente chiuse. Ciò nonostante avevo notato che in lui era avvenuto un cambiamento. Mi era sembrato - quasi impercettibilmente - rattrappito. Ma alla fine non si lasciò sfuggire una parola di principesca degnazione, non toccò i rinfreschi e se ne andò molto presto. Anche quella volta H" fu fedele alla sua abitudine di piantare tutti in asso. Si alzava e usciva dicendo appena poche parole, solo quelle strettamente indispensabili secondo le circostanze. Dava la mano quasi senza allungarla, neanche in questo voleva essere compiacente. Non solo, ma la teneva alta, e per arrivarci bisognava tendersi in avanti e alzarsi sulla punta dei piedi. Il permesso di toccare quella mano era una grazia concessa a pochi, e la grazia era accompagnata da un ordine secco col quale H" comunicava il giorno e l'occasione in cui ci si doveva presentare al suo cospetto. Poiché era sempre attorniato da altre persone, chi riceveva l'ordine si sentiva al tempo stesso privilegiato e umiliato. Quando H" si accomiatava, anche le più tenui tracce di un sorriso gli erano scomparse dalla faccia. Sembrava un essere inanimato e solenne, la scena aveva tutta l'aria di un rituale del potere eseguito davanti a una statua che però si muoveva a scatti e insieme con grande energia. Poi H" faceva il suo dietrofront con la precisione di un militare, e subito dopo il suo ultimo ordine, con le istruzioni per la prossima udienza, si aveva davanti agli occhi la visione di quella vasta schiena che si metteva in marcia con decisione ma mai troppo in fretta. Come direttore d'orchestra H'era senza dubbio abituato ad agire sul pubblico con la schiena, ma non si può dire che il suo repertorio di movimenti dorsali fosse molto ricco. Sembrava inanimato nel dorso come nel viso, la mimica era assente in ogni parte del suo corpo; e decisione, orgoglio, autorità, freddezza erano tutto ciò che H" voleva far vedere di sé. Il silenzio era per lui lo strumento più sicuro per esercitare l'oppressione. Non tardò a rendersi conto che con me era meglio lasciare da parte la musica in tutti i sensi, sia come talento artistico sia come interesse intellettuale. Non poteva far la parte del maestro che m'insegnava qualcosa. La relazione maestroallievo, nella quale era bravissimo, era da escludere, poiché io non suonavo nessuno strumento, non facevo parte di nessuna orchestra e non ero neanche un compositore. Doveva dunque pensare ad altre possibilità di assoggettamento. Nell'ambito dei festival che voleva organizzare per la musica moderna, pensava anche al teatro drammatico. Aveva ascoltato la mia lettura di Nozze, come ho detto, ed era rimasto di ghiaccio. Avrebbe taciuto in tutti i casi, ma quella volta il silenzio fu rinforzato dal fatto che H" se ne andò subito, perfino un po'"prima del solito. Se l'avessi conosciuto meglio, avrei potuto dedurne che gli era rimasta addosso una certa perplessità. Pensai sulle prime che gli riuscisse insopportabile l'atmosfera della serata, con quella padrona di casa, tutta nera, opulenta come una donna orientale, che straripava dal divano sul quale si era adagiata nel senso della lunghezza. Non mi sentivo affatto a mio agio mentre recitavo davanti a lei le battute di Johanna Segenreich. Sapevo che Bella Band, la ricca e grande borghese, apparteneva a tutt'altro ambiente, a un ambiente carico di brillanti, e che non avrebbe degnato di un solo sguardo la Segenreich se mai l'avesse incontrata; e tuttavia intuivo da ogni sua parola che si trattava dello stesso tipo di donna. Ma non credo che Bella Band si sentisse colpita: lei era la padrona di casa e come tale ascoltava la lettura organizzata in casa sua dal figlio, che io conoscevo. Quanto alla musica moderna, per quel poco che a Vienna era presa in considerazione, l'onore di un invito era riservato a H", il quale era conosciuto come un pioniere anche in quell'ambiente, un pioniere ma niente di più. Secondo questo criterio si comportò il divano carico di quella massa femminile: Bella Band non si sottrasse, restò al suo posto sino alla fine, lesinò i sorrisi esattamente come lo stesso H", al quale non fece la corte neppure con uno sguardo. Sarebbe impossibile dire che cosa passò per tutta quella carne durante le scene della catastrofe: sono sicurissimo che la paura non la sfiorò nemmeno, ma credo anche che il terremoto non valse a intimorire H". Alla lettura erano presenti alcune persone più giovani. Anche loro, probabilmente, si sentivano protette dalla freddezza di H'e dall'imperturbabile amabilità di Bella Band. Così io ero proprio l'unico che quella sera avesse paura. Non sono mai riuscito a leggere Nozze ad alta voce senza un senso di paura. Non appena il lampadario comincia a oscillare sento avvicinarsi la fine; e non so spiegarmi come posso arrivare fino in fondo e leggere senza sbagliare tutte le scene della danza macabra - che pure occupano un terzo del dramma. Alla fine di giugno del 1933 ricevetti una lettera di H" da Riva del Garda. Mi scriveva di avere riletto Nozze e di essere rimasto atterrito dalla gelida, desolata astrazione in cui tutto si svolgeva. Era come annichilito dalla forza che l'autore aveva in sé e dall'uso che questa forza faceva di lui stesso. "Venga presto a trovarmi - meglio dopo il 23 luglio a Strasburgo. Così combatteremo insieme la nostra battaglia". Riteneva che l'autore del dramma potesse arrivare alle vette più alte della creazione letteraria, ma non aveva mai conosciuto un caso come il mio, in cui tutto dipendesse da quel che era l'uomo stesso. Essere capaci di cose tanto nuove, dominare una tecnica così diversa, frutto di una sicurezza sonnambolica, della forza propulsiva della parola come suono e della parola come pensiero, tutto ciò era una grande sfida. Io dovevo esserne all'altezza. Allegava una lettera e mi pregava di consegnarla ad "Anni", come lui la chiamava, a lei sola. "Le interessa il prospetto che unisco? Partecipi anche lei! Molto cordialmente, H" Sch"". Mi costa un certo sforzo riferire il contenuto della lettera di H" nelle sue parti essenziali. Ma non posso non accennarvi, dal momento che ebbe un'importanza decisiva nella mia vita. Fu quella lettera ad attirarmi a Strasburgo, e senza le persone che incontrai grazie al soggiorno a Strasburgo il mio romanzo non sarebbe arrivato alla pubblicazione. Ma la lettera contiene anche il più efficace ritratto di H": non si potrebbe descrivere in minore spazio il suo modo di accattivarsi gli uomini, di legarli a sé, di approfittarne, di adoperarli. Nella lettera non tutto è calcolo, e neppure tutto si riduce a una serie di ordini. Il terrore di cui parla H'a proposito della gelida, desolata astrazione non è inventato. Su questo tema il discorso è più lungo di quello che ho citato, ed è un discorso che rispecchia il suo pensiero. Ma a H" questo non potrebbe bastare. Ha appena ammesso il destinatario nel novero dei privilegiati, e subito lo convoca a Strasburgo, al suo convegno per la musica moderna, dove il poveretto è un pesce fuor d'acqua, dove H" convocherà mille altri che però sono musicisti, persone con le quali lavora e altre di cui è il primo a eseguire le opere. "Venga presto a trovarmi" - perché mai, a che scopo? "Così combatteremo insieme la nostra battaglia". Sono parole di una mostruosa presunzione: quale battaglia potrebbe combattere H'al fianco di uno scrittore? In realtà H" vuole avere sotto mano qualcuno da presentare come una grande promessa, vuole aggiungere un piccolo ornamento supplementare al suo convegno brulicante di musicisti che un giorno si faranno strada. Che razza di battaglia può mai essere? Per avere una legittimazione - pur sapendo che non gli resterebbe un minuto di tempo per la battaglia, anche se potesse combatterla - H" giustifica il suo ordine di arruolamento con un giudizio altisonante, che però revoca immediatamente accennando al presunto rischio che corre colui che viene giudicato. Così il destinatario, sballottato qua e là, si rende conto almeno di una cosa: che ha bisogno di H". E" allegata una lettera per "Anni", segreta. Anche a lei verrà ordinato di andare da qualche parte, per altri scopi. E poi il tono si fa ancora più sbrigativo: c'è il prospetto per il convegno, e: "Partecipi anche lei!". Non so che cosa darei per conoscere il contenuto delle lettere ad altre persone arruolate per quel convegno. I musicisti andarono a Strasburgo, e loro avevano un buon motivo. Ma H'ebbe anche la bella idea di radunare cinque vedove. Erano le vedove di cinque compositori celebri, e io riesco a ricordare soltanto tre delle cinque invitate: le vedove di Gustav Mahler, di Ferruccio Busoni e di Max Reger. Nessuna andò a Strasburgo. Al loro posto andò una che non c'entrava affatto, la vedova, di fresca data, di Friedrich Gundolf, (2) che arrivò vestita di nero da capo a piedi e si comportò con molta allegria e disinvoltura. NOTE: (1) Ernst Krenek aveva poco più di vent'anni quando fu invitato, nel 1921, a partecipare al Festival di Donaueschingen, una delle molte manifestazioni musicali promosse da Hermann Scherchen. Conobbe il suo più grande successo nel 1927 con l'operajazz Jonny spielt auf ("Jonny suona per voi") che venne ben presto presentata in quasi tutta l'Europa. Fu il secondo marito di una Mahler, dopo un oscuro musicista e prima dell'editore Paul Zsolnay, del direttore d'orchestra Anatole Fistoulari e dello scrittore e regista Albrecht Joseph ?N" d'T"*. (2) Il famoso critico era morto nel 1931 a Heidelberg, dove aveva la cattedra di letteratura tedesca dal 1920 ?N" d'T"*. Trofei Ero già stato qualche volta alla Hohe Warte, ma in forma privata e solo per incontrare Anna, che veniva ad accogliermi di persona da una porta secondaria. Quando finalmente decise di presentarmi a sua madre, la curiosità era reciproca, ma per motivi molto diversi: Alma Mahler non sapeva niente di preciso sul mio conto, si fidava poco della conoscenza che sua figlia aveva degli uomini e voleva sincerarsi che io fossi innocuo; quanto a me, sapevo che tutta Vienna parlava di lei nei termini più pungenti. Attraversai un cortile interno - ricoperto di piastrelle tra le quali l'erba aveva il permesso di crescere con calcolata naturalezza - e fui ammesso in una sorta di sancta sanctorum dove mi aspettava "mammina". Era una donna piuttosto alta, straripante da tutte le parti, fornita di un sorriso dolciastro e di occhi chiari, spalancati, vitrei. Dalle sue prime parole sembrava che mi aspettasse da un pezzo, perché ne sentiva tante sul conto di tutti. "Annerl mi ha raccontato" disse subito, e fin dall'inizio fece apparire piccola piccola sua figlia. Non voleva che ci fossero dubbi, neanche per un momento: chi contava era lei, in casa e fuori. Si sedette, e uno sguardo confidenziale fece intendere che bisognava prendere posto proprio accanto a lei. Obbedii con riluttanza, perché dopo il primo sguardo che le avevo dato, ero inorridito. Dappertutto si parlava della bellezza di Alma Mahler, si raccontava che era stata la più bella ragazza di Vienna e che aveva fatto una tale impressione su Mahler, molto più anziano di lei, da indurlo a chiedere la sua mano e a sposarla. La fama della sua bellezza si tramandava ormai da più di trent'anni, ma adesso Alma Mahler era lì in piedi e si sedette pesantemente: una persona in stato d'ebbrezza, molto più vecchia della sua età, circondata da tutti i trofei che aveva raccolto. La stanza in cui riceveva era infatti sistemata in modo che il visitatore avesse a portata di mano i pezzi più importanti di tutta una carriera: non c'era nulla che potesse sfuggire alla vista, la stessa Alma era il cicerone di quel museo privato. A meno di due metri da lei si trovava la vetrina in cui era esposta la partitura della Decima sinfonia di Mahler, rimasta incompiuta. L'ospite era invitato a osservarla, si alzava, si avvicinava e leggeva le disperate invocazioni del malato - era la sua ultima opera - alla moglie: "Almina, mia amata Almina!" e altre simili. La partitura era aperta su quelle pagine terribilmente intime. Doveva essere un mezzo collaudato per far colpo sui visitatori. Io lessi quelle parole tracciate dalla mano di un moribondo e guardai la donna alla quale erano dirette. Per lei, ventitré anni dopo, era come se fossero state appena scritte. Chi osservava quel cimelio era tenuto a dedicarle uno sguardo di ammirazione, uno sguardo cui lei aveva diritto per l'omaggio che il moribondo le aveva reso nelle ore dell'agonia; e lei era così sicura dell'effetto di quelle parole estreme che il suo sorriso insensato si allargava in un ghigno e con quel ghigno accoglieva l'omaggio. Non avvertì nulla dell'orrore e del disgusto che avevo negli occhi. Io non sorridevo, ma lei interpretò erroneamente la mia espressione seria come un segno della devozione dovuta a un genio morente; e poiché tutto avveniva in quella specie di cappella votiva che Alma aveva eretto alla propria felicità, anche la devozione le apparteneva. Ma era venuto il momento del quadro che stava appeso alla parete proprio di fronte a lei, un ritratto di Alma, dipinto pochi anni dopo le ultime parole del compositore. L'avevo notato subito, mi era rimasto negli occhi da quando ero entrato; aveva un che di feroce, di minaccioso, e la partitura aperta mi aveva talmente sbigottito che lo sguardo mi si confuse e il quadro mi apparve come il ritratto dell'assassina del compositore. Non ebbi il tempo di respingere questo pensiero perché Alma Mahler si alzò, fece tre passi verso la parete e, stando davanti a me e indicando il quadro, disse: "E questa sono io, dipinta da Kokoschka come una Lucrezia Borgia". Era un'opera del periodo migliore di Kokoschka. Alma Mahler alzò subito un muro tra sé e il pittore, che era ancora vivo e attivo, aggiungendo compassionevolmente: Poveretto, non ha fatto molta strada!". Kokoschka aveva ormai abbandonato la Germania, dove era all'indice come "artista degenerato", ed era andato a Praga per fare il ritratto al presidente Masaryk. Ero così stupito per quell'osservazione sprezzante che non potei trattenere una domanda: "In che senso non ha fatto molta strada?". "Ma sì, adesso è a Praga, non è che un povero emigrante. Non ha più dipinto niente di buono"; e con uno sguardo alla Lucrezia Borgia aggiunse: "Allora sì che era bravo. Questo quadro fa paura a tutti". Anch'io avevo avuto paura, ma adesso ne avevo ancora di più nell'apprendere che il pittore non aveva fatto molta strada. Il suo apice lo aveva toccato con le varie raffigurazioni della sua Lucrezia Borgia, e adesso, poveretto, era solo un fallito, perché non piaceva ai nuovi padroni della Germania, e il fatto che il presidente Masaryk posasse per lui contava poco o niente. Ma la vedova non accordò troppo tempo al secondo trofeo perché pensava già al terzo, che non era presente nel sacrario e che desiderava mostrarmi. Batté le sue mani adipose e gridò: "Ma dove si è nascosta la mia Mutz?". Dopo pochi istanti una gazzella entrò in punta di piedi nella stanza, un'esile creatura bruna, travestita da ragazzina, incontaminata dalle meraviglie in mezzo alle quali si trovava, così innocente da apparire più giovane dei sedici anni che poteva avere. Più che bellezza, irradiava intorno a sé timidezza, come una gazzella angelica venuta dal cielo, non dall'arca. Io balzai in piedi per impedirle di entrare in quell'antro dei vizi o almeno per risparmiarle la vista dell'avvelenatrice appesa alla parete, ma costei, che non smentiva mai il suo personaggio, aveva già preso inesorabilmente la parola: "Bella, eh? Le presento Manon, figlia mia e di Gropius. Non ce n'è un'altra come lei. Tu, Annerl, non la invidi, vero?... Che male c'è ad avere una bella sorella? Buon sangue non mente. Lei ha mai visto Gropius? Alto, bello. Proprio quello che si dice un vero ariano. L'unico uomo fatto su misura per me dal punto di vista razziale. Tutti gli altri che si sono innamorati di me erano piccoli ebrei, come Mahler. Io vado bene per gli uni e per gli altri. Adesso puoi andare, Mutz. Ancora un momento. Sali un po'"a vedere se c'è Franzi. Se sta scrivendo, non lo disturbare. Ma se non è occupato, digli di scendere". Manon, il terzo trofeo, scivolò via dalla stanza, incontaminata com'era venuta, l'incarico affidatole non sembrava esserle di peso. Provai un grande sollievo al pensiero che nulla potesse toccarla, che sarebbe rimasta sempre com'era adesso, che non sarebbe mai diventata come sua madre, come il viso velenoso del quadro o la vecchia donna disfatta sul divano con i suoi occhi vitrei. (Non sapevo in che modo orribile avrei avuto ragione. A distanza di un anno l'agile gazzella era una povera paralitica e veniva portata in giro sulla carrozzella, accompagnata dal chiacchierio di sua madre, ancora lo stesso chiacchierio. Dopo un altro anno era morta. Alban Berg dedicò la sua ultima opera "Alla memoria di un angelo"). In una delle stanze superiori, sotto il tetto, c'era il leggio al quale Franz Werfel scriveva stando in piedi. Una volta Anna mi aveva mostrato quella stanza durante una delle mie visite. Sua madre non poteva sapere che avevo già conosciuto Werfel a un concerto al quale avevo accompagnato Anna. Quella sera Anna era seduta tra me e lui, e per tutto il tempo mi sentii addosso un grande occhio sporgente. Werfel si era girato tutto verso destra per vedermi meglio, e quasi allo stesso modo il mio occhio sinistro si era girato verso sinistra per osservare meglio l'espressione del suo occhio. Così i due occhi fissi l'uno nell'altro s'incontrarono, batterono dapprima in ritirata sentendosi colti in flagrante, ma alla fine, poiché non era più possibile dissimulare quel vicendevole interesse, ritornarono al loro posto di vedetta. Io non so che musica fu eseguita. Se fossi stato Werfel avrei pensato prima di tutto al concerto, ma io non ero un tenore come lui, ero stregato da Anna e nient'altro. Lei non si vergognava di me, sebbene i miei pantaloni sportivi non fossero l'ideale per un concerto, e del resto avevo saputo solo all'ultimo momento che c'era un biglietto libero e che potevo accompagnarla. Anna era seduta alla mia sinistra, e mentre fissavo su di lei uno sguardo che credevo furtivo, mi imbattevo nell'occhio da batrace di Werfel. Mi venne in mente che la sua bocca somigliava a quella di una carpa e che il suo grande occhio sporgente vi si adattava a meraviglia. Ben presto il mio occhio sinistro si comportò esattamente come il suo occhio destro. Era il nostro primo incontro, e fu un duetto con accompagnamento musicale tra due occhi che - separati da Anna - non potevano accorciare la distanza tra loro. Gli occhi di lei, la cosa più bella che avesse, occhi che nessuno poteva dimenticare dopo averli avuti addosso una volta, rimasero esclusi dal gioco; ed era una grottesca deformazione della realtà se si pensa quanto erano insulsi, privi di qualsiasi irradiazione, gli occhi di Werfel e i miei. Ma poiché dovevamo seguire il concerto in silenzio, furono escluse dal gioco anche le parole, proprio le parole che Werfel sapeva maneggiare da maestro, con patetica eloquenza. (Pierino Boccadifuoco è il nomignolo che gli affibbiò il più grande dei suoi contemporanei, Musil). Di solito avevo anch'io la lingua pronta - almeno con Anna - ma tutt'e due stavamo zitti, ligi alla disciplina del concerto; e già in quel primo incontro era forse deciso il futuro dei nostri rapporti, l'ostilità di Werfel e la mia antipatia, l'inimicizia che doveva indurre Werfel ai più rozzi interventi nella mia vita. Adesso però sono ancora seduto vicino ad Alma, in mezzo ai suoi trofei, e lei, ignara di quell'incontro al concerto, ha appena mandato il terzo trofeo a cercare il quarto - il suo nome è Franzi perché venga giù, se per caso non sta scrivendo. A quanto sembra, stava proprio scrivendo, perché non si fece vedere, e per me fu meglio così, perché ero sotto l'impressione sconvolgente della vedova straripante e dei suoi primi trofei. Ero fermo a questa impressione, volevo conservarla integra dentro di me, e c'era il pericolo che i discorsi retorici di Werfel potessero alterarla in qualche modo. Le cose comunque andarono così, e io non saprei dire come me ne venni via, come mi congedai da Alma: nel ricordo io sono ancora seduto accanto all'Immortale e la sento in eterno parlare di "piccoli ebrei come Mahler". Strasburgo 1933 Non so che cosa si ripromettesse Hermann Scherchen dalla mia partecipazione al suo convegno di lavoro per la musica moderna. Io non potevo dare alcun contributo al ricco programma di Strasburgo. Le manifestazioni si tenevano al Conservatorio due volte al giorno. Erano arrivati musicisti da tutto il mondo, alcuni alloggiavano negli alberghi, i più erano ospiti di cittadini di Strasburgo. Io ero stato accolto dal professor Hamm, un noto ginecologo che abitava nella città vecchia, non lontano dalla chiesa di San Tomaso, nella Salzmanngasse. Pur essendo molto occupato, venne a p rendermi lui stesso all'ufficio del Conservatorio, dove i forestieri venivano smistati alle loro abitazioni, e mi condusse a piedi nella Salzmanngasse, illustrandomi subito alcune particolarità della vecchia città. Quando ci fermammo davanti alla sua casa, bella e solenne, rimasi colpito. Sentivo la vicinanza della cattedrale: non avevo osato sperare che avrei abitato così vicino alla meta dei miei desideri, perché era stata soprattutto la cattedrale a farmi accettare l'invito a Strasburgo. Entrammo nell'androne, assai più spazioso di quanto ci si potesse aspettare in una via così angusta. Il professor Hamm mi accompagnò su per un'ampia scala fino al primo piano e aprì la porta della stanza riservata agli ospiti: una grande stanza, molto comoda, arredata secondo il gusto del Settecento. Già sulla soglia mi prese la sensazione che non ero degno di dormire lì, e fu una sensazione così intensa da lasciarmi senza parole. Il professor Hamm, che era un uomo vivace, molto francese, si aspettava da me un'esclamazione di entusiasmo, perché nessun ospite avrebbe potuto desiderare una stanza più bella. Sentì la necessità di spiegarmi dove mi trovavo, mi fece ammirare la vista sulla torre della cattedrale, che sembrava quasi a portata di mano, e poi disse: "Nel Settecento questa casa era una locanda, si chiamava "Auberge du Louvre". Herder vi ha abitato per un inverno. Era malato, non poteva uscire, e fu qui che Goethe veniva a trovarlo ogni giorno. Non lo sappiamo con sicurezza, ma la tradizione vuole che Herder abbia abitato proprio in questa stanza". Io ero sconvolto al pensiero che Goethe avesse parlato con Herder in quella stanza. "Proprio qui?". "Sicuramente in questa casa". Guardai spaventato verso il letto. Rimasi vicino alla finestra da cui mi era stata mostrata la vista della cattedrale. Non osavo rimettere piede nella stanza, tenevo d'occhio la porta da cui eravamo entrati come se ormai mi aspettassi quel visitatore. Ma non era ancora finita. Il professor Hamm, infatti, non aveva pensato soltanto alla leggendaria tradizione della casa. Si avvicinò rapidamente al comodino da notte, ne tolse un volumetto, un vecchio almanacco tascabile (credo che risalisse al 1770), e me lo porse. "Un piccolo dono per l'ospite," disse "un Musenalmanach con alcune poesie di Lenz". "Di Lenz? Di Lenz?". "Sì, prime pubblicazioni. Ho pensato che poteva interessarle". Come l'aveva saputo? Quel giovane poeta mi era caro come un fratello, mi era familiare in un modo diverso da quei due grandi, come qualcuno che ha sofferto un sopruso, che è stato defraudato della propria grandezza. Lenz, un eterno poeta dell'avanguardia, quello che avevo imparato a conoscere attraverso quel racconto di Büchner, il più bel brano di prosa tedesca; Lenz, il poeta ossessionato dalla morte, il poeta cui non era dato aver la meglio sulla morte. A Strasburgo, dove ora si raccoglieva un'altra avanguardia, anche se era quella della musica, Lenz era a casa sua. Qui aveva incontrato Goethe, il suo idolo, e l'incontro gli era stato fatale; e qui, sessant'anni dopo, era venuto Büchner, il suo allievo, che grazie a lui doveva portare alla perfezione, in un frammento, il dramma tedesco. Erano queste le cose che sapevo allora, e si concentravano tutte lì. Ma come poteva sapere il professor Hamm che mi stavano tanto a cuore? Sarebbe inorridito se avesse letto Nozze, e forse avrebbe perfino esitato ad accogliermi nella sua dimora. Ma in lui l'orgoglio per quella casa si univa all'istinto di un vero anfitrione, e perciò mi riservava il trattamento al quale un giorno - forse avrei avuto diritto. E" vero, m'invitava a dormire nella stanza in cui Herder aveva ricevuto Goethe, e chi mai al mondo potrebbe aver diritto a un tale onore? Ma mi aveva anche messo lì l'almanacco con le poesie di Lenz. Era un dono che risvegliava in me una commozione fraterna, perché Lenz aspettava ancora una riparazione, non era ancora stato ammesso a pieno titolo nel santuario di cui anche lui era degno. Portarono il mio bagaglio, e io mi insediai nella stanza. Durante le giornate del convegno accadeva un'infinità di cose: due concerti al giorno, musica tutt'altro che facile, conferenze (per esempio quella di Alois Hàba sulla sua musica microtonale), conversazioni con persone nuove e a volte molto interessanti. Ciò che mi piaceva particolarmente in quelle conversazioni era che si discuteva di musica, non di letteratura, perché già allora non sopportavo le conversazioni in pubblico su questioni letterarie. Non mancavano gli inviti da parte dei notabili della città e gli incontri serali dopo i concerti. Avevo la sensazione che tutto il mio tempo fosse impegnato, sebbene io - a differenza dei musicisti in verità non facessi un bel niente. Ma ero considerato un ospite personale di Scherchen, nessuno trovava da ridire sulla mia presenza. Può sembrare strano che nessuno mi domandasse: "E lei, che cos'ha scritto?". Non mi sentivo per nulla un truffatore, perché avevo scritto "Kant prende fuoco" e Nozze, e avevo la consapevolezza di aver fatto anch'io, come i compositori presenti a Strasburgo, qualcosa di nuovo. Che nessuno conoscesse quelle mie opere, tranne H", non mi procurava il minimo imbarazzo. A tarda notte, poi, ritornavo nella stanza che, almeno ai miei occhi, era stata sicuramente la stanza di Herder all'Auberge du Louvre. Sentivo di non esserne degno, era una sensazione da cui non riuscivo a liberarmi. Ogni notte era la stessa eccitazione, una sorta di paura, la coscienza di una profanazione, cui seguiva il castigo sotto forma di insonnia. Ma la mattina, quando era l'ora, mi alzavo abbastanza fresco, mi rituffavo di buon animo nel trambusto del convegno e per tutto il giorno non pensavo a ciò che la notte mi avrebbe nuovamente riservato. Il passato in cui ero finito quasi per errore ma nel quale sarei rimasto volentieri per tutta la vita, suscitava in me un'inquietudine che trovava un solo compenso; e questo era così meraviglioso che ogni giorno mi concedevo qualche pausa per godermelo: il mio compenso era la cattedrale. Ero stato a Strasburgo una sola volta, nella primavera del 1927, durante un viaggio di ritorno da Parigi a Vienna. Avevo fatto tappa in Alsazia per vedere la cattedrale a Strasburgo e l'altare di Isenheim a Colmar. Nelle ben poche ore della sosta a Strasburgo avevo cercato la cattedrale, e improvvisamente, già tardi nel pomeriggio, mentre ero nella Krämergasse, me l'ero vista davanti. Lo splendore rosso della pietra sull'immensa facciata occidentale era stata un'apparizione inattesa, poiché tutte le immagini che avevo visto prima erano in bianco e nero. Ora, dopo sei anni, ritornavo a Strasburgo, e non per poche ore - per settimane, un mese. Tutto era avvenuto molto casualmente o così sembrava. Nella sua instancabile ricerca di adepti H" si era rivolto a me, io avevo accettato il suo invito, e così, contro la mia volontà, avevo spezzato i fili dell'impetuosa passione per Anna, una passione appena agli inizi, e di cui era responsabile anche H", il quale aveva tentato di usarmi come portalettere. In verità non avevo esitato ad accettare, nonostante tutti gli ostacoli. Stavo scrivendo la Commedia della vanità ed ero ancora alla prima parte. C'erano dunque due cose che mi trattenevano a Vienna, entrambe molto importanti: la mia prima passione da quando avevo conosciuto Veza e - dopo il romanzo e Nozze - un terzo lavoro letterario che era nato sotto l'impressione degli avvenimenti in Germania e che dopo il rogo dei libri mi bruciava tra le dita. I contrasti con Anna cominciarono quando la mia partenza era già decisa ed era solo rinviata da qualche contrattempo nel rilascio del passaporto. Ma la Commedia urgeva sempre più: costretto a perdere il mio tempo nelle anticamere degli uffici, scrissi la predica di Brosam mentre aspettavo il visto al consolato francese. Se oggi mi domando che cosa mi spinse veramente a partire per Strasburgo, devo rispondere che fu - oltre all'energica volontà di Scherchen, alla quale nessuno resisteva - il nome stesso della città, quella rapida occhiata alla cattedrale verso sera, e tutto ciò che sapevo su Herder, Goethe e Lenz a Strasburgo. Non credo che questi nessi mi fossero ben chiari: nulla mi sembrava così irresistibile come quell'immagine della cattedrale, ma la mia passione per lo "Sturm und Drang" nella letteratura tedesca era molto forte e ormai legata all'idea di quel breve periodo di Strasburgo. Proprio adesso la letteratura tedesca era in pericolo, una minaccia pesava su quello che ieri era stato il suo carattere distintivo: l'impulso alla libertà; (1) e questo era anche il vero tema del dramma al quale ora pensavo continuamente. Ma Strasburgo, la culla di ieri, era ancora libera. C'era da stupirsi se mi attirava, se mi coinvolgeva insieme alla mia commedia, di cui avevo scritto solo una parte, piccola ma importante? E non era stato a Strasburgo anche Büchner, al quale dovevo l'incontro con Lenz? E Büchner non era per me, ormai da due anni, la sorgente di tutto il teatro drammatico? La città vecchia non era molto grande, e quasi naturalmente si finiva sempre col ritrovarsi davanti alla facciata della cattedrale. Ci si arrivava senza volere, e tuttavia era ciò che in fondo si voleva. Mi attiravano le figure dei portali, i profeti e più ancora le vergini folli. Le vergini sagge mi lasciavano indifferente, credo che fosse il sorriso delle vergini folli a conquistarmi. Di una di esse, quella che mi sembrava la più bella, mi innamorai addirittura. Più tardi la incontrai per le vie di Strasburgo, la condussi davanti alla sua effigie e fui il primo a mostrargliela. Stupita, guardava se stessa nella pietra, e il forestiero ebbe così la fortuna di scoprirla nella sua città e la persuase che lì era esistita molto tempo prima di nascere, sorridente dal portale della cattedrale, nella parte di vergine folle che, a vederla nella realtà, non era poi così folle: era stato il suo sorriso a sedurre l'artista e a indurlo ad assegnarle un posto tra le sette fanciulle del gruppo di sinistra. Tra i profeti trovai invece un cittadino di Strasburgo, anche lui incontrato durante quelle settimane. Era uno storico dell'Alsazia, un uomo esitante, scettico, che non parlava molto e scriveva anche meno. Dio sa come era capitato tra quei profeti, ma era lì, scolpito nella pietra; e se non accompagnai anche lui davanti al portale, spiegai tuttavia a lui e a sua moglie, una donna molto sveglia, dove poteva ritrovarsi; e mentre egli, scettico come sempre, non si pronunciava su quella scoperta, sua moglie mi diede pienamente ragione. Ma il vero avvenimento di quelle feconde settimane brulicanti di persone, di odori e di suoni era la scalata della cattedrale. Mi ci dedicavo quotidianamente, non saltavo un giorno. Sconsiderato e impaziente com'ero, salivo fino alla piattaforma, non mi concedevo un attimo di sosta e arrivavo in cima senza fiato. Per me un giorno che non cominciava con la scalata non era un vero giorno, e il conto dei giorni era scandito da quelle scalate. Così il mese della mia permanenza a Strasburgo durò in realtà più di un mese, perché a volte, nonostante tutto quello che c'era da ascoltare, riuscivo a eclissarmi anche nel pomeriggio per scomparire sulla torre. Invidiavo l'uomo che aveva la sua dimora lassù, perché aveva un bel vantaggio nel lungo percorso delle scale a chiocciola. Ero incantato dalla vista dei misteriosi tetti della città, ma anche da ogni pietra che sfioravo durante la salita. Vedevo contemporaneamente i Vosgi e la Foresta Nera, ed ero ben consapevole di ciò che in quell'anno li divideva. Ero ancora oppresso dalla guerra finita quindici anni prima e sentivo che pochi anni mi separavano dalla prossima. Scalavo la torre, quella che era stata portata a termine, e, fatti pochi passi, stavo davanti alla lastra sulla quale Goethe, Lenz e i loro amici avevano iscritto i loro nomi. Pensavo a Goethe, ai momenti in cui Goethe attendeva lassù l'arrivo di Lenz, il quale poco prima annunciava in una lettera estasiata a Caroline Herder: "Non posso più scrivere, Goethe è da me e mi aspetta già da mezz'ora sull'alta torre della cattedrale". Nulla era tanto lontano dallo spirito della città quanto il convegno indetto da Scherchen. Io non ero nemico del moderno, non certo dell'arte moderna: come potevo esserlo? Ma quando la sera, dopo l'ultima manifestazione, andavo a sedermi al Broglie, il locale più elegante di Strasburgo, in mezzo ai musicisti venuti da fuori, che in generale non potevano permettersi piatti troppo costosi, e vedevo H'intento a consumare il suo caviale - perché lui ordinava sempre caviale e crostini, lui solo -, allora mi domandavo se si fosse mai accorto che a Strasburgo c'era anche una cattedrale. Sfinito per la lunga giornata di lavoro, ma cercando di nascondere la stanchezza, H" mangiava il suo caviale e ne ordinava una seconda porzione. Si compiaceva di far vedere che lui mangiava caviale, lui solo, e se qualcuno lo guardava bramoso ordinava anche una terza porzione, per sé naturalmente, per il grande lavoratore che aveva bisogno di un alimento concentrato. Poiché il rito del caviale si celebrava a tarda ora, solo raramente vi assisteva la signora Gustel, sua moglie, che si era già ritirata in albergo a sbrigare per lui le mansioni di scrivano. H" non sopportava che le persone della sua cerchia stessero in ozio e trovava per tutte qualcosa da fare, come in un'orchestra. Della continua tensione che lo circondava lui non poteva farsi un rimprovero, dal momento che la sua tensione superava quella di chiunque altro. Fin verso la mezzanotte se ne stava al Broglie davanti al caviale e allo champagne, ma per le sei del mattino aveva già convocato in albergo una cantante per le prove. Non era mai troppo presto, lui trovava sempre il modo di anticipare l'inizio della sua giornata di lavoro, e poiché dava a tutti l'esempio della sua spaventosa attività, nessuno avrebbe osato protestare per l'ora insolita di un appuntamento. Tutti prestavano la loro opera al convegno senza ricevere un compenso. I musicisti erano accorsi sull'onda dell'entusiasmo, in onore della musica nuova. Il Conservatorio, con le sue sale per i concerti, era stato messo a disposizione gratuitamente. E, dopo tutto, gratuitamente si prestava anche l'uomo più importante, colui che vi profondeva l'impegno di gran lunga maggiore, un impegno che superava - lui ne era convinto - quello di tutti gli altri messi insieme. Si tenevano innumerevoli concerti, e ciascuno filava alla perfezione, si eseguiva musica insolita, difficile, e come un demonio il capitano vigilava su tutto evitando qualsiasi contrattempo. Era un'impresa grandiosa, nella quale alla fin fine il direttore contava più dei compositori, perché era lui a presentare tutto quanto, le cose più diverse, spesso per la prima volta, e senza di lui non si sarebbe mai venuti a capo di niente. Alcuni cittadini di Strasburgo, scelti a dovere, tutti amanti della cultura, potevano accedere la sera al locale di Place Broglie e sedersi al tavolo di Scherchen. Si erano resi benemeriti ospitando nelle loro case i partecipanti al convegno o anche offrendo grandi ricevimenti. Ad essi era concesso il privilegio di guardare H" mentre mangiava il suo caviale, e tutti pensavano che quel caviale fosse ben meritato, come lo era lo champagne. Una sera uno di loro, che conoscevo come un medico miscredente, si rivolse a me e disse con ammirazione: "Mi sembra di vedere Gesù Cristo". Ma la giornata non era ancora finita. Alla Maison Rouge, l'albergo di H", una compagnia molto più ristretta si intratteneva ben oltre la mezzanotte. Lì c'erano solo gli iniziati, per così dire, erano esclusi i cittadini e i soliti musicisti, lì si ritrovavano tra loro gli eletti che avevano il diritto di alloggiare alla Maison Rouge. C'era il giovane Jessner, regista anche lui come il padre (2) (doveva mettere in scena Le pauvre matelot di Milhaud allo Stadttheater), e c'era la vedova Gundolf, che aveva già detto addio a Heidelberg. Gundolf era morto da poco, ma lei prendeva parte alle allegre e talvolta sguaiate conversazioni della notte. Scherchen, quando non si chiudeva nel suo mutismo o non era occupato a spiegare o a dare ordini, diventava cinico, e la scelta compagnia dei presenti si sentiva onorata dal suo cinismo e stava al gioco. Vale la pena di soffermarsi sul momento particolare in cui aveva luogo il convegno per la musica moderna. Erano passate alcune settimane dal rogo dei libri in Germania. Da sei mesi era al potere l'uomo dal nome impronunciabile. Dieci anni prima aveva imperversato in Germania una sfrenata inflazione. Dieci anni dopo le truppe tedesche penetravano profondamente in Russia e piantavano la loro bandiera sulla vetta più alta del Caucaso. Strasburgo, la sede del convegno, era una città amministrata dai francesi in cui si parlava un dialetto tedesco. La città aveva conservato nelle vie e nelle case un carattere "medievale" che divenne eccessivo per il naso dei forestieri a causa di un lungo sciopero della nettezza urbana. Sopra questo fetore si innalzava la cattedrale, e a chiunque era possibile mettersi in salvo dando la scalata alla piattaforma. L'organizzatore del convegno, pur essendo incline ad atteggiamenti dittatoriali a causa della sua professione di direttore d'orchestra, si rifiutava tuttavia di esibirsi nella nuova Germania, dove sarebbe potuto salire ai massimi onori grazie a un'origine incontaminata e alla sua teutonica laboriosità. Fu uno dei non molti, e questo punto è stato sottolineato a suo merito. Allora, a Strasburgo, era riuscito a riunire una sorta d'Europa, un'Europa fatta solo di musicisti che avevano fede nei loro tentativi di innovazione, un'Europa coraggiosa e fiduciosa: che tentativi sarebbero stati infatti, se non li avesse sorretti la fiducia in un avvenire? In quelle settimane vivevo in mondi molto diversi. Uno di questi aveva per centro il Conservatorio, dove passavo la maggior parte della giornata. Chi entrava nel palazzo era accolto da un frastuono assordante. In tutte le stanze si facevano prove, come in ogni conservatorio, ma lì veniva realmente messo a profitto ogni minimo spazio. E poi accadeva di ascoltare per lo più cose imprevedibili. In ogni altro conservatorio si crede di conoscere ciò che arriva all'orecchio durante le esercitazioni. E quasi sempre un confuso incrociarsi di particolari ben noti, viene voglia di scappare di corsa, spaventati dalla banalità delle cose già udite mille volte che si condensano in un caos nel quale tuttavia ogni particolare resta riconoscibile e indistruttibile. Nel Conservatorio di Strasburgo, al contrario, tutto era nuovo e inconsueto, il particolare come il confluire dei suoni in un tutto unico, e forse era proprio questo ad affascinare e ad attirare sempre di nuovo. Io rimanevo stupefatto davanti all'indomabile costanza di quei musicisti, che non solo si raccapezzavano tra le difficoltà delle loro nuove imprese, ma lavoravano in quell'inferno, provando e riprovando e riuscendo a giudicare, in mezzo al frastuono generale, se avevano fatto progressi o no. Forse uscivo così spesso dal Conservatorio solo per potervi rientrare più spesso. Infatti, se lasciavo alle mie spalle il frastuono, piombavo nel fetore dei vicoli. Lo sciopero della nettezza urbana durava da settimane. Era impossibile farci l'abitudine o dimenticarsene, un lezzo simile non si era mai sentito, e poiché di giorno in giorno si faceva più forte, non c'era nulla che colpisse i sensi con la stessa intensità, tranne appunto il caos acustico del Conservatorio. Fu in quei giorni, in quei vicoli, che mi colse il pensiero della peste. All'improvviso, senza preparazione né transizione, mi trovai nel Trecento, un'epoca che mi aveva sempre interessato per i suoi movimenti di massa, i flagellanti, la peste, gli ebrei bruciati sul rogo, tutte cose che avevo scoperto nella Cronaca limburghese (3) e che poi avevo continuato a studiare. Adesso ci abitavo in mezzo, nella casa raffinata di un medico, e mi bastava fare un passo per scendere nei vicoli in cui regnavano l'immondizia e il fetore. Invece di fuggirne, animavo la scena con le immagini del mio terrore. Dappertutto vedevo cadaveri e l'impotenza dei sopravvissuti. Mi sembrava che le persone cercassero di evitarsi, nell'angustia dei vicoli, come se temessero il contagio. Non facevo mai la via più breve, quella che dalla città vecchia mi portava verso i quartieri nuovi e pomposi in cui sorgeva anche la principale sede del convegno. Camminavo di qua e di là per tutti i vicoli possibili, è incredibile quanti itinerari si intrecciano in un'area così limitata. Inspiravo il pericolo fino a riempirmene i polmoni, a quel pericolo non volevo sottrarmi a nessun costo. Le porte davanti alle quali passavo restavano chiuse. Non ce n'era una che si aprisse, e io vedevo tutte le case piene di moribondi e di cadaveri. Ciò che sull'altra riva del Reno appariva come un prologo, qui lo avvertivo già come il risultato della guerra che non era ancora cominciata da nessuna parte. Non guardavo avanti, neanche di dieci anni - come avrei potuto fare simili previsioni? -, invece mi guardavo indietro di sei seco li, e là c'era la peste, la massa dei morti che si propagava irresistibilmente e di là rinnovava la sua minaccia. Tutte le processioni espiatorie sfociavano nella cattedrale, e le processioni non sono mai state d'aiuto contro la peste. Perché in realtà la cattedrale era lì per se stessa, e il poterla contemplare era l'aiuto, come l'esservi entrati, come il fatto che essa continuasse a stare in piedi e non fosse crollata mai, in nessuna delle pestilenze. Sentivo che anche a me si comunicava l'antico impulso alla processione, ci eravamo radunati in tutti i vicoli e marciavamo insieme verso la cattedrale. E poi tutti eravamo in piedi lì dentro, tutti, io solo: forse era un ringraziamento e non una preghiera, un ringraziamento perché potevamo sostarvi indenni, nulla essendo crollato sopra le nostre teste e restando ferma al suo posto la meraviglia delle meraviglie, la torre. Alla fin fine io potevo salirvi e guardare dall'alto il mondo ancora immune dalla distruzione; e quando lassù respiravo a pieni polmoni, la peste che tentava di nuovo di propagarsi tutt'intorno sembrava respinta, ricacciata nel suo vecchio secolo. NOTE: (1) Nel testo l'espressione Drang nach Freiheit si richiama al movimento dello "Sturm und Drang". Un richiamo analogo si può trovare nel precedente volume autobiografico di Canetti, Il frutto del fuoco, dove la seconda parte è intitolata "Sturm und Zwang" ("Tempesta e costrizione") ?N" d'T"*. (2) Leopold Jessner, il padre, uno dei maggiori registi tedeschi tra le due guerre, era nato a Königsberg nel 1878. Emigrò in America nel 1933 e morì a Los Angeles nel 1945 ?N" d'T"*. (3) La Limburger Chronik di Tileman Elhen abbraccia il periodo dal 1336 al 1398. E" considerata un capolavoro tra le cronache medievali tedesche ?N" d'T"*. Anna L'arrendevolezza delle donne verso H'era stupefacente. Erano letteralmente comandate a bacchetta, costrette ad amarlo, e poi lasciate al loro destino prima ancora di aver trovato un posto nella sua vita. Si rassegnavano perché erano ancora legate a lui dal loro interesse per la musica. Se la loro opera poteva essergli utile, lui restava coscienziosamente imparziale. Così si salvava sempre qualcosa della vecchia atmosfera, e nessuna perdeva la speranza di riconquistare un giorno, all'improvviso, i suoi favori. Nessuna era gelosa dell'altra, ciascuna si sentiva di volta in volta la prediletta e si sforzava di custodire per sé il segreto di quella predilezione. La possibilità di essere prescelta in questa o in quell'occasione, il riserbo contro ogni indiscrezione erano più importanti di un atteggiamento di gelosia e di odio nei confronti delle altre. Con H" gli atti dettati dalla gelosia non sarebbero approdati a nulla. H" non era influenzabile, si sentiva un autocrate che faceva quel che voleva, e lo era veramente. C'era tuttavia un'eccezione: una donna che - per ragioni storiche, si potrebbe dire - aveva il dovere di essere gelosa e faceva largo uso di questo dovere. La signora Gustel, che nei giorni del convegno era legata ufficialmente a H", era la sua quarta moglie, e non da molto tempo, perché si era unita a lui solo poche settimane prima. In verità aveva esitato parecchio a diventare la sua quarta moglie, e non senza un buon motivo, poiché era stata anche la sua prima moglie. Gustel gli era stata vicina negli anni oscuri di Berlino, quando lui non era nessuno e voleva diventare qualcuno solo col proprio lavoro. Lei era la sua ancella indiana e ricordava una indiana fin nel colore rossiccio della pelle, che sembrava una pelle conciata: l'abitudine al silenzio e alla fedeltà avevano avuto questo effetto. Parlava molto raramente, ma quando lo faceva ogni parola era aspra, quasi gliel'avessero spremuta fuori a forza. Sembrava allora che fosse legata al palo del supplizio, pronta a tutto pur di non cedere e capace di tacere a oltranza. Fin dall'inizio aveva aiutato H" lavorando per lui, scrivendo e annotando tutto quello che c'era da scrivere e da annotare, lettere, accordi, appuntamenti, tutta la parte organizzativa passava per le sue mani: lei non negava il suo aiuto ovunque ci fosse qualche risultato da raggiungere. Anche quando questi risultati cominciarono ad avvicinarsi e poi divennero realtà, anche quando lei vide che ogni successo del marito le scaricava addosso supplizi imprevedibili e innumerevoli, anche allora rimase impavida al suo palo, ad attirarsi nuovi supplizi. Lui stesso era taciturno, e non si riusciva a cavarne più di quanto si ottenesse da Gustel. Lei taceva sulla propria infelicità, lui sulla propria felicità. Tutt'e due avevano labbra sottili, ermeticamente chiuse. H'era ancora abbastanza giovane quando aveva assunto a Francoforte, come successore di Furtwängler, la direzione dei Saalbaukonzerte. Fu allora che conobbe Gerda Müller, la Pentesilea della mia giovinezza, una delle attrici più affascinanti del suo tempo. (1) Per lei abbandonò Gustel senza tanti complimenti, e unendosi a Gerda Müller poté godersi l'esatto contrario di Gustel: impeto e passione, ruoli violenti e brutali, una forza che esisteva per amore di se stessa e non era al servizio di nessuno. Con lei il palo del supplizio cessava di essere una virtù perché era un segno di inettitudine. Forse in quel periodo si svegliò in H" l'interesse per il teatro e il dramma. Dovette essere un periodo turbolento anche nella sua vita privata, se non proprio il più turbolento di tutti. Gustel si tirò in disparte e dovette fare la prova di una vita monotona e meno tribolata. Si trovò un amico col quale visse serenamente per sette anni. Credo che H" non mi abbia mai parlato di Gerda Müller, mentre mi parlò molto della moglie successiva, che fece una breve apparizione nella sua vita e fu l'unica ad andarsene contro la volontà di H". Era attrice anche lei, ma mentre Gerda Müller si rifugiava nell'alcool, Carola Neher viveva per l'avventura, anzi la eccitavano le avventure più pazze. (2) Qualche tempo dopo Strasburgo, uno o due anni dopo, feci un viaggio a Winterthur, dove H" dirigeva l'orchestra del mecenate Werner Reinhardt. Dopo averlo ascoltato in un concerto lo accompagnai nella sua stanza e rimasi con lui fino alle ore piccole. Avvertivo in H'un'inquietudine insolita, diversa dall'ansia di opprimere e di dominare che gli era abituale. Lui stesso appariva oppresso, come se qualcuno lo avesse sconfitto, eppure il concerto era andato bene, sicuramente non peggio del solito. Mi pregò di rimanere, sebbene fosse già molto tardi. Si guardava intorno nella stanza in una strana maniera, come se vedesse fantasmi. I suoi occhi vagavano inquieti qua e là, senza fermarsi su nulla in particolare. Non mi guardava neppure, voleva solo che lo ascoltassi. Ero un po'"spaventato da quell'ansia che in lui non avevo mai visto, e restai in silenzio. All'improvviso la cataratta si aprì, e H" si abbandonò con una passione che non mi aspettavo: "E" accaduto qui, in questa stanza. E" stata l'ultima volta che ci siamo parlati. Abbiamo parlato tutta la notte"; e a scatti, quasi ansimando, mi fece il racconto dell'ultima conversazione tra Carola Neher e lui. Lei voleva andarsene, lui la scongiurava di restare. Lei non ne poteva più, quella vita non le bastava. Voleva piantare tutto, il teatro, la fama e lui, H", un pagliaccio, altro che direttore d'orchestra. Lo disprezzava, era un impostore che recitava davanti al pubblico dei concerti. Per chi credeva di dirigere, per chi versava ogni sera quel fiume di sudore? E che razza di sudore era quello? Sudore falso, sudore che non contava niente. Per lei contava uno studente che aveva conosciuto, un ragazzo della Bessarabia che era pronto a giocarsi la vita e non aveva paura di niente, né della prigione né di una condanna a morte. H" sentì che Carola faceva sul serio, ma era sicuro di poterla trattenere. Finora aveva avuto ragione di tutto, anche di ogni donna, e se c'era qualcuno che se ne andava poteva essere solo lui. Se ne andava, lui, solo quando gli faceva comodo. Usò tutti i mezzi per indurla a rimanere. Minacciò di tenerla sotto chiave. Disse che doveva proteggerla da se stessa, salvarla dal pericolo mortale in cui si stava cacciando. Quello studente non era nessuno, era un ragazzino senza la minima esperienza della vita. Lo coprì di insulti e restituì a lei tutto ciò che lei aveva appena detto contro di lui e contro la sua arte di direttore. Sembrò che gli attacchi contro lo studente come persona incrinassero la sicurezza di Carola. Lei rispose affermando che era la causa di quel giovane che le stava a cuore, non tanto lui quanto la sua causa: anche un altro avrebbe potuto farle la stessa impressione se avesse avuto quelle idee e se avesse dimostrato lo stesso attaccamento per lei. Lo scontro durò tutta la notte. Lui voleva stancarla per costringerla alla resa, lei opponeva una tenacia irriducibile e rispondeva all'aggressione fisica con grida e imprecazioni. Alla fine, era già mattina, lui credette di averla domata. Lei si assopì, e lui la guardò soddisfatto prima di addormentarsi a sua volta. Quando si svegliò, lei era scomparsa, e non si fece più vedere. Per giorni e settimane H" ne attese il ritorno. Aspettò una notizia, non venne una parola. Non sapeva dove fosse finita. Nessuno ne sapeva niente. H" fece fare delle ricerche, e risultò che anche lo studente era scomparso. Dunque era fuggita con lui, come aveva minacciato. Da tutte le piazze teatrali in cui la conoscevano, veniva la stessa risposta. Era scomparsa senza lasciare traccia e senza scrivere una parola a nessuno. Lui era ancora quello che ne sapeva di più, dopo la battaglia di quella notte, e si sentiva ferito, come se gliel'avessero strappata dalla carne. Non si rassegnava e non poteva più lavorare. Ebbe un tracollo e si considerò un uomo finito. Era in una condizione di spirito così disperata che pregò Gustel di ritornare. Aveva bisogno di lei, era pronto a giurare che non l'avrebbe lasciata mai più. Avrebbe accettato tutte le condizioni. No, non l'avrebbe ingannata mai più. Ma doveva ritornare, subito, perché ne andava della sua vita. Gustel ruppe l'amicizia settennale con un uomo che le aveva fatto solo del bene, e ritornò da H", dal quale aveva ricevuto i torti peggiori. Mise delle condizioni molto severe, e lui le accettò, promettendo di dirle sempre la verità e di non nasconderle nulla. Durante le settimane di Strasburgo l'attenzione con cui osservavo il comportamento di H'era acuita da una serie di circostanze delle quali né io né lui potevamo misurare tutta l'importanza. A Vienna mi aveva usato come portalettere, e così avevo fatto la conoscenza di Anna. Ignoravo il contenuto della lettera, ma H" mi aveva incaricato di consegnarla a lei e a nessun altro. Era un ordine perentorio, anche se H" non aveva speso molte parole. Io avevo telefonato ad Anna ed ero stato convocato nel suo atelier di Hietzing. La vidi prima che lei mi vedesse. Più esattamente, vidi le sue dita, occupate a modellare nell'argilla una figura di grandezza superiore al naturale. Il viso restava nascosto. Anna mi voltava ancora la schiena e apparentemente non udì lo scricchiolio della ghiaia che mi entrava negli orecchi a ogni passo. Forse non voleva udirlo, assorta com'era in quella figura dalle forme appena accennate. Forse la visita, benché preannunciata, cadeva per lei in un momento poco opportuno. Io pensavo solo alla lettera che dovevo consegnare. Avevo appena messo piede nella serra che serviva da atelier quando Anna si voltò con uno scatto improvviso e mi guardò in faccia. Ormai ero a pochi passi da lei e mi sentii scosso dal suo sguardo. Da quel momento i suoi occhi non mi lasciarono più. Non ero del tutto impreparato, perché avevo avuto il tempo di avvicinarmi, ma fu lo stesso una sorpresa: un'immensità senza fondo che non mi aspettavo. Anna era fatta solo di occhi, tutto il resto che si vedeva di lei era illusione. Era una sensazione folgorante, ma nessuno avrebbe avuto la forza e l'acume per confessarla a se stesso. E" impossibile ammettere qualcosa di così mostruoso: occhi più vasti della persona cui appartengono. Nella loro profondità trova posto tutto quello che puoi aver pensato, e adesso che c'è spazio per accoglierlo dovresti trovare le parole per esprimerlo. Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare. Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta bollata come tale. E" tremenda la fissità di uno sguardo inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è vittima che possa modificarla. Chi entra nel suo campo visivo è già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi solo attraverso una metamorfosi totale. Poiché nella realtà la metamorfosi non è possibile, miti e uomini sono sorti per causa sua. E" un mito anche l'occhio che non cerca vittime da sbranare e tuttavia non abbandona più ciò che ha visto una volta. Questo mito è diventato realtà, e chi ne ha fatto l'esperienza non può non ripensare con terrore ed emozione all'occhio che l'ha costretto ad annegare nella sua vastità e profondità. L'offerta è irresistibile: vieni a gettarti in me con tutto quello che puoi pensare e dire, vieni, dillo, e annega! La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve. Tutto quello che hai gli viene dato, tutto ciò che conta, ciò che forma la tua natura più intima. Non è possibile rifiutargli nulla. Non è un atto di violenza, non è un furto. Quello che dài lo dài con gioia, come se questa fosse la sua naturale destinazione, come se non ci fosse altra destinazione possibile. Cessai di essere un portalettere nel momento in cui consegnai la lettera ad Anna. Lei non la prese, ma con un cenno del capo mi indicò un tavolo, nell'angolo dello studio, che prima non avevo notato. Mi avvicinai al tavolo facendo tre passi di lato e deposi la lettera, forse a malincuore, perché adesso avevo una mano libera per lei e non volevo dargliela. Gliela porsi solo a metà, lei guardò la sua mano destra, imbrattata di argilla, e disse: "Come vede, non posso darle la mano". Non so che cosa ci dicemmo subito dopo. Mi sono sforzato di ritrovare le prime parole, le sue come le mie. Si sono perdute. Anna era tutta nei suoi occhi, e per il resto quasi muta: la sua voce, profonda com'era, non ha mai avuto un significato per me. Forse lei non parlava volentieri, rinunciava alla voce tutte le volte che poteva, prendeva sempre in prestito la voce di altri, sia nella musica sia nei rapporti con le persone. Per lei era più importante agire che parlare, e poiché, a differenza di suo padre, non era portata all'azione, cercava almeno di plasmare con le dita. Io ho conservato il ricordo del primo incontro con lei liberandolo da tutte le parole: dalle sue, perché forse non ce n'era nessuna da conservare, dalle mie, perché lo stupore provato alla vista di Anna non aveva ancora trovato parole abbastanza articolate. Eppure so che qualcosa era stato già detto prima che ci sedessimo al tavolo che mi aveva indicato. Anna voleva leggere qualche mio lavoro e io le spiegai, senza vergognarmi, che non avevo pubblicato neanche un libro e che avevo soltanto il manoscritto di un lungo romanzo. Se voleva, la prossima volta potevo portarglielo. Disse che le piacevano i romanzi lunghi, non i racconti di poche pagine. Fece il nome di Fritz Wotruba, dal quale prendeva lezioni di scultura. Io ne avevo sentito parlare, lo ammiravano per il suo spirito indipendente e lo temevano per la sua irruenza. Anna aggiunse che al momento Wotruba non era a Vienna. Raccontò che prima si era dedicata alla pittura e aveva studiato con De Chirico a Roma. Della lettera di H" non si curava affatto. L'aveva lasciata sul tavolo, ancora chiusa, e non poteva non vederla. Mi ricordai del mio incarico, come se da H'avessi ricevuto una consegna, e dissi esitando: "Non vuole leggere la lettera?". Lei la prese in mano con aria annoiata, la scorse rapidamente, come se tutto si riducesse a due o tre righe, mentre era una lettera piuttosto lunga. Sapevo che la scrittura di H'era anche difficile da decifrare, e tuttavia sembrò che Anna avesse afferrato tutto al primo sguardo. Depose la lettera con un gesto di ripulsa che la fece finire più vicino a me, e disse: "Non c'è niente di interessante". La guardai stupito. Avevo creduto che tra lei e H" ci fosse quasi un'amicizia e che lui volesse comunicarle qualcosa di importante, tanto importante che si era rivolto a me per evitare di servirsi della posta. "Può leggerla" disse Anna. "Ma non ne vale la pena". Io non la lessi. Come potevo pensare ancora a un messaggio importante se lei se ne sbarazzava così bruscamente? Non sapevo spiegarmi la sovrana indifferenza di Anna, il disprezzo che dimostrava per H". Ma ormai non ero più un portalettere. Non ero più tenuto a rispettare i limiti del mio incarico perché Anna me ne aveva esonerato. Si era comunicata anche a me la leggerezza con cui lei aveva messo da parte la lettera, senza il minimo segno di collera o di disappunto. Non pensai di domandarle ancora se voleva consegnarmi una risposta per H'o se gli avrebbe scritto direttamente, senza servirsi di me. Quando mi congedai, avevo un nuovo incarico: dovevo ritornare presto per portarle il mio manoscritto. Mi feci vivo tre giorni dopo, e l'attesa mi era sembrata molto lunga. Anna lesse subito il romanzo, credo che nessun altro l'abbia letto così rapidamente. Da allora diventai per lei una persona vera, e cominciò a trattarmi come se fossi provvisto di tutto, anche di occhi. Diceva che a quel libro dovevano seguirne molti altri della stessa qualità, e ne parlò anche in giro. Insisteva per vedermi e mandava lettere e telegrammi. Che un amore potesse cominciare con i telegrammi era per me un'esperienza del tutto nuova: ne ero sbigottito, all'inizio mi sembrava impossibile che una frase di Anna mi arrivasse tanto in fretta. Mi invitò a scriverle e mi diede un recapito dal quale le mie lettere le sarebbero state inoltrate. Bisognava metterle in una busta, chiudere la busta con ogni cura e infilarla in una seconda busta da indirizzare alla signorina Hedy Lehner nella Porzellangasse. Era questo il nome di una giovane modella che andava da Anna ogni giorno, una bella ragazza con i capelli rossi e un viso volpino. A volte, arrivando all'atelier, la vedevo di sfuggita: aveva un sorriso quasi impercettibile, taceva e scompariva. In certi casi aveva appena consegnato una mia lettera, e allora Anna non aveva avuto il tempo di leggerla e nemmeno di aprirla. Anna era molto guardinga, perché qualcuno poteva sempre arrivare inaspettatamente. Mi confessò che le costava fatica parlare con me prima di aver letto la lettera, e anzi avrebbe preferito non vedermi così presto. E" vero che io le raccontavo una quantità di cose, e lei ascoltava tutto avidamente, ma più ancora le piacevano le lettere in cui la glorificavo. "Tamburi e trombe" era l'espressione con cui Anna descriveva le mie frasi trasferendole in una terminologia che le era più familiare. Lettere simili non gliele aveva mai scritte nessuno, e ne arrivavano molte, anche tre in un giorno, tante che la signorina Hedy Lehner non riusciva sempre a consegnarle subito, una dopo l'altra. La ragazza avrebbe dato nell'occhio se si fosse fatta vedere più volte al giorno, e poiché Anna era sotto stretta sorveglianza (un regime che lei del resto aveva accettato), ogni imprudenza poteva costarle la perdita della modella che le era stata concessa. Alla mia esuberanza verbale Anna rispondeva con altrettanti messaggi, spesso con telegrammi (che Hedy portava all'ufficio postale dopo aver lasciato l'atelier). I telegrammi si addicevano a una persona di poche parole come Anna, ma lei era orgogliosa e voleva ringraziare anche per lettera chi le rivolgeva così copiose e fantasiose testimonianze di glorificazione. Anna mi sembrava molto misteriosa, e in realtà era piena di misteri. Io non sapevo quali e quanti segreti dovesse custodire, non pensavo che il silenzio su quei segreti fosse diventato un modo di vivere, una questione vitale. E" vero che Anna, per sua fortuna, dimenticava molto facilmente, ma c'erano altri che potevano risvegliare in lei il ricordo del passato. Le figure che modellava, applicandosi con tanto impegno, sembravano l'essenza stessa della segretezza. Per lei lavorare sodo era un punto d'onore, e se già aveva ereditato questo atteggiamento dal padre, un severo richiamo al lavoro le veniva adesso da Wotruba, il suo giovane maestro, che era abituato a scolpire le pietre più dure. Certo, Anna modellava anche, soprattutto delle teste, e quello non era un lavoro duro, bensì qualcosa di totalmente diverso: era per lei l'unico mezzo per avere contatti con altre persone, l'unica via che non le fosse preclusa dalle abitudini vessatorie e amatorie di sua madre. Nelle sue lettere Anna non si scopriva, ma almeno tentava di reagire, e questi tentativi, finché duravano, riuscivano ad appagarla. Quando non poteva più reagire, nei periodi di delusione - ed erano frequenti, poiché Anna restava cieca davanti alle persone che non posavano per lei e soprattutto davanti a quelle che aveva deciso di amare -, in quei periodi di delusione si abbandonava interamente alla musica. Suonava molti strumenti, ma il pianoforte era il suo rifugio. Credo di non averla mai sentita suonare, evitavo tutte le occasioni, e perciò non so dire - per me è rimasto un enigma - che cosa significassero realmente per Anna quegli sfoghi solitari. Io diffidavo di una musica che concedeva tanto spazio alla scultura. L'aureola di gloria che cingeva il capo di Anna era così splendente che non avrei dato credito alla minima insinuazione. Se qualcuno fosse venuto a dirmi le cose più orribili, se mi avesse dato tutte le prove, scritte di pugno da lei, per dimostrarmi che quelle cose Anna le aveva pensate, fatte e confessate, io non avrei creduto né a lui né alla stessa scrittura di Anna. Per me Anna era intangibile, e mi riuscì tanto più facile conservare questa immagine quando di lì a poco ebbi davanti agli occhi la sua immagine in negativo, l'immagine di sua madre, sulla quale potevo rovesciare tutto ciò che di penoso si notava in quell'ambiente. Erano lì tutt'e due: da una parte la luce muta che si nutriva solo di colpi di scalpello e di pura glorificazione, dall'altra la vecchia insaziabile, sempre brilla. La stretta parentela che le univa non poteva trarmi in inganno: io vedevo nella figlia una vittima, e vedevo giusto, almeno nel senso che si è vittime dell'atmosfera che si respira in tenera età e poi si continua a respirare. Il fatto che H" mi avesse scelto come portalettere poteva essere la riprova di quanto egli mi riteneva innocuo. Prendeva se stesso talmente sul serio che il peso di una sua lettera autografa superava di gran lunga il peso di qualsiasi intermediario. Ma può anche darsi che mi giudicasse particolarmente innocuo perché aveva ascoltato la mia lettura di Nozze. L'autore di un dramma così glaciale doveva essere un nemico giurato di ogni piacere. Forse gli sembrò perfino spiritoso adoperare un essere simile come latore di una lettera d'amore. Ma H" non ebbe nessuna risposta, neanche un diniego. Quando andai a trovarlo tra una prova e l'altra subito dopo il mio arrivo a Strasburgo, pronunciò solo tre frasi, nella solita maniera sforzata. Cominciò domandando se avevo consegnato le sue due lettere ad "Anni", come lui la chiamava. "Naturalmente" dissi io, e aggiunsi molto stupito: "Perché, non le ha risposto?". Da queste parole H" dedusse che avevo visto Anna più di una volta e che forse eravamo addirittura diventati amici. Era un sospetto, per il momento, e come molti uomini di potere H'era portato a sospettare sempre. Le mie parole "Perché, non le ha risposto?", significavano per lui che dovevo conoscere Anna abbastanza bene per sapere che aveva l'abitudine di rispondere. H'aveva il diritto di pensarlo. Ma il suo disprezzo per un giovane oscuro e trascurabile era d'altra parte così grande, così naturale in lui, che si affrettò a soffocare quel sospetto. E, con ogni mezzo, fece di tutto per scoprire che non c'era nulla da scoprire. Durante i primi giorni H" cercò di provocarmi con battute sarcastiche sul conto di Anna. Aveva i capelli biondi ossigenati, diceva, ma una volta erano di un grigio topo; e calcava sul "grigio" come se Anna fosse invecchiata precocemente e avesse avuto i capelli grigi fin dal giorno in cui l'aveva conosciuta, quando lei aveva vent'anni, ed era la moglie di Ernst Krenek. E il suo modo di camminare? Ci avevo fatto caso? Quella non poteva essere una donna, nessuna donna cammina così. Ognuna delle sue osservazioni mi faceva salire il sangue alla testa. Difesi Anna con tanta passione e tanto furore che H" non tardò a capire tutto. "Lei è innamorato mica male," disse "da lei non me lo sarei mai aspettato". Non ammisi niente, non tanto per discrezione quanto perché odiavo H" per le sue osservazioni. Ma parlai di Anna nei toni più elevati, e H" sarebbe stato un imbecille a non accorgersi che la amavo. Fu uno strano momento quello in cui H" mi obbligò ad erigermi a paladino di Anna, perché pochi giorni dopo il mio arrivo a Strasburgo avevo ricevuto un telegramma e una lettera con cui lei mi dava freddamente il benservito. Dopo due mesi, poco più, finiva per lei un rapporto che doveva perseguitarmi ancora per anni. Non mi faceva rimproveri, non dava spiegazioni. La lettera fatale cominciava con questa frase: "Credo, M", di non amarti". Anna mi aveva dato un nome irlandese che ora suonava irreale come le lettere in cui prima aveva protestato il suo amore. E adesso veniva H", ignaro della disgrazia che mi aveva colpito e che lui stesso aveva provocato - io ritenevo infatti che fosse stato il mio viaggio a Strasburgo a disilludere Anna sul mio conto -, adesso veniva H'e faceva del suo meglio per distruggere con ogni frase l'immagine di lei. Era evidente il piacere che provava in quella perfida impresa. Ogni volta lui diceva di Anna cose peggiori, e più di una volta io pensai che aspettasse solo di dirne altre e ancora più cattive. Ci vedevamo brevemente tra le prove e i concerti, mentre H" trangugiava caviale e crostini al Broglie, oppure più a lungo nel suo albergo, a tarda notte, quando la cerchia più ristretta era radunata a scambiarsi malignità. Ma H" preferiva sparlare di Anna quando era solo con me. Alla fine, ma non era passato molto tempo, venne una sua diffida vera e propria: "Non metta le mani in questa faccenda, non fa per lei, lei è troppo ingenuo e inesperto". Ogni frase era un'offesa, e io fremevo, ma ancora di più mi feriva ogni offesa rivolta ad Anna. H" se ne accorse, e quando tornò alla carica sulla strana andatura di Anna, tirò fuori una storia così abominevole che ancora oggi non so decidermi a riferirla. Io lo fissai inorridito, ma anche con aria interrogativa, come se non avessi afferrato. Lui non volle rinunciare al piacere di ripetere la frase. "Ma perché, perché?" domandai, ed ero talmente sbigottito che non mi scagliai subito contro di lui. Con le sue affermazioni mostruose H" colpiva non tanto Anna quanto se stesso. Capì di avere esagerato, di essersi spinto troppo oltre. "Adesso, per favore, non si agiti tanto per così poco. Ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante lei ne possa immaginare". Non domandai come fosse venuto a conoscenza di tutto ciò. Sapevo che mentiva, e sapevo anche perché. Mi ricordai del gesto con cui Anna aveva spinto via quella lettera, dicendo: "Non c'è niente di interessante". H" le era indifferente. Lei lo aveva sempre spinto via, come aveva fatto con la lettera in mia presenza. Anna non provava alcun interesse per lui, neanche per il musicista, figuriamoci per l'uomo. C'erano direttori d'orchestra che la interessavano, con i quali aveva rapporti, e come figlia di suo padre aveva qualche titolo per giudicare se un direttore era bravo. Per lei H" poteva dirigere una banda militare o poco più, il suo aspetto e i suoi atteggiamenti gli giocavano un brutto scherzo. Proprio lui, che si dava tanto da fare per scoprire musica nuova e difficile, veniva retrocesso all'ultimo posto, dietro coloro che si sarebbero ben guardati anche solo dal toccare un brano di musica moderna, inconsueta. Il rifiuto di Anna lo feriva in modo particolare. H" tentava di prendere piede a Vienna, ma non contava nulla agli occhi della madre, che era un personaggio molto influente. Per lui, quindi, sarebbe stato tanto più importante contare qualcosa agli occhi della figlia. E poiché lei, la figlia di Mahler, non voleva saperne, H" non poteva fare a meno di coprirla dei peggiori insulti. Mi trovavo improvvisamente in una situazione tesa fino al punto di rottura. Se non mi fossi tanto appassionato alla vita di Strasburgo, alla storia letteraria della città e anche alla nutrita schiera di eccentriche figure di musicisti che avevo conosciuto tutte insieme in pochi giorni, se non fosse stato per questo, non so se avrei trovato la forza di rimanere. Era la caduta da un cielo luminoso in cui ero stato innalzato. Una donna che ammiravo e veneravo, che trovavo bella e nella quale vedevo perpetuarsi la forza creativa di un grande uomo, mi aveva accolto nel suo mondo, aveva letto il mio romanzo e l'aveva giudicato degno della sua affettuosa attenzione. Il romanzo non era neppure stato pubblicato e solo pochi ne conoscevano l'esistenza. Pochi sapevano anche del dramma che avevo letto al direttore d'orchestra e che mi aveva fruttato un suo invito al convegno dei musicisti nuovi. Dovevo quell'invito al mio dramma e dovevo l'amore di Anna al romanzo. Subito dopo il mio arrivo a Strasburgo ero salito sulla piattaforma dove Goethe aveva atteso la venuta di Lenz. Ero stato lassù davanti alla lastra sulla quale avevano iscritto i loro nomi. Nella città vecchia, ai piedi della cattedrale, ero stato accolto in una delle case più belle, ammesso nella stanza in cui, a quel che si diceva, Goethe aveva fatto visita a Herder malato. Forse il fatto che il mio senso di felicità si fosse stranamente impregnato della profonda devozione verso quei grandi spiriti vissuti a Strasburgo avrebbe portato a una hybris pericolosa. Forse, esaltato dall'atmosfera della stanza, del tempio, in cui dovevo dormire, avrei concepito propositi nuovi e smisurati, avrei abbandonato il compito vero e difficile che mi ero assegnato. Ma la fortuna volle che fossi preso di mira dalla sfortuna proprio al momento giusto. Tre giorni dopo il mio arrivo trovai alla segreteria del Conservatorio la lettera e il telegramma di Anna. In mezzo al tumulto infernale delle prove, tra cento occhi, lessi quelle parole fredde come il ghiaccio. Anna non mi rimproverava niente, ma non sentiva più niente per me e dichiarava senza ritegno e senza riguardo che le erano piaciute soltanto le mie lettere, non chi le scriveva. Adesso non parlava con nessuno, era ritornata al suo pianoforte e suonava solo per sé. E benché nella lettera non vi fosse nessuna sfumatura emotiva, tuttavia si avvertiva una tristezza - molto contenuta - per la delusione sofferta. Anna si augurava di ricevere le mie lettere anche in futuro, ma senza promettere che avrebbero avuto una risposta. Io non contavo più, ero stato deposto sulla terra, ma mi restava la facoltà di raggiungere il cielo di Anna con le lettere, soltanto con le lettere. C'era un che di sovrano nel modo in cui Anna trattava il suo prossimo, come se esercitasse un diritto naturale, il diritto di innalzare e di destituire, senza spiegazioni e senza cautele, come se la persona colpita più duramente dovesse ancora esserle grata perché il colpo veniva da lei. Il senso di annientamento che si diffuse in me fu tuttavia bilanciato dal duello cavalleresco che negli stessi giorni dovevo sostenere per Anna. Di tanto in tanto H" cercava di buttarla ancora più in basso, di scalzarla dal suo piedistallo, e ciò che riusciva più insopportabile era il fatto che quelle contumelie erano intrise di una strana specie di libidine che doveva eccitare la mia gelosia. Lui stesso agiva per gelosia e commetteva l'errore di attribuire a me una fortuna che non avevo più, perché io ero stato buttato a terra. Respingevo tutti i suoi attacchi, gli ricacciavo in gola a una a una le sue volgarità, ero caparbio come lui, anche se del mio veleno ero assai meno sicuro che lui del suo. All'inizio ero ancora prudente per non esporre Anna e me, noi due - come se esistesse ancora un "noi due" - al ludibrio di H". Ma poi, con l'aggravarsi della tensione, quando le offese di H" non ebbero più limiti, lasciai cadere ogni ritegno e parlai di Anna come nelle lettere che le avevo scritto e che ora non dovevo più scriverle. Nella lotta contro la perfidia di H" tutto ciò che vi era stato tra Anna e me - o avevo creduto che vi fosse - rimase intatto e ben saldo. Io non potevo lamentarmi, non potevo dirgli la nuova verità, ma proclamavo la vecchia verità con tale veemenza e convinzione che alla fine lui restava interdetto e ammutoliva, pieno di rabbia, davanti alla mia incrollabile fede. Poiché H" parlava solamente in pubblico o in funzione del pubblico, le molte persone che lo attorniavano e formavano la sua corte non potevano non meravigliarsi se qualche volta lui voleva appartarsi con me, sia pure per poco. Ogni volta H'annunciava expressis verbis quei nostri incontri a quattr'occhi. "Devo parlare con C"" diceva. Il tono faceva pensare a una questione importante, ma quei pochi minuti strappati alla sua frenetica attività erano poi dedicati esclusivamente alle discussioni su Anna. Senza dubbio H" si godeva i miei impetuosi contrattacchi, perché non prendevano mai di mira la sua persona ma erano vere e proprie apologie di Anna e contrastavano a tal segno con le sue oscene calunnie che lui stesso, H", ne aveva bisogno. Non poteva farne a meno, aveva bisogno di quelle calunnie e delle mie apologie, e forse anch'io - ma solo adesso me ne rendo conto avevo bisogno delle une e delle altre per uscire dalla pena e dall'umiliazione che provavo a causa di Anna. Gli altri, non avendo la minima idea del vero tema dei nostri colloqui, avevano l'impressione che H" si consultasse con me su certe questioni, come se tra me e lui esistesse un rapporto di fiducia, un rapporto indispensabile per l'intensa attività che H" doveva svolgere durante quelle settimane musicali. Era della stessa opinione anche Gustel, che a modo suo doveva sorvegliare il marito. H" l'aveva richiamata spergiurando che non poteva vivere senza di lei, e per convincerla della sua importanza, per invogliarla ad assumere la sua nuova funzione, le aveva promesso la più assoluta sincerità. Gustel aveva il dovere di vigilare perché lui non fosse attirato in nuove complicazioni. Era ancora fresca la crisi seguita alla fuga di Carola Neher, che lo aveva piantato nel modo più ignominioso e senza nessuna "circostanza attenuante". Era la prima volta che una storia di donne - o per meglio dire: una sconfitta di fronte a una donna - lo privava della capacità di lavorare, e lui, l'imperturbabile H", era rimasto talmente turbato da cercare rifugio in Gustel, la prima moglie, la moglie degli anni oscuri. Era sincero e non la ingannava nell'affidarle il nuovo incarico di vigilare su di lui affinché nessuna donna potesse nuocergli. Gustel aveva dunque il diritto di scoprire, anche per fare una prova, quali fossero gli argomenti delle conversazioni confidenziali tra H'e me. Cominciò quindi a farsi sotto, e per guadagnarsi la mia amicizia, e forse anche il mio aiuto, arrivò perfino a parlarmi di sé, lei che era così ruvida e chiusa. La condotta di H" le causava indicibili sofferenze ogni volta che una donna collaborava con lui, e al convegno partecipavano anche molte musiciste: alcune cantanti, tra le quali una oltremodo seducente, disinvolta e pronta a tutto, ma anche una meravigliosa violinista che H" conosceva già da Vienna, una creatura infantile che incantava tutti con l'originalità delle sue espressioni, con una naturalezza che era però spiritualizzata e non priva di pretese. Questa violinista veniva da una famiglia di grande cultura musicale che le aveva dato anche, tra gli altri, il nome di Amadea in onore di Mozart. Del resto era degna di quel nome, perché in lei tutto era musica, ogni fibra e ogni respiro. In lei era natura ciò che un uomo come H" si era dovuto conquistare a prezzo di fatiche sovrumane. I tempi che doveva seguire rientravano in una forma di obbedienza: le partiture erano prescrizioni nel pieno senso della parola. Direttore d'orchestra e partitura erano per lei una cosa sola e inscindibile, e ogni ordine del direttore, qualunque ordine, era una continuazione, un'estensione della partitura. Avrebbe dato la vita per una partitura, e naturalmente anche per colui che ne era padrone e signore. Amadea - la chiamo col secondo dei suoi nomi, quello mozartiano, che in verità veniva usato solo in forma abbreviata - non faceva alcuna differenza tra i signori della musica di allora, mentre faceva molta differenza tra le opere in sé e aveva in proposito idee e convinzioni ben radicate. Le sue capacità non erano solo di natura tecnica, s'intendeva di Bach, che forse era il Giove del suo Olimpo, s'intendeva di Mozart, ma anche di novità assolute, davanti alle quali il colto pubblico viennese inorridiva come davanti al demonio. Fu tra i primi a suonare musiche di Alban Berg e Anton von Webern, e fu chiamata perfino a Londra per la loro esecuzione. Era però docilissima alle istruzioni dei veri usufruttuari di tutte le opere, i direttori d'orchestra: non si piegava alle loro persone, perché di queste non sapeva niente, bensì ai loro consapevoli ordini di potenti della musica. A Vienna aveva già collaborato con H", e a Strasburgo accettava che lui la convocasse per le prove alle sei del mattino; ed essendo una creatura assolutamente limpida e aperta, non sapeva nascondere la sudditanza che la legava a lui fino a farne il vero oggetto della gelosa sorveglianza di Gustel. Io non m'intendevo molto di musica. Non me n'ero mai occupato dal punto di vista teorico. Ero un ascoltatore volonteroso, ma non avevo nessun metro per giudicare. Mi lasciavo impressionare dalle cose più disparate, da Satie e da Strawinsky, da Bartòk e da Alban Berg, ma senza una reale conoscenza, in un modo che non mi sarei mai permesso nelle cose letterarie. Tanto più importante era per me osservare attentamente le persone nella molteplicità delle reazioni che si manifestano tra loro in simili circostanze. Ne ricavai esperienze incancellabili. Per la maggior parte si trattava di persone che non ho più visto, e tuttavia le ho ancora davanti agli occhi, chiare e nette, a cinquant'anni di distanza: mi piacerebbe poter dire oggi a ciascuna di esse l'impressione che mi diede allora. Ma l'oggetto principale delle mie osservazioni nei giorni del convegno era colui che l'aveva indetto, l'uomo che ne era l'artefice e il cuore. Fu uno studio meticoloso e spietato, proprio come era lui. Non mi lasciavo sfuggire una parola, non un gesto, non un silenzio. Finalmente avevo davanti a me, allo stato puro e a portata di mano, ciò che volevo capire e rappresentare: un uomo di potere. (3) Dopo il felice esito del convegno, come ultimo atto e come ultima occasione per ritrovarsi tutti insieme, fu annunciata una festa che doveva aver luogo a Schirmeck nei Vosgi. Più d'uno avrebbe preferito partire prima, ma si voleva anche dare un attestato di gratitudine a H" per il suo straordinario impegno, e così quasi tutti rimasero per festeggiarlo. La festa si tenne in un albergo, ma all'aperto. Seduti a lunghi tavoli, ascoltammo parecchi discorsi. H" mi pregò esplicitamente di dire qualche parola sulle mie impressioni: sarebbe stato interessante, secondo lui, conoscere il parere di un profano, di un letterato. Mi trovai nella scabrosa situazione di dover dire qualche frase che corrispondesse alla verità senza lasciar trapelare nulla delle cose più recondite che avevo scoperto in H'e che del resto non erano ancora mature nemmeno in me stesso. Mi limitai quindi a descrivere l'abilità con cui H" riusciva a riunire tante persone, e l'arte irresistibile con cui le costringeva a un'impresa comune. Le mie parole dovettero sembrargli troppo generiche, troppo neutre, lui si aspettava piuttosto un panegirico come quelli che aveva ascoltato da quasi tutti gli oratori della serata. Verso la fine della festa, quando la parte ufficiale si era conclusa e H'era ormai in vena di lasciarsi andare, arrivò il momento di vendicarsi. Era stato festeggiato come maestro della bacchetta, e in verità nelle poche settimane del convegno aveva saputo fare miracoli con i suoi allievi. Ma adesso, dopo aver bevuto la sua parte, voleva divertirsi. H" si attribuiva un altro magistero del quale nessuno dei presenti aveva mai sentito parlare, e all'improvviso venne fuori con l'idea di leggere la mano a tutti, non a uno, non ad alcuni, ma a tutti. Disse che gli bastava vedere la mano di una persona per conoscerne il destino, e raccomandò di non far ressa intorno a lui, di presentarsi uno alla volta, magari mettendosi in fila. Così avvenne. Dapprima ci fu qualche esitazione, ma non appena H'ebbe cominciato a leggere una mano, circa la metà dei presenti si alzò dai lunghi tavoli per mettersi docilmente in fila. H" si concentrò su ogni singolo, dando la precedenza a quelli che aveva più vicini a tavola. Era molto rapido, come in tutto quello che faceva, non tratteneva la mano a lungo, una breve occhiata gli bastava; e col piglio risoluto che gli era abituale pronunciava il verdetto. Si limitava a indicare quanti anni sarebbe vissuto il soggetto, non s'interessava del resto, delle sue qualità, delle sue prospettive per il futuro: a ciascuno dettava una determinata età e non spiegava come fosse arrivato a quella cifra. Non parlava più forte del solito, solo chi gli stava vicino poteva udire le sue parole. Dopo la lettura della mano si vedevano visi soddisfatti ma anche visi preoccupati. Poi tutti tornavano ai loro posti e si sedevano in silenzio. Nessuno discuteva, nessuno domandava al vicino di ritorno: "Che cosa ha detto?". Ma ci fu un sorprendente cambiamento d'umore. La voglia di scherzare era passata. I fortunati ai quali si annunciava una lunga vita tenevano per sé la loro fortuna. Ma anche gli altri, quelli che secondo H'avevano poco da vivere, si astenevano dal protestare o dal lamentarsi. Quanto a H", benché sembrasse assorto nell'esame delle mani, era ben attento a osservare chi si faceva avanti e chi no. Le mani appartenevano per lo più a persone che gli erano indifferenti, e lui le leggeva solo pro forma. Ma c'erano altri che aspettava al varco, e poiché io cercavo di tenermi indietro, cominciai a sentirlo in agguato. Ero seduto abbastanza vicino a lui, di fronte, ma spostato un po'"lateralmente, e non accennavo ad alzarmi per mettermi in coda. Tra una mano e l'altra H" mi lanciava rapide occhiate. Poi disse all'improvviso, con una voce acuta e così forte che fu udito da tutta la tavolata: "Che cosa le succede, C"? Ha paura?". Io non volevo lasciar credere che temevo il suo verdetto. Mi alzai e feci qualche passo per mettermi in fondo alla fila. "Ma no, venga qua subito," disse lui "altrimenti mi scappa un'altra volta!". Mi avvicinai a malincuore, e fu l'unica volta che H'interruppe l'ordine della fila. Afferrò avidamente la mia mano e dopo avervi gettato a malapena un'occhiata decretò: "Lei non arriva a trenta". Aggiunse anche una spiegazione, cosa che non aveva fatto con nessun altro: "La linea della vita si spezza, qui!". Lasciò cadere la mia mano come un oggetto inutile, mi guardò con un'espressione raggiante e sibilò: "Io arrivo a ottantaquattro. Sono appena a metà della vita, io. Ho solo quarantadue anni". "E io ne ho ventotto". "Lei non arriva a trenta, non ci arriva!". Ripeté la sentenza e si strinse nelle spalle: "Niente da fare. A che cosa servirebbe?". Con una vita tale non si poteva intraprendere più nulla. A che potevano servire i due anni che H" mi assegnava? Due anni erano meno che niente. Mi ritirai, per H'ero sistemato, ma il gioco non era finito. Tutti dovevano presentarsi al giudice, di ognuno lui doveva decidere il destino. Quasi con tutti l'operazione andava avanti meccanicamente, solo perché erano lì. Se fossero stati delle mosche non sarebbe cambiato niente. Alcuni tuttavia erano oggetto di un'attenzione speciale. Non sempre capivo perché. Tornai al mio posto, quasi di fronte a H", e mi sedetti ad ascoltare. Qualcuno si sottraeva fingendosi ubriaco, e non c'era richiamo che potesse smuoverlo. I più si presentavano e si sentivano assegnare questo o quel destino. Per quelli che non erano mai incorsi nell'ira di H" contrariandolo in qualche modo, decideva il suo capriccio, ed essi avevano il permesso di arrivare più o meno all'età matura. Nessuno arrivava a ottantaquattro anni. Un gruppo di individui innocui e malleabili si sentì promettere sessanta e più anni. Ma non erano i suoi favoriti, perché costoro venivano presi di mira in modo particolare. Era chiaro che H" voleva disporre di tutti a suo piacimento. C'erano anche alcune donne, ma non se la cavarono meglio degli uomini. Morivano tutte prima degli uomini ai quali erano legate. Per H" le vedove avevano poca importanza, le donne cessavano di essere desiderabili se non c'era un uomo a cui rubarle. Tranne me, nessuno doveva morire a trent'anni. NOTE: (1) Si veda Il frutto del fuoco, cit", p" 58. Gerda Müller (1894-1951) era famosa come interprete di personaggi tragici, da Clitennestra alla Pentesilea di Kleist ?N" d'T"*. (2) Carola Neher (1905-1942) si segnalò sulle scene tedesche come interprete di Shaw e di Brecht, oltre che di Klabund, il suo primo marito. Alla fine del 1931 ottenne a Berlino uno degli ultimi grandi successi con la prima rappresentazione di Storie del bosco viennese di Ödön von Horvàth, che interpretò insieme con Peter Lorre, Hans Moser e Paul Hörbiger. Nel 1933 riparò a Mosca, ma fu arrestata nel 1939 e fucilata tre anni dopo nel campo d'internamento russo di Orenburg ?N" d'T"*. (3) "Non c'è alcuna espressione del potere più evidente dell'attività del direttore d'orchestra": così cominciano le pagine che Canetti dedica alla figura del direttore d'orchestra in Massa e potere (trad" di Furio Jesi, Adelphi, Milano, 1981, pp" 478-81) ?N" d'T"*. Parte seconda - Il dottor Sonne Un gemello in dono In quell'anno 1933, sotto l'impressione degli avvenimenti in Germania, è nata la Commedia della vanità. Alla fine di gennaio Hitler era andato al potere. Da quel momento in poi ogni avvenimento sembrò sinistro e carico di oscuri significati. Tutto ti toccava da vicino, di tutto ti sentivi partecipe come se fossi presente a ogni scena di cui venivi a conoscenza. Nulla era stato previsto, ogni spiegazione e riflessione, ogni più ardita profezia sembravano acqua fresca a misurarle con la realtà. Ciò che accadeva era inaspettato e nuovo in ogni particolare. La modestia dell'apparato concettuale che serviva da motore contrastava in maniera incredibile con la vastità degli effetti. E benché tutto riuscisse incredibile, su una cosa non c'erano dubbi: che quegli avvenimenti potevano sfociare solo in una guerra, e non già in una guerra riluttante e malsicura di sé, bensì animata da mire superbe e ingorde, come le guerre bibliche degli Assiri. Su questo non c'erano dubbi, e tuttavia ci si cullava nella speranza che si potesse ancora evitare. Ma come evitarlo prima di aver capito? Dal 1925 mi ero imposto il compito di scoprire che cos'è la massa, e dal 1931 anche quello di stabilire come il potere sorge dalla massa. Già durante quegli anni era difficile che passasse un giorno senza che i miei pensieri si volgessero al fenomeno della massa. Non volevo prendere scorciatoie, non volevo semplificare le cose, mi sembrava assurdo isolare uno o due aspetti e trascurare così tutto il resto. Nessuna meraviglia, quindi, se ancora non avevo fatto molti progressi. Ero sulla traccia di alcune connessioni: quella tra massa e fuoco, per esempio, o la tendenza della massa a crescere - una proprietà che essa ha in comune col fuoco -; ma quanto più me ne occupavo tanto più appariva chiaro che mi ero accinto a un'impresa che potevo portare a termine solo impegnandovi la parte migliore della mia vita. Ero pronto ad armarmi della pazienza necessaria, ma gli avvenimenti non erano così pazienti. Quando nel 1933 calò sul mondo la grande accelerazione che doveva trascinare tutto con sé, io non avevo ancora nulla da contrapporle sul piano teorico e sentivo il grande bisogno interiore di raffigurare ciò che non capivo. Già un anno o due prima, e in origine senza alcuna relazione con gli avvenimenti del tempo, mi ero messo a lavorare intorno all'idea di un divieto contro gli specchi. Quando andavo dal parrucchiere a farmi tagliare i capelli, era imbarazzante dover guardare sempre la propria immagine davanti a sé; quell'uomo dirimpetto, sempre uguale, mi dava un senso di costrizione, di oppressione. Così i miei sguardi vagavano a destra e a sinistra, dove sedevano persone che erano affascinate da se stesse. Si guardavano a fondo, si studiavano, facevano smorfie per arrivare a una migliore conoscenza dei propri lineamenti, non si stancavano, non sembravano mai sazie di sé; e ciò che mi stupiva soprattutto era che non si curavano affatto di chi, come me, le osservava per tutto il tempo, tanto erano impegnate a occuparsi esclusivamente di se stesse. Erano tutti uomini, giovani e vecchi, rispettabili e meno rispettabili, così diversi l'uno dall'altro che si stentava a crederci, e tuttavia così simili nel loro comportamento: ognuno era in adorazione di se stesso, prostrato davanti alla propria immagine. Ciò che mi colpiva in modo particolare era l'insaziabilità della contemplazione di sé; e una volta, nell'osservare due esemplari grotteschi, mi domandai che cosa sarebbe avvenuto se improvvisamente un divieto avesse privato la gente di un momento così prezioso, il più prezioso di tutti. Era possibile imporre un divieto capace di distogliere l'uomo dalla propria immagine? E quali altre vie poteva prendere la vanità se si cercava di tagliarle le gambe con la forza? Era un gioco divertente immaginare le conseguenze di un simile divieto, e per il momento non era impegnativo. Ma quando si arrivò ai roghi dei libri in Germania, quando si vide che razza di divieti venivano emanati e applicati all'improvviso, con quale imperturbabile pervicacia si poteva impiegarli per la produzione di masse entusiaste, allora fu come se il fulmine mi avesse colpito, e il divieto contro gli specchi cessò di essere un gioco e diventò una cosa seria. Dimenticai ciò che avevo letto sulla massa, dimenticai quel poco che avevo scoperto, mi buttai tutto dietro le spalle e cominciai da capo, come se per la prima volta mi trovassi di fronte a un avvenimento di carattere così generale; e concepii la prima parte della Commedia della vanità, la grande seduzione. Una trentina di personaggi, tutti viennesi fino alla minima inflessione dei loro diversissimi modi di parlare, popolano una zona che ha l'aspetto familiare del Wurstelprater. Ma è un Prater come nessuno l'ha ancora mai visto, dominato da un fuoco che continua a crescere durante il susseguirsi delle scene, attizzato e alimentato dai personaggi dell'azione. Come accompagnamento acustico si ode il tintinnare degli specchi che in baracconi appositamente allestiti sono bersagliati da una pioggia di palle e ridotti in frantumi. La gente porta con le proprie mani i suoi specchi e ritratti, gli uni perché siano fracassati, gli altri perché finiscano in cenere. A questo divertimento popolare un banditore fornisce le parole d'ordine, e il vocabolo che ricorre più frequente e più imperioso nel suo discorso è "Noi!". Le scene sono disposte come a spirale: dapprima scene piuttosto lunghe, in cui personaggi ed eventi si chiariscono a vicenda, poi sempre più brevi. Tutto si riferisce sempre più al fuoco: prima da lontano, poi sempre più da vicino, finché un personaggio diventa il fuoco lui stesso precipitandosi tra le fiamme. L'ossessione di quelle settimane me la sento ancora nelle ossa. C'era un calore dentro di me come se fossi io stesso il personaggio che diventa fuoco. Ma nonostante la frenesia che mi incalzava dovevo astenermi da ogni parola imprecisa e soffrivo per il morso che mi stringeva la bocca. Davanti ai miei occhi, dentro le mie orecchie sorgeva la massa di cui ero ancora lontano dal possedere una chiara visione. Come il vecchio facchino Franzi Nada crollavo sotto il peso degli specchi. Come Franzi, sua sorella, venivo arrestato e chiuso in prigione a causa del fratello perduto. Nelle vesti del banditore Wondrak aizzavo la massa, in quelle di Emilie Fant strillavo crudelmente e ipocritamente invocando il mio figlio crudele. Mi trasformavo nei personaggi più abominevoli e cercavo la mia giustificazione in quelli calpestati, che amavo. Per me nessuno di quei personaggi è andato perduto. Per me ognuno è rimasto vivo, più delle persone che conoscevo a quel tempo. Tutti i fuochi che mi avevano colpito da quando ero bambino sono confluiti nel fuoco del rogo dei ritratti. La febbre che avevo in me nello scrivere non mi aveva abbandonato quando partii per Strasburgo. Mi misi in viaggio mentre stavo ancora lavorando alla prima parte, e lo straordinario è che le frenetiche settimane del convegno non mi distrassero minimamente dalla commedia. Il progetto era così ben definito dentro di me come nessuno degli altri cui mi sono dedicato. Dopo il convegno trascorsi il mese di settembre a Parigi e ripresi il lavoro esattamente al punto in cui l'avevo interrotto a Vienna. Terminai la prima parte e ne ero come inebriato. Credevo di essere riuscito a fare qualcosa di nuovo, a rappresentare una massa in forma drammatica, il suo aggregarsi, il suo ingrossarsi, il suo esplodere. Sempre a Parigi scrissi anche molte scene della seconda parte. Vedevo benissimo tutto il seguito, perfino la terza parte mi stava sempre chiara davanti agli occhi. Non ero uno sconfitto quando feci ritorno a Vienna. Il freddo diniego di Anna mi aveva colpito, ma non mi tormentava come forse sarebbe avvenuto in un altro momento. Mi sentivo così sicuro sotto l'ala della commedia che telefonai ad Anna come se non fosse successo niente, e le annunciai una visita all'atelier. Presi - al telefono - un tono freddo e distaccato, e questo le piacque. Lei era davvero fredda e distaccata. Non sfiorai neanche con una parola ciò che era accaduto tra noi, e fu un sollievo per lei, poiché detestava tutte le scene penose, i rimproveri, i rancori, le recriminazioni. Era soddisfatta di aver seguito il suo impulso più forte, quello che la spingeva alla libertà; ma io accennai alla commedia, della quale le avevo parlato prima della mia partenza, e sebbene per lei i lavori teatrali contassero poco o niente riuscì a esprimere qualche interesse (sapevo di non dovermi aspettare niente di più). Da quando ci conoscevamo, Anna voleva presentarmi il suo giovane maestro, Fritz Wotruba, che però si era assentato da Vienna prima che io partissi per Strasburgo. Adesso era ritornato, e lei lo avrebbe pregato di farsi trovare all'atelier il giorno della mia visita. Così avremmo pranzato insieme. Aveva avuto una buona idea. Era la prima volta che la rivedevo dopo la rottura. Il sentiero in mezzo al giardino, lo scricchiolio della ghiaia, che mi parve molto più forte di quanto lo ricordassi, la serra che le serviva da studio, Anna nello stesso camiciotto azzurro, ma un po'"spostata rispetto alla statua, che era al centro. Questa volta Anna non aveva le dita nell'argilla, teneva le braccia abbassate e gli occhi rivolti a un giovane uomo che era inginocchiato davanti alla statua e vi armeggiava intorno con le dita. L'uomo mi volgeva le spalle, e non si alzò quando io entrai nell'atelier e Anna disse il mio nome. Non tolse le mani dall'argilla e continuò a impastarla, girò la testa verso di me restando inginocchiato e disse con voce profonda e sonante: "Anche lei sta in ginocchio davanti al suo lavoro?". Era una battuta scherzosa con cui voleva scusarsi per non essere balzato in piedi e non aver potuto darmi la mano. Ma anche una battuta aveva in lui peso e significato. Il suo "anche" era una forma di benvenuto. Così il suo e il mio lavoro erano messi sullo stesso piano, lo "stare in ginocchio" voleva esprimere una speranza, e cioè che anch'io, come lui, prendessi sul serio il mio lavoro. Fu un buon inizio. Di quella prima conversazione mi è rimasta nella memoria soltanto la frase con cui cominciò. Ma vedo ancora Wotruba davanti a me, me lo vedo seduto di fronte, occupato con la sua costoletta. Anna aveva fatto servire il pranzo per noi ma non vi prendeva parte, restava in piedi, ogni tanto andava in giro per lo studio e poi si avvicinava di nuovo al tavolo per seguire la conversazione. Se ne interessava solo a metà, il cibo per lei non significava niente, poteva lavorare per giorni interi senza pensarci. Ma adesso la sua era anche una forma di riguardo, voleva offrirmi qualcosa ma nello stesso tempo pensava anche a Wotruba, che teneva in grande considerazione per l'energia che metteva nel lavorare la pietra più dura, per la sua inflessibile fermezza; perciò si era prodigata per lui ed era diventata la sua prima allieva. Era convinta che quell'incontro avrebbe avuto un seguito e ci lasciava soli a conversare insieme per la prima volta, senza immischiarsi e senza attirare l'attenzione su di sé. In quella occasione dimostrò molto tatto, perché se si fosse allontanata troppo avremmo avuto la sensazione di essere come domestici, ai quali si prepara il pasto a un tavolo appartato, nell'angolo. Si dava da fare qua e là nell'atelier, ma poi ritornava sempre da noi e seguiva la conversazione in piedi, come se fosse lì per servirci; tuttavia non si tratteneva a lungo, per non disturbare con la sua presenza. Ancora pochi mesi prima non si sarebbe lasciata sfuggire una sola parola di una simile conversazione, fosse la prima o anche una successiva. Allora aveva deciso di non trattarmi come una persona indifferente e si comportava di conseguenza. Adesso che aveva preso la decisione opposta, poteva dar prova di tatto e lasciare che la conversazione avvenisse in piena libertà. Ma da quando avevamo cominciato a mangiare la conversazione ne soffriva. Mi colpirono subito le mani di Wotruba, lunghe, nervose, piene di forza ma straordinariamente sensibili, quasi creature a sé, con un proprio linguaggio che io cominciai a seguire più delle parole: non avevo mai visto mani così belle. La sua voce, che mi era piaciuta in quella prima frase, non la udivo più, per il momento era come se non dicesse niente, tanto era forte la prima impressione di quelle mani. Forse per questo ho dimenticato la conversazione. Wotruba era occupato a ritagliare pezzi di carne dai contorni netti, di forma regolare, quasi quadrata, e li portava alla bocca con un gesto veloce e deciso. Dava un'impressione di energia più che di ingordigia, il tagliare sembrava ancora più importante dell'ingoiare, e tuttavia era impensabile che la forchetta si fermasse a metà strada, che Wotruba facesse una domanda o non aprisse la bocca solo perché l'altro stava parlando. Il boccone scompariva subito, inesorabilmente, e gli altri lo seguivano in rapida cadenza. Le costolette erano filacciose, io mi sforzavo di togliere le parti che mi sembravano immangiabili, continuavo a trovarne, continuavo a tagliare, e ciò che avevo scartato rimaneva nel piatto. Tutto quel girare, rivoltare, dubitare, quel lavorare di punta e di taglio, quella manifesta riluttanza a mettere sotto i denti ciò che avevo nel piatto, contrastava in maniera così stridente col comportamento di Wotruba che a un certo punto lui se ne accorse, nonostante tutta l'attenzione dedicata alla sua costoletta. Rallentò un poco i gesti, notò lo scempio nel mio piatto: era come se ci avessero servito cibi totalmente diversi o come se lui e io appartenessimo a due specie differenti. La conversazione, che già era stata interrotta dalle compunte operazioni del mio commensale, prese un altro andamento: Wotruba guardava stupefatto. Non poteva credere che l'individuo seduto davanti a lui trattasse la carne in maniera così indegna. Alla fine mi domandò se avevo intenzione di avanzare tutta quella roba. Io borbottai qualche parola sulla carne filacciosa, ma lui non ci badò granché, lui mangiava anche le filacce, tutto quello che faceva parte di un boccone ben squadrato. Davanti a una forma così netta e precisa non c'era niente da ridire. Tutto il mio lavorio gli riusciva disgustoso. Da quel primo incontro Wotruba si fece l'idea di avere a che fare con un pasticcione; e, come seppi poi, la sua impressione la riassunse subito dopo davanti alla moglie, a casa sua. Al tempo in cui Fritz Wotruba diventò mio grande amico - non tardammo molto a considerarci fratelli gemelli - la mia consapevolezza di scrittore toccò uno dei punti più alti. Dopo avere sperimentato e ammirato l'aggressività di Karl Kraus, scoprivo quella dello scultore, il cui lavoro consisteva nell'aggredire quotidianamente la pietra più dura. Wotruba è stato l'essere più selvaggio che io abbia conosciuto, qualunque cosa discutessimo o facessimo insieme aveva sempre un carattere drammatico. Grande era il disprezzo per gli altri, per quelli che se la prendevano comoda, che non rifuggivano dai compromessi o forse non sapevano neppure che cosa volessero. Come due creature uniche nel loro genere, ci precipitavamo per le strade di Vienna, e l'andatura di Wotruba era veramente un precipitarsi: arrivava rapido e impetuoso, chiedeva o si prendeva quel che voleva, e già si era precipitato via, prima ancora che si sapesse se era soddisfatto o no. A me piaceva quel suo modo di muoversi, che più d'uno temeva e tutti ormai conoscevano. Il luogo in cui sentivo più forte la mia affinità con Wotruba era il suo atelier. Il municipio di Vienna gli aveva assegnato due arcate sotto il viadotto della ferrovia urbana. Sotto un'arcata - o davanti a essa, se il tempo era buono - Wotruba si scagliava contro la sua pietra. Quando vi andai la prima volta, stava lavorando a una figura femminile distesa. Colpiva duro e faceva capire quanto fosse importante per lui la durezza della pietra; saltava improvvisamente da un punto della figura a un altro, ben distante dal primo, e vi applicava lo scalpello con rinnovato furore. Era chiaro quanto fosse essenziale nel suo lavoro la parte delle mani, in che misura l'esito dipendesse dalle mani, e tuttavia si aveva l'impressione che egli addentasse la pietra. Una pantera nera, questo fu l'effetto che mi fece, una pantera che si nutrisse di pietra. Wotruba lacerava la pietra e vi affondava i denti. Non si sapeva mai in che punto avrebbe lanciato il suo prossimo assalto. Erano soprattutto quei balzi a far pensare a un felino, ma non avvenivano da una distanza qualsiasi, bensì da un punto all'altro della statua. Su ogni punto Wotruba si avventava con un'energia concentrata, e la forza con cui aggrediva si sprigionava in un certo senso là dove il balzo finiva. Il giorno della mia prima visita al suo studio - Wotruba lavorava alla statua sepolcrale per la cantante Selma Kurz - i suoi balzi venivano dall'alto, e forse per questo mi venne fatto di pensare a una pantera che da un albero piomba sulla vittima. Era come se Wotruba dilaniasse la vittima - ma che senso può avere un "dilaniare" quando l'azione si esercita sul granito? Nonostante la cupa concentrazione di Wotruba, era impossibile dimenticare anche solo per un istante la materia con cui si batteva. Mi trattenni a lungo a osservarlo. Non sorrise una sola volta. Sapeva di essere osservato, ma non diede alcun segno di compiacenza. Era un'operazione mortalmente seria, quella che si compiva nella pietra. Compresi che Wotruba si presentava quale realmente era. La sua natura era così forte che aveva voluto scegliersi l'impegno più difficile. Per lui durezza e difficoltà coincidevano. Quando si ritraeva con un balzo improvviso, sembrava che lo facesse per sottrarsi ai colpi con cui la pietra avrebbe risposto. Era un omicidio, quello che interpretava davanti a te. Mi ci volle del tempo per capire che lui doveva uccidere. E non era un omicidio nascosto, un omicidio che lasciasse dietro di sé tracce pressoché invisibili: Wotruba lo consumava a poco a poco, insistendo fino a che l'omicidio rimanesse come monumento. Di solito lavorava in solitudine, ma sentiva anche il bisogno di avere ogni tanto degli spettatori, senza per questo cambiare, rimanendo se stesso in tutto e per tutto, non attore, ma autore. Voleva qualcuno che comprendesse quanto faceva sul serio. Se l'arte è stata definita innumerevoli volte come un gioco, la sua non lo era affatto. Con le sue imprese avrebbe popolato la città e il mondo. Ero andato all'atelier pensando anch'io secondo l'opinione corrente, che a lui stesse a cuore la durata della pietra, l'integrità e la sopravvivenza delle sue creature. Ma quando potei assistere a come procedeva, a quell'inspiegabile combattimento, compresi che ciò che contava era la durezza della pietra e nient'altro. Quello era l'avversario con cui doveva battersi. Aveva bisogno di una pietra come altri di un tozzo di pane. Ma doveva essere il boccone più duro, e lui era lì ad attestare la durezza. Lo presi sul serio a prima vista. Wotruba era quasi sempre serio. Per lui le parole avevano sempre un valore, parlava quando voleva qualcosa, e allora le sue parole esigevano, oppure mi parlava di qualcosa che l'angustiava, e allora non c'erano parole ambigue - com'è raro incontrare una persona le cui parole valgono! Sarà stato il mio odio contro ogni forma di mercantilismo a spingermi alla ricerca di tali parole. Il tira e molla delle parole, l'abitudine di buttarle fuori per poi riprendersele subito dopo, i loro labili contorni, il loro trascolorare, il loro dissolversi mentre tuttavia sono ancora lì, la loro frattura prismatica, la loro iridescenza, il loro correre via all'avventura prima che esse stesse lo vogliano, la viltà alla quale vengono piegate, il loro contegno servile - com'ero stufo di questa mortificazione delle parole, io che le prendevo tanto sul serio da rifiutarmi perfino di deformarle per gioco: io le volevo intatte e le volevo in tutta la loro forza. Mi rendevo conto che ognuno le adoperava a modo suo. La deformazione che non era dovuta a mala fede, che non era fatta per gioco, che conferiva alla parola proprio l'aspetto falso che corrispondeva a quello del parlante, la deformazione che lo metteva a nudo e diventava il parlante stesso - una simile deformazione io la rispettavo e la lasciavo intatta com'era, non avrei osato toccarla, e soprattutto mi ripugnava addirittura l'idea di spiegarla. Ero soggiogato dalla terribile serietà delle parole, che valeva in ogni lingua e aveva il potere di rendere intangibile ogni lingua. In Wotruba c'era questa terribile serietà delle parole. Il nostro incontro avvenne dopo che per quasi un anno e mezzo avevo sperimentato l'esatto contrario in F", un altro amico. Per F" le parole non avevano un senso intangibile, ma venivano voltate e rivoltate e servivano alla seduzione. Con lui il senso era uno e poi un altro, poteva cambiare nel giro di ore, e magari si trattava di cose apparentemente radicate, di convinzioni. Vedevo come F" assimilava quello che io dicevo, come le mie parole diventavano sue, talmente sue che io stesso non ne avrei riconosciuto la provenienza. Con lui poteva succedere che usasse le mie parole per polemizzare ad alta voce con me o anche, il che era ancor più singolare, con se stesso. E mi rivolgeva un sorrisetto estasiato quando poteva sorprendermi con una frase che aveva udito da me il giorno prima, e pretendeva il mio plauso, credendo forse che ciò fosse davvero sorprendente. Ma poiché non sapeva essere preciso, c'era sempre qualcosa di cambiato, così che il mio stesso pensiero, in quella versione, mi irritava. Allora insorgevo, e F" sembrava convinto che tra noi ci fosse una polemica, opinione contro opinione, mentre in realtà un'opinione si ribellava alla propria deformazione, e lui si era fatto bello semplicemente usando con disinvoltura la deformazione. Wotruba invece sapeva ciò che aveva detto, e non lo dimenticava. Non dimenticava neanche ciò che aveva detto il suo interlocutore. Era come in uno scontro fisico: i due corpi erano sempre lì, non scomparivano, restavano impenetrabili. Potrà sembrare incomprensibile se dico che solo conversando appassionatamente con Wotruba compresi che cos'è la pietra. Non mi aspettavo di trovare in lui compassione per gli altri, in lui la bontà sarebbe apparsa ridicola. Per lui contavano due cose, soltanto queste due cose: il potere della pietra e il potere delle parole. In ogni caso si trattava dunque del potere, ma in una combinazione dei suoi elementi talmente inconsueta che si accettava il tutto come una forza della natura e si cercava di non esporvisi troppo, come se fosse un uragano. Il "Nero in piedi" Nei primi mesi della nostra amicizia non avevo mai visto Marian senza Fritz Wotruba. Insieme ti piombavano addosso e insieme ti stavano sotto il naso. Poiché ogni volta il discorso cadeva subito su un'impresa che bisognava portare a termine, su un nemico cocciuto che intralciava una certa commissione, un individuo della Vienna ufficiale contro il quale occorreva far scendere in campo un altro individuo ben disposto, poiché Marian era l'ariete che a testa bassa si lanciava contro qualsiasi muraglia, poiché doveva riferire per filo e per segno i particolari della sua battaglia e non tralasciava la più piccola inezia, Wotruba la lasciava parlare a volontà e si limitava ad accompagnarla ogni tanto con qualche brontolio di approvazione. Ma anche quel poco che Wotruba tirava fuori in tali occasioni aveva un accento viennese fino all'ultima virgola, mentre il precipitoso eloquio di Marian, che nessuno e nulla poteva interrompere, veniva giù a cascata nel tedesco delle persone istruite. Non si avvertiva l'accento renano: benché Marian fosse di Düsseldorf, a giudicare dalla lingua poteva venire da una qualunque parte della Germania, tranne il Sud. Parlava con monotona insistenza, senza alzare o abbassare la voce, senza alcuna interpunzione o articolazione del discorso, soprattutto senza pause. Era una parlantina inesorabile, quando arrivava lei e attaccava era impossibile scapolarsela se prima non aveva detto tutto, e ogni volta era un resoconto minuziosissimo, uno breve non l'ha mai sentito nessuno dalla sua bocca. Non c'era scampo, davanti a lei tutti restavano sbigottiti, era come se una pietra ti fosse finita sopra o tu stesso fossi diventato pietra. E non c'era verso di distogliere l'orecchio. Di fronte a quelle raffiche verbali eri costretto a sorbirti ogni frase; anzi - è un particolare che mi riesce chiaro solo adesso - era una regolare successione di colpi di scalpello che dovevi lasciarti infliggere con rassegnazione. Eppure io non ero mai la persona da cui Marian voleva ottenere qualcosa a forza, ma semplicemente l'amico al quale faceva la sua relazione. Non oso pensare come doveva sentirsi chi era veramente oggetto degli attacchi di Marian. Per liberarsi aveva solo una via: concedere ciò che Marian chiedeva per Fritz. Se per caso veniva interrotta, o perché un ufficio chiudeva a una certa ora o perché la vittima era chiamata da un superiore o doveva rispondere al telefono, lei ritornava alla carica una volta ancora, e poi ancora e ancora. Nessuna meraviglia se alla fine la spuntava. Marian, arrivata a Vienna giovanissima, era diventata allieva di Anton Hanak e così aveva conosciuto il giovane apprendista Fritz Wotruba, anche lui allievo di Hanak. Da allora era rimasta a Vienna, senza però assimilare nulla di quell'accento. Bisogna pensare che ogni giorno, per decenni, ebbe nell'orecchio la parlata di Wotruba, il più autentico dialetto viennese. Lui era fedele, con un fanatismo di cui non avevo mai visto l'uguale, alla lingua che aveva imparato da bambino sul selciato di Vienna. Un'altra lingua non la imparò mai. In seguito, quando tentava di pronunciare qualche parola inglese o francese, l'effetto era comico: sembrava di sentire un postulante affetto da balbuzie o un accattone mutilato. Come ogni viennese, sapeva tirar fuori all'occorrenza un corretto tedesco di sapore ufficioso, e poiché era intelligente e scriveva un buon tedesco, allora non c'era niente di comico. Ma si arrendeva così malvolentieri a questa necessità, doveva compiere un tale sforzo che ne soffrivi con lui e respiravi di sollievo quando poteva ritornare se stesso e riprendere le sue inflessioni naturali. Marian non aveva mai preso neanche il più lieve accento: eppure aveva dedicato la sua vita a Fritz e alla sua causa, aveva rinunciato molto presto alla scultura per amore di Fritz, non ebbe mai un figlio e parlava in sua vece, parlava e parlava incessantemente. Tutto ciò che sentiva dire da lui, si traduceva subito in azione. Quando partiva per le sue missioni, non udiva più nulla, aveva in mente soltanto ciò che voleva ottenere per Fritz. Parlava e parlava, tutto il resto le scivolava addosso senza toccarla. Se lui era presente, tutte quelle parole non riuscivano - almeno allora - a disturbarlo minimamente. Quando ero solo con lui, Fritz finiva col dirmi, credo, tutto quello che gli passava per la testa o lo angustiava. Ma nemmeno una volta l'ho sentito lamentarsi della loquacità di Marian. Ogni tanto fuggiva, scomparendo per qualche giorno, e allora Marian era molto in ansia per lui e andava a cercarlo dappertutto, a volte in mia compagnia. Ma non credo che Fritz cercasse scampo alla parlantina di Marian. La causa era piuttosto la fama che aveva conquistato così presto, il mestiere di artista di cui si sentiva prigioniero, forse addirittura qualcosa di più profondo, la pietra con cui si batteva e che per lui era una sorta di prigione. Non c'era nulla che temesse più della prigione, e mai provava una pietà così profonda come per i felini chiusi dietro le sbarre della gabbia. Mi invitarono a pranzo nella loro casa della Florianigasse, al numero 31, dove Fritz aveva sempre abitato, ultimo di una grande famiglia che contava altri sette tra fratelli e sorelle. Adesso vi abitavano ancora, con lui e Marian, soltanto la vecchia signora Wotruba e la più giovane delle sorelle. La madre avrebbe pensato alla cucina in modo che noi tre potessimo starcene in pace a mangiare. Le avevano già parlato di me. Era una donna molto curiosa e aveva un temperamento irascibile. Se qualcosa non le andava a genio faceva volare i piatti, e chi passava lì vicino doveva abbassare fulmineamente la testa per non farsi beccare. Si arrivava alla camera di Fritz e Marian solo attraversando la cucina. Ma era una bella camera, a sentire la loro descrizione, tutta arredata secondo il gusto di Marian, ci si poteva star comodi a conversare. Fritz sarebbe venuto a prendermi per non lasciarmi solo nella traversata della cucina, altrimenti poteva arrivarmi un piatto sulla testa. Domandai se per caso la mia presenza era sgradita a sua madre. Tutt'altro, disse Fritz, ne è felicissima, per questo prepara lei stessa le costolette, ed è anche una brava cuoca. Sì, ma allora perché tira i piatti in testa alla gente? Non si può mai sapere, disse lui, succede senza una ragione, è un ghiribizzo, un accesso d'ira. Per esempio, se lui ritarda per il pranzo. Quando è al lavoro, là sotto il viadotto, non pensa ad altro e può succedergli di rincasare due ore più tardi del previsto. Allora volano i piatti, ma lui non si è lasciato mai beccare. Lui ci ha fatto l'abitudine, sua madre ha un gran temperamento, è una ungherese, viene dalla campagna, è arrivata a Vienna facendo tutta la strada a piedi, allora era una ragazzina, poi è stata a servizio in ottime case. Con i suoi padroni ha dovuto frenarsi, tutto il suo temperamento l'ha messo da parte per gli otto figli. Con loro non ha mai avuto la vita facile, con loro ha dovuto sfogarsi. "E se arriviamo tardi ci darà una strigliata, non è che tiri sempre i piatti". Dunque, eravamo d'accordo. Fritz insistette per farmi da scorta e si dilungò più del solito. Lui, così imperturbabile, così pronto a far mostra della sua forza, appariva preoccupato e sprecava un mucchio di parole. Aveva molto rispetto per sua madre e la stimava proprio per le ragioni che lo inducevano a mettermi in guardia. Ebbi la sensazione che volesse far colpo su di me col ritratto che tracciava di sua madre. A guardarla sembra una donna deperita, diceva Fritz, ma l'apparenza inganna, è un fascio di nervi, una pelle dura, capace di tener testa a chiunque. Chi ha preso un ceffone da quelle mani non se lo dimentica. Il fazzoletto in testa lo porta sempre, come le contadine in Ungheria. Non è mai cambiata, dopo tanti anni che abita a Vienna è rimasta la stessa. Non è orgogliosa del suo Fritz? Non si può mai dire, non lo lascia mica vedere, davanti a un ospite soprattutto. Uno scrittore in visita, questo fa già colpo su di lei. Sì, perché legge volentieri, i libri le piacciono; ma sarà meglio stare attenti. Fritz venne a prendermi in ritardo, quasi un'ora dopo. Io ero inquieto, dopo tutto quello che mi aveva detto. Sembrava che si fosse dimenticato del pericolo di uno scontro con sua madre. "Oggi si mette male," disse quando finalmente spuntò "dobbiamo correre". Non si scusava mai per un ritardo, ma quella volta almeno avrebbe potuto darne una spiegazione. Io ero stizzito e mi sentivo volare il piatto sulla testa già molto prima che svoltassimo nella Florianigasse. Quando entrammo nella cucina, Fritz alzò ancora una volta il dito in segno di avvertimento. Sua madre era in piedi davanti al focolare: vidi prima il fazzoletto che le copriva la testa, poi la figura piccola e un po'"curva. Rimase zitta, non si girò nemmeno. Il figlio storse la bocca con aria preoccupata e mi bisbigliò: "Ehi, attenzione!". Dovevamo attraversare la cucina per arrivare all'ingresso della stanza. Fritz si chinò e con uno spintone mi costrinse ad abbassarmi. Eravamo sulla soglia della stanza quando arrivò il piatto, ben mirato alla testa di Fritz ma troppo alto. Poi la donna si asciugò le mani nel grembiule e venne verso di noi. "Con quello non ci parlo" disse a voce alta, con accento ungherese, e mi diede il benvenuto nella maniera più cordiale. "Lo fa apposta," aggiunse "si diverte a fare arrabbiare sua madre". Sapeva che Fritz sarebbe arrivato anche più tardi del solito perché lei facesse il suo numero; e lei, proprio per questo, aveva tardato a preparare le costolette: non erano ancora ben asciutte, tanto peggio per noi. Nella stanza splendevano la lastra di cristallo del tavolo e i tubi d'acciaio delle sedie, una modernità un po'"programmatica che corrispondeva alle idee di Marian più che alla sua persona. Alle pareti bianche erano appesi quadri di Merkel e di Dobrowsky, doni dei due artisti al giovane scultore che incarnava l'avanguardia della Sezession e ne era il membro più giovane e più contestato. L'assenza di oggetti superflui faceva risaltare ancora di più i quadri, e io fui attirato in particolare dai paesaggi arcadici di Merkel, che già in passato mi avevano colpito. Tra la stanza e la cucina non c'era una porta di comunicazione ma solo il vano aperto. La madre di Fritz, senza entrare nella stanza, udiva ogni parola dalla cucina e partecipava intensamente, se non altro con gli orecchi, alla conversazione. I piatti venivano fatti passare da una finestrella che serviva appunto per i pasti. Marian andava a prenderli e li posava sulla lastra di cristallo. Ed ecco arrivare le gigantesche costolette che formavano tutto il nostro pranzo. Wotruba assicurò che la carne non era filacciosa, tutt'altro: perciò avrei fatto meglio a non lavorare troppo di coltello, come quella volta da Anna, se non volevo che sua madre si offendesse. Poi si curvò sulla costoletta e cominciò a mangiare i suoi grossi bocconi quadrati, senza dire una parola. Non tolse gli occhi dal piatto neanche una volta, e finché non l'ebbe vuotato non partecipò minimamente alla conversazione: né una sillaba né un gesto. Marian sosteneva la conversazione da sola. Prima si dilungò sulla colpa di cui mi ero macchiato nell'atelier di Anna, quando avevo tagliuzzato la carne e poi l'avevo lasciata lì e il piatto era tutto pieno di scarti, uno spettacolo che Fritz non aveva mai visto in vita sua. "Dalla Mahler c'era un cane nervoso" le aveva detto appena ritornato a casa; e poi le aveva spiegato che cosa avevo combinato con la carne. Da allora si era continuato a parlarne a tavola ogni giorno, Fritz le aveva messo addosso una grande curiosità; erano arrivati alla conclusione che io non ero soltanto un nemico della carne filacciosa ma della carne in generale; e adesso si vedrà se è proprio vero. Ma lei aveva notato subito che non era vero, lì da loro, e non appena ebbi finito la mia costoletta me ne trovai nel piatto una seconda, altrettanto gigantesca, senza che nessuno mi avesse chiesto niente. Marian si scusò spiegando che non c'era quasi altro, specialmente col dessert le cose andavano male, Fritz non tocca il formaggio, non mangia più formaggio da quando era bambino, e neanche la frutta conservata, perché non può soffrire che si faccia a pezzetti la frutta. Nel sentire queste notizie io guardai Fritz con aria dubitosa, e lui emise un grugnito a mò di conferma, non c'era verso di cavarne una parola fintanto che aveva un po'"di carne nel piatto. A me interessava ormai tutto ciò che lo riguardava, perfino i particolari della sua vita fisica. In altre circostanze sarei scappato per non ascoltare discorsi simili, e invece ero tutto orecchi, come se si parlasse della sua scultura. Dalla cucina arrivò la voce della madre: "Ma lui mangia o siamo daccapo con le sue porcherie?". Anche lei era informata di quello che era avvenuto al nostro primo incontro. Marian portò via il mio piatto vuoto per testimoniare di persona che avevo mangiato tutto, e subito mi fu servita una terza costoletta, che però rifiutai profondendomi in parole di lode per le prime due. Quando ebbe finito, Fritz ritrovò la voce, e allora venni a sapere cose interessanti. Gli domandai se aveva cominciato subito con le pietre: le sue mani non erano minimamente segnate. Ho già detto quanto erano cariche di sensibilità. Il loro contatto, quando ci salutavamo, non mi riusciva mai indifferente. In tutti i decenni della nostra amicizia ho sempre avuto la sensazione che fossero ogni volta mani nuove, ma all'inizio destarono in me il ricordo di due mani diverse che si trovavano insieme, molto vicine, in uno stesso dipinto, ciascuna così eloquente che nessuna aveva il sopravvento sull'altra. Pensavo al dito di Dio nella scena della creazione di Adamo, nella Cappella Sistina, e non saprei spiegare questo accostamento, perché da un solo dito la vita fluisce nella mano di Adamo, mentre nel mio caso mi veniva offerta una mano intera; ma dev'essere che io sentivo la forza della vita che da quel dito si trasmette nell'uomo futuro. Pensavo anche ad Adamo, alla sua mano intera. Le pietre, disse Fritz, erano arrivate abbastanza presto, ma non aveva cominciato con le pietre. Era ancora molto piccolo, neanche sei anni, quando aveva grattato via lo stucco di una finestra per modellarlo. I vetri si erano allentati, uno era caduto finendo in pezzi. L'avevano picchiato per questo. Lui lo aveva fatto un'altra volta, c'era soltanto lo stucco, doveva pur modellare qualcosa. Era più difficile mettere le mani su un pezzo di pane, erano otto figli, lo stucco delle finestre si plasmava meglio del pane, e lui fu picchiato un'altra volta, ma dalla madre, una cosa da niente in confronto alle botte del padre. Il padre agguantava i fratelli maggiori e li picchiava così forte che alla fine erano diventati dei delinquenti. Ma questo venni a saperlo solo in seguito. Fritz parlava raramente del padre, che era odiato da tutti i fratelli, e quella volta, con la madre che poteva ascoltare dalla cucina, non si accennò mai a lui. Il padre, di origine ceca, lavorante di sartoria, era morto già da un pezzo. Il fratello maggiore era stato condannato per un omicidio a scopo di rapina e aveva fatto una pietosa fine a Stein an der Donau. (1) Fritz mi confidò questa storia solo dopo che eravamo diventati come gemelli. Si portava addosso il marchio della violenza, ne soffriva, e il suo modo inquietante di battersi con la pietra cominciai a capirlo quando seppi del destino toccato a quel fratello. La polizia teneva sempre d'occhio i ragazzi Wotruba. Fritz, il più giovane, molto più giovane dei fratelli ribelli, non poteva affacciarsi nella Florianigasse senza finire tra le braccia di un poliziotto. Ancora piccolissimo, aveva assistito alle punizioni inflitte dal padre ai fratelli. Erano vere e proprie esecuzioni, con la cinghia di cuoio e grida terribili. La spietata severità del padre gli aveva fatto più impressione di tutte le colpe che i suoi fratelli potevano aver commesso. Era convinto che il padre avesse avviato i figli alla delinquenza proprio con quelle punizioni. Ma poiché gli restava davanti agli occhi la brutalità del padre, aveva anche il sospetto che tutto questo si fosse trasmesso dal padre ai figli per via ereditaria. La paura di quella eredità non doveva più lasciarlo, fino a diventare un terrore panico del carcere e a condizionare i suoi rapporti quotidiani con la pietra. La pietra, la più dura e la più spessa delle materie, lo teneva prigioniero, e Fritz la addentava, le si scagliava contro penetrandovi sempre più a fondo. Ogni giorno, per molte ore, si batteva con la pietra, e la pietra era diventata così importante per lui che non poteva più farne a meno, così importante - non come il pane, bensì come la carne. E" quasi da non credere, ma l'opera di Fritz Wotruba deve molto alla lotta tra il padre e i fratelli, al destino dei fratelli. Nulla di tutto questo traspare dalla sua scultura, è un legame profondo, così profondo che è entrato nell'essenza della sua materia. Bisogna conoscere la storia di Wotruba, anche le fughe che non sono mai mancate nella sua vita, l'amore appassionato per i felini prigionieri - nessun essere umano poteva fargli pietà come una tigre in gabbia -, la sua paura di avere figli, perché la follia omicida si potrebbe ereditare: al posto di un figlio si teneva un gatto. Bisognerebbe sapere tutto questo (e molte altre cose, a voler essere precisi) per comprendere perché Wotruba dovesse staccarsi e allontanarsi sempre più dalla carnalità della pietra, una carnalità che all'inizio era presente anche nella sua scultura, per esempio nel famoso Torso dei primi anni. A vederlo in quella stanza arredata secondo i canoni del Bauhaus, ma con i quadri arcadici di Georg Merkel e gli eleganti dipinti di Dobrowsky alle pareti, mentre il resto della casa, specialmente la cucina, era rimasto come ai tempi del padre violento, con la differenza che il potere era passato alla madre - ma che cos'era il fragoroso lancio dei piatti rispetto alle percosse brutali e interminabili del padre! -, dopo avere assistito al rabbioso assalto della vecchia contro il ritardatario, alle manovre per schivare i piatti, dopo tutto questo non potevo immaginare che si trattasse già di un progresso, di un incivilimento. Il padre era ormai scomparso, il fratello forse era già morto in prigione, e adesso, invece, c'era il gioco con la madre, il centro di tutto era la madre, che aveva resistito a tante prove e grazie al figlio più giovane poteva vivere una vita diversa, degna di lei, senza nessuna rinuncia all'antico ambiente: ancora la stessa casa, la stessa cucina, ancora il selciato della Florianigasse. Sotto il viadotto della ferrovia urbana, durante la mia prima visita all'atelier, avevo visto la grande figura eretta di un uomo scolpito nel basalto nero. Nessuna opera di scultori viventi mi aveva mai fatto tanta impressione. Stavo lì davanti e udivo il fragore della ferrovia che passava sopra il viadotto. Vi rimasi così a lungo che sentii passare più di un treno. Nel ricordo non riesco a separare la statua da quel rumore. Era nata lì, tra quei rumori, frutto di un lavoro lungo e molto duro. C'erano da vedere altre statue, un buon numero, ma non troppe. L'atelier non sembrava proprio stipato. Era costituito da due grandi archi del viadotto ferroviario, e in uno stavano le statue che avrebbero disturbato Wotruba mentre lavorava nell'altro. Se il tempo non era troppo cattivo, lui preferiva lavorare all'aperto. All'inizio mi ero sentito respinto dall'ambiente spoglio e dal frastuono dei treni, ma poiché non si vedeva niente di superfluo e ogni cosa aveva un interesse e un'importanza, ci si sentiva presto a proprio agio e si scopriva che quello era il posto giusto, che non poteva essercene uno più appropriato. Ma non mi guardai troppo intorno, sebbene mi premesse dimostrare all'artista la mia attenzione, perché il "Nero in piedi", come lo chiamammo da allora, non allentava la sua presa su di me. Era come se fossi andato all'atelier solo per lui. Tentai di scrollarmelo di dosso, mi aveva reso muto, e io dovevo pur dire qualcosa. Dovunque mi appostassi, dovunque cercassi di posare gli occhi, era sempre il "Nero in piedi" a richiamare il mio sguardo, e così lo osservai da tutti gli angoli immaginabili e gli resi l'omaggio più grande attraverso il silenzio con cui mi aveva contagiato. Questa statua è scomparsa. Fu sotterrata durante la guerra, come mi raccontò Wotruba, e non fu più ritrovata. Aveva suscitato aspre critiche, ed è possibile che lui non volesse più saperne. Quando fummo costretti a emigrare e a separarci - lui visse in Svizzera, io in Inghilterra -, Fritz era forse turbato dal ricordo della passione che avevo concepito per il "Nero in piedi"; e poiché durante l'esilio aveva preso altre strade, molto diverse, al suo ritorno a Vienna non voleva più riallacciarsi a un'opera che aveva fatto a venticinque anni. E" vero, quella statua, con tutto ciò che io ne dicevo parlando con Fritz, gli precludeva la strada a cose nuove. Ero ostinato come lui, e con quei discorsi gli riuscivo importuno. Quando venne a trovarmi a Londra la prima volta dopo la guerra, io mi rifacevo ancora al "Nero in piedi" come termine di paragone per le sue opere più recenti, e non gli nascosi la mia delusione. Il suo periodo veramente nuovo, col quale si riallacciava anche agli esordi - io solo potevo rendermene conto - arrivando però a risultati di gran lunga superiori, non cominciò prima del 1950. E" dunque scomparsa l'opera che mi aveva legato a Wotruba, l'opera che dall'autunno 1933, quando la vidi per la prima volta, servì a definire l'idea che avevo di Wotruba fino al momento in cui, ventun anni dopo, alla fine del 1954, scrissi su di lui il saggio di cui non vorrei mai più cambiare una parola. Oggi so benissimo che cosa ci sarebbe da criticare nel "Nero in piedi". Perciò posso parlare soltanto dell'esperienza di quel primo giorno. La figura che ti stava di fronte, tutta nera e in grandezza più che naturale, teneva una mano, la sinistra, nascosta dietro la schiena. La parte superiore del braccio si staccava dal corpo in maniera molto decisa e formava un angolo retto con la parte inferiore. Così il gomito spiccava netto e potente dal corpo, quasi si tenesse pronto a ricacciare chiunque si avvicinasse troppo. Il triangolo vuoto tra il torace e le due parti del braccio, l'unico spazio vistosamente vuoto che si notasse in tutta la figura, aveva qualcosa di minaccioso: faceva subito pensare alla mano invisibile, alla mano di cui avresti voluto scoprire la sorte. Sentivi che era solo nascosta, non amputata. Ma non osavi cercarla, cedevi a una sorta di magia che ti proibiva di abbandonare il tuo punto di osservazione. Prima di cominciare la ricerca, che presto o tardi era inevitabile, ti persuadevi della visibilità dell'altra mano. Nella parte destra della statua regnava la pace. Il braccio destro era tutto steso lungo il corpo, la mano aperta scendeva fin quasi all'altezza del ginocchio, sembrava tranquilla e priva di ogni carica ostile. Era così tranquilla che ad essa non pensavi affatto, colpito dal modo in cui l'altra mano si sottraeva alla vista. L'uovo della testa era posato su un collo robusto che si assottigliava un poco verso l'alto (altrimenti sarebbe risultato più largo della testa). Il viso era stretto, appiattito in avanti, più viso che maschera nonostante la semplificazione dei tratti, scabro e muto, la fessura della bocca ben chiusa, a negare con energia e con sofferenza ogni confessione. Il torace e il ventre articolati in zone ben definite, piatti come il viso, dominati da robuste spalle cilindriche; la regione dei ginocchi accentuata fino a trasformarli quasi in emisferi; i grandi piedi puntati nettamente in avanti, uno vicino all'altro, ingranditi, come esigeva il peso di quel basalto; il sesso non nascosto e non invadente, quasi sottratto a una sua precisa raffigurazione. Ma veniva il momento in cui ti liberavi per andare alla ricerca della mano che si nascondeva. La trovavi - inaspettatamente - sopra la parte inferiore della schiena: allungata di traverso, enorme, i polpastrelli sporgenti, sproporzionata anche rispetto alla grande figura; e devo ammettere che rimasi spaventato dalla violenza di quella mano. Non c'era nulla che ne denotasse la cattiveria, ma era capace di tutto. Ancora oggi sono convinto che la statua era nata in funzione di quella mano e che l'uomo che l'aveva ricavata dal basalto doveva nasconderla a tutti i costi, perché era una mano strapotente; e che la bocca che non voleva parlare custodiva il segreto della mano, e che il gomito che sporgeva minacciosamente in fuori ne difendeva l'accesso. Andai al viadotto innumerevoli volte. La mia passione per la statua di basalto divenne il nocciolo della nostra amicizia. Guardavo la mano di Wotruba, la seguivo nel lavoro e stavo lì per ore, in una tensione non inferiore alla sua. Ma per quanto fossero eccitanti le cose nuove alle quali stava lavorando, io non mi volgevo mai verso di lui senza prima dimostrare la mia reverenza per il "Nero in piedi". A volte trovavo la statua già all'aperto, perché in previsione della mia visita era stata spinta fuori dall'arcata per farmi piacere. A volte era messa dietro la porta aperta di una delle arcate, in modo che restasse isolata, senza altre statue che potevano disturbare l'effetto. Della mano non parlavo mai - di quante altre cose, del resto, non abbiamo mai parlato -, ma Wotruba era troppo intelligente per non notare che io avevo afferrato qualcosa che lui doveva dire col basalto, qualcosa che lui, nel suo orgoglio, non voleva dire con le parole. Uno dei suoi fratelli era Caino, l'omicida, e per tutta la vita Fritz si portò addosso la paura di dover uccidere a sua volta. Se non lo ha mai fatto, poteva ringraziare la pietra; e attraverso quella statua, il "Nero in piedi", ha lasciato intendere, almeno ai miei occhi, quale pericolo lo minacciasse. In quella figura trovava forse espressione ciò che in Wotruba vi era di più immutabile. Il linguaggio era un'altra delle cose che in lui non potevano mutare. Le sue parole erano cariche dell'energia con cui le tratteneva. Non era un uomo taciturno e diceva la sua opinione su molti argomenti, ma sapeva quel che diceva, da lui non ho mai sentito chiacchiere inutili. Anche quando si parlava di qualcosa che non gli stava particolarmente a cuore, le sue frasi avevano sempre una direzione. Se voleva conquistarsi le simpatie di qualcuno, poteva dire cose in cui era abbastanza evidente un calcolo grossolano; ma allora esagerava smaccatamente, in modo che tutto prendesse il tono di uno scherzo, sebbene in realtà le sue intenzioni fossero molto concrete. Tuttavia era anche capace di sbarazzarsi di ogni mira e di parlare con una chiarezza e insieme con una forza tali che chi lo ascoltava non sapeva resistergli e diventava come lui, limpido e forte. Non prendeva mai in prestito un linguaggio diverso, usava sempre le parole del quartiere di Vienna in cui aveva giocato da bambino con le pietre del selciato; e si notava, stupefatti, come con quelle parole si potesse dire tutto, letteralmente tutto. Non era la lingua di Nestroy, grazie alla quale mi ero convinto già da un pezzo che esisteva un idioma viennese pieno di incredibili possibilità, un idioma che stimolava le trovate più fulminee e incantevoli, tanto comico quanto profondo, inesauribile, cangiante, di un'acutezza sublime alla quale un figlio di questo secolo disgraziato non potrà mai avvicinarsi veramente -, la lingua di Wotruba aveva forse solo un punto in comune con Nestroy: la crudezza, ossia proprio il contrario di quella cosiddetta dolcezza viennese che è tanto amata e screditata in ogni parte del mondo. Parlo di Wotruba com'era allora, a ventisei anni, quando io lo conobbi, ossessionato dalla pietra e da propositi che non si potevano scindere dalla pietra, privo di ogni potere, pervaso da un'ambizione sul cui senso non aveva mai un attimo di dubbio, sicuro della sua causa come io lo ero della mia, così sicuro che lui e io ci sentimmo subito fratelli, senza alcun ritegno, senza esitazioni, senza vergogna, senza arroganza. Potevamo dirci cose che nessun altro avrebbe capito, perché ciò che dovevamo ancora tenere segreto agli occhi del mondo diventava tra noi la più naturale delle confessioni. A me ripugnava la sua crudeltà come a lui ripugnava la mia "morale", ma eravamo entrambi così magnanimi da superare questi ostacoli. Io mi spiegavo la sua crudeltà con la durezza del lavoro in cui era impegnato. Lui vedeva nella mia "morale" la purezza di un ideale artistico su cui vegliavo gelosamente, l'equivalente della sua ambizione, per la quale nulla era abbastanza elevato. Quando proclamava il suo odio contro il Kitsch, eravamo un cuore e un'anima sola. Per me era come se parlasse della venalità. Per me era Kitsch tutto ciò che si faceva solo per denaro; per lui, tutto ciò che era molle e troppo facile da plasmare. Io ero cresciuto sotto la minaccia del denaro, lui con l'incubo della prigione in cui era finito suo fratello. Gli diedi da leggere il manoscritto di "Kant prende fuoco". Ne fu conquistato come io lo ero stato dal "Nero in piedi". Si affezionò al personaggio di Fischerle. Conosceva il mondo in cui viveva Fischerle e conosceva ancor meglio la forza ossessiva di quell'ambizione. Non aveva nulla da obiettare alla mancanza di scrupoli del nano scacchista, lui stesso sarebbe stato pronto a tutto pur di procurarsi una certa pietra. Non trovava "esagerato" il personaggio di Therese perché aveva fatto esperienze più dure. Gli piacevano i contorni netti dei personaggi, e naturalmente era di suo gusto Benedikt Pfaff, il poliziotto in pensione, ma anche il sinologo asessuato, e questo mi stupì molto, mentre non poteva sopportarne il fratello, lo psichiatra. Mi domandò se in questo caso non avevo commesso un errore, lasciandomi guidare dall'affetto per il minore dei miei fratelli, del quale gli avevo parlato. Nessun uomo, secondo lui, poteva avere tante pelli: forse avevo costruito una figura ideale, e ciò che uno scrittore fa nei suoi libri, Georges Kien lo faceva nella vita. Gli piaceva il "gorilla", e per contrasto il medico lo riempiva di orrore. In fondo Wotruba vedeva il "gorilla" con gli stessi occhi con cui lo vedeva Georges Kien, ma a quest'ultimo non perdonava la facilità con cui si era convertito. A quel tempo Wotruba era pieno di diffidenza verso ogni tipo di conversioni, e spiegava che perfino il fabbro Jean, quel vecchio stupido, gli era più simpatico dello psichiatra arrivato. Apprezzava molto, come un mio merito, il fatto che alla fine del libro lo psichiatra faccia fiasco e provochi con un discorso sbagliato la morte del sinologo tra le fiamme. Quel miserevole fiasco, mi disse una volta Wotruba, lo riconciliava alla fine col personaggio. NOTE: (1) Il nome di questa cittadina dell'Austria inferiore, sede di un penitenziario, significa "Pietra sul Danubio" ?N" d'T"*. Silenzio al Café Museum Al Café Museum, dove andavo ogni giorno da quando abitavo di nuovo in città, c'era un uomo che mi colpiva perché stava sempre solo e non parlava con nessuno. Il fatto in sé non aveva nulla di eccezionale, c'erano altri che andavano al caffè per stare soli in mezzo a molta gente, ma l'uomo in questione si ostinava a nascondersi dietro i suoi giornali. Solo raramente, molto raramente, alzava gli occhi da dietro i giornali, e allora mi domandavo stupito se quella non era la faccia ben nota di Karl Kraus. Sapevo che non poteva essere: in quel locale frequentato da pittori, musicisti e letterati Karl Kraus non avrebbe trovato un attimo di pace, e in ogni caso sarebbe stato in compagnia di altra gente. Non era Karl Kraus, dunque, e tuttavia sembrava che l'uomo pensasse solo a nascondersi. Il viso era molto serio e stava immobile, mentre non avevo mai visto nulla di simile in Karl Kraus. A volte mi sembrava di cogliere un'espressione quasi impercettibile di dolore di cui attribuivo l'origine alla lettura dei giornali. Mi sorprendevo ad aspettare quasi con ansia i rari istanti in cui quel viso si mostrava. Spesso interrompevo la lettura del mio giornale per accertarmi che lui fosse ancora immerso nel suo. Quando entravo al Café Museum cercavo per prima cosa lo sconosciuto e non tardavo a individuarlo, benché la faccia restasse invisibile, dalla rigidità con cui il braccio teneva il giornale - un oggetto pericoloso al quale l'uomo si aggrappava, qualcosa che avrebbe buttato via volentieri e cui dedicava tuttavia la massima attenzione. Cercavo di sedermi in modo da tenerlo sempre d'occhio, possibilmente di fronte a lui, un po'"di sbieco. Ero in soggezione davanti a quel silenzio, che presto era diventato importante per me, e non mi sarei mai seduto a un tavolino libero accanto a lui. Anch'io ero quasi sempre solo, ancora non conoscevo nessuno tra gli habitués del locale e tenevo alla mia tranquillità come lui alla sua. Stavo seduto un'ora o più di fronte a lui, di sbieco, sempre aspettando i momenti in cui gli vedevo la faccia. Le distanze tra noi erano mantenute, io avevo molto rispetto per lui senza sapere chi fosse, davanti alla sua concentrazione sentivo quasi di trovarmi davvero alla presenza di Karl Kraus, ma di un Karl Kraus come non l'avevo mai conosciuto: con la bocca chiusa. Era lì tutti i giorni. In genere lo trovavo già seduto quando arrivavo, e non osavo pensare che mi aspettasse. Se però mi accadeva di non trovarlo, avvertivo un senso di impazienza, come se fossi io ad aspettarlo. Allora fingevo di sprofondarmi nel giornale, sicuramente non avrei saputo dire che cosa leggevo, e continuavo a guardare nella direzione della porta d'ingresso. Lui, poi, arrivava immancabilmente, alto e magro, rigido e schivo, quasi superbo, come se volesse evitare ogni contatto e tenere alla larga le creature troppo loquaci. Ricordo ancora il mio stupore la prima volta che lo vidi camminare: era un po'"come se cavalcasse verso di me, neanche a cavallo sarebbe potuto stare più diritto di così. Mi ero aspettato un uomo più piccolo, con la schiena curva, ma era la testa ad avere quella sbalorditiva somiglianza. Non appena si sedeva al suo posto, ritornava a essere Karl Kraus, nascosto dietro i giornali ai quali dava la caccia. Poiché non sapevo niente di lui, non avevo niente da dire su di lui. Per un anno e mezzo lo vidi così, e diventò un pezzo muto della mia vita. Non parlai di lui con nessuno, non feci mai domande sul suo conto. Se non si fosse fatto vedere, avrei sicuramente finito col chiedere informazioni al cameriere. Sentivo già allora, prima che avvenisse del tutto, che in me si preparava una svolta nei confronti di Karl Kraus. Non lo vedevo molto volentieri e non andavo più a tutte le sue serate, ma continuavo a rispettarlo e certamente non avrei osato contraddirlo. In lui non sopportavo la minima incoerenza, e anche quando l'incoerenza non era proprio evidente avrei preferito che stesse zitto. Così il suo ritratto, quello che vedevo ogni giorno al Café Museum, diventò per me una necessità, qualcosa a cui non potevo più rinunciare. Era un ritratto, non un sosia, perché quando stava in piedi o camminava non aveva niente in comune con Karl Kraus, mentre gli somigliava come una goccia d'acqua quando stava seduto e leggeva il giornale. Non scriveva mai, non prendeva appunti. Leggeva e si nascondeva. Non leggeva mai un libro, e sebbene desse la sensazione di aver letto molto, leggeva soltanto il giornale. Io avevo l'abitudine di buttare giù qualche nota al caffè, e il pensiero che lui potesse vedermi in quell'atto non mi divertiva affatto. Mi sembrava sconveniente scrivere in sua presenza. Quando alzava gii occhi fuggevolmente, io lasciavo cadere adagio la matita. Ero sempre sul chi vive, la mia vera attenzione, la massima attenzione, era rivolta a quel viso che appariva e subito scompariva di nuovo. Ostentavo un'aria innocente che forse lo traeva in inganno. Non credo che mi abbia sorpreso una sola volta nell'atto di scrivere. E tuttavia tendevo a pensare che vedesse tutto quanto, non solo me, che condannasse ciò che vedeva e che perciò si ritraesse così in fretta. Gli attribuivo un'eccezionale capacità di penetrazione, forse perché sapevo che in questo Karl Kraus era un maestro. Gli bastavano pochi attimi, non si soffermava, e forse - così speravo - quel che vedeva non era per lui così importante: erano le cose essenziali a tenerlo occupato, lo si poteva intuire dal disgusto che il giornale gli procurava. Gli errori di stampa gli erano diventati indifferenti. Non cantava arie di Offenbach, (1) non cantava per niente, aveva capito che la sua voce non si prestava al canto. Leggeva anche giornali stranieri, non solo quelli viennesi, non solo quelli tedeschi. Nel fascio di giornali che il cameriere gli portava ce n'era sempre uno inglese a sovrastare tutti gli altri. Era meglio che non avesse un nome. Non appena lo avesse avuto, per me non sarebbe più stato Karl Kraus, e sarebbe finito quel processo di metamorfosi del grand'uomo che mi auguravo così ardentemente. Solo più tardi mi resi conto che nel corso di quella silenziosa relazione qualcosa si scindeva dentro di me. Le forze della venerazione si staccavano a poco a poco da Karl Kraus e si volgevano verso il suo muto ritratto. Era una profonda trasformazione del mio assetto spirituale, in cui la venerazione ha sempre avuto una parte centrale; e il fatto che il cambiamento avvenisse nel silenzio non faceva che aumentarne la portata. NOTE: (1) Karl Kraus dava la caccia agli errori di stampa, in cui trovava motivi per la sua vena satirica e aforistica, e adorava le operette di Offenbach, che interpretava con l'accompagnamento di un pianista. Si veda il saggio su Kraus in: E" Canetti, La coscienza delle parole, cit", pp" 61 sgg" ?N" d'T"*. Commedia a Hietzing Tre mesi dopo il ritorno da Strasburgo e Parigi ero occupato a terminare la Commedia della vanità. La sicurezza con cui procedevo nella stesura della seconda e della terza parte aveva per me qualcosa di esaltante. Era un lavoro che non mi causava sofferenza. Non scrivevo contro me stesso, non mi sentivo imputato in un processo, non c'era autodenigrazione. La vanità, che era il tema dominante, non mi aveva mai dato molte preoccupazioni, potevo guardare il mondo liberamente, senza farmi scrupoli. Nella seconda parte della commedia, nel modo di elaborare l'idea di fondo, quella del divieto contro gli specchi e contro i ritratti, avevo ceduto all'influsso di un uomo che io consideravo il più ricco e il più stimolante di tutti i commediografi, e che senza dubbio lo era: Aristofane. E il fatto che ammettessi francamente questo influsso, che non lo nascondessi, nonostante l'enorme distanza che separava me e chiunque altro da Aristofane, era forse il vero elemento liberatorio che mi aiutava nella stesura. Perché non basta l'ammirazione per il passato, il riconoscimento della sua inarrivabile grandezza. Occorre anche osare qualche salto nella sua direzione e accettare il rischio che questi salti falliscano e ci coprano di ridicolo. Bisogna solo guardarsi dall'adoperare quell'inarrivabile grandezza come se ancora andasse del tutto bene per i nostri fini, ma dobbiamo farcene stimolare e infiammare. Può anche dipendere da questo modello se io speravo in un'immediata efficacia della commedia. L'urgenza era grande, gli avvenimenti in Germania incalzavano sempre più veloci, ma io non pensavo ancora a una situazione irreversibile. Ciò che era tenuto in movimento dalle parole poteva essere trattenuto dalle parole. Vedevo nella mia commedia, non appena l'avessi finita, una legittima risposta al rogo dei libri. Occorreva dunque metterla in scena, dappertutto, in fretta, ma io non avevo relazioni nel mondo teatrale. Ero ancora paralizzato dal giudizio di condanna con cui Karl Kraus mi aveva fatto disprezzare e trascurare il teatro contemporaneo. In verità, nell'autunno del 1932 avevo mandato Nozze all'editore S" Fischer di Berlino, che aveva accolto il dramma nel suo repertorio teatrale, ma era arrivato troppo tardi e non si poteva più rappresentarlo. Il lettore della casa editrice, che a suo tempo si era pronunciato per l'accettazione del dramma, aveva dovuto lasciare Berlino e aveva assunto la direzione della sezione teatrale della casa editrice Zsolnay a Vienna. Per afferrare il significato della commedia bisognava ascoltarla, perché era tutta costruita su quelle che io chiamavo maschere acustiche: ogni personaggio prendeva un netto risalto rispetto a tutti gli altri attraverso la scelta delle parole, l'accento, il ritmo, ma nelle opere drammatiche non c'era uno spartito in cui tutto questo potesse essere fissato. Le mie intenzioni potevo chiarirle solo con una lettura completa del testo. Così Anna Mahler mi propose di tenere una prima lettura della commedia in casa Zsolnay, davanti a un piccolo pubblico di persone competenti ed esperte anche nelle cose pratiche del teatro. Sarebbe stato presente anche quel lettore che conosceva già Nozze e che a Berlino, senza sapere niente di me, si era espresso spontaneamente a favore della mia forma di dramma. La proposta di Anna mi persuadeva, la mia sola preoccupazione era la lunghezza. "Dura quattro ore," dicevo io "e non voglio lasciar fuori neanche una scena. Non taglio una sola battuta. Chi ce la fa a resistere?". "Bisogna dividere la lettura in due parti di due ore ciascuna," suggerì Anna "e completarla in due giorni successivi o, se non è possibile, con un intervallo di una settimana tra la prima e la seconda parte". Anna non conosceva la commedia, ma dopo la lettura del romanzo, per il quale si era battuta dappertutto con molta convinzione, era sicura che un testo come quello che le avevo illustrato con tanti particolari meritava di essere sostenuto. A lei, in realtà, i drammi non interessavano, e credo che avesse un'antipatia innata per quella forma letteraria. Ma in questo caso aveva fatto la conoscenza del testo attraverso il mio racconto, ed era appunto il mio modo di raccontare l'unica cosa che le piacesse in me. La madre di Paul Zsolnay, quella che Anna chiamava "zia Andy", era il personaggio principale della famiglia e aveva un grande ascendente sul figlio. La casa editrice era nata soprattutto per suo desiderio, espressamente per pubblicare le opere di Franz Werfel, e si era poi assicurata tutta una serie di autori allora molto considerati, ma anche alcuni veramente buoni, come Heinrich Mann. Anna aveva dato da leggere alla suocera il manoscritto di "Kant prende fuoco", e "zia Andy", avendo fatto qualche cattiva esperienza con le donne, ne aveva avuto un'impressione molto favorevole. Era lei la vera padrona di casa, il palazzo della Maxingstrasse era la sua residenza, anche se gli inviti per la lettura furono diramati ufficialmente da Anna. Io avevo insistito con Anna perché sua madre, Alma, non venisse. Anna mi aveva assicurato che non c'era alcun pericolo: per Alma Mahler io ero un perfetto sconosciuto, e in questi casi il pensiero di farsi vedere non la sfiorava nemmeno. Ma al suo posto sarebbe venuto certamente Werfel. Lui, Werfel, era molto curioso e in passato, quando ancora lavorava per l'editore Kurt Wolff, si era dedicato alla scoperta di giovani talenti. "Non credo che adesso abbia ancora voglia di scoprire qualcuno" dissi io, senza immaginare che le mie parole contenevano solo una parte, e quanto piccola, della verità. Per conto mio aspettavo con curiosità la comparsa di Werfel. Non avevo paura di lui, sebbene i suoi libri non mi piacessero affatto e il nostro primo incontro al concerto non mi avesse lasciato un ricordo gradevole. Come ospite di riguardo era invitato Hermann Broch. Da più di un anno lo consideravo un mio amico. Mi sembrava di capire che avesse fiducia soprattutto nelle mie qualità di autore teatrale. Dopo il mio ritorno da Parigi alla fine dell'autunno, l'avevo presentato ad Anna accompagnandolo all'atelier. Eravamo andati insieme anche da Alma Mahler alla Hohe Warte. "Ehi, Annerl, il nostro Broch ha una calamità negli occhi" aveva detto Alma in presenza di Broch: voleva dire "calamita", e noi tre, Anna, Broch e io, eravamo rimasti molto imbarazzati per la forma in cui aveva espresso il suo sovrano compiacimento. In ogni modo sapevo che Broch aveva un sincero interesse a conoscere la commedia della quale gli avevo parlato tante volte. Dopo l'impressione che gli aveva fatto Nozze, non dubitavo che la commedia gli avrebbe "detto" qualche cosa. Riponevo in lui grandi speranze. In un ambiente in cui non contavo nulla e che forse vedeva in me addirittura un perturbatore della quiete, Broch era - escludendo Anna - il mio unico alleato da prendere sul serio. Per il resto, infatti, era soprattutto la casa editrice ad essere rappresentata: Paul Zsolnay, che io non stimavo granché, il suo direttore Costa, un bonvivant dall'eterno sorriso, e poi quel direttore della sezione teatrale a cui ho già accennato. La lettura ebbe luogo un pomeriggio, davanti a un pubblico molto ridotto, non credo che ci fosse più di una dozzina di persone. Ero già stato qualche volta in visita in quella casa, accolto benevolmente dalla vecchia signora Zsolnay, che aveva in simpatia gli uomini di lettere ma aveva dovuto pazientare a lungo fino a che, grazie alla fondazione della casa editrice, intestata al figlio, avesse la possibilità di fare qualcosa di concreto per loro. Quel pomeriggio, prima della lettura, avvertivo l'incongruenza di quel salotto elegante: la prima parte della commedia si svolgeva in una specie di parco di divertimenti, tra personaggi grossolani che non avevano peli sulla lingua e dicevano in faccia tutto quello che avevano da dire. Temevo che l'atmosfera del salotto mi spingesse a usare mio malgrado un tono più sommesso e guardingo di quello adatto ai miei personaggi. Era un pericolo che dovevo evitare a ogni costo, e perciò, prima di cominciare, dissi alla vecchia padrona di casa: "E" una specie di commedia popolare, il linguaggio non è troppo raffinato". "Zia Andy" accolse le mie parole con buona grazia ma lasciando trasparire qualche dubbio. La persona competente per le "commedie popolari" era un altro beniamino della casa, Carl Zuckmayer, (1) che però non era presente; e poiché il concetto stesso di "commedia popolare" faceva inevitabilmente pensare a lui, non avrei potuto parlare più a sproposito. In quell'ambiente mi sentivo un estraneo. Ero troppo inesperto per capire perché mai fossero venuti ad ascoltarmi. Se l'avessi saputo, mi sarei ben guardato dal presentarmi a quel pubblico. Mi affidavo alle due persone che ritenevo amiche e dal cui aiuto dipendeva tutto: Broch e Anna. Stimavo lui, amavo lei, e anche se Anna aveva tagliato corto dandomi il benservito, questo non aveva potuto cambiare nulla nei miei sentimenti per lei. Erano seduti a una certa distanza l'uno dall'altra, ma in modo da potersi vedere bene. Il loro consenso mi stava talmente a cuore che li tenevo sempre d'occhio. Proprio davanti a me era seduto Werfel, in tutta la sua mole, così che non mi sfuggiva la più lieve espressione della sua faccia. Tra me e lui c'era la stessa distanza che lo divideva dalla porta da cui era entrato nel salotto. Come si conveniva al personaggio principale di quella cerchia, era arrivato per ultimo. Stupiva l'attenzione quasi ansiosa con cui tutti gli altri, e soprattutto le persone della casa editrice, osservavano le reazioni di Werfel. Era entrato nel salotto con un "Salve!" buttato là in tono di familiarità, come se fosse ancora un bambino, franco, ingenuo, incapace di pensieri cattivi, in confidenza con Dio come con gli uomini, un'anima pia che trovava un posticino nel suo cuore per tutte le creature. Sebbene non avessi nessunissima simpatia per i suoi libri e piuttosto poca per lui, io fui tanto candido da prestar fede al suo "Salve!" e da pensare che proprio lì, per quella lettura, non dovevo aspettarmi nessuna ostilità da parte sua. Cominciai con la battuta del banditore: "E noi, e noi, e noi, signori miei!". Fu una partenza a tutta forza, e fin dal principio la scena del parco dei divertimenti prese un ritmo così impetuoso che mi dimenticai completamente del salotto di "zia Andy" e di tutta la casa editrice Zsolnay, che in verità non potevo sopportare. Leggevo per Anna e per Broch. Immaginavo di leggere per Fritz Wotruba, che non era presente ma avrebbe apprezzato i miei personaggi. Pensando a lui, prestai un po'"del suo accento al banditore: non era proprio la cosa giusta, ma forse mi dava quella protezione particolare di cui avevo bisogno in un ambiente simile. Dapprima non badai per nulla a Werfel, ma poi lui stesso si fece notare abbandonandosi a gesti che non potevano più sfuggirmi. Ero già molto avanti nella prima parte della commedia, al punto in cui prende la parola il predicatore Brosam. La violenza della predica, il suo tono barocco, che come molte ringhiose invettive della letteratura tedesca si richiama ad Abraham a Sancta Clara, dovette particolarmente spazientire e stuzzicare Werfel: si batté la mano aperta sulla guancia carnosa, paf!, come per prendersi a schiaffi, tenne la mano premuta contro la guancia e si guardò intorno a sollecitare aiuti. Io, nell'udire quel "paf!", avevo puntato gli occhi su di lui. Era lì davanti a me, l'aria afflitta, la mano incollata alla faccia distorta in una smorfia, fermamente deciso a insistere in quell'espressione di sofferenza. Non mi lasciai distrarre e proseguii la lettura, nonostante la forte irritazione che mi procurava la prossimità di quella faccia carica di grasso e di sofferenza. Volsi altrove lo sguardo e cercai Anna, nella speranza di trovare in lei consenso e aiuto. Ma Anna non mi guardava, non badava a me, i suoi occhi si erano immersi negli occhi di Broch e quelli di lui negli occhi di lei. Conoscevo quello sguardo: così, in altri tempi, gli occhi di Anna mi avevano guardato e, mi sembrava, mi avevano dato nuova vita. Ma io non avevo occhi con cui ricambiare, e ciò che vedevo adesso mi riusciva nuovo: perché Broch aveva occhi, e dal modo in cui lui e Anna erano assorti l'uno nell'altro capii che non mi ascoltavano, che all'infuori di loro non c'era nient'altro, che per essi non esisteva la corsa in folle del mondo che i miei personaggi sonori raffiguravano per loro: non era necessario denunciare quella corsa a vuoto, loro non se ne sentivano turbati, loro erano fuori posto in quel salotto come lo ero io con i miei personaggi, dei quali non avrebbero afferrato il senso neppure in seguito; loro erano sciolti da tutto, assorti l'uno nell'altro. Il gioco degli occhi di Anna era così eloquente che non badai più a Werfel. Continuai la lettura e mi dimenticai di lui. Quando lessi le cose terribili con cui si conclude la prima parte della commedia - una donna si getta nel fuoco ed è salvata all'ultimo momento -, il gioco degli occhi di Anna, dal quale non mi ero ancora liberato, si risvegliò in me. Io le offrivo l'occasione di indirizzarlo verso un altro, e quest'altro era uno scrittore che veneravo e del quale cercavo, con una sorta di fervore e con sforzi che spesso mi sembravano inutili, di meritarmi la simpatia. Anna aveva l'arma migliore per conquistarselo. Io stesso le avevo presentato Broch e adesso ero testimone di ciò che doveva accadere. A tutto questo, al vero avvenimento del futuro immediato, faceva da accompagnamento musicale la commedia in cui avevo riposto tante speranze. Dopo la prima parte feci una pausa. Werfel si alzò e con aria contegnosa, ma come se avesse dimenticato la sofferenza di poco prima, riprese la voce bonaria del suo "Salve!" per dirmi: "Lei legge molto bene!". Non mi sfuggì che metteva l'accento sulla parola legge e che passava sotto silenzio la cosa essenziale. Forse intuiva che proprio gli ascoltatori che meno m'interessavano erano stati colpiti dal crescendo delle scene, che si facevano sempre più brevi a mano a mano che si avvicinava lo scoppio dell'incendio; e proprio per questo riservava a più tardi un giudizio vero e proprio. Anna taceva, non aveva udito neanche una parola, aveva altro a cui pensare. I toni volgari della commedia l'avrebbero disgustata in ogni caso, ma in quelle particolari circostanze, con Broch davanti agli occhi, non aveva tempo da perdere in riflessioni. Anche Broch taceva, e io capii che non era un silenzio che celasse interesse, e neppure un silenzio benevolo. Mi spaventai: dopo ciò che avevo notato, non potevo aspettarmi nulla da lui, non mi avrebbe aiutato, e tuttavia l'evidente paralisi in cui era caduto fu per me un duro colpo. In quella pausa mi sarei certamente dato per vinto se gli altri spettatori, quelli che non erano miei amici, non avessero insistito perché continuassi la lettura. Una voce disse: "Ma lasciate che riprenda fiato. Dev'essere sfinito. Non è mica uno scherzo leggere in quel modo". Era "zia Andy", che non temeva di mostrare un po'"di compassione per il lettore. E pensare che proprio da lei mi ero aspettato la resistenza più forte, anzi una spiccata antipatia per quei "personaggi popolari", come io stesso li avevo chiamati. Ma le grida del bambino alla vista del fuoco le avevano strappato una sonora risata, alla quale si era associato suo figlio, che traeva solo da lei quel poco di vita che aveva in sé e doveva aver ricevuto il segnale della risata come attraverso un cordone ombelicale. Forse era questa anche la ragione del temporaneo riserbo di Werfel, che con i gesti di poco prima aveva preannunciato un atteggiamento beffardo. Cominciai a leggere la seconda parte e sentii subito che l'atmosfera era molto cambiata. Non appena arrivai alla scena in cui le tre carissime amiche, la vedova Weihrauch, sorella Luise e la signorina Mai, si ritrovano nell'appartamento dell'imballatore Barloch, si creò un contrasto intollerabile tra la situazione che volevo rappresentare e il salotto del palazzo della Maxingstrasse in cui eravamo tutti riuniti, il lettore e gli ascoltatori. La scena descriveva una situazione non solo miserabile, ma odiosa e per di più immorale, di un'immoralità sconcertante per i viennesi: una moglie e una quasi moglie nella stessa casa, se pure si poteva chiamarla casa, e inoltre si parlava di due ragazze che vi convivevano, anche se non apparivano in scena. Le amiche erano appunto in visita dalla vedova Weihrauch, e il dialogo si soffermava sulle incre dibili condizioni di vita in quel tugurio, denunciate a gran voce dalla vedova; poi arrivava il venditore ambulante con i frammenti di specchi, e il suo gergo caratteristico, proprio per essere esatto e ben noto ai viennesi, non poteva non fare scandalo. Werfel aveva iniziato subito la sua offensiva. Non si prendeva più a schiaffi, ma si passava sul viso ora una mano ora l'altra, si nascondeva gli occhi dietro le dita, come se non sopportasse più la vista del lettore, ma poi alzava di nuovo lo sguardo e cercava gli occhi degli altri, soprattutto dei suoi compari della casa editrice, come se volesse comunicare il proprio disappunto, scuoteva gravemente la testa a ogni improperio e si agitava sulla sedia con tutta la sua mole. Poi, improvvisamente, nel mezzo del discorso del venditore ambulante, gridò: "Sa che cos'è lei? Uno che imita i versi degli animali!". Si rivolgeva a me, e con un insulto che non sarebbe potuto essere più pesante, più brutale, più disastroso. Werfel voleva mettermi nell'impossibilità di continuare, ma ottenne l'effetto opposto, perché lo scopo che mi ero prefisso era proprio quello: far risaltare ogni personaggio come un animale diverso e rendere riconoscibili tutti i personaggi attraverso le loro voci. Avevo trasferito la diversità degli animali nel mondo delle voci, e di fronte all'insulto di Werfel mi colpì come un fulmine il pensiero che egli aveva visto giusto, senza tuttavia immaginare minimamente il perché di quella "imitazione dei versi degli animali". Continuai a leggere imperterrito, ormai sfidando l'aperta ostilità con cui Werfel cercava di contagiare gli altri. La scena arrivò alla fine, tra le urla dell'imballatore Barloch che metteva in fuga il venditore ambulante. Werfel disse: "Sembra di sentire Breitner (2) con quella sua idiota imposta sugli articoli di lusso". Ma rimase ancora seduto, perché aveva in mente qualcosa di più clamoroso. Nella scena successiva era di turno il vecchio facchino Franzi Nada, appostato a un angolo della strada a guadagnarsi il pane facendo l'adulatore di professione. L'atmosfera della sala cambiò di nuovo, e io sentii salire verso di me qualcosa che somigliava a un certo calore. Prima che la scena finisse, Werfel saltò in piedi e gridò: "Basta, non se ne può più", mi voltò la schiena e si avviò per uscire. Smisi di leggere, e lui, già nel vano della porta, si girò verso di me gridando: "E lasci perdere queste cose!". Quell'ultima offesa mirava ad annientare me insieme alla commedia, ma ebbe il risultato di commuovere la vecchia signora Zsolnay, che disse a voce alta all'indirizzo di Werfel: "Faresti bene a leggere il romanzo, Franzi!". Lui alzò le spalle, disse: "Sì, sì", e se ne andò. Con questo, il destino della commedia era segnato. Forse Werfel era venuto col proposito di liquidarla. Ma forse alla sua indignazione aveva contribuito il fatto che durante la lettura aveva scoperto in me un allievo di Karl Kraus, dal quale lo divideva un odio mortale. Sapevo benissimo di essere spacciato, ma non volevo arrendermi pubblicamente e tirai avanti. Non badavo più a nessuno, ero tutto assorto nella commedia. Non so se Anna si fosse distratta per il comportamento di Werfel e se avesse rinviato a un'altra occasione il gioco degli occhi. Sarei propenso a credere che non badò molto a quel colpo di scena per pensare solo alla cosa che al momento le stava più a cuore. Io interruppi la lettura a metà del testo, come era previsto, dopo la scena nella bottega di Therese Kreiss che terminava col grido ossessivo della donna: "Il diavolo! Il diavolo!". Quando smisi di leggere, Broch si fece sentire per la prima volta. Anche lui, come la vecchia signora Zsolnay, aveva provato pietà per il lettore e perciò disse alcune parole con cui giustificò le mie ambizioni: "C'è da domandarsi se questo non sia il teatro del futuro". Non prendeva posizione, poneva semplicemente il quesito e tuttavia mi concedeva il merito di aver tentato una strada nuova. Le parole di Broch sembrarono eccessive alla vecchia signora Zsolnay, che disse: "Bè, non sarà proprio il teatro del futuro. Ma questa, secondo lei, sarebbe una commedia popolare?". Qualunque cosa si potesse ancora dire, ormai non aveva più valore. In realtà chi aveva voce in capitolo in quella casa era Franz Werfel, e lui non avrebbe potuto dire la sua opinione in maniera più esplicita. Ma le leggi della cortesia, nonostante tutto, furono rispettate. A distanza di una settimana, in un altro pomeriggio, avrei portato a termine la lettura. Fatta eccezione per il più importante, gli ascoltatori furono gli stessi. Terminai la lettura per amore dei miei personaggi, che raramente avevo sentito fino allora parlare ad alta voce. Di speranze non ne avevo, la commedia non aveva nessun avvenire. Ma quella lettura, benché priva di ogni speranza e di ogni scopo, riuscì ugualmente - e non saprei spiegarne la ragione - a rafforzare in maniera straordinaria la mia fede nel testo. Sono le sconfitte di così catastrofiche proporzioni a tenere in vita i poeti. NOTE: (1) L'autore della celebre commedia Il capitano di Köpenick (1931) era emigrato dalla Germania in Austria nel 1933 ?N" d'T"*. (2) Hugo Breitner, assessore alle finanze nell'amministrazione socialdemocratica di Vienna col sindaco Karl Seitz (1923-1934). L'opposizione lo accusava di "sadismo fiscale" ?N" d'T"*. Alla ricerca dell'uomo buono C'erano a Vienna alcune persone con le quali avevo rapporti frequenti, che vedevo spesso e alle quali non mi rifiutavo. Si dividevano in due gruppi contrapposti. Le une, forse sei o sette, avevano la mia ammirazione per la loro attività e per l'impegno che vi profondevano. Erano uomini che seguivano una propria strada e non se ne lasciavano distogliere da nessuno, che aborrivano da ogni concessione e rifuggivano dal successo nel senso volgare della parola, che avevano le loro radici a Vienna - anche se non sempre erano le radici più remote -, che non si potevano immaginare in una cornice diversa e tuttavia non si lasciavano corrompere dalla città. Io li ammiravo e imparavo da loro come si possa portare a compimento un impresa senza deviare di un centimetro, anche se il mondo non vuol saperne. Certo, speravano tutti di essere compresi e apprezzati ancora in vita, ma erano abbastanza intelligenti per sapere quanto scarse fossero le probabilità, ed erano risoluti a tener fede ai loro intenti, anche a costo di dover sopportare sino alla fine dei loro giorni l'irrisione che li circondava. Questo modo di descrivere il loro atteggiamento avrà forse un tono eroico, ed essi erano tutti troppo seri e saggi per vedersi in una luce simile, ma non mancavano certo di coraggio e avevano una pazienza che a volte rasentava il sovrumano. E poi c'erano gli altri, quelli che erano proprio l'opposto, pronti a qualunque compromesso in nome del denaro, della fama o del potere. Anche loro mi affascinavano, sia pure in tutt'altro modo. Volevo capirli a fondo, volevo sapere qual era il loro paesaggio interiore, scandagliarli in ogni fibra: era come se la salvezza dell'anima mia dipendesse dalla possibilità di comprenderli e di interpretarli come personaggi a tutto tondo. Li incontravo non meno spesso degli altri, e forse la curiosità che mi ispiravano era perfino maggiore, poiché ciò che vedevo di loro mi lasciava incredulo e quindi avevo bisogno di continue conferme. Non che io abdicassi a qualcosa quando ero in loro compagnia: non mi adattavo ad essi, né cercavo di rendermi simpatico; ma non sempre capivano subito ciò che pensavo veramente di loro. Anche a questo gruppo appartenevano sei o sette personaggi principali, e il più cospicuo tra loro era Alma Mahler. Mi riusciva molto difficile sopportare le relazioni che legavano il primo gruppo al secondo. Ero affezionato ad Alban Berg, ma lui era grande amico di Alma Mahler, entrava e usciva dalla sua casa, se c'era un ricevimento alla Hohe Warte non mancava mai una volta, lo vedevo sempre in un angolo con sua moglie Helene e trovavo sollievo nella sua compagnia. E" vero che Berg se ne stava in disparte e non partecipava al frenetico affaccendarsi di Alma, quando lei esibiva ospiti nuovi o "speciali"; è vero che egli dedicava a certi invitati osservazioni taglienti che sembravano uscite dalla "Fackel" e che erano un refrigerio per il mio cuore non meno che per il suo; ma era lì, non mancava mai, e dalla sua bocca non ho mai udito una parola contro la padrona di casa. Anche Broch incontrava tutte le persone possibili, e sebbene poi, quando eravamo soli, dicesse apertamente quel che ne pensava, non gli sarebbe mai passato per la mente di evitarle. Lo stesso accadeva per gli altri che meritavano di essere stimati e presi sul serio. Avevano tutti anche un secondo mondo, un mondo volgare in cui si muovevano senza insudiciarsi; anzi sembrava spesso che questo secondo mondo fosse necessario per tenere pulito il primo. Chi si isolava da tutti più di ogni altro era certamente Musil. Si sceglieva con ogni scrupolo le persone da incontrare, e se gli succedeva inaspettatamente, al caffè o altrove, di trovarsi in mezzo a gente che disapprovava, ammutoliva e per nulla al mondo si lasciava indurre a dire una parola. Nelle mie conversazioni con Broch venne a galla un problema che potrebbe anche sembrare stravagante: esisteva un uomo buono? E se esisteva, come doveva essere? Gli mancavano certe qualità che servivano da molla agli altri? Era qualcuno che se ne stava in disparte oppure poteva muoversi liberamente in mezzo agli altri, reagire alle loro sfide ed essere ugualmente "buono"? Il problema interessava a Broch come a me. Evitammo di eluderlo avventurandoci in una ricerca di definizioni. Tutt'e due dubitavamo che una persona buona fosse mai possibile nel mondo che vedevamo - ognuno con i propri occhi - intorno a noi. Non dubitavamo che doveva essere fatta in un certo modo, se esisteva. A poterla incontrare, l'avremmo riconosciuta a prima vista. Tutt'e due, nel discutere un problema che ai nostri occhi assumeva una curiosa urgenza, eravamo convinti di sapere esattamente che cosa intendevamo. Non ci furono estenuanti e sterili discussioni per stabilire che cos'è buono. Già questo era abbastanza sorprendente, perché Broch e io dissentivamo su moltissime cose e ci mettevamo una pietra sopra. Ma in lui come in me l'uomo buono sussisteva come un'immagine intangibile. Era soltanto un'immagine? Esisteva davvero? Dov'era? A poco a poco passammo in rivista tutte le persone che conoscevamo. In un primo tempo ci eravamo occupati di persone di cui avevamo qualche notizia senza conoscerle, ma poi ci rendemmo conto che sapevamo troppo poco sul loro conto. Che senso aveva prendere per buoni i giudizi favorevoli o contrari se non potevamo verificarli con una opinione personale? Decidemmo dunque di limitarci alle persone che conoscevamo, a quelle che conoscevamo bene. Queste persone affiorarono l'una dopo l'altra, davanti a Broch come davanti a me, e ciascuna fu sottoposta a un esame. Tutto ciò potrà sembrare pedantesco, ma in pratica significava semplicemente che Broch e io raccontavamo situazioni di cui eravamo stati testimoni e per le quali, per così dire, potevamo garantire. Era chiaro che noi non eravamo alla ricerca di un ingenuo: il buono che avevamo in mente doveva sapere quel che faceva. Doveva essere provvisto di una grande vitalità che gli potesse consentire delle scelte. Non era un individuo elementare o limitato, non era ignaro delle cose del mondo, aveva la capacità di vedere nell'animo altrui. Non si lasciava ingannare o addormentare dagli altri, era sveglio e attento, sensibile, vivo, agile; e solo se era in grado di soddisfare tutte queste condizioni, si poteva porre il quesito: nonostante ciò, era un uomo buono? Né a Broch né a me mancavano gli esempi da citare, di personaggi che conoscevamo o avevamo conosciuto in passato. Ma cadevano l'uno dopo l'altro, come birilli, e presto tutta la nostra ricerca prese il perfido sapore di un gioco al massacro: chi erano infatti coloro che si arrogavano il diritto di giudicare? Davanti a Broch mi vergognavo un po'"di non far valere abbastanza i meriti di un "candidato"; e forse anche lui, pur essendo per natura meno impetuoso, provava una certa vergogna davanti a me. Poi, improvvisamente, disse: "Ne conosco uno! Lo conosco! Il mio amico Sonne! Ecco l'uomo buono! E" lui!". Era un nome che non avevo mai sentito. Domandai: "Si chiama proprio Sonne?". (1) "Sì. Può anche dire il dottor Sonne, se vuol togliergli un po' di aureola. E" esattamente quello che cerchiamo. In tutto e per tutto. Sarà per questo che non ci ho pensato subito". Venni a sapere che il dottor Sonne viveva appartato, che incontrava alcuni amici, pochi, e che qualche volta - raramente andava perfino a trovarli. "Ma sì," disse Broch "poco fa lei ha accennato a Georg Merkel, il pittore". Merkel era stato uno dei nostri "candidati". "Qualche volta il dottor Sonne va a trovarlo, fuori città, a Penzing. Può incontrarlo da lui. E" la cosa più semplice del mondo. E" bell'e fatta". Di Georg Merkel conoscevo i quadri, che alle mostre mi avevano già attirato più di una volta. Aveva all'incirca l'età di Broch e si faceva vedere al Café Museum, dove però andava più raramente di altri pittori. Al caffè mi aveva colpito per un profondo foro nella fronte, proprio sopra l'occhio sinistro. Nella stanza di Wotruba avevo ammirato certi suoi quadri dall'aria molto francese, che avevano risentito presto dell'influsso dei neoclassicisti e che si distinguevano per una tavolozza molto personale, inconsueta per Vienna. Allora avevo chiesto sue notizie e mi ero fatto raccontare la sua storia. In seguito, tramite Wotruba, lo avevo conosciuto al Café Museum, come quasi tutti i pittori importanti di quel tempo. Di Merkel mi aveva subito affascinato il linguaggio, un tedesco molto scelto, con accento polacco, lento e solenne. Ogni frase era sostenuta da una profonda convinzione e serietà. Parlava come nella Bibbia, come se chiedesse la mano di Rachele. Erano cose di tutt'altro genere, che con la Bibbia non avevano niente a che vedere, ma l'enfasi che Merkel metteva nel salutare, nell'ossequiare, nell'onorare faceva sì che l'interlocutore non potesse non sentirsi innalzato e considerato. Non era però difficile avvertire quanto il pittore prendesse sul serio anche se stesso, pur senza apparire presuntuoso. Se appena pronunciava un nome, quel nome restava nell'orecchio con quella pronuncia e quel tono, e a volte si era tentati di ripeterlo alla stessa maniera, ma sarebbe stato ridicolo perché quella che in Merkel era dignità naturale diventava in chiunque altro qualcosa di manierato. Le sue convinzioni erano cariche di sentimento fino all'orlo, a nessuno poteva venire in mente di discutere con lui. Mettere in dubbio una sola frase di Merkel sarebbe stato come mettere in dubbio tutta la sua persona. Di un atto volgare, di una parola volgare non sarebbe mai stato capace, anche se questo può apparire incredibile in un uomo così enfatico, così appassionato. Ma bisognava poi vedere come parava le offese, con quanta fermezza ed energia, senza venir meno in nulla alla propria dignità, e come si guardava intorno, in quei momenti, per essere ben sicuro che anche tutti gli altri avessero udito, in un modo tale che la profonda ferita alla fronte diventava quasi un terzo occhio, l'occhio di un ciclope. Si era tentati di provocare la sua collera, tanto era meraviglioso ciò che la collera gli faceva dire, ma il rispetto e l'affetto per lui erano troppo grandi perché qualcuno cedesse alla tentazione. Io vedevo in Georg Merkel l'incarnazione più eloquente di quella cultura slava di cui Vienna era così ricca. Aveva studiato a Cracovia, con Wyspianski, e questo può spiegare il persistere del suo legame linguistico col polacco. L'accento polacco non lo perse mai: dopo esser vissuto per decine d'anni a Vienna e in Francia - è morto in tardissima età - conservò sempre inflessioni polacche nel suo francese come nel suo tedesco. Di certe vocali non riuscì mai a impadronirsi, dalle sue labbra non ho sentito uscire una sola "ö". Due parole come "schön" e "österreich", che pure per lui erano tra le più importanti, non ha mai saputo pronunciarle nel modo giusto. Diceva: "Esterreich" e diceva: "Schèn". Quest'ultima parola suonava anche più strana quando Merkel, rapito dalla bellezza di una donna, non sapeva trattenersi dall'esclamare: "Ist sie nicht schèn! Schèn ist sie!". (2) Fu quello che Veza si sentì dire da lui, e con un'enfasi tale che ne fummo contagiati. Sia che Merkel venisse a trovarci, sia che andassimo noi da lui, sia che ci incontrassimo al Café Museum, non c'era verso: alla vista di Veza non poteva fare a meno di dire: "Schèn ist sie!", e l'esclamazione riusciva tanto più sorprendente perché Merkel si esprimeva per tutto il resto in un tedesco scelto e ben costruito. Avevo conosciuto Georg Merkel poco prima di quella discussione con Broch, e venne naturale parlare di lui durante la nostra ricerca dell'uomo "buono". C'erano molti punti a suo favore, e tuttavia non votammo per lui: perché era essenziale, per lui, la coscienza che aveva del proprio valore di artista. Con ciò Merkel si poneva per natura, per così dire, contro il resto dell'umanità, che non voleva saperne dell'arte, e rendeva giustizia da solo a se stesso e ai suoi meriti. L'uomo "buono", come noi lo intendevamo, doveva essere più discreto. Merkel era andato a Parigi qualche anno prima dello scoppio della grande guerra e vi aveva trascorso tanta parte della giovinezza da non perdere più l'impronta di quegli anni parigini. Forse non è mai esistito un sodalizio di pittori più assortito e più numeroso. Venivano da ogni parte ed erano pieni di speranze. Non cercavano di rendersi facile la vita, di prendere vie traverse per farsi apprezzare e diventare famosi. Per loro la pittura in sé era così importante che non pensavano ad altro. Gli stimoli non mancavano, la città era piena di pittori, si facevano sentire influssi orientali e africani, ma anche le tradizioni locali, medievali o classiche, conservavano per contrasto il loro valore. Non si era mai visto niente di simile, tanti erano i giovani pittori che tentavano strade nuove e personali. Ci voleva forza per tirare avanti nella miseria, ma forse un'altra forza era ancor più necessaria: quella per non cedere troppo facilmente alle suggestioni più diverse, per accettare soltanto ciò che corrispondeva al proprio temperamento, per infischiarsi di tutto il resto e lasciarlo agli altri. Sorse allora a Parigi una nuova nazione, quella dei pittori. Se oggi si passano in rivista i nomi di coloro la cui opera segna quel tempo per noi, e certamente lo segnerà per sempre, si resta stupiti davanti alla varietà delle loro origini: ogni Paese aveva i suoi giovani a Parigi, come se la città, la città stessa quale autorità suprema, li avesse arruolati al servizio della pittura. Ma essi non avevano obbedito a un ordine, accorrevano volontari, e le privazioni alle quali si assoggettavano senza paura erano compensate dall'idea di potersi trovare a Parigi con i loro simili, che vivevano in condizioni non meno difficili ma erano tutti, anche loro, animati dalla stessa fervida speranza di conquistare la gloria, lì, nella capitale mondiale dei pittori. Lo scoppio della grande guerra aveva sorpreso Merkel a Parigi, dove viveva con la moglie Luise, pittrice anche lei. Viveva a Parigi con entusiasmo e passione, non avrebbe potuto trovare un'atmosfera più congeniale. Merkel ha sempre ripreso la strada di Parigi, e nell'insieme vi ha trascorso un buon terzo della sua vita. Ma allora, alla fine del luglio 1914, ebbe un solo pensiero: quello di ritornare in Austria a ogni costo, con sua moglie, per servire nell'esercito. Fu un viaggio avventuroso che durò più di qualche giorno, ma alla fine Merkel arrivò a casa, si presentò e andò al fronte. Tra gli ebrei colti della Galizia era diffuso allora un sentimento che si può chiamare patriottismo austriaco. La gente aveva davanti agli occhi i pogrom russi. Gli ebrei vedevano nell'Imperatore Francesco Giuseppe un protettore. Questi sentimenti erano profondamente radicati in un uomo come Merkel. Non gli sarebbe bastato servire l'Austria in qualche ufficio stampa dell'esercito, star lì al sicuro e riempire gli altri di entusiasmo per la guerra. Per lui fare il soldato era una cosa naturale. La fuga da Parigi gli era riuscita, sia pure con stratagemmi e difficoltà, e Merkel andò a fare il soldato. Pagò il suo amore per l'Austria con una grave ferita alla testa. Una scheggia di granata lo colpì alla fronte, poco sopra l'occhio, e lo privò della vista. Rimase cieco per alcuni mesi, non so esattamente quanti. Per lui, pittore, fu il periodo più terribile della sua vita. A me non ne ha mai parlato, e credo neanche ad altri. Gli rimase la profonda cicatrice, e non si poteva mai guardarlo in faccia senza pensare ai mesi della cecità. Ricuperò la vista, e tutto ciò che ha dipinto da allora portava il segno di quel miracolo. Poter vedere era il suo paradiso, ciò che aveva perduto l'aveva ritrovato, e ormai non poteva più vederlo in maniera diversa. Non gli si può dar torto se dipingeva "il bello": i suoi quadri divennero un perenne ringraziamento per la luce degli occhi. Si diede il caso che fossi invitato per la prima volta in casa di Georg Merkel, a Penzing, poco dopo la discussione con Broch, quel gioco in cui avevamo messo tanto impegno. Merkel aveva casa e studio a Penzing, dove non di rado faceva venire gli amici la domenica pomeriggio per mostrare i suoi quadri. Lo conoscevo ancora poco, ma la sua storia mi era ormai familiare, soprattutto quella della ferita e del tremendo buco nella fronte. Mi sentivo attirato dal suo linguaggio melodioso, e sebbene i quadri che conoscevo di lui, nonostante l'incanto della sua tavolozza, fossero ben lontani da ciò che di solito mi affascinava nella pittura moderna, ero curioso di vedere altre opere nel suo studio. Mi aveva sempre interessato il modo in cui i pittori mostrano i loro quadri in privato. E" un gesto in cui si mescolano orgoglio, liberalità e suscettibilità, e il rapporto tra questi tre ingredienti era diverso in ogni pittore. Arrivai un po'"in ritardo, tutti erano ancora seduti a prendere il tè. Avevo già incontrato di persona alcuni degli invitati, di altri conoscevo il nome o le opere. Appartato da tutti, nella penombra, timido, quasi nascosto, era seduto un uomo di cui conoscevo il viso, da un anno e mezzo. Ogni pomeriggio era al Café Museum, barricato dietro i giornali. Somigliava a Karl Kraus (l'ho già raccontato), sapevo che non poteva essere lui, ma l'idea di vedere un Karl Kraus silenzioso, lontano da accuse e demolizioni, mi piaceva talmente che cercavo di immaginare che fosse lui. L'incontro quotidiano col suo viso, quell'incontro senza parole, lo usavo per liberarmi dal potere schiacciante che quella testa esercitava quando parlava. Adesso la testa era lì, e io mi spaventai e ammutolii. Merkel intuì che qualcosa era accaduto, mi prese delicatamente per il braccio, mi condusse davanti a quel viso e disse: "E questo è il mio caro amico dottor Sonne". Nel presentare le persone il pittore metteva molto sentimento, non voleva che fosse un'arida formalità, e quando faceva incontrare due persone doveva essere per la vita. Non poteva sapere che da un anno e mezzo io osservavo con la più scrupolosa attenzione ogni movimento di quell'uomo. Né sapeva che una settimana prima Broch aveva pronunciato per la prima volta quel nome in mia presenza. L'ostinata ricerca dell'uomo buono, il gioco che Broch e io avevamo preso tanto sul serio, diventava realtà; e non era senza significato che quel nome e quel viso, che in me vivevano separati, diventassero tutt'uno nella casa di quel pittore dalla voce melodiosa. NOTE: (1) In tedesco Sonne vuol dire "sole" ?N" d'T"*. (2) "Bella! Accidenti se è bella!" ?N" d'T"*. Sonne Che cosa mi ha tanto affascinato nel dottor Sonne? Perché volevo vederlo ogni giorno, lo cercavo ogni giorno? Perché era diventato l'oggetto della passione più ardente che un intellettuale mi avesse mai ispirato? In primo luogo c'era l'assenza di ogni riferimento personale. Sonne non parlava mai di sé. Non diceva mai niente in prima persona. Ma anche nel rivolgerti la parola non usava la forma diretta. Tutto era detto in terza persona e così collocato a una certa distanza. Bisogna cercare di immaginare che cos'era quella città e la vita dei suoi caffè, quel diluvio di discorsi in prima persona, tra asseverazioni, confessioni e autoaffermazioni. Ognuno straripava di compassione per se stesso ed era gonfio della propria importanza. Ognuno si lamentava, ognuno ululava e suonava la propria tromba. Ma tutti vivevano anche pubblicamente in piccoli gruppi, perché avevano bisogno l'uno dell'altro per i loro discorsi e li sopportavano. Si discuteva di tutto, e i giornali dispensavano la materia prima di uso comune. Era un tempo in cui accadevano già abbastanza cose, ma più ancora era un tempo in cui si sentiva quante cose stavano per accadere. Si era infelici per la piega degli avvenimenti nell'Austria di allora, ma si sapeva benissimo quanto maggiore fosse il peso degli avvenimenti nel vicino Paese che parlava la medesima lingua. Una catastrofe era nell'aria. Contro ogni attesa l'esplosione era rinviata di anno in anno. Nel nostro stesso Paese le cose andavano male, e se ne poteva avere la misura dal numero dei disoccupati. A ogni nevicata si diceva: "Farà piacere ai disoccupati". Alla spalatura il municipio di Vienna adibiva i disoccupati, che per breve tempo avevano qualcosa da guadagnare. La gente guardava gli spalatori al lavoro e si augurava, per il loro bene, che cadesse altra neve. Per me quel periodo era sopportabile solo se vedevo il dottor Sonne. Era un'autorità alla quale avevo accesso ogni giorno. Mentre si era con lui, la conversazione toccava innumerevoli cose: cose che accadevano, da tutte le parti, e, ancor più, che minacciavano di accadere. Ci si sarebbe vergognati a parlarne in termini personali. Nessuno, al cospetto delle cose che si annunciavano, aveva il diritto di ritenersi avvantaggiato: non era un pericolo suo, il pericolo era di tutti. Rendersene conto e parlarne non era un merito, bastava un po'"di lucidità, nient'altro, ma appunto questa era la cosa più difficile da conquistare. Non si preparavano mai in anticipo gli argomenti su cui consultare il dottor Sonne. Non si faceva mai un programma. I temi venivano fuori spontaneamente, come le sue spiegazioni. Tutto ciò che Sonne diceva aveva sempre la sua fonte nel pensiero: a me sembrava che non fosse mai alterato dal sentimento, e tuttavia non era qualcosa di freddo o di arido. Non c'era mai traccia di parzialità, non veniva fatto di sospettare: adesso parla a favore di questi o di quelli. Occorre dire che già allora l'aria era appestata da parole d'ordine e che riusciva difficile trovare un angolo che ne fosse libero, in cui non ci si sentisse soffocare. Il dottor Sonne sapeva essere preciso senza essere troppo conciso, ed era questa la sua massima virtù. Diceva quello che c'era da dire, in forma chiara e con contorni ben definiti, ma senza passar sopra a niente. Non tralasciava niente, era circostanziato. Se i suoi discorsi non fossero stati così affascinanti, si sarebbe potuto dire che su ogni argomento rilasciava una perizia. Ma in verità era assai più che una perizia, perché conteneva, senza che lui li indicasse per filo e per segno, i germi di ogni possibile miglioramento. Non c'era tema di cui non si parlasse. Io accennavo a qualcosa che mi aveva colpito, e lui magari voleva saperne di più, ma il suo desiderio di ragguagli non dava mai la sensazione di una richiesta. Era il suo modo di avvicinarsi a una certa materia, ma l'interlocutore non veniva minimamente coinvolto. Forse poteva sembrare che la personalità di chi stava di fronte a Sonne non contasse affatto e che contassero solo le cose che a lui interessavano intellettualmente; ma era un errore, poiché se per caso era presente una terza persona il modo in cui si rivolgeva a questa era di nuovo un altro. Sonne faceva dunque delle differenze, ma per l'interessato non erano mai percettibili. Era inimmaginabile che in presenza di Sonne qualcuno si sentisse messo in sott'ordine. L'imbecillità lo faceva soffrire, ed evitava gli imbecilli, ma una volta in sua compagnia - per circostanze estranee alla volontà del dottor Sonne - nessuno avrebbe avuto la sensazione e la misura della propria imbecillità. Dopo i preliminari di assaggio veniva sempre il momento in cui Sonne s'impadroniva di una materia e cominciava a parlarne in maniera appropriata ed esauriente. Allora non mi sarei mai sognato di interromperlo, neppure con le domande che facevo volentieri agli altri. Mettevo da parte ogni reazione esteriore, come un costume da maschera che non si attagliasse alla mia persona, e ascoltavo con la più profonda attenzione. Non ho mai ascoltato nessun altro a quel modo. Dimenticavo che era un essere umano a parlare, non mi preoccupavo di cogliere le peculiarità del suo modo di esprimersi. Per me Sonne non prese mai le sembianze di un personaggio, era il contrario di un personaggio. Se qualcuno mi avesse invitato a imitarlo, mi sarei rifiutato, e non solo per rispetto ma perché sarei stato veramente incapace di impersonarlo; anzi, l'idea stessa mi sembra ancora oggi non soltanto una meschina profanazione, ma un proposito destinato a un fiasco completo. Ciò che Sonne aveva da dire su un certo tema era dunque circostanziato ed esauriente, ma si sapeva pure che non lo aveva mai detto prima. Era sempre qualcosa di nuovo, scaturito proprio allora. Non era un giudizio sulle cose, era la legge delle cose. Ma l'aspetto più straordinario era che non si trattava di una materia ben definita, nella quale egli fosse particolarmente ferrato. Non era uno specialista o, per meglio dire, non era lo specialista di una determinata disciplina: era invece lo specialista di tutte le cose delle quali di volta in volta l'ho sentito parlare. Grazie a lui scoprii che è possibile occuparsi delle materie più disparate senza diventare un perditempo o un chiacchierone. So che è un'affermazione molto impegnativa, e non la renderò più credibile se aggiungo che proprio per questo non posso riportare le cose di cui Sonne parlava, perché ognuno dei suoi discorsi equivarrebbe a un saggio, meditato ed estremamente vivo, così completo che non ne ricordo uno solo nella sua forma integrale. Citare qualche frammento sarebbe una meschina falsificazione. Sonne non era un aforista, e nonostante il rispetto che ho per questa parola sarebbe quasi una frivolezza riferirla a un uomo come lui. Era troppo "completo" per essere un aforista, gli mancava l'unilateralità e anche il gusto di sorprendere gli altri. Quando aveva esaurito un argomento, ci si sentiva illuminati e appagati, era una pagina chiusa, qualcosa su cui non si ritornava più perché non ci sarebbe stato nient'altro da dire. Ma anche se non vorrei arrischiarmi a riferire le cose di cui parlava, c'è tuttavia un fenomeno letterario che può offrire un termine di paragone. In quegli anni leggevo Musil e non mi stancavo mai dell'Uomo senza qualità, di cui allora erano usciti i primi due volumi, circa mille pagine. Mi sembrava che in tutta la letteratura non ci fosse niente che si potesse paragonare all'opera di Musil. Ma mi stupiva anche il senso di familiarità che provavo ogni volta nell'aprire a caso uno dei due volumi. Era un linguaggio che conoscevo, un ritmo di pensiero che non mi era estraneo, e tuttavia - di questo ero certo - non esistevano libri come quelli. Passò un po'"di tempo prima che afferrassi il nesso: il dottor Sonne parlava come Musil scriveva. Ma non si deve credere che Sonne annotasse in privato cose che per qualche motivo non poteva pubblicare, e che poi attingesse, per le sue conversazioni, a quello che aveva già pensato e messo a punto. Non scriveva per sé in privato, e ciò che diceva nasceva lì per lì, mentre parlava. Ma nasceva con quella perfetta trasparenza che Musil raggiungeva solo nell'atto di scrivere. Ciò che io, da vero privilegiato, potevo udire giorno per giorno, erano i capitoli di un secondo Uomo senza qualità di cui nessuno è venuto a conoscenza. Infatti, anche se il dottor Sonne parlava con altre persone - non ogni giorno, ma di tanto in tanto -, quelli erano già altri capitoli. A un'informe smania di sapere, di scorrazzare in questa e in quella direzione per poi lasciar perdere ciò che è stato solo sfiorato e non ancora afferrato, a questa curiosità che certamente è più che curiosità perché non ha alcun fine pratico e finisce in niente, a questo convulso agitarsi da tutte le parti, si può trovare solo un rimedio: la frequentazione di un uomo che abbia il dono di muoversi all'interno di tutto il conoscibile senza lasciarne perdere una briciola prima di averla valutata, e senza disgregarne l'unità. Le parole di Sonne non abolivano, non liquidavano nulla; anzi il tema era più interessante di prima, era riordinato e illuminato. Egli apriva in te interi territori là dove prima c'erano soltanto punti oscuri, che erano pur sempre punti di domanda. Sapeva descriverti con la stessa precisione un uomo importante nella vita pubblica come un certo campo del sapere. Evitava di parlare di gente che tutt'e due conoscevamo di persona, e quindi era escluso dalla sua analisi ciò che può trasformare una conversazione in un pettegolezzo. Ma per il resto usava gli stessi metodi per cose e persone. Forse era questo soprattutto a ricordarmi Musil: il suo modo di concepire gli uomini, di volta in volta, come peculiari campi del sapere. Per Sonne non poteva esservi una teoria unica da applicare a tutti gli uomini, e questo concetto gli era talmente estraneo che non vi accennava neppure. Ogni uomo era qualcosa di particolare, non solo un individuo a sé. Detestava tutto ciò che gli uomini facevano contro gli uomini: non è mai esistito uno spirito meno barbaro di lui. Perfino quando doveva enunciare le cose che odiava, nelle sue parole non c'era mai odio: erano assurdità che metteva a nudo, nient'altro. E" enormemente difficile cercare di spiegare fino a che punto evitasse ogni riferimento personale. Potevi aver passato con lui due ore nelle quali avevi imparato un'infinità di cose, ma il modo in cui ciò avveniva era tale che ogni volta ne restavi stupefatto. Di fronte a quella superiorità intangibile, come avresti potuto mettere te stesso sopra gli altri? Umiltà non era certamente una parola che Sonne avrebbe usato, ma ti congedavi da lui in una condizione di spirito che non si potrebbe definire diversamente; era però un'umiltà vigile, non quella di una pecora. Io ero abituato ad ascoltare le persone, anche perfetti sconosciuti con i quali non avevo mai scambiato una parola. Con rabbia autentica ascoltavo coloro che non m'interessavano minimamente, e se non altro conservavo nell'orecchio l'accento di una persona non appena era chiaro che non l'avrei più rivista. Non esitavo a stuzzicarla, a farla parlare, o con le mie domande o addirittura recitando una parte. Non mi ero mai chiesto se avevo il diritto di carpire dalla viva voce di un uomo tutto ciò che c'era da sapere sul suo conto. L'ingenuità con cui mi arrogavo un tale diritto mi appare oggi inconcepibile. Senza dubbio vi sono qualità ultime che restano inesplicabili, e ogni tentativo di spiegarle è necessariamente ozioso. Alla categoria delle qualità ultime appartiene appunto questa, la mia passione per le persone. Si può descriverla, si può rappresentarla - la sua origine deve restare oscura per sempre. Posso parlare di fortuna se per lo meno, grazie ai quattro anni di noviziato trascorsi col dottor Sonne, scoprii ciò che vi era di equivoco in quella passione. Mi resi conto che Sonne aveva riguardo verso tutto ciò che gli fosse vicino, senza però che qualcosa gli sfuggisse. Se non sprecava mai una parola sulle persone che di giorno in giorno stavano intorno a noi, era una forma di tatto: non "toccava" nessuno, e ciò valeva anche quando l'interessato non se ne sarebbe mai accorto. Il suo rispetto per i limiti altrui era assoluto. Era il suo "Ahimsa", come io lo chiamavo usando la parola indiana che indica il rispetto per ogni forma di vita. Ma oggi capisco che nell'atteggiamento di Sonne c'era piuttosto qualcosa di inglese. Aveva trascorso in Inghilterra un anno importante della sua vita, ed era questo uno dei pochi fatti privati, due o tre, che potei desumere dalle sue parole. Perché in sostanza io non sapevo niente di lui, e anche a parlarne con altri che lo conoscevano non veniva fuori niente di concreto. Forse era riluttanza a parlare di lui come di una qualunque altra persona, essendo molto difficile esprimere le cose che lo distinguevano e formavano la sua essenza; e poiché anche quelli che non avevano alcun senso della misura ammiravano il suo senso della misura, quando il discorso cadeva su Sonne ci si asteneva per una sorta di scrupolo da ogni deformazione della sua fisionomia. A lui non facevi domande, come lui non ne faceva a te. Avanzavi la tua proposta, cioè accennavi a un argomento come se già da un pezzo ti girasse per la testa, senza insistere, quasi esitando. Anche lui esitava ad accettare l'invito. Mentre continuava a parlare d'altro soppesava ancora un poco la tua proposta. Poi, con un colpo netto, come se maneggiasse un bisturi, incideva l'argomento ed esponeva con una chiarezza cristallina e una completezza sbalorditiva quello che c'era da dire in proposito. Non è sviante definire glaciale quella chiarezza. E" la chiarezza di chi, dovendo molare vetri trasparenti, non è contento finché non scompare ogni macchia opaca. Il dottor Sonne analizzava un argomento scomponendolo ma senza fargli perdere la sua unità. Non lo sezionava, lo illuminava a fondo. Sceglieva le singole parti da esporre alla luce, le prelevava con cautela e, dopo aver portato a termine l'operazione, con la stessa cautela le rimetteva al loro posto nel tutto. Per me era nuovo, inaudito, il fatto che uno spirito capace di tanta forza di penetrazione non disdegnasse nessun particolare. Ma ogni particolare diventava importante proprio perché doveva essere rispettato. Sonne non era un collezionista: sapeva tutto, ma non teneva niente per sé come proprietà personale. Aveva letto tutto, ma non l'ho mai visto con un libro in mano. Era lui stesso la biblioteca che non possedeva. Dava l'impressione di aver già letto da tempo tutto ciò di cui si parlava. Non tentava mai di nascondere che se l'era annotato mentalmente. Non se ne faceva un vanto, non tirava fuori nulla a sproposito. Ma quando veniva l'occasione, tutto era lì, infallibilmente, ed era incredibile come non mancasse mai nulla. Vi erano persone che irritava con la sua precisione. Anche in presenza di donne non cambiava il suo modo di parlare, non era mai leggero: la sua spiritualità non si lasciava rinnegare, né la sua serietà. Non faceva mai il galante, non chiudeva gli occhi davanti alla bellezza, anzi la ammirava apertamente, ma non avrebbe mai cambiato se stesso per renderle omaggio: anche di fronte ad essa rimaneva immutabilmente lo stesso. Davanti alla bellezza, che scioglieva la lingua agli altri, accadeva che lui perdesse la parola, per ritrovarla solo quando la bellezza si era allontanata. Era il supremo omaggio di cui egli fosse capace, eppure era difficile trovare una donna che se ne rendesse conto. Forse era sbagliato il modo in cui si parlava di lui alle donne prima che lo incontrassero. Tu cominciavi esaltando l'incommensurabile superiorità che lo poneva al di sopra di te stesso, e bastava questo a disturbare una donna, il cui amore per te conteneva già un elemento di venerazione e che in questo elemento viveva come in una propria atmosfera. Come avrebbe potuto accettare da te la testimonianza di un'altra venerazione, che per di più pretendeva di essere quella meglio riposta, l'unica giusta? Come avrebbe potuto rassegnarsi a veder manomesso il suo patrimonio di convinzioni? Era così anche con Veza, che si rifiutava tenacemente di riconoscere il valore di Sonne. Mentre era molto affezionata a Broch, di Sonne non voleva saperne. Quando lo vide la prima volta, nella casa del pittore Georg Merkel, mi disse: "A Karl Kraus non somiglia. Come puoi dire una cosa simile? Se mai, somiglia alla mummia di Karl Kraus!". Alludeva al viso emaciato e ascetico di Sonne, alludeva anche al suo silenzio. In società, in mezzo a molte persone, Sonne non diceva una parola. Intuii che era colpito dalla bellezza di Veza, ma lei non avrebbe mai potuto desumerlo dalla fissità di quei lineamenti. Veza non modificò la sua opinione neanche quando le furono riferite da altri, e naturalmente anche da me, le espressioni inattese che la sua bellezza aveva strappato al dottor Sonne. Dopo un magnifico colloquio con lui al Cafè Museum tornavo a casa e trovavo un'accoglienza ostile da parte di Veza: "Sei stato col settimino, ti si legge in faccia. Non voglio sapere niente. Ma mi piange il cuore all'idea che ti perdi dietro a una mummia". Con quel "settimino" Veza intendeva dire che Sonne non era pienamente formato, che gli mancava qualcosa per essere una persona completa e normale. Io ero abituato alle reazioni estreme di Veza, ci accaloravamo a discutere di questa o quella persona, lei aveva sempre qualche intuizione giusta e poi calcava la mano con l'appassionata intransigenza che le era propria. Poiché io reagivo più o meno allo stesso modo, si arrivava agli scontri più accaniti, scontri che del resto piacevano a tutt'e due perché erano una perenne dimostrazione della piena sincerità che esisteva tra noi, il midollo della nostra relazione. Solo quando si trattava del dottor Sonne avvertivo in lei un rancore profondo, un rancore verso di me che non mi ero mai assoggettato a nessuno. Perfino con Karl Kraus - e Veza lo riconosceva - avevo salvaguardato interi territori di me stesso, mentre ora mi assoggettavo senza esitare, sempre, incondizionatamente. Veza non mi aveva mai sentito esprimere un dubbio su una frase di Sonne. Di lui non sapevo niente, tutta la sua vita era nelle sue parole, ed egli vi era racchiuso a tal segno che sarebbe sembrato un atto temerario scoprire su di lui qualcosa al di là delle sue parole. Tutti gli altri davano qualche segno della loro vita fisica, e lui niente: neppure una malattia, neppure un lamento. Sonne era pensiero, solo pensiero, al punto che non c'era nient'altro che si potesse notare in lui. Con Sonne non si prendeva un appuntamento da un giorno all'altro, e se per caso succedeva che non si facesse vedere, lui non si sentiva in obbligo di spiegare la sua assenza. Allora pensavo naturalmente a una malattia, perché aveva una faccia smorta e un aspetto poco sano, ma per più di un anno ignorai perfino dove abitava. Avrei potuto chiedere il suo indirizzo a Broch o a Merkel. Non lo feci, mi sembrava più logico che non avesse un indirizzo. Non mi stupii eccessivamente quando un pettegolo che avevo sempre evitato venne un giorno a sedersi al mio tavolino e mi domandò a bruciapelo se conoscevo il dottor Sonne. Dissi in fretta di no, ma quello non si rassegnò a star zitto, tanto era assillato da qualcosa che non gli dava pace e che non riusciva a spiegarsi: la storia di un'eredità finita in beneficenza. Quel dottor Sonne, mi disse, era nipote di un riccone di Przemy` sì e aveva dato via per scopi benefici tutto il patrimonio ereditato dal nonno. Era un mentecatto, ma non era l'unico. C'era anche quel Ludwig Wittgenstein, un filosofo, il fratello di Paul Wittgenstein, il pianista che continuava a suonare con un braccio solo: anche lui aveva fatto la stessa cosa, solo che aveva ereditato i soldi dal padre, non dal nonno. E conosceva anche altri casi, quel pettegolo, e li enumerò uno per uno, con nome, cognome e altri dati precisi del testatore. Era un collezionista di eredità rifiutate o buttate via. Ho dimenticato i nomi che non mi dicevano niente, e può anche darsi che degli altri non volessi sapere, perché ero tutto preso dalla notizia riguardante il dottor Sonne. La accettai senza approfondire, mi piaceva talmente che le prestai subito fede, tanto più che anche la storia su Wittgenstein rispondeva a verità. Da molte conversazioni avevo dedotto che Sonne sapeva che cos'era la guerra, e molto da vicino, pur senza aver fatto il soldato. Sapeva che cos'erano i profughi, esattamente come se fosse passato per quell'esperienza, e più ancora, come se si fosse preso cura dei profughi, come se ne avesse raccolto e diretto interi convogli per trapiantarli in luoghi in cui la loro vita non fosse più in pericolo. Dal racconto di quel pettegolo conclusi che Sonne aveva impiegato per i profughi il patrimonio ricevuto in eredità. Sonne era ebreo, e questo era l'unico dato esterno che mi fosse noto fin dall'inizio, sebbene sia alquanto improprio definirlo un dato esterno. Nei nostri incontri si parlava spesso di religioni, di quelle indiane, di quelle cinesi, di quelle che si fondano sulla Bibbia. Di qualunque fede parlassimo, Sonne dimostrava nel suo modo conciso una sovrana conoscenza, ma ciò che soprattutto mi faceva impressione era la sua padronanza della Bibbia ebraica: sapeva citarne all'istante e testualmente ogni passo da qualunque libro e lo traduceva così, senza la minima esitazione, in un tedesco di straordinaria bellezza che a me sembrava il tedesco di un poeta. A queste conversazioni aveva dato lo spunto un esame della Bibbia nella traduzione che Martin Buber stava pubblicando a quel tempo e sulla quale Sonne faceva delle riserve. Io portavo volentieri il discorso su questo argomento, per me era un'occasione per conoscere il testo nella lingua originale. Fino allora avevo evitato di occuparmene, sarebbe stato imbarazzante approfondire un tema che mi era così vicino a causa della mia origine, mentre mi ero applicato a tutte le altre religioni con uno zelo che non è mai venuto meno. Erano la chiarezza e l'energia della dizione di Sonne a ricordarmi il modo di scrivere di Musil. Una volta presa una strada, era esclusa qualsiasi deviazione se prima non si arrivava al punto dal quale Sonne poteva imboccare con la massima naturalezza altre strade. Ogni salto arbitrario era evitato. Nelle due ore circa che passavamo insieme ogni giorno si parlava di molte cose, e un elenco degli argomenti che si susseguivano potrebbe apparire - in contrasto con quello che ho appena detto caotico e stravagante. Ma sarebbe un'illusione ottica, poiché se si potesse consultarne i testi, se esistesse un solo verbale di quelle conversazioni, risulterebbe che ogni argomento in discussione veniva esaurito prima che si passasse a un altro. Ma non è possibile riprodurre l'andamento dei nostri colloqui, a meno che si trovasse il coraggio - sarebbe un'impresa assurda! - di scrivere L'uomo senza qualità di Sonne. Ne verrebbe un testo che dovrebbe avere la precisione e la trasparenza proprie di Musil stesso, che assorbirebbe l'attenzione dalla prima all'ultima parola, che sarebbe ugualmente lontano dal sonno come dalla penombra, e si potrebbe aprire a caso, in un punto qualsiasi, senza riuscire meno avvincente. Musil non sarebbe mai potuto arrivare alla fine, chi si è votato all'affinamento di un tale processo di analisi vi resta impigliato per sempre: se gli fosse concesso di vivere in eterno, dovrebbe anche continuare a scrivere in eterno. Questa è la vera, l'intrinseca eternità di un'opera simile, ed è nella sua natura che questa eternità si rifletta sul lettore, il quale non arriva mai a un punto fermo e continua a leggere, ancora e sempre, ciò che altrove avrebbe avuto una fine. Questa è dunque l'esperienza che io ho doppiamente vissuto a quel tempo, nelle mille pagine di Musil e in cento colloqui con Sonne. Il fatto che tra quelle e questi vi fosse una rispondenza è stata una fortuna, quale non è capitata a nessun altro. Se per il contenuto intellettuale e l'eccellenza della lingua un paragone non era impossibile, si era invece agli opposti per le intenzioni più profonde. Musil era tutto immerso nella sua impresa, e benché gli fosse concessa la più ampia libertà di pensiero si sentiva subordinato a uno scopo; qualunque cosa gli accadesse, non rinunciava mai a quello scopo; aveva un corpo di cui riconosceva l'importanza e attraverso quel corpo rimaneva legato al mondo. Osservava il gioco degli altri che avevano la pretesa di scrivere, benché ci fosse lui a scrivere, e ne intuiva la nullità e la condannava. Apprezzava la disciplina, quella della scienza in particolare, ma non si privava di altre sue forme. L'opera che aveva intrapreso aveva anche il significato di una conquista; Musil ricuperava un impero tramontato, non la sua gloria, la sua protezione, la sua antica storia, ma piuttosto quel che ricuperava erano tutte le diramazioni, sul piano spirituale, delle strade grandi e piccole che lo percorrevano: dagli uomini ricavava una carta geografica. Il fascino dell'opera di Musil si può ben paragonare a quello di una carta geografica. Sonne invece non voleva niente. Che fosse così alto e si tenesse ben dritto era solo apparenza. Il tempo in cui pensava alla riconquista di un territorio era ormai lontano. Ignorai a lungo che aveva intrapreso in compenso la riconquista di una lingua. Non sembrava legato a nessuna fede, sebbene nessuna fede avesse segreti per lui. Era libero da ogni scopo e non si misurava con nessuno. Ma prendeva parte agli scopi degli altri, li valutava e li analizzava; e anche se usava per le sue perizie i criteri più rigorosi e spesso, forse quasi sempre, non si sentiva consenziente, il suo giudizio non riguardava l'impresa in sé, ma il risultato finale. Dava l'impressione di essere il più oggettivo di tutti gli uomini, ma non perché gli oggetti e le cose avessero qualche importanza per lui, bensì perché non voleva niente per sé. Molti sanno che cos'è il disinteresse personale, e non pochi, disgustati dall'interesse egoistico che vedono intorno a sé, cercano di liberarsene. Ma in quegli anni di Vienna ho conosciuto solo una persona che fosse totalmente immune dall'egoismo, appunto il dottor Sonne. Neanche in seguito ho mai incontrato un uomo come lui. Al tempo in cui le varie forme di saggezza orientale trovavano innumerevoli adepti e la rinuncia agli scopi terreni diventava un fenomeno di massa, c'era sempre al fondo anche un'ostilità contro lo spirito, così come si era sviluppato nelle culture europee. Tutto veniva demolito, in particolare era messa al bando l'acutezza dello spirito, si rinunciava a partecipare alle cose del mondo circostante e così ci si sottraeva anche alla responsabilità verso il mondo. Nessuno poteva sentirsi colpevole di ciò con cui non voleva aver niente a che fare. "Vi sta bene" era il motto che esprimeva un atteggiamento largamente diffuso. Sonne aveva abbandonato ogni sua attività nel mondo, e io non sapevo il perché di una simile rinuncia. Restava però nel mondo, legato con i pensieri a ognuno dei suoi fenomeni. Lasciava cadere le mani, ma non voltava le spalle al mondo: anche nell'equilibrio e nell'imparzialità delle sue parole si poteva avvertire la sua passione per questo mondo, e io ero portato a credere che non facesse niente solo perché non voleva far torto a nessuno. Attraverso Sonne capii per la prima volta che cosa fa l'integrità di una persona: è la capacità di non farsi toccare da nulla, neanche dalle domande, e di disporre di sé senza venir meno ai propri motivi e alla propria storia. Mai una volta mi feci domande sulla sua persona, per me Sonne rimaneva intangibile, anche nei pensieri. Parlava di molte cose e non era avaro di giudizi se qualcuna non gli piaceva. Ma io non cercavo mai i motivi delle sue parole, che si reggevano di per sé, chiare e nette, staccate da tutto, anche dalla loro fonte. A quel tempo era ormai un caso raro, anche prescindendo dalla qualità di quelle parole. L'infezione psicoanalitica aveva fatto progressi, e proprio allora l'esempio di Broch me ne dava la misura. In Broch ciò mi irritava meno che in altri esseri più comuni, perché la sua personalità, come ho già detto, aveva una sua struttura così particolare che anche le spiegazioni più banali, quelle appunto che avevano corso allora, non avrebbero intaccato la sua peculiare natura. Ma in generale accadeva che a quel tempo non si potesse dire una frase in una conversazione senza che fosse immiserita con le motivazioni che erano subito lì a portata di mano. Il fatto che si trovassero sempre le stesse motivazioni per ogni cosa, la noia indicibile che ne scaturiva, la sterilità che ne risultava, tutto questo sembrava dar fastidio a ben pochi. Nel mondo succedevano le cose più stupefacenti, ma tutte venivano collocate sullo stesso squallido sfondo: di questo sfondo si parlava e si credeva di avere spiegato quelle cose, che perciò cessavano di essere stupefacenti. Là dove doveva intervenire il pensiero, gracidava un coro saccente di ranocchi. Nella sua opera Musil era totalmente immune da quel contagio, e il dottor Sonne ne era immune nelle sue conversazioni. Non mi faceva mai domande che sfiorassero il privato. Io non raccontavo niente di me e mi guardavo dalle confessioni. Avevo davanti agli occhi l'esempio della sua dignità e mi comportavo come lui: per quanto appassionate fossero le discussioni, tutto ciò che riguardava solo lui personalmente ne restava escluso. Gli atti d'accusa non mancavano, ma non trovavano in lui il minimo compiacimento. Prevedeva le cose peggiori, le enunciava con estrema esattezza, ma non se ne rallegrava quando poi avvenivano. Per lui il male restava il male anche se i fatti gli davano ragione. Nessuno aveva una visione così chiara del corso degli avvenimenti. Non oserei dire a parole tutto ciò che di terribile lui sapeva già allora. Si sforzava di non lasciar trasparire quanto lo tormentassero le cose che prevedeva. Si guardava dal farle balenare all'interlocutore come una minaccia o un castigo. La sua circospezione era commisurata al grado di sensibilità di cui sapeva capace l'ascoltatore. Non offriva ricette, sebbene ne conoscesse molte. Era così risoluto come se dovesse pronunciare una sentenza, ma sapeva anche, con un semplice gesto della mano, esonerare da quella sentenza colui che gli stava di fronte. La sua era più che circospezione, si dovrebbe parlare anche della sua delicatezza; e ancora oggi mi domando come quella delicatezza si conciliasse con un rigore implacabile. Solo oggi so che non sarei mai riuscito a staccarmi da Karl Kraus senza il sodalizio quotidiano con Sonne. Era lo stesso volto: come vorrei poter dare un'idea visiva dell'identità di quelle facce mostrando delle fotografie (che però non ci sono)! Eppure - e non so come rendere plausibile questa affermazione - era al tempo stesso una faccia diversa, la faccia che tre anni dopo vidi nella maschera mortuaria di Karl Kraus, la faccia di Pascal. Qui la collera si era trasformata in sofferenza, e dalla sofferenza che si infligge a se stessi si resta segnati. Il fondersi di quei due volti: il volto del polemista profetico e il volto dell'uomo paziente che ha la forza di abbracciare tutto quello che è possibile a uno spirito senza per questo diventare presuntuoso - il loro fondersi mi liberò dalla tirannia del polemista intransigente, senza togliermi ciò che da lui avevo ricevuto, e mi riempì di rispetto per ciò che mi restava irraggiungibile: in Pascal lo avevo intuito, in Sonne lo avevo davanti a me. Come ho già detto, tra le molte cose che Sonne conosceva a memoria, dal principio alla fine, c'era la Bibbia. Sapeva citare qualunque passo in ebraico, senza esitare e senza dover riflettere. Tuttavia non faceva sfoggio di queste gesta mnemotecniche, che non avevano mai nulla di teatrale. Era passato più di un anno dall'inizio dei nostri rapporti prima che io esprimessi qualche riserva sulla veste che Martin Buber aveva dato alla Bibbia nella sua traduzione tedesca; e Sonne non solo approvò le mie riserve, ma si addentrò nel testo originale ebraico con una lunga serie di esempi. Il modo in cui citava e commentava molti brevi capitoli mi fece cadere di colpo una benda dagli occhi: mi resi conto che Sonne doveva essere un poeta, e proprio in quella lingua ebraica che usava davanti a me. Non osai fargli una domanda diretta, perché quando lui stesso si asteneva dal fornire ragguagli si evitava di toccare l'argomento. In quel caso, tuttavia, la discrezione non mi impedì di chiedere notizie ad altri che lo avevano conosciuto già anni prima. Seppi così - e se ne parlava come se la cosa fosse diventata un segreto ormai da qualche tempo - che Sonne era uno dei fondatori della nuova poesia ebraica. Giovanissimo, all'età di quindici anni, sotto il nome di Abraham ben Yitzchak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l'autore era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun'altra poesia era venuta alla luce. Si pensava che si fosse imposto il divieto di scrivere poesie. Non ne parlava mai, dicevano i miei informatori: anche su questo argomento, come su tanti altri, manteneva un silenzio inviolabile. Io mi sentii in colpa per avere scoperto tutto questo contro la sua volontà, e per un'intera settimana non misi piede al Café Museum. Per me Sonne era diventato una guida, quale non avevo mai conosciuta, e ciò che avevo saputo sulle sue poesie giovanili, per quanto tornasse a suo onore, era in un certo senso una limitazione. Sonne diventava più piccolo perché aveva fatto qualche cosa. Eppure aveva fatto molto di più, e anche di questo venni a sapere per caso e a poco a poco. Si era allontanato da tutto, e per quanto facesse magistralmente ogni cosa che lo toccava, questo non era bastato ancora a soffocare i suoi scrupoli, e severi motivi di coscienza l'avevano indotto a rinunciare. Tuttavia, per parlare solo della prima cosa che venni a sapere, indubbiamente egli era rimasto un poeta. Non era poesia il fascino della sua parola, la precisione e la grazia con cui trovava la sua strada tra i temi più ardui, attento a non trascurare nulla che fosse degno di considerazione (tranne la sua persona) e a inquadrare l'oggetto con la massima esattezza, senza abbassarsi al suo livello? E poi la sua capacità di dominare l'orrore che pure provava, il suo dono nascosto di intuire ogni sentimento dell'interlocutore, la delicatezza dei suoi riguardi? Ma adesso sapevo che aveva avuto un nome anche come poeta e che lo aveva ripudiato, mentre io miravo a conquistarmi quel nome che ancora non avevo. Mi vergognavo di non potervi rinunciare e mi vergognavo di essermi procurato quelle notizie: di sapere che in altri tempi Sonne era stato qualcosa di grande, qualcosa a cui non teneva più. Come potevo presentarmi a lui senza chiedergli il motivo di quel disprezzo? Forse mi disapprovava perché davo tanta importanza allo scrivere? Non aveva letto nulla di mio, non avevo pubblicato neanche un libro, e Sonne poteva conoscermi solo dai nostri colloqui, nei quali lui contestava quasi tutto e io quasi niente. Mi riusciva quasi insopportabile non poterlo vedere, perché sapevo che a quella data ora lui era seduto al Café Museum e forse guardava verso la porta girevole per vedere se arrivavo. Di giorno in giorno avevo sempre più forte la sensazione che non avrei resistito senza di lui. Dovevo trovare il coraggio di presentarmi a Sonne tacendo quello che adesso sapevo, di riprendere la conversazione al punto in cui mi ero congedato da lui l'ultima volta, e di rinunciare a conoscere la sua opinione sullo scopo della mia vita fino al giorno in cui ci fosse stato il libro, che volevo sottoporre al suo giudizio, e al suo giudizio soltanto. Conoscevo l'intensità delle ossessioni, la forza incisiva delle parole continuamente ripetute, gli atti sempre uguali che dopo mille volte non perdevano mai la loro efficacia: era così che Karl Kraus agiva sul prossimo. E adesso io mi trovavo in compagnia di un uomo che aveva la stessa faccia e un rigore non inferiore, ma era un uomo tranquillo, perché in lui non c'era fanatismo e non c'era la volontà di sopraffarti. Era uno spirito che non respingeva niente, che si rivolgeva a ogni tipo di esperienza con la stessa energia accumulata. Anche per lui il mondo era diviso tra il male e il bene, non era possibile alcun dubbio su ciò che era bene e ciò che era male, ma lasciava a te la libertà di decidere e soprattutto di reagire a modo tuo. Nulla era attenuato o abbellito, tutto era presentato con una chiarezza che accoglievi come un dono, restandone stupito e anche un po', vergognoso, come un dono per il quale non ti si chiedeva niente in cambio, se non un orecchio aperto. L'accusa ti era risparmiata. Bisogna pensare con quale violenza avevano agito su di te le accuse incessanti di Karl Kraus, come penetravano e prendevano possesso di te per non lasciarti mai più (ancora oggi scopro le ferite che mi avevano causato, e non tutte si sono cicatrizzate): quelle accuse avevano tutta la forza di comandi, e poiché le approvavi in anticipo e non cercavi mai di eluderle, forse sarebbe stato meglio per te se avessero avuto anche l'urgenza propria dei comandi, perché allora sarebbe stato possibile dar loro un seguito e ti sarebbero rimaste addosso soltanto le spine (neanche questo sarebbe stato lieve). Ma le frasi di Karl Kraus, compatte come mattoni nelle mura di una fortezza, continuavano a pesare su di te come un tutto unico, grevi e massicce, un carico paralizzante che dovevi portarti in giro; e sebbene poi me ne fossi sbarazzato in gran parte durante quell'anno di lavoro forzato intorno al romanzo e poi con la febbre del dramma, restava pur sempre il pericolo che le mie lotte di liberazione fallissero e si concludessero in una dura schiavitù spirituale. La liberazione arrivò con quel viso che somigliava tanto a quello dell'oppressore ma diceva ogni cosa in maniera diversa, più complessa, più ricca, più articolata. Invece di Shakespeare e di Nestroy mi veniva data la Bibbia, ma non era una costrizione, era un argomento tra innumerevoli altri, e anch'essa intatta, in tutta l'esattezza del suo testo originale. Se per una ragione qualunque il discorso cadeva sulla Bibbia, mi avveniva di ascoltare una citazione abbastanza ampia di cui non comprendevo il significato, e subito dopo, frase per frase, una traduzione illuminante ma ben fondata in ogni particolare, la traduzione di un poeta, per la quale tutto il mondo mi avrebbe invidiato. Ero il solo a ricevere quel dono, senza doverlo chiedere, e lo ricevevo così come scaturiva dalla fonte. Naturalmente mi avveniva di ascoltare anche altre citazioni, ma molte di queste le conoscevo, e allora non avevo la sensazione che rappresentassero l'essenza vera di chi le pronunciava, l'essenza della sua infanzia e della sua saggezza. Solo allora cominciai a sentire vicini i profeti della Bibbia con la loro voce autentica. Li avevo scoperti quindici anni prima negli affreschi di Michelangelo, e l'impressione di quelle figure era stata così enorme da tenermi a distanza dalle loro parole. Ora conoscevo i profeti dalla bocca di un solo uomo, come se lui fosse tutti loro insieme. Somigliava ai profeti, ma nello stesso tempo ne era dissimile: non aveva il loro furore esaltato, ma come loro era un uomo pervaso dall'angoscia per il futuro, di cui mi parlava apparentemente senza emozione, un uomo al quale mancava in ogni caso l'unica, la più terribile emozione dei profeti, che vogliono aver ragione anche quando annunciano il peggio. Sonne avrebbe dato tutto, fino all'ultimo dei suoi respiri, per non aver ragione. Vedeva la guerra, che esecrava, ne vedeva il decorso. Sapeva come si potesse ancora evitarla, e avrebbe fatto qualunque cosa pur di vanificare il suo tremendo vaticinio. Quando ci separammo dopo quattro anni di amicizia - io andai in Inghilterra, lui a Gerusalemme, e non ci scrivemmo mai una lettera -, accadde punto per punto, in ogni particolare, ciò che mi aveva predetto. Io fui doppiamente colpito dagli avvenimenti, perché vedevo compiersi quello che avevo già appreso dalla sua bocca. Per tanto tempo l'avevo tenuto dentro di me, ed ecco che, inesorabilmente, si avverava. La ragione del portamento di Sonne, più che eretto, un po', rigido, venni a saperla molto tempo dopo la sua morte. Da giovane, mentre andava a cavallo (avvenne a Gerusalemme, credo), era caduto di sella procurandosi una lesione alla colonna vertebrale. Non saprei dire come poi guarì e se anche in seguito fosse sempre costretto a portare qualche apparecchio per sostenere la schiena. Ma questa era la causa del suo portamento, della sua "regalità", come qualcuno la chiamava con poetica esagerazione. Quando mi traduceva i salmi o i detti sapienziali, a me appariva un poeta regale. Che un uomo simile, profeta e poeta insieme, potesse scomparire così completamente da non farsi notare dietro il suo schermo di giornali, e tuttavia fosse ben consapevole di tutto ciò che avveniva intorno a lui, quella sua mancanza di colore, come si potrebbe chiamarla, e quella sua vita modesta e discreta, erano ciò che stupiva di più in lui. Ho dato rilievo a un solo argomento delle nostre conversazioni al Café Museum, quello biblico. Poiché non enumero qui tutti gli altri, potrebbe sorgere l'impressione che Sonne fosse uno di quelli che mettono in mostra il loro ebraismo. Era vero proprio il contrario. Sonne non ha mai usato la parola "ebreo", né per sé né per me. La lasciava da parte. Era una parola indegna di lui, sia come titolo di merito sia come bersaglio di turbe ostili. Era impregnato della tradizione, senza mai compiacersene. Delle cose meravigliose che conosceva come nessun altro, non si faceva un merito. A me dava l'impressione di non essere credente. Il rispetto che aveva per ogni persona gli impediva di escludere chicchessia, fosse anche l'ultimo degli uomini, dalla piena cittadinanza nel consorzio umano. In molte cose era un modello, e da quando l'ho conosciuto nessuno sarebbe più potuto diventare un modello per me. Egli lo era con le qualità che i modelli devono avere per essere efficaci. Allora, cinquant'anni fa, mi sembrava irraggiungibile, e irraggiungibile è rimasto per me. Nell'Operngasse Anna Mahler riceveva molte visite al numero 4 dell'Operngasse, nel suo atelier al pianterreno. Era nel centro della città, perché in fondo il vero centro di Vienna era l'Opera, e sembrava giusto che la figlia di Mahler, dopo essersi liberata definitivamente dai vincoli del suo matrimonio, abitasse proprio là dove il padre, il sommo, l'imperatore della musica a Vienna, aveva esercitato la sua signoria. Chi conosceva la madre di Anna ed era ricevuto nella villa sulla Hohe Warte, chi vi andava senza chiedere niente per sé, chi era già abbastanza celebre per non doversi preoccupare della carriera, approfittava volentieri delle pause del lavoro per passare da Anna. Ma c'era anche un altro motivo di richiamo, ed erano i ritratti che Anna faceva ai visitatori. Gli uomini illustri che Alma si compiaceva di legare alla propria persona, quelli che formavano la sua "collezione", e tra i quali pescava di tanto in tanto, vuoi per un matrimonio, vuoi per il proprio piacere, venivano ridotti o, meglio, innalzati da Anna a una galleria di ritratti. Chi era abbastanza noto veniva pregato di offrire la propria testa, ed erano pochi quelli che non fossero disposti a dargliela. Così accadeva spesso di trovare persone che stavano lì in animata conversazione mentre Anna modellava la loro testa. In questi casi la mia visita non riusciva indesiderata perché io coinvolgevo la gente nella conversazione e questo aiutava Anna nel suo lavoro. Lei teneva le orecchie ben aperte e intanto modellava. Più d'uno sosteneva che il suo vero talento si manifestava in questo campo. Voglio ricordare alcune delle persone che andavano da lei e che ora compongono qualcosa di molto simile a una vera galleria. Non poche le avevo già incontrate, nella Maxingstrasse o alla Hohe Warte. A questo gruppo apparteneva Carl Zuckmayer, e anche a lui Anna fece la testa. Zuckmayer era appena stato in Francia e raccontava le sue impressioni di viaggio. Raccontava con vivacità, con teatrale esuberanza. In Francia, dunque, non si poteva andare da nessuna parte senza imbattersi in Monsieur Laval. Era ad ogni angolo, la faccia universale. Entravi in un ristorante, non avevi ancora varcato la soglia, e chi ti veniva incontro? Monsieur Laval! Entravi in un caffè pieno come un uovo, cercavi un posto per sederti, e chi si alzava in quel momento lasciandoti libera una sedia? Monsieur Laval! All'albergo i portieri si davano il cambio: sempre Monsieur Laval! Accompagnavi tua moglie a fare un acquisto nella Rue de la Paix: chi si faceva avanti per servirla? Monsieur Laval! Gli incontri con Monsieur Laval davano lo spunto a un'infinità di storie. Era il personaggio pubblico, era l'immagine dei francesi. Oggi, dopo tutto quello che è successo, può suonare molto più sinistro, ma allora aveva qualcosa di farsesco, e ciò che era irresistibile non era tanto l'elemento teatrale del racconto quanto la vigorosa impudenza del narratore. Il clou stava nella ripetizione continua, in cento forme: andavi sempre a cozzare nello stesso individuo, tutti erano lui e lui era tutti; ma ogni volta chi ti stava di fronte non era mai un vero Monsieur Laval, bensì Zuckmayer, come se sulla scena gli avessero assegnato la parte di un Laval. Zuckmayer parlava per conto suo, senza curarsi di chi lo ascoltava. Quel giorno c'ero soltanto io, oltre ad Anna, e avevo la sensazione di essere molti ascoltatori: se Zuckmayer interpretava i molti Laval, io interpretavo i molti ascoltatori. Io ero anche loro, e tutti loro, riuniti in me, erano sbalorditi dall'aria di innocenza quasi incredibile che irradiava da Zuckmayer, un'atmosfera carnevalesca in cui non accadeva niente di male perché la comicità aveva trasfigurato tutto il male. Se oggi ripenso a quella vivacissima storia di Monsieur Laval, mi colpisce soprattutto la misura in cui ciò che vi era di sinistro in quel personaggio si trasformava per Zuckmayer in comico di situazione. Da Anna incontrai anche figure che soggiogavano per la bellezza, addirittura per una bellezza purissima, come quella che per me prendeva forma nelle maschere mortuarie. Ero colpito dall'aspetto di Victor De Sabata, il direttore d'orchestra. Dirigeva alla Staatsoper e veniva tra una prova e l'altra. Bastava attraversare la strada, l'Operngasse: l'atelier di Anna era come una dépendance del teatro. Questa era la sensazione che De Sabata doveva provare venendo dal podio che era stato di Mahler. In pochi passi era dalla figlia di Mahler, e il fatto che fosse lei a ritrarlo, a giustificare l'aspirazione del suo viso all'immortalità, non solo aveva un senso, ma sembrava a me il coronamento della vita stessa di De Sabata. A volte ero presente quando lui faceva la sua apparizione, rapido e sicuro, una figura slanciata che nonostante la fretta aveva un che di sonnambolico, il viso molto pallido, della bellezza di un morto, ma un viso che non somigliava a nessuno pur nella regolarità dei lineamenti. Era come se De Sabata camminasse a occhi chiusi, e tuttavia quegli occhi guardavano e vi era in essi, quando si posavano su Anna, qualcosa di allegro. - Non fu un caso, per me, se De Sabata diventò una delle più belle teste di Anna. Anche la testa di Werfel fu modellata allora nell'Operngasse. Senza dubbio gli sorrideva l'idea di essere effigiato in un luogo così vicino al grande tempio del canto. Ci stava volentieri: era un atelier molto semplice, lontano dalla sfarzosa villa della Hohe Warte e lontano anche dal palazzo del suo editore nella Maxingstrasse. Io evitavo di andarci quando sapevo che c'era Werfel. Ma a volte capitavo lì anch'io senza annunciarmi. Lo facevo molto volentieri, e allora mi imbattevo in Werfel, seduto nel piccolo cortile dal tetto di vetro. Rispondeva al mio saluto come se non fosse successo niente, e non lasciava trasparire rancore per quello che mi aveva fatto. Era addirittura così generoso da domandarmi come stavo, e poi portava subito il discorso su Veza, di cui ammirava la bellezza. Una volta, durante un ricevimento alla Hohe Warte, si era inginocchiato davanti a lei, le aveva cantato un'aria d'amore, impegnandosi con tutta la sua mole, sempre piegato su un ginocchio, sino alla fine, e si era alzato solo dopo aver dichiarato a se stesso che l'esecuzione gli era riuscita perfettamente, come a un tenore professionista; e in effetti aveva una bella voce. Werfel paragonava Veza a Rowena, la celebre attrice della Habimah che anche a Vienna aveva sostenuto la parte dell'ossessa nel Dybuk trascinando tutti all'entusiasmo. Veza non avrebbe potuto ricevere un omaggio migliore, perché alla fine si era stancata di sentirsi paragonare alle donne andaluse. E Werfel diceva sul serio, il suo non era un complimento, probabilmente era sincero in tutto ciò che diceva, e forse era proprio questo uno dei motivi per cui suscitava un'impressione di ambiguità in chi aveva una natura un po'"critica. Quelli che cercavano di difenderlo nonostante l'antipatia che ispirava, lo chiamavano "un meraviglioso strumento". Quando era seduto, semplicemente seduto, e non faceva niente di particolare, Werfel offriva un curioso spettacolo. Tutti erano abituati a sentirlo declamare o cantare, due cose che in lui si avvicendavano facilmente. Alla conversazione, in cui aveva sempre la parte del leone, provvedeva stando in piedi. Le idee, le trovate non gli mancavano, ma poi le rovinava subito con un eccesso di parole. Chi lo ascoltava avrebbe voluto poter riflettere su qualche punto e si augurava una pausa, un attimo di tregua, uno solo, non di più, ma arrivava quel diluvio di parole e spazzava via tutto. Per Werfel ogni parola che gli usciva di bocca era importante, la cosa più stupida aveva lo stesso timbro perentorio di quella insolita o sorprendente. Non era capace di parlare senza appassionarsi, era qualcosa che corrispondeva alla sua natura ma che scaturiva anche dalla sua convinzione più profonda. Si distingueva da un predicatore perché parlava quasi cantando, ma al pari di un predicatore si sentiva più a suo agio stando in piedi. Scriveva i suoi libri in piedi, davanti a un leggio. Considerava le sue parole di elogio un atto di filantropia. Il sapere gli faceva orrore, come la riflessione. Per non dover riflettere, apriva subito il fuoco con tutte le sue batterie. Aveva assimilato dagli altri molte cose importanti, e spesso tuonava come se fosse lui stesso la fonte di grandi concetti. Traboccava di sentimento: in lui, pur così grasso, era un continuo gorgogliar di amore e di sentimento, ci si aspettava di trovare per terra, lì intorno, laghetti di commozione e si restava quasi delusi scoprendo che intorno a lui tutto era ancora asciutto come intorno agli altri. Non si rassegnava facilmente a sedersi, salvo quando ascoltava musica: allora stava lì teso e bramoso, perché in quegli attimi solenni si caricava di sentimento fino all'orlo. Mi sono domandato spesso che cosa gli sarebbe successo se per tre anni buoni non ci fosse stata in tutto il mondo una sola opera da ascoltare. Credo che sarebbe dimagrito e deperito, che sarebbe addirittura morto di fame, non senza esplodere in epicedi prima che si compisse la tragedia. Altri si nutrono del sapere, dopo essercisi arrovellati intorno abbastanza a lungo; lui si nutriva di suoni che si guadagnava con tanto sentimento. Werfel aveva una brutta testa, ma Anna ne cavò il meglio. Lei, che rifuggiva da tutto ciò che era grottesco se non prendeva i colori della fiaba, esagerò il volume di quella testa, composta essenzialmente di grasso, e le diede - la scultura era in grandezza superiore al naturale - una forza che non aveva. Tra le teste di grandi uomini che stavano sparse e si moltiplicavano rapidamente nell'atelier di Anna, quella di Werfel non sfigurava neanche tanto. Non poteva essere come la testa di De Sabata - che era bella come la maschera funebre di Baudelaire. Ma poteva reggere il confronto con quella di Zuckmayer. Tra gli ospiti di Anna non mancavano - per me - le grandi sorprese. Se molti venivano dalla Staatsoper, dove avevano i loro impegni, ed erano attratti all'atelier da un richiamo comprensibile e legittimo, altri venivano dai negozi della Kärntnerstrasse, dove facevano i loro acquisti. Un giorno, quando già mi ero seduto e avevo cominciato a raccontare qualcosa ad Anna, Frank Thiess entrò come un colpo di vento in compagnia della moglie: una coppia elegante, entrambi avvolti in morbidi cappotti di lana chiara, con pacchetti che pendevano da tutte le dita, pacchetti di fogge diverse, niente di pesante, niente di voluminoso, quasi contenessero leggeri assaggi di cose ricercate. Quando lui e lei diedero la mano, sembrò che offrissero regali da scegliere liberamente, ma si affrettarono a chiedere scusa perché dovevano andar via subito, e neppure deposero i regali. Thiess parlava molto in fretta, in un tedesco con sfumature nordiche, a voce piuttosto alta. Non avevano proprio tempo, disse, ma passavano di lì e non potevano non affacciarsi a salutare l'artista: le sculture le avrebbero guardate con comodo un'altra volta. Poi, nonostante la fretta, venne giù un diluvio di piccole avventure nei negozi della Kärntnerstrasse, e poiché non ero mai stato in uno di quei posti, a me sembrava di ascoltare il resoconto di una spedizione in terre esotiche. Più che un resoconto era un fiume in piena; e stavano sempre in piedi, perché non c'era il tempo per deporre pacchetti e cappotti. Intanto però Thiess imprimeva una lieve oscillazione ai pacchetti in modo che testimoniassero di volta in volta che lui stava parlando del negozio da cui provenivano. Ben presto tutti i pacchetti cominciarono a dondolare come marionette appese alle dita di Thiess. L'aria era tutta profumata, e il camerino attiguo all'atelier in cui Anna usava accompagnare i suoi ospiti si riempì in pochi minuti degli aromi più raffinati, che non emanavano nemmeno dai pacchetti ma dalle avventure di quel giro di acquisti. Non si parlò d'altro, e soltanto la madre di Anna riuscì a interloquire con qualche frase di cortesia a denti stretti; e quando i Thiess se ne furono andati - al momento del congedo evitarono, per prudenza, di allungare la mano con i pacchetti ci domandammo se era passato di lì qualcuno. Anna, che preferiva astenersi da commenti negativi, si mise a scalpellare la sua statua. A lei non era estraneo, come a me, il mondo dei negozi eleganti che era appena affluito nel suo atelier e subito ne era defluito. Lei lo conosceva attraverso sua madre, che aveva spesso accompagnato nella Kärnt -nerstrasse e nel Graben; ma era un mondo che odiava: nel separarsi dal marito che la madre le aveva imposto per ragioni di politica familiare, aveva abbandonato anche quel mondo. Ormai Anna si era liberata di tutti gli obblighi mondani della Maxingstrasse. Non doveva più preoccuparsi dei ricevimenti. Non perdeva il suo tempo, non era più sottoposta a controlli. Quando qualcosa la irritava, afferrava lo scalpello. Si buttava nel lavoro e voleva che fosse il più duro possibile. Benché nel profondo non avesse niente in comune con Wotruba, c'era una cosa che aveva imparato da lui: un anelito al monumentale, perché richiedeva il lavoro più pesante. Nella parte inferiore del viso di Anna si leggeva una tensione della volontà che la faceva somigliare molto a suo padre. Quella di Frank Thiess era stata più o meno una visita di convenienza. Forse nemmeno lui si rendeva conto di non avere niente da dire ad Anna. I suoi rapidi gorgheggi, che però si tenevano piuttosto sulle note alte, era capace di eseguirli con tutti. Ma Paul Zsolnay, il marito che Anna aveva piantato da poco, era l'editore di Thiess. Quella fuggevole visita di omaggio, nel bel mezzo delle seduzioni della Kärntnerstrasse, voleva essere un atto di fedeltà e insieme una sorta di dichiarazione di neutralità. Thiess era soddisfatto della propria apparizione e forse sapeva addirittura che dalle sue dita pendeva tutto ciò che Anna aveva perso abbandonando Zsolnay. Solo gli scrittori realmente "liberi", quelli abbastanza conosciuti e molto letti, quelli che perciò non dovevano dipendere dalla casa editrice perché ogni altro editore era pronto ad accoglierli, solo quelli che passavano per celebrità tra i lettori di allora potevano permettersi di andare da Anna per una visita di omaggio. La gente andava e veniva, e in giro si diceva chi era stato da lei. Quelli che erano considerati lacchè della casa editrice preferivano non farsi vedere. Molti che prima l'avevano incensata e avrebbero dato qualunque cosa per essere invitati ai suoi ricevimenti, adesso la evitavano e si tenevano alla larga dall'Operngasse. C'erano anche quelli che di colpo si mettevano a parlar male di lei. Sua madre, che aveva un grande ascendente sulla vita musicale di Vienna, era invece lasciata in pace, benché da ogni poro le sprizzassero calcolo e politica di potere familiare. Anna si esponeva ai pettegolezzi, era coraggiosa (continuò sempre a esserlo) e si costruiva nel piccolo atelier dell'Operngasse quella specie di museo di teste celebri. Era un'impresa legittima, purché una testa riuscisse bene, e non era poi un caso troppo raro. Lei non immaginava fino a che punto quel museo fosse anche un riflesso della vita di sua madre. Alla madre interessava il potere, in ogni forma: la celebrità in primo luogo, il denaro e il prestigio che procura piaceri. Per Anna, invece, al centro di tutto c'era qualcosa di più importante, l'enorme ambizione di suo padre. Voleva lavorare, e senza risparmiarsi, rendendosi la vita quanto più dura fosse possibile. L'incontro con Wotruba, il suo maestro, le aveva fatto conoscere appunto quel lavoro duro, lungo e difficile di cui aveva bisogno. Non si concedeva attenuanti per il fatto di essere donna, era risoluta a faticare come l'uomo giovane e forte che era il suo maestro. Non le sarebbe mai venuto in mente che il modo di lavorare di Wotruba poteva dipendere anche da un destino diverso. Per Anna le differenze di origine non contavano, e mentre sua madre pronunciava la parola "proletario" col disprezzo che provava per gli schiavi, come se si trattasse di qualcosa fuori delle categorie umane, di una mercanzia in vendita, necessaria, da usare tutt'al più anche per l'amore nel caso di un uomo eccezionalmente bello, mentre sua madre innalzava volentieri quelli che già stavano in alto, Anna non faceva distinzione tra gli esseri umani. Per lei l'origine e la classe sociale non avevano alcun peso, a lei importavano solo le persone in sé; ma poi si vide che questo atteggiamento bello e nobile non è sufficiente: per sapere che cosa valgono gli uomini occorre non solo fare esperienze, ma anche tenersele a mente. In lei il senso della libertà era molto importante, era il motivo principale della rapidità con cui si scioglieva da ogni legame; ed era così forte da far supporre che ogni sua nuova relazione fosse poco seria, concepita fin dall'inizio come un capriccio di breve durata. Per contro, Anna scriveva lettere "assolute" e soprattutto si aspettava dichiarazioni "assolute". Per Anna, forse, le lettere composte per lei come se fossero poesia erano più importanti dell'amore stesso; e ciò che la incantava di più erano le storie che le venivano raccontate. Andavo spesso da lei, specialmente da quando aveva l'atelier nell'Operngasse, e le riferivo tutto ciò che attirava il mio interesse. Sciorinavo davanti a lei quello che succedeva nel mondo e quello che mi passava per la testa. Nel periodo del mio entusiasmo per Sonne poteva accadere che riferissi ad Anna cose molto serie, e lei stava sempre ad ascoltare e ne sembrava affascinata. Quando poi mi decisi a un passo che meditavo già da un pezzo, quando accompagnai Sonne nell'atelier - a lui interessava conoscere la figlia di Gustav Mahler -, quando le presentai il meglio che ci fosse per me al mondo, il più delicato di tutti gli esseri umani, e lo feci col rispetto che dovevo a lui e che non nascosi nemmeno davanti a lei, allora Anna reagì con la generosità che era la sua dote più bella, lo accolse per quello che era, lo ammirò - nonostante l'aspetto ascetico di Sonne -, lo ascoltò con la stessa attenzione con cui ascoltava me, ma con quel tanto di solennità che io mi aspettavo per lui, e lo pregò di ritornare. La volta successiva, quando la rividi a tu per tu, Anna mi fece l'elogio di Sonne, lo giudicò uno degli uomini più interessanti che avesse mai visto, e poi mi domandò più volte quando sarebbe ritornato. Da parte sua Sonne mi aveva detto cose molto intelligenti sulle teste di Anna, e io le riferii a lei. Anche nelle grandi statue Sonne riconosceva una nostalgia romantica ancora incontaminata. Riteneva che il senso del tragico fosse ancora negato ad Anna, la quale, secondo Sonne, non aveva proprio niente in comune con Wotruba, perché la sensibilità musicale, così forte in lei, era del tutto assente in lui. In verità quelle statue si ricollegavano alla musica di Gustav Mahler, a molte sue composizioni, ma erano frutto della volontà di Anna più che della sua ispirazione. Non si poteva dire che cosa ne sarebbe venuto fuori in avvenire, ma una qualche rottura nella sua vita avrebbe forse avuto conseguenze molto benefiche. Sonne diceva tutto questo con simpatia: sapeva quel che lei significava per me, e per nulla al mondo avrebbe voluto ferirmi, ma dal modo in cui rinviava al futuro le fortune artistiche di Anna intuii che per il momento non trovava una grande originalità nel suo lavoro. Per le teste, invece, il giudizio era positivo. Gli piaceva soprattutto quella di Alban Berg, mentre quella di Werfel gli sembrava "gonfiata", come i suoi romanzi sentimentali, che Sonne detestava. Anna era stata contagiata da Werfel, disse Sonne, e in quella scultura aveva accentuato tutto ciò che vi era di vacuo ed enfatico in lui, a tal segno che molti, pur conoscendo quella bruttissima testa al naturale, avrebbero ritenuto Werfel un uomo importante vedendone il ritratto. Anna ascoltò Sonne proprio come lo ascoltavo io. Non lo interruppe mai, non fece domande, e non si stancava di ascoltarlo. Poiché era solo in visita, Sonne non si trattenne più di un'ora. Fu molto gentile, e trovandosi lì in mezzo alle pietre, alla polvere e agli scalpelli, ne dedusse che Anna volesse riprendere il lavoro. Non c'era bisogno per lui di guardare le statue per capire la determinazione che lei metteva nella scultura: bastavano gli attrezzi dell'atelier; e lo aveva molto colpito la parte inferiore del viso di Anna, la parte volitiva, che trovò somigliante a quella di Gustav Mahler. Era l'unico tratto in comune tra la figlia e il padre, poiché per il resto, occhi, fronte e naso, non esisteva la minima somiglianza. Anna non era mai così bella come quando ascoltava, alla sua maniera, immobile, gli occhi spalancati, talmente commossa e assorta che nulla poteva distrarla: una bambina, per la quale diventavano favole anche i discorsi seri, a volte aridi, purché fossero completi. Era così anche quando io le raccontavo qualcosa; e adesso era lui a parlare, l'uomo le cui parole contavano per me come quelle della Bibbia che mi recitava e mi commentava. Ora ascoltavo le cose totalmente diverse che Sonne diceva per lei, e potevo osservare Anna senza imbarazzo, tutta intenta a quelle parole. Avevo la sensazione che lì, in quel momento, Anna non fosse più nel mondo di sua madre, ma al di là di ogni considerazione di successo e di tornaconto. Io sapevo che Anna, nella sua essenza, era più delicata e più nobile della madre, né avida né ipocrita, ma che i giochi di potere di quella granitica vecchia la gettavano continuamente in situazioni che con lei non avevano nulla a che fare, che non le interessavano minimamente e in cui doveva agire secondo le istruzioni, come una marionetta appesa a fili perversi. Solo nell'atelier Anna era libera da tutto ciò, e forse era tanto attaccata al lavoro perché quella era l'ultima cosa a cui sua madre l'avrebbe spinta, dal momento che il profitto, commisurato alla fatica, era zero. A me sembrava però che Anna non si sentisse del tutto libera quando andavo a trovarla, e infatti, sebbene desiderasse le mie visite, tutto dipendeva poi da uno sforzo incessante, dalla mia inventiva; e io ne ero talmente consapevole che non mi sarei arrogato il diritto di rimanere da lei se non mi fosse venuta qualche idea appropriata. Anna mi parve veramente libera, come non l'avevo mai vista, il giorno in cui accompagnai da lei il dottor Sonne. Allora, senza esitazioni né pose, si abbandonò a una lezione di cui sentiva tutta la profondità e la purezza, una lezione che non le fruttava nulla, che non poteva utilizzare, che anche alla corte di sua madre non avrebbe fatto impressione a nessuno, dal momento che il nome di Sonne là non significava nulla; anzi, poiché Sonne non voleva avere un nome e perciò non lo aveva, non vi sarebbe stato nemmeno invitato. Dopo un'ora, quando Sonne si alzò per andarsene, io rimasi. Sicuramente egli pensò che volessi restare ancora. Ma era solo il pudore a trattenermi. Mi sembrava indelicato uscire in sua compagnia. L'avevo condotto all'atelier quasi facendo da scorta, da guida all'essere eccezionale che egli era. Adesso conosceva la strada e desiderava ritirarsi. Nessuno doveva disturbarlo. Anche quando se ne andava, restava immerso nei suoi pensieri e continuava, solo con se stesso, la conversazione che aveva iniziato. Lo avrei accompagnato se ne avesse espresso il desiderio, ma lui, a sua volta, era troppo riguardoso per esprimerlo. Riteneva che godessi del suo favore perché andavo molto spesso da lei. Ma questo era tutto ciò che sapeva. Non avrei mai pensato di dirgli di più su una faccenda così privata. Forse immaginava quanto io fossi stato ferito; ma non credo, perché non tentò mai di consolarmi nella sua maniera inimitabile, ossia descrivendo una situazione in apparenza diversissima che sarebbe stata soltanto una trasposizione della mia. Rimasi dunque con Anna, e quando il giorno dopo rividi Sonne al Café Museum egli non accennò in nessun modo a quella visita. Del resto non mi ero trattenuto a lungo all'atelier, ma solo il tempo necessario perché Sonne si allontanasse abbastanza, e avevo poi trovato un pretesto per congedarmi da Anna. Tra lei e me non ci fu nessuna discussione su Sonne. Egli rimase intangibile. Parte terza - Il caso Musil Musil - senza che la cosa desse molto nell'occhio - era sempre in armi, pronto alla difesa e all'attacco. Il suo atteggiamento era la sua sicurezza. Si sarebbe potuto pensare a una corazza, ma era piuttosto un guscio. Ciò che frapponeva tra sé e il mondo come una netta separazione non se l'era messo addosso, era cresciuto con lui. Non si permetteva interiezioni. Evitava le parole sentimentali, ogni frase di cortesia gli riusciva sospetta. Fra tutte le cose tracciava confini, come intorno a se stesso. Diffidava delle mescolanze e delle fratellanze, delle effusioni e delle esagerazioni. Era un uomo allo stato solido e si teneva alla larga dai liquidi e dai gas. Aveva grande familiarità con la fisica, non solo l'aveva studiata a fondo, gli era penetrata nello spirito fino a diventare sangue del suo sangue. Probabilmente non c'è mai stato uno scrittore che fosse in tale misura un fisico, rimanendolo anche nel corso dell'opera di tutta la sua vita. Alle conversazioni approssimative non prendeva parte, e se si trovava in mezzo ai soliti chiacchieroni, ai quali a Vienna era impossibile sfuggire, si ritraeva nel suo guscio e restava muto. Tra gli scienziati si sentiva nel proprio elemento e ritrovava la naturalezza. Presupponeva allora che si partisse da qualcosa di preciso e si procedesse verso qualcosa di preciso. Per le vie tortuose provava disprezzo e odio. Ma non mirava assolutamente al semplice: un istinto infallibile gli rivelava l'inadeguatezza del semplice, ed era capace di demolirlo facendone un minuzioso ritratto. Il suo spirito era attrezzato troppo riccamente, era troppo attivo e acuto per appagarsi del semplice. Non si sentiva mai inferiore, in nessun ambiente; e per quanto di rado, in mezzo alla gente, si prefiggesse di farsi avanti e di scendere in battaglia, coglieva ogni buona occasione come se fosse venuto il momento di una sfida. La battaglia venne più tardi, anni più tardi, quando si trovò solo. Non dimenticava niente. Qualsiasi confronto sostenuto se lo teneva impresso nella memoria, in ognuno dei suoi dettagli, e poiché un intimo impulso della sua natura lo obbligava a volerli vincere tutti, già per questo era impossibile il compimento di un'opera che tutti doveva comprenderli. Si sottraeva ai contatti indesiderati. Voleva rimanere padrone del proprio corpo. Credo che non desse volentieri la mano. Per lui sarebbe andato benissimo l'uso inglese di evitare la stretta di mano. Teneva agile e vigoroso il proprio corpo e ne disponeva in ogni particolare. Ne faceva anche oggetto di riflessioni, assai più di quanto usassero gli intellettuali del suo tempo. Sport e igiene erano per lui una cosa sola, i loro precetti scandivano la sua giornata, regolavano la sua vita. In ognuno dei personaggi che ideava immetteva un uomo sano, se stesso. Per lui le più grandi stravaganze prendevano risalto sullo sfondo di qualcosa che era cosciente della propria salute fisica e della propria vitalità. Aveva un'intelligenza prodigiosa, poiché vedeva esattamente e sapeva pensare ancor più esattamente: perciò non si smarriva mai in un personaggio. Conosceva la strada per uscirne, ma non lo faceva subito, preferiva rinviare, perché si sentiva così sicuro di sé. Non si sminuisce il suo valore mettendo in rilievo l'elemento agonistico che era in lui. Di fronte agli uomini assumeva una posizione di combattimento. In guerra non si sentì fuori posto, nella guerra vedeva un modo di mettersi alla prova. Fu ufficiale e si sforzò di rimediare con la sollecitudine per i suoi uomini a ciò che lo opprimeva come una brutale degradazione della vita. Verso la sopravvivenza aveva un atteggiamento naturale o diciamo tradizionale, e non se ne vergognava. Al posto della guerra, quando la guerra finì, subentrò la competizione: in questo era come un greco antico. Un uomo che gli aveva messo il braccio intorno alla vita, come faceva con tutti quelli che così voleva ammansire o farsi amici, diventò il più durevole dei suoi personaggi. Questo non lo salvò dal morire assassinato. L'indesiderato contatto del braccio lo tenne in vita per altri vent'anni. (1) Ascoltare i discorsi di Musil era un'esperienza tutta particolare. Non aveva nulla di manierato. Era troppo se stesso per far pensare a un attore. Non ho mai saputo di nessuno che l'abbia sorpreso a recitare una parte. Parlava piuttosto in fretta, ma senza mai essere precipitoso. Dai suoi discorsi non si notava che molti pensieri gli si affollavano alla mente insieme: prima di esporli li scomponeva a uno a uno. In tutto ciò che diceva regnava un ordine che incantava. Non nascondeva il suo disprezzo per l'ebbrezza dell'ispirazione, di cui si riempivano la bocca soprattutto gli espressionisti. Per lui l'ispirazione era troppo preziosa per farne uno strumento di esibizione. Niente gli ripugnava quanto la werfeliana bava alla bocca. Musil era pieno di pudore e non metteva in mostra l'ispirazione. Le faceva posto all'improvviso, in immagini inattese, stupefacenti, ma poi tornava subito a circoscriverla con la linearità delle sue frasi. Era nemico delle alluvioni verbali, e quando si esponeva alla prolissità di un altro - il che era già motivo di stupore - lo faceva per gettarsi risolutamente a nuoto in quella fiumana, per attraversarla e dimostrare a se stesso che dall'altra parte, anche con le acque più torbide, c'era sempre una sponda. Si sentiva a suo agio quando c'era qualche ostacolo da superare, ma non lasciava mai trapelare nulla della sua decisione di impegnare combattimento. Di colpo era, con sicurezza, in mezzo alla materia, e non ci si accorgeva che ci fosse un combattimento, si era affascinati dalla cosa in sé, e benché il vincitore fosse lì davanti, agile ma irremovibile, non si pensava più al suo trionfo perché la cosa in sé era diventata troppo importante. Ma questo era solo un aspetto del comportamento pubblico di Musil. Quella sicurezza andava infatti di pari passo con una sensibilità di cui non ho mai conosciuto l'uguale. Per uscire da se stesso doveva trovarsi in un gruppo di persone in cui la sua statura fosse riconosciuta. Musil non "funzionava" dappertutto, aveva bisogno di determinati elementi rituali. C'erano persone dalle quali poteva proteggersi solo tacendo. Colpiva subito il fatto che aveva in sé qualcosa di una tartaruga, e molti conoscevano di lui soltanto il guscio. Se un certo ambiente non gli andava a genio, non diceva una parola. Poteva entrare in un locale e uscirne più tardi senza essersi fatto riconoscere con una sola frase. Non credo che questo gli riuscisse agevole, e sebbene il viso non lasciasse trasparire la minima reazione, per tutta la durata di quel silenzio si sentiva offeso. Aveva ragione di non riconoscere la superiorità di nessuno: tra quelli che passavano per scrittori, a Vienna non c'era nessuno che gli stesse alla pari, e forse neppure in tutta l'area di lingua tedesca. Conosceva il proprio valore, e almeno su questo punto decisivo non fu mai sfiorato da dubbi, né allora né poi. I pochi che ne erano convinti, per lui non ne erano abbastanza convinti: costoro infatti, per sostenere più efficacemente la causa di Musil, usavano affiancare al suo il nome di questo o quello scrittore. Durante gli ultimi quattro o cinque anni dell'indipendenza austriaca, quando Musil era ritornato da Berlino a Vienna, si sentiva parlare di una triade di nomi che venivano portati sugli scudi dall'avanguardia: Musil, Joyce e Broch, oppure Joyce, Musil e Broch; e se oggi, dopo cinquant'anni, si riflette un poco su quello che così veniva messo insieme, appare molto comprensibile che a Musil non piacesse quella singolare trinità. All'Ulisse, pubblicato allora in tedesco, egli opponeva un rifiuto categorico. Gli ripugnava profondamente l'atomizzazione del linguaggio, e se mai si pronunciava in proposito, cosa che faceva con riluttanza, la definiva "antiquata", poiché secondo lui si rifaceva a una psicologia associazionistica ormai superata. Negli anni di Berlino aveva frequentato i fondatori della psicologia della forma, una scuola che apprezzava molto e alla quale probabilmente si riallacciava con la sua opera principale. Il nome di Joyce lo infastidiva, quello che Joyce aveva intrapreso non aveva niente a che fare con lui. Quando io gli parlai del mio "incontro" con Joyce, avvenuto a Zurigo all'inizio del 1935, diede segni di insofferenza. "E lei ne ha una buona opinione?" domandò; e potei dirmi fortunato se sviò il discorso da Joyce e non mi piantò in asso. Ma quello che proprio gli riusciva insopportabile, in letteratura, era il nome di Broch. Musil lo conosceva già da molti anni: come industriale, come mecenate, come maturo studente di matematica. Come scrittore non riusciva a prenderlo sul serio. Nella trilogia di Broch vedeva una copia della propria opera, di un'impresa che lo teneva occupato ormai da decenni; e il fatto che Broch l'avesse portata a termine così presto, subito dopo averla cominciata, gli ispirava la diffidenza più profonda. Su questo punto non faceva complimenti, e da Musil non mi è mai accaduto di udire una parola buona sul conto di Broch. Non posso ricordare i commenti che Musil fece di volta in volta su Broch, forse perché mi trovavo nella difficile situazione di stimarli moltissimo tutt'e due. Una tensione tra loro o addirittura una battaglia mi sarebbe riuscita intollerabile. Appartenevano entrambi, su questo per me non c'era dubbio, a un minuscolo gruppo di persone che s'impegnavano a fondo nella letteratura, che non scrivevano per la popolarità e per il successo nel senso più volgare. Per me, allora, questo era forse anche più importante della loro stessa opera. Doveva essere ben strano ciò che Musil provava quando sentiva parlare di quella trinità letteraria. Come poteva credere che qualcuno avesse capito il significato della sua opera se nello stesso istante pronunciava il nome di Joyce, che per lui incarnava tutto il contrario dei suoi intendimenti? Così, se Musil non esisteva per i lettori della letteratura corrente di quegli anni, da Zweig a Werfel, anche quelli che lo portavano sugli scudi lo mettevano in una compagnia che lui non poteva accettare. Quando gli amici gli raccontavano di qualcuno che apprezzava incondizionatamente L'uomo senza qualità e sarebbe stato felice di conoscerne l'autore, la sua prima domanda era: "Chi altri apprezza?". Spesso la sua ipersensibilità è stata ritorta contro di lui. Io vorrei difenderla, per intima convinzione, benché ne sia stato vittima io stesso. Musil si trovava nel bel mezzo della grande impresa che voleva portare a termine. Non poteva immaginare che essa era destinata a non aver fine, in un doppio senso: il suo destino infatti era non solo l'immortalità, ma anche l'incompletabilità. Nella letteratura tedesca non c'era un'impresa paragonabile. La rifondazione dell'Austria attraverso un romanzo, chi avrebbe osato tentarla? La conoscenza di quell'impero, non attraverso i suoi popoli ma partendo dal suo centro, chi avrebbe potuto attribuirsela? E quante altre cose ancora contiene quest'opera, tante che non vorrei neppure cominciare a parlarne. Ma la consapevolezza che lui, Musil, era quell'impero tramontato, lui come nessun altro, lui solo, gli conferiva un diritto tutto particolare a quella sua ipersensibilità, un diritto sul quale evidentemente nessuno ha ancora riflettuto. Quella materia incomparabile che lui era, doveva forse lasciarsi tirare impunemente di qua e di là? Bisognava lasciare che le versassero dentro qualunque cosa e permettere così che s'intorbidasse e si contaminasse? La suscettibilità per la propria persona, che appare ridicola quando si tratta di Malvolio, non è affatto ridicola quando riguarda un mondo peculiare, estremamente complesso, altamente evoluto e ricco, un mondo che un uomo porta in sé e può salvaguardare solo con la ipersensibilità prima di riuscire a manifestarlo. Quella di Musil non era altro che una salvaguardia contro l'intorbidamento e l'inquinamento. La chiarezza e la trasparenza della scrittura non è una qualità automatica che, una volta acquisita, rimane e resiste: dev'essere acquisita sempre di nuovo e senza sosta. Bisogna avere la forza di dire a se stessi: io voglio così, solo così; e perché sia così, io devo essere proprio colui che non lascia penetrare in sé nulla che possa nuocere al suo intento. La tensione tra l'enorme ricchezza di un mondo già concepito e tutto ciò che ancora potrebbe investirlo ma dev'essere respinto, è mostruosa. La decisione su ciò che dev'essere respinto può prenderla soltanto colui che porta in sé quel mondo; e i giudizi che su questo atteggiamento possono poi dare gli altri, e specialmente coloro che non portano in sé alcun mondo, sono giudizi presuntuosi e meschini. C'è una sensibilità agli alimenti sbagliati, ma va detto che anche un nome deve continuamente alimentarsi per poter governare a dovere l'impresa di colui che lo porta. Un nome che è nella fase della crescita ha una sua propria alimentazione che lui solo può conoscere, che lui stesso decide. Fintanto che un'opera di una tale ricchezza è in via di sviluppo, il nome ipersensibile è il migliore. In seguito, quando è morto colui che si è difeso con la propria suscettibilità e ha compiuto la propria opera, quando il nome è finito sui banchi di tutti i mercati, brutto e gonfio come un pesce che puzza, allora possono farsi avanti gli annusatori e sputare su tutto le loro sentenze, inventando a posteriori le regole di un corretto comportamento e irridendo quella suscettibilità come un'ipertrofica vanità - l'opera è lì, essi non possono più annullarla, e saranno loro a squagliarsi al sole insieme alla loro impudenza, saranno loro a colar via senza lasciare traccia. Non erano pochi quelli che ridevano di lui per la sua sprovvedutezza nelle cose materiali. Broch, un uomo che conosceva benissimo il valore di Musil, che non era incline alla malignità e certamente era pieno di compassione per gli esseri umani, mi disse, quando per la prima volta portai il discorso su Musil: "E" un re nell'impero della carta". Voleva dire che Musil regnava su uomini e cose solo al suo scrittoio, in mezzo alla carta, mentre poi, nella vita, era irrimediabilmente alla mercé delle circostanze e delle cose, inerme e inetto, obbligato a dipendere dall'aiuto degli altri. Era noto che Musil non sapeva maneggiare il denaro, anzi cercava di non prenderlo nemmeno in mano, tanta era la sua avversione. Preferiva non andare solo da nessuna parte, c'era quasi sempre sua moglie, che provvedeva per lui a prendere i biglietti del tram e a pagare il conto al caffè. Non portava denaro addosso, io non gli ho mai visto in mano una moneta o una banconota. Si sarebbe potuto credere che il denaro fosse incompatibile con la sua concezione dell'igiene. Si rifiutava di pensare al denaro, che lo annoiava e lo infastidiva. Era dunque perfettamente naturale che sua moglie gli scacciasse di torno il denaro come si fa con le mosche. Quando l'inflazione gli fece perdere tutto quello che possedeva, si trovò in una situazione molto critica. La durata dell'impresa a cui si era votato era in stridente contrasto con la scarsezza dei mezzi che dovevano sostenerla. Quando era ritornato a Vienna, i suoi amici avevano fondato una "Società Musil" i cui membri si impegnavano a versare un contributo mensile per consentirgli di lavorare all'Uomo senza qualità. Musil conosceva la lista dei soci e si faceva ragguagliare sulla puntualità dei loro versamenti. Non credo che si sentisse mortificato dall'esistenza di quella società. Pensava giustamente che i soci si rendessero conto del valore dell'impresa. Per loro era un onore poter contribuire a quell'opera. Sarebbe stato ancora meglio se un numero maggiore di sottoscrittori si fosse fatto avanti. Io avevo sempre il sospetto che ai suoi occhi quella "Società Musil" fosse una sorta di ordine cavalleresco. Esservi ammessi era un privilegio, e mi domandavo se lui ne avrebbe escluso gli individui immeritevoli. Occorreva un supremo disprezzo del denaro per continuare a lavorare, in simili condizioni, a un'opera come L'uomo senza qualità. Quando l'Austria fu occupata da Hitler, tutto finì, poiché i membri della società erano in maggioranza ebrei. Nei suoi ultimi anni, quando viveva in Svizzera nella più assoluta indigenza, Musil ha scontato in modo terribile il suo disprezzo per il denaro. Per quanto sia penoso pensare al grado di umiliazione in cui era ridotto, tuttavia non vorrei immaginarmi Musil in condizioni diverse. Il suo sovrano disprezzo per il denaro, che non era affatto legato a qualche inclinazione per una vita ascetica, la mancanza di qualunque vocazione al profitto - si esita a chiamarla "vocazione", tanto è diffusa e comune - sono tratti che appartengono all'essenza intima del suo spirito. Musil non ne faceva uno scandalo, non protestava assumendo pose da ribelle, non ne parlava: il suo imperturbabile orgoglio lo induceva a non dar conto a se stesso della propria situazione, benché la conoscesse esattamente e non trascurasse ciò che essa significava per gli altri. Broch era membro della "Società Musil" e versava regolarmente il suo contributo mensile. Non lo diceva, io ne ebbi notizia da altri. Come scrittore doveva soffrire per l'aspro giudizio negativo di Musil, che in una lettera lo accusava espressamente di aver copiato nella trilogia dei Sonnambuli lo schema dell'Uomo senza qualità. Se poi, parlando con me, definì Musil "un re nell'impero della carta", credo che si possa perdonarlo. Per me questa ironica definizione non ha valore. Anche a tanti anni di distanza dalla morte di Musil e di Broch, io vorrei respingerla. Broch, che già aveva dovuto soffrire non poco sotto il peso dell'eredità mercantile di suo padre, è morto in esilio, in condizioni di miseria paragonabili a quelle di Musil. Non voleva essere un re, e non lo fu in nessun regno. Musil fu un re nell'Uomo senza qualità. NOTE: (1) Nell'Uomo senza qualità il personaggio di Paul Arnheim, cui è affidata la direzione dell'Azione Parallela, riprende molti tratti di Walther Rathenau, che Musil aveva conosciuto a Berlino nel gennaio 1914 e che fu assassinato nel giugno 1922, quando era ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar. Rathenau restò in vita "per altri vent'anni" perché Musil continuò a lavorare al suo romanzo fino alla morte, nel 1942 ?N" d'T"*. Joyce senza specchio L'anno 1935 cominciò per me tra ghiaccio e granito. A Comologno, lassù nella meravigliosa cornice della Val Onsernone coperta di ghiaccio, feci per alcune settimane il tentativo di collaborare con Wladimir Vogel a una nuova opera lirica. Forse era stato assurdo intraprendere un simile tentativo, perché proprio non mi andava l'idea di sottostare a un compositore, di adattarmi alle sue esigenze. Mi ero immaginato che si trattasse, come diceva Vogel, di un'opera di nuovo genere, nella quale compositore e poeta avessero uguali diritti. Ma si vide che quella parità non era assolutamente possibile: io leggevo a Vogel ciò che avevo scritto, lui ascoltava con tranquillo distacco, ma poi mi sentivo umiliato dal sussiego con cui esprimeva la sua approvazione, annuendo col capo e pronunciando una sola parola: "Bene", con annesso incoraggiamento: "Vada avanti così!". Se avessimo litigato, per me sarebbe stato tutto più facile. La sua approvazione e più ancora il suo incoraggiamento mi fecero passare la voglia di continuare. Ho conservato alcuni abbozzi di quel lavoro: non poteva venirne fuori niente di buono. Al momento di lasciare Comologno mi sentii ripetere un'ultima volta un "Vada avanti così!" e mi resi conto che Vogel non avrebbe più avuto mie notizie. Mi vergognavo di dirglielo: se la voglia mi era passata, quale motivo avrei potuto addurre? Era una di quelle inesplicabili situazioni che ho conosciuto più e più volte nella mia vita: mi sentivo ferito nel mio orgoglio senza che il "colpevole" potesse immaginare che cos'era successo, perché lui non aveva fatto niente, proprio niente. Forse - quasi inavvertitamente - mi aveva fatto sentire che si metteva al di sopra di me. E io potevo sottostare soltanto per mia libera scelta. Dovevo essere io a decidere chi mettevo sopra di me. I miei dèi me li trovavo io, io decidevo chi erano; e se qualcuno, di testa sua, riteneva di poter essere uno di quegli dèi, magari con pieno diritto, io dovevo scomparire dalla sua vita, io sentivo in lui una minaccia. Le settimane di Comologno non rimasero tuttavia senza conseguenze. Una domenica d'inverno, all'aperto, lessi ai miei padroni di casa e a Vogel la Commedia della vanità, e trovai ascoltatori più attenti di quelli che avevo avuto dagli Zsolnay. Il padrone di casa e sua moglie presero da allora a ben volermi e mi proposero di tenere una lettura a Zurigo, nella loro casa della Stadelhoferstrasse, durante il viaggio di ritorno da Comologno. Avevano una bella sala in cui usavano invitare alle loro serate il mondo intellettuale zurighese. Così, ancora in gennaio, ebbe luogo la prima lettura importante di una parte della Commedia della vanità, davanti ad ascoltatori veramente illustri. C'era anche James Joyce, di cui feci la conoscenza in quell'occasione. Lessi la prima parte della commedia, in purissimo dialetto viennese, senza un'introduzione esplicativa, in una sala affollata, e non pensai che la maggior parte dei presenti non poteva capire il dialetto viennese, da me adottato con tanta convinzione e con tutte le logiche variazioni. Ero così soddisfatto del rigore e della coerenza dei miei personaggi viennesi che proprio non avvertii l'umore del pubblico, che era piuttosto sfavorevole. Nell'intervallo fui presentato a Joyce, il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: "Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!". Lo disse mettendo l'accento sulle parole "senza specchio"; ed era certo un'impresa temeraria se si considera che aveva la vista debolissima, anzi era ormai quasi cieco. Rimasi costernato da una reazione così ostile, quasi che io lo avessi attaccato personalmente. Pensai che l'idea del divieto contro gli specchi, l'idea centrale della commedia, lo avesse irritato perché i suoi occhi erano così mal ridotti. Per un'ora aveva dovuto sorbirsi quel dialetto viennese che lui, nonostante il suo virtuosismo linguistico, non poteva capire. Solo una scena era scritta in tedesco corrente, e Joyce vi aveva colto la battuta sulla rasatura davanti agli specchi. Ad essa si riferiva col suo penoso commento. L'irritazione per non essere stato in grado di seguire la lingua della commedia - lui, l'uomo di cui si diceva che padroneggiasse innumerevoli lingue! - si era appuntata sul fenomeno di guardarsi allo specchio, messo sotto accusa proprio nell'unica scena di cui aveva afferrato il senso. Quell'accusa, che in apparenza aveva una giustificazione morale, Joyce l'aveva riferita a se stesso. Perciò aveva reagito dichiarando che lui, pur facendosi la barba col rasoio, non aveva bisogno di specchi: non c'era pericolo che si tagliasse il collo. Questa dichiarazione, tipica della vanità maschile, sembrava tolta di peso dalla mia commedia. Ero imbarazzato per la sventatezza con cui avevo fatto subire quel testo a Joyce. Era il testo che io volevo leggere, ma invece di mettere sull'avviso i padroni di casa, mi ero molto compiaciuto che Joyce avesse accettato l'invito; e troppo tardi mi accorgevo del guaio che avevo combinato con i miei specchi. Col suo motto "senza specchio" Joyce era sceso in campo per difendersi, e adesso, con mia profonda costernazione, mi vergognavo anche per lui, per quanto vi era di incontrollato nella sua sensibilità che lo diminuiva ai miei occhi. Lasciò la sala quasi subito, forse credendo che la storia degli specchi dovesse continuare anche dopo l'intervallo; e tuttavia il fatto che egli fosse venuto ad ascoltarmi fu considerato un punto a mio favore, un privilegio. Quanto a quel commento tagliente, c'era da aspettarselo da un uomo come lui. Fui presentato ad altri nomi illustri, ma l'intervallo non era lungo e io non avevo la nozione del tempo. Mi sembrava che gli ascoltatori fossero incuriositi, forse lo erano davvero, io avvertivo la loro perplessità e facevo assegnamento sulla seconda parte della lettura. Avevo scelto "Il buon padre", un capitolo del romanzo che di lì a poco si sarebbe intitolato Die Blendung. A Vienna l'avevo già letto spesso, in privato e in pubblico, e ormai lo consideravo un cavallo di battaglia, quasi fosse la parte essenziale di un libro molto letto e universalmente noto. Ma per il pubblico quel libro non esisteva ancora, e se a Vienna era almeno diventato un tema di conversazione, a Zurigo gli ascoltatori se lo sentivano arrivare addosso come qualcosa di totalmente sconosciuto. Non avevo ancora finito di pronunciare l'ultima frase quando Max Pulver, (1) l'unico che si fosse presentato in smoking, saltò in piedi, dritto come un fuso, e gridò allegramente a tutta la sala: "Sadismo di sera, bel tempo si spera!". Il maleficio era rotto, e tutti poterono dare libero sfogo al loro dissenso. La serata si protrasse ancora per un bel po', io feci più o meno la conoscenza di tutti i presenti, e ciascuno mi disse a modo suo la propria irritazione, specialmente per la seconda parte della lettura. I più cortesi mi trattarono con l'indulgenza dovuta a un giovane scrittore non privo di talento che ha solo bisogno di essere guidato sulla retta via. Fu questo, per esempio, l'atteggiamento di Wolfgang Pauli, (2) il fisico, per il quale avevo il massimo rispetto. Con benevolenza egli mi tenne una piccola lezione, prima dicendo che avevo idee aberranti e poi raccomandandomi con una certa insistenza di dargli ascolto, visto che lui mi aveva ascoltato per tutta la sera. In verità io non lo ascoltavo, e quindi non saprei neanche adesso riferire le sue parole, ma i miei orecchi si erano chiusi per un motivo che lui non avrebbe mai indovinato: il suo aspetto mi ricordava Franz Werfel, solo il suo aspetto naturalmente, e questo particolare non poteva non preoccuparmi dopo le esperienze fatte con Werfel esattamente un anno prima. Pauli aveva però un modo di parlare del tutto diverso, non era ostile, anzi mi dimostrava simpatia: credo - ma qui potrei anche sbagliare - che la retta via sulla quale voleva guidarmi fosse quella junghiana. Dopo la sua ammonizione riuscii a dominarmi così bene che stetti ad ascoltarlo - con apparente attenzione - fino in fondo. Lo ringraziai addirittura per le sue interessanti considerazioni, e ci lasciammo in perfetta armonia. Bernard von Brentano, (4) e Hitler era al potere da due anni. L'ingenuità della mia domanda era pari all'orgoglio puerile con cui Pulver dava quelle notizie. Mi rispose senza cambiare tono, più con gentilezza che con iattanza, quasi alla maniera viennese (era vissuto a Vienna per un certo periodo), e con l'aria di chiedere scusa: "Molto interessanti, davvero. Glielo direi volentieri, ma sono tenuto al riserbo più rigoroso. E" come il segreto professionale dei medici". Intorno a Max Pulver, intanto, tutti avevano drizzato le orecchie nell'udire quei nomi pericolosi. La padrona di casa, che era già informata, si avvicinò e disse severamente, indicando Pulver: "Pur di parlare è capace di giocarsi la testa". Ma Pulver fece osservare che era capacissimo di tacere, altrimenti non gli avrebbero mandato quei campioni: "Da me nessuno saprà niente". Oggi sarei disposto a pagare anche più di allora pur di sapere qualcosa sul contenuto delle sue analisi. Nella lista degli invitati figuravano anche C" G" Jung e Thomas Mann, che non si erano fatti vedere. Mi domandai se Pulver si fosse vantato anche con Thomas Mann dei saggi di scrittura che la Gestapo gli aveva affidato. Sembrava che la presenza di esuli dalla Germania non lo turbasse. E ce n'erano molti nella sala: uno era Bernard von Brentano, un altro Kurt Hirschfeld dello Schauspielhaus. Avevo addir ittura l'impressione che la loro presenza stuzzicasse Pulver a fare le sue "rivelazioni", e mi sentivo tentato di restituirgli l'accusa di sadismo, ma ero troppo timido per farlo, e anche troppo poco conosciuto. Ma la vera regina della serata fu proprio la padrona di casa. Si sapeva della sua amicizia con Joyce e con Jung. Non c'era celebrità, scrittore, pittore o compositore, che non frequentasse la sua casa. Era una donna intelligente, con lei si poteva parlare, aveva la mente aperta a ciò che quei personaggi le dicevano, sapeva discutere con loro senza arroganza. S'intendeva di sogni, e questo la legava a Jung, ma si diceva che perfino Joyce le raccontasse i propri sogni. Nella casa che si era fatta sopra Comologno offriva rifugio a non pochi artisti che potevano andarvi a lavorare. Da vera signora si occupava di cose che non andavano solo a sua gloria. La paragonavo tra me a quel personaggio di Vienna che faceva il bello e il cattivo tempo nella maniera più ottusa e dominava la scena senza alcun discernimento, con le sue pretese, con l'avidità e con l'alcool. La signora di Vienna la conoscevo meglio, da più anni, ed è incredibile quello che viene fuori da una più lunga conoscenza delle persone, ma credo che il confronto si risolva molto giustamente a favore della signora di Zurigo; e vorrei, se fosse ancora viva, che sapesse della mia buona opinione. Fu nella sua casa che ritrovai la fiducia in me, tra gli invitati di quella sera, tra le persone che mi ascoltarono e mi condannarono, e forse mi condannarono perché mi avevano capito solo a metà. Appena pochi giorni prima mi ero vergognato per il mio tentativo di rendermi utile a un compositore come suo subalterno, e anche se si trattava di un compositore che stimavo, avevo motivo di dubitare che mi considerasse un suo pari. Nella casa di quella signora a Comologno mi era sembrato di subire un'umiliazione, senza che nessuno ne fosse veramente colpevole. Adesso la stessa signora, nella sua casa di Zurigo, mi dava l'occasione di mettere alla prova la mia ultima opera, alla quale ero legato con tutte le mie fibre, davanti a un pubblico in cui non mancavano persone che ammiravo; e mi dava l'occasione di subire quella sconfitta che era soltanto mia e alla quale potevo contrapporre, intatte, la mia forza e la mia convinzione. NOTE: (1) Max Pulver (1889-1952), scrittore svizzero, è ricordato specialmente per un trattato di grafologia, pubblicato nel 1931, in cui seguiva i metodi del tedesco Ludwig Klages ma interpretava la scrittura nei suoi significati simbolici, applicando la teoria psicoanalitica ?N" d'T"*. (2) Nato a Vienna nel 1900, ebbe la cattedra di fisica teorica a Zurigo nel 1928 e a Princeton nel 1940. Nel #"de ottenne il Nobel per la scoperta del principio di esclusione o "principio di Pauli". Morì a Zurigo nel 1958 ?N" d'T"*. (4) L'eccidio del 30 giugno 1934, noto anche come "la notte dei lunghi coltelli": Hitler eliminò Ernst Röhm e i suoi collaboratori delle SturmAbteilungen prendendo a pretesto la minaccia di un Putsch contro il regime ?N" d'T"*. Il benefattore Jean Hoepffner era il direttore delle "Strassburger Neueste Nachrichten", il gi ornale più letto dell'Alsazia, che usciva ogni giorno in due lingue, tedesco e francese, e si distingueva per il suo senso dell'equilibrio e della misura. Il giornale pubblicava con scrupolo le informazioni che servivano all'Alsazia e non si spingeva molto oltre gli interessi regionali se non era proprio necessario per i temi economici di carattere più generale. A Strasburgo non conoscevo nessuno che non comprasse il giornale di Hoepffner, la sua tiratura era di gran lunga la più alta, lo si vedeva esposto dappertutto. Non era un giornale che eccitasse gli animi, la parte culturale non aveva nulla che la distinguesse particolarmente, chi s'interessava a cose del genere si rivolgeva alla grande stampa parigina. La tipografia e gli uffici del giornale si trovavano in un sobrio edificio della Blauwolkenstrasse, o Rue de la Nuée Bleue, verso il cortile, ma anche in ogni stanza del palazzo si udiva il rumore delle macchine tipografiche. Jean Hoepffner non abitava nello stabile, ma al secondo piano aveva un appartamentino di due stanze che metteva a disposizione degli amici venuti da fuori. L'appartamento era stipato di vecchi mobili che lui stesso aveva scovato dai rigattieri nel corso degli anni. La sua più grande passione era quella di frugare nelle botteghe dei rigattieri, ed era felice quando credeva di avere scoperto qualche pezzo che poi finiva tra le altre anticaglie della piccola foresteria. Era come se Hoepffner avesse sistemato lassù, in quelle due stanze, una sua personale bottega di rigattiere in cui non si vendeva niente e che, secondo lui, riuniva i pezzi migliori. L'onore di vedere quella bottega toccava soltanto agli amici ammessi ad abitarvi, e quando gli occhi di Hoepff -ner, due occhi chiarissimi, si spalancavano su un pezzo che egli esaltava con candido entusiasmo, non trovavi il coraggio di dirgli la verità, e cioè che quel pezzo non ti piaceva per niente. Stavi zitto, sorridevi, ti congratulavi con lui, e appena era possibile parlavi d'altro. Era questo il modo in cui cercavi ogni giorno di toglierti dall'imbarazzo quando, come accadde a me, occupavi l'appartamentino per qualche settimana. Nelle due stanze, infatti, non c'era soltanto tutto quello che avevi trovato all'inizio, ma continuavano ad arrivare novità perché quasi ogni giorno Hoepffner si presentava con un nuovo oggetto, per lo più di piccole dimensioni, come se si sentisse in dovere di contribuire al benessere dell'ospite arricchendo le due stanze di cose sempre nuove e sorprendenti. La foresteria era piena, non era facile trovare posto per gli ultimi arrivi, ma Hoepffner ci riusciva ugualmente. Credo di non aver mai abitato in un posto più contrario ai miei gusti, tutto sembrava polveroso e inutilizzato, e sebbene qualcuno provvedesse ogni giorno alle pulizie non ti saresti stupito di trovare muffa dappertutto. Ma sarebbe stata soltanto una muffa simbolica, perché a guardar bene tutto era scrupolosamente pulito e quell'impressione di muffa derivava piuttosto dal carattere degli oggetti e dal fatto che nessuno si accordava con l'altro. Quelle due stanze, nelle quali mi trattenevo solo per dormire e per la colazione del mattino, quando mi veniva portato su il caffè, furono teatro delle più amabili conversazioni. La mattina, prima di recarsi nel suo ufficio al primo piano, il signor Hoepff -ner veniva a trovarmi e mi faceva compagnia mentre prendevo il caffè. Aveva i suoi scrittori preferiti, li rileggeva continuamente, non riusciva a saziarsene, e voleva parlarne con me. Al primo posto cera Adalbert Stifter, del quale conosceva quasi tutto, e certe sue cose gli erano così care che, mi diceva, le aveva lette più di cento volte. La sera, quando rincasava dall'ufficio, si godeva il suo Stifter. Era scapolo e viveva solo col suo cane barbone, mentre alla cucina e all'andamento della casa provvedeva una governante che era al suo servizio da anni. Il signor Hoepffner non perdeva tempo in cose superflue, sapeva apprezzare i piatti preparati per lui da quella vecchia e brava alsaziana, ci beveva sopra il suo vino e poi, dopo aver giocato un po'"col barbone, si disponeva a leggere Der Hagestolz, (1) di cui non si stancava di tessermi le lodi. Per Stifter trovava toni più seri di quelli riservati alle anticaglie con le quali lo vedevo spesso arrivare. Ma era evidente che tra le sue antichità e Stifter esisteva un rapporto, e lui non si sarebbe mai sognato di negarlo. Gli domandai una volta perché continuasse a leggere le stesse cose. Rimase stupito, ma non se la prese. C'era forse qualche altro libro da leggere? Le cose moderne non poteva sopportarle, era tutta roba cupa e disperata, non c'era verso di trovarvi una sola persona buona; e questo era contrario alla verità. Lui aveva una certa esperienza della vita, nella sua professione aveva conosciuto molta gente, ma non si era mai imbattuto in una sola persona malvagia. La gente bisognava vederla così com'è, e non attribuirle intenzioni che non aveva. Stifter, appunto, era lo scrittore che più di ogni altro aveva questo dono, e da quando lui se n'era reso conto, tutti gli altri lo annoiavano o gli facevano venire il mal di testa. All'inizio ebbi l'impressione che Hoepffner non avesse mai letto altro, ma mi accorsi poi di essere in errore, perché lui stesso ammise di avere molto caro un altro libro che aveva letto non meno spesso. Forse il titolo mi avrebbe stupito. Sembrava che Hoepffner volesse scusarsi ancora un poco prima di rivelarlo. Bisognava pur sapere, mi disse, come sarebbe il mondo se esistessero persone malvagie. Era anche questa un'esperienza necessaria, benché fosse pura illusione. Lui l'aveva fatta, e pur sapendo quanto fosse lontano dalla realtà il quadro tracciato in quel libro, esso era scritto così stupendamente che bisognava leggerlo; e lui se lo rileggeva di continuo. Come c'era gente che leggeva romanzi polizieschi per poi cercare sollievo nel mondo reale, così lui leggeva il suo Stendhal, La Certosa di Parma. Gli confessai che Stendhal era il mio preferito tra gli scrittori francesi, che ne avevo fatto il mio maestro e che mi ero sforzato di imparare da lui. (2) "Imparare da lui?" domandò il signor Hoepffner. "Ma l'unica cosa da imparare è che il mondo, per fortuna, non è così". Era convinto che La Certosa di Parma fosse sì un capolavoro, ma in quanto deterrente, e la sua convinzione era così pura che mi vergognavo davanti a lui. Dovevo dirgli tutta la verità su di me e finii col confessare quel che avevo scritto. Gli esposi il mio "Kant prende fuoco", e lui ascoltò con interesse. "Come deterrente," disse "mi sembra che il suo libro sia anche meglio della Certosa di Parma. Io non lo leggerò mai, ma sarebbe bene che la gente lo leggesse. Avrebbe un buon effetto. La gente, dopo averlo letto, si sveglierebbe come da un incubo e apprezzerebbe la realtà vedendo quanto è diversa da quel sogno". Era comprensibile, disse, che nessun editore avesse ancora osato pubblicare il libro, neanche quelli che avevano avuto parole di stima per il manoscritto: ci voleva coraggio, ed erano ben pochi ad averne. Credo che volesse aiutarmi e mascherasse questo desiderio nella maniera più delicata. Non aveva nessuna voglia di leggere una cosa simile, la descrizione che gli avevo fatto era già abbastanza repulsiva. Ma aveva saputo dalla nostra comune amica, Madame Hatt, che non avevo ancora pubblicato niente, e questa non sembrava la migliore raccomandazione per uno scrittore di quasi trent'anni. Poiché non poteva essere realmente favorevole a un libro simile, aveva escogitato un intento pedagogico per giustificarne l'esistenza: era un deterrente. Senza perdere tempo e senza esitare, nel corso di quella stessa conversazione, disse che dovevo guardarmi in giro alla ricerca di un buon editore, uno che credesse nel libro anche se non era disposto a rischiare tanto. Lui, Jean Hoepffner, avrebbe poi garantito l'editore da ogni perdita. "Ma è anche possibile" osservai "che nessuno voglia leggere il libro". "E allora la perdita me l'assumo io" disse Hoepffner. "A me le cose vanno fin troppo bene, e non ho una famiglia da mantenere". Sembrava la soluzione più naturale del mondo. Non tardò a convincermi che lo faceva con entusiasmo, che non c'era niente di più semplice; e intanto mi dimostrava che il mondo era fatto anche di persone buone ed era ben diverso da quello del mio libro; che il libro bisognava leggerlo soltanto per ritornare con rinnovata fiducia al mondo reale, che era fatto di buona gente. Quando ritornai a Vienna, le cose da raccontare non mancavano. Il viaggio mi aveva portato a Comologno e a Zurigo, a Parigi e a Strasburgo, c'erano stati avvenimenti imprevisti, avevo incontrato persone ragguardevoli. Ne riferii a Hermann Broch, e lui disse senza mezzi termini, con una rapidità che non gli era abituale, che mi invidiava per una cosa: l'incontro con James Joyce. In verità io non avevo nessun motivo per sentirmene onorato. Quel commento così tagliente e mascolino, "Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!", mi era sembrato una beffa e un segno di incomprensione totale. Broch non era dello stesso parere: secondo lui, stava a indicare che c'era qualcosa che aveva colpito Joyce. Con quella risposta Joyce si era scoperto. Non era uomo capace di dire sciocchezze. Avrei forse preferito qualche parolina sgusciante, non impegnativa? Broch voltò la frase da tutte le parti, tentando diverse interpretazioni. Si compiaceva della loro contraddittorietà, e quando gli feci osservare che trattava quella frase banale e del tutto insignificante come il responso di un oracolo, lui annuì senza esitare, perché lo era veramente, sì, era la frase di un oracolo; e si avventurò in altre interpretazioni. Secondo Broch, il fatto che Joyce avesse perso la calma era un punto a favore della commedia. E naturalmente Joyce aveva afferrato ogni battuta: o forse credevo che un uomo simile, dopo tanti anni trascorsi a Trieste, non avesse una perfetta padronanza dell'accento austriaco? Per Broch l'argomento non era ancora esaurito, e quando interruppe il mio tentativo di riprendere il racconto del viaggio e ritornò ancora su Joyce, perché gli era venuta in mente un'altra possibile interpretazione, mi resi conto che per lui Joyce era diventato un modello, una figura che si cerca di emulare e da cui è impossibile liberarsi veramente. Broch era un uomo quanto mai cortese, alieno da ogni forma di arroganza, ma non ci fu verso di dissuaderlo, qualunque cosa dicessi sulla crudele alterigia di Joyce. Quella apparente crudeltà, se pure era lecito chiamarla così, era solo la conseguenza delle molte operazioni agli occhi, e non significava niente. Ciò che interessava a Broch era la fermezza con cui Joyce affrontava la celebrità, e la sua era una celebrità nobile, eletta, come nessun'altra. Compresi che per Broch era quello, solo quello, il genere di celebrità che contava. Non c'era nulla, sicuramente, che gli stesse tanto a cuore quanto la stima di Joyce, e la speranza di arrivare a un risultato "parallelo", per così dire, ha poi avuto una parte decisiva nella nascita della sua Morte di Virgilio. Ma Broch fu poi sinceramente felice quando gli raccontai di Jean Hoepffner e della sua offerta, che destò in lui una meraviglia non inferiore alla mia. Un uomo che leggeva quasi soltanto Stifter, che rifiutava in blocco la letteratura moderna, che già dopo le prime pagine avrebbe respinto con orrore il mio "Kant prende fuoco", si diceva disposto a provvedere perché il manoscritto vedesse la luce. "A questo punto," disse Broch "il libro farà la sua strada. E" un libro troppo intenso e forse anche troppo inquietante per essere dimenticato. Non oso dire se lei, con questo libro, farà del bene ai lettori. Ma intanto il suo amico, senza dubbio, fa del bene. Agisce senza tener conto dei propri pregiudizi. Non riuscirebbe mai a capire il romanzo. Ma non lo leggerà nemmeno. E neanche medita di assicurarsi così un titolo di merito presso i posteri. Ha intuito che lei è uno scrittore vero e, per dir così, vuole fare del bene alla letteratura nel suo insieme, perché per lui la letteratura è Stifter, verso il quale ha tanta riconoscenza. Quello che mi piace di più in questo Hoepffner è il suo modo di travestirsi nella vita. Il direttore di una tipografia e di un giornale! Più in là di così il travestimento non potrebbe andare. Adesso le sarà facile trovare un editore". I fatti gli diedero ragione, e proprio Broch contribuì in parte alla riuscita dell'impresa, sia pure involontariamente. Alcuni giorni dopo incontrò Stefan Zweig, che si trovava a Vienna per due motivi: doveva sottoporsi a una radicale cura dentistica e doveva fondare una nuova casa editrice per i suoi libri, dal momento che l'InselVerlag, in Germania, non poteva più pubblicarglieli. Credo che gli avessero estratto tutti i denti, o quasi. Un suo amico, Herbert Reichner, pubblicava "Philobiblon", una rivista molto buona. Zwei g decise di affidargli i suoi libri e di aggiungervi come contorno qualche altra opera di cui non ci fosse da vergognarsi. Per caso, poco dopo il mio ritorno a Vienna, incontrai Zweig al Café Imperial. Era seduto tutto solo in una delle sale posteriori e si teneva la mano davanti al viso per nascondere la bocca sdentata. Sebbene non gli piacesse farsi vedere in quello stato, mi fece segno di avvicinarmi e mi invitò a prender posto al suo tavolino. "Da Broch ho saputo tutto" disse. "Lei ha conosciuto James Joyce. Se ha qualcuno che garantisce per il suo romanzo, posso raccomandare al mio amico Reichner di pubblicarlo. Ma lei deve farsi scrivere una prefazione da Joyce. Così il libro non passerà inosservato". Dissi subito che era un'idea da scartare senz'altro. Non avrei mai potuto chiedere a Joyce una cosa simile. Joyce non aveva la più pallida idea del manoscritto. Era quasi cieco. Come si poteva imporgli una lettura del genere? E poi, anche se avesse avuto i migliori occhi del mondo, non gli avrei mai fatto quella richiesta. Anzi, una prefazione non l'avrei chiesta a nessuno. Il libro doveva essere letto per quello che era, non aveva bisogno di stampelle. Usai un tono così brusco che io stesso ne rimasi un po'' spaventato. "Volevo soltanto aiutarla" disse Zweig, e si rimise rapidamente la mano davanti alla bocca. "Ma se lei non vuole...". La conversazione era finita, me ne andai per la mia strada e non mi pentii minimamente di avere respinto con tanta energia quella proposta. Avevo salvato il mio amor proprio. D'altra parte non avevo perduto niente. Anche se la cosa fosse stata possibile - ma per me era del tutto escluso -, mi riusciva insopportabile l'idea di presentare il libro con una introduzione di Joyce, buona o cattiva che fosse. Disprezzai Zweig per la sua proposta. Ma forse fu una fortuna che non lo disprezzassi troppo, perché poco dopo ricevetti una lettera della casa editrice Herbert Reichner, nella quale si parlava della garanzia, sì, ma non si accennava affatto a una prefazione. Poiché la lettera mi invitava anche a mandare con urgenza il manoscritto, andai a consultarmi con Broch, il quale mi persuase ad accettare; e io inviai il manoscritto. NOTE: (1) "Il vecchio scapolo", un racconto del 1844 in cui Stifter descrive la solitudine di un uomo che ha dovuto rinunciare alla felicità ?N" d'T"*. (2) "...leggevo e rileggevo continuamente Il rosso e il nero di Stendhal" (La coscienza delle parole, cit", p" 340); "...mi affidai a un altro modello, per il quale nutrivo un'ammirazione non minore: Il rosso e il nero di Stendhal. Ogni giorno, prima di cominciare a scrivere, leggevo qualche pagina, ripetendo quel che aveva fatto Stendhal stesso con un altro modello, il famoso nuovo Codice civile della sua epoca" (Il frutto del fuoco, cit", p" 374) ?N" d'T"*. Gli ascoltatori Il mio orgoglio si era risollevato, e la prima conseguenza si vide il 17 aprile 1935, quando andai a tenere una lettura alla Schwarzwaldschule. Dalla dottoressa Schwarzwald ero stato in visita un paio di volte, non di più. Mi ci aveva accompagnato Maria Lazar, alla quale dovevo anche la mia conoscenza con Broch. Molto più della leggendaria e loquacissima pedagoga che fin dal primo incontro ti stringeva contro la sua pancia e ti accoglieva così affettuosamente come se fossi stato suo allievo prima ancora di mettere i denti, come se tra lei e te non ci fossero segreti, come se fossi andato infinite volte da lei a rovesciare la piena del tuo cuore - molto più di lei, nonostante quella sua filantropica intimità, mi piaceva il taciturno dottor Schwarzwald, un ometto un po'' storpio che camminava appoggiandosi a un bastone e poi andava a sedersi con la faccia truce in un angolo, dal quale si sorbiva rassegnato l'interminabile discorrere dei visitatori e quello anche più interminabile della signora dottoressa. La cosa migliore che si possa dire della testa del dottor Schwarzwald, divenuta famosa attraverso la pittura di Kokoschka, (1) è che somigliava a una radice - secondo una definizione coniata da Broch. I visitatori venivano ricevuti in una stanza piuttosto piccola che era ancor più leggendaria della dottoressa Schwarzwald. Chi non vi aveva messo piede, infatti? Vi andavano i grandi di Vienna, quelli veri, e molto prima di diventare personaggi pubblici, universalmente noti. Vi era stato Adolf Loos, che aveva portato con sé il giovane Kokoschka, vi erano stati Schönberg, Karl Kraus, Musil. Bisognerebbe citare molti altri, ma è degno di nota il fatto che di lì siano passati tutti coloro la cui opera ha poi resistito al tempo. E non era che uno solo di quei visitatori trovasse particolarmente interessante la conversazione della dottoressa Schwarzwald. Costei era ritenuta una pedagoga appassionata, con tendenze moderne e libere, era adorata dai suoi allievi, dava a molti un vero aiuto ed era di manica larga, ma poiché tutto in lei confluiva e si mescolava confusamente, gli intellettuali di quel calibro la trovavano non solo priva d'interesse, ma piuttosto fastidiosa. Passava per una chiacchierona animata dalle migliori intenzioni, mentre i visitatori che si potevano incontrare in casa sua non lo erano, e per di più non ci andavano a gruppi, ma pochi per volta, così che di ciascuno restavano impresse distintamente le parole e la faccia: si aveva la sensazione che fossero venuti a posare per un ritratto, e che forse si usurpava un poco la parte del grande ritrattista che li aveva conosciuti lì e poi ne aveva anche dipinto davvero le sembianze. Chiunque fosse presente, la persona che rimaneva indimenticabile era il taciturno dottor Schwarzwald, che con la sua muta austerità spazzava via istantaneamente il fiume di parole che usciva dalla bocca della signora dottoressa. Ma c'era anche una persona in cui tutti riconoscevano il vero cuore di quel ménage, ed era la meravigliosa Mariedl Stiasny, l'amica del dottor Schwarzwald, quella che aveva cura di lui, ma non solo di lui, quella che presiedeva all'amministrazione e faceva letteralmente tutto ciò che c'era da fare per la scuola, per le allieve e per l'andamento della casa, una donna bella, sveglia, intelligente, né loquace né taciturna, una creatura luminosa il cui sorriso dava respiro e vita a tutti coloro che vivevano lì o erano solo di passaggio. Chi arrivava in visita non la incontrava subito, perché lei era sempre indaffarata, ma poi si affacciava una volta o due per dare una rapida occhiata alla situazione; e chiunque fosse presente, anche se avevi appena conosciuto questo o quel principe dello spirito, ti sorprendevi ad aspettare con impazienza l'apparizione di Mariedl Stiasny. Quando si apriva la porta, il primo desiderio di tutti era che fosse lei a comparire; e perfino la visita di Domineddio, temo, avrebbe causato un po'"di delusione, perché non era lei. In quel dibattito, forse vagamente comico, che c'era stato tra Broch e me a proposito dell""uomo buono", non avevamo preso in considerazione - oggi la cosa appare inconcepibile - neanche una donna: altrimenti, sarebbe bastato nominare quella persona perché tutto si decidesse di colpo e la disputa avesse termine. Tra i più giovani visitatori ammessi alla Schwarzwaldschule c'era stato - come poteva essere diversamente? anche Fritz Wotruba. Era un ospite incostante e non si tratteneva mai a lungo, ma ciò che lo spingeva ad andarsene non era tanto la loquacità della signora dottoressa - lui era abituato a quella della moglie, Marian - quanto la sua stessa natura irrequieta e impetuosa, il richiamo che aveva su di lui il selciato di un quartiere così vicino alla Florianigasse, quel selciato che era la sua vera patria. In quel posto Wotruba si sentiva meglio fuori che dentro, e una volta fatto il suo doveroso atto di presenza, non si lasciava persuadere facilmente a tornare. Quando gli avevo raccontato, non senza orgoglio, dell'unanime bocciatura decretata dagli illustrissimi ascoltatori di Zurigo, Wotruba aveva replicato: "Quelli là non capiscono la lingua di Vienna. Devi farla qui una grande serata, adesso!". Ciò che gli piaceva di più nella Commedia della vanità era appunto l'impiego delle voci viennesi, e considerava una questione d'onore presentarla a un autentico pubblico viennese. Può darsi dunque che sia stata Marian Wotruba, col suo senso pratico, a pensare alla grande sala della Schwarzwaldschule. La scuola non doveva figurare come promotrice della serata, ma provvide a mettere a disposizione la sala. Di tutto il resto si occupò Marian, e io vidi con i miei occhi di che cosa era capace quando prendeva a cuore una causa. La sala era piena zeppa. Se non proprio tutti, c'erano quasi tutti i membri della Sezession e dello Hagenbund, pittori e scultori, gli architetti del Neuer Werkbund (alcuni li conoscevo anch'io). Marian doveva averli assordati con le sue parole, affrontandoli uno per uno e tutti insieme. Ma c'erano là anche persone che non appartenevano al suo giro, per esempio scrittori e altri che per me contavano moltissimo. Devo nominare i due che ponevo più in alto di tutti. Venne l'arcangelo Gabriele, come io usavo chiamare tra me il dottor Sonne, e se può suonare misterioso questo nome che gli avevo dato e che uso qui pubblicamente per la prima e unica volta, la sua presenza fu anch'essa misteriosa. Riuscì infatti a non farsi vedere da nessuno, e ciò nonostante io mi sentii al sicuro sotto il suo usbergo. Ma venne anche Robert Musil con sua moglie, in compagnia di Franz e Valerie Zeis, che erano due buoni amici comuni e che da tempo avevano preparato quell'incontro con tatto e abilità. C'era Musil, e per me questo valeva più della presenza di Joyce alla serata di due mesi prima nella Stadelhoferstrasse di Zurigo. Anche se Joyce era all'apice della fama, anche se sapevo benissimo quanto fosse meritata quella fama, Robert Musil - io avevo cominciato a leggerlo seriamente solo da un anno - mi sembrava degno della stessa celebrità; ed era anche più vicino alle mie idee. Lessi ancora i testi che avevo letto a Zurigo, ma in ordine inverso: prima il capitolo "Il buon padre" dal romanzo e poi la prima parte della Commedia della vanità. Forse era questo l'ordine migliore, ma non credo che bastasse a determinare un'accoglienza così diversa. Aveva ragione Wotruba quando diceva che nulla era più Vienna, l'autentica Vienna, dei testi scelti per quella serata. Anche l'attesa era del tutto diversa. A Zurigo non c'era nessuno, tranne i padroni di casa, che avesse mai sentito parlare di me, ero per tutti una pagina bianca; e poi, di colpo, senza una sola parola di spiegazione, quella baraonda di voci e di personaggi! Adesso, invece, molti sapevano già con chi avevano a che fare, e quelli che ancora non lo sapevano erano stati catechizzati a dovere da Marian Wotruba. A Zurigo io ero come ubriaco, inebriato dai personaggi della commedia, e il loro rapido alternarsi, la loro eterogeneità, che però era presentata come simultaneità, non lasciava al pubblico il tempo di accettarli. Allora non badavo alle facce che mi stavano davanti, come di solito accade sempre durante una lettura, non mi ancoravo a qualcuno per avere un riferimento; e quindi ebbi solo più tardi, quando tutto era ormai finito, il senso della totale incomprensione. Questa volta, fin dall'inizio, sentii intorno a me attesa e stupore, e ne fui spronato come se ne andasse della mia vita. Il terribile "Buon padre" suscitò orrore, ma i viennesi conoscevano benissimo il potere dei loro portinai, e non credo che qualcuno avrebbe osato contestare la verità di quel personaggio mentre tutti quanti, lì nella sala, erano alla sua mercé. La commedia, subito dopo, prometteva quasi una liberazione, ma poi anch'essa salì di tono a poco a poco e manifestò la sua particolare terribilità. Se alla fine molti erano spaventati, ciò dipendeva dalla natura delle cose che vi erano raffigurate, e non da colui che le raffigurava. Una reazione astiosa la avvertii solo in alcune persone appartenenti alla cerchia degli intimi di casa Schwarzwald. Una vera lavata di capo, come quelle che avevo subito a Zurigo, la buscai soltanto da Karin Michaelis, una scrittrice danese, che mi rimproverò con sdegno la mia mancanza di umanità e riuscì a far ammutolire, per la prima e unica volta, perfino la signora dottoressa Schwarzwald. Costei non disse una parola, non mi elargì neppure le affabili chiacchiere alle quali mi ero preparato; e contribuì così, col suo silenzio, alla riuscita della serata. Io, infatti, ero quasi in estasi per la presenza delle due persone che ho già citato prima. Musil lo vedevo davanti a me, nella seconda fila, e temevo vagamente che dopo il primo brano, "Il buon padre", al quale feci seguire un breve intervallo, potesse alzarsi e andarsene come aveva fatto Joyce a Zurigo dopo la Commedia. Invece Musil non si alzò e non uscì: al contrario, mi sembrava assorto e conquistato. Il torace rigido era piegato un po'' in avanti, verso di me, e la testa faceva l'effetto di un proiettile puntato sulla mia persona che però non veniva sparato grazie a un eccezionale autocontrollo. Questa impressione, che si è scolpita in me per sempre, non era frutto di un'illusione, e ben presto ne ebbi la conferma, anche se in termini che non potevano non sorprendermi. Il dottor Sonne, che solo questa volta nomino al secondo posto, era invisibile. Sapevo che non l'avrei trovato, perciò non lo cercai nemmeno. Ma quello, per me, fu un momento decisivo nei nostri rapporti. Dopo tutte le conversazioni di cui mi onorava da più di un anno, era la prima volta che veniva a conoscenza di qualcosa di mio. Non gli avevo mai mostrato un manoscritto, e lui sapeva, per quanto non se ne fosse mai parlato, che mi vergognavo di non avere ancora pubblicato un libro, così come sapeva che la mia vergogna scompariva davanti a lui, ma solo davanti a un uomo come lui, che rinunciava a qualsiasi pubblica manifestazione di sé. Sonne non mi fece mai domande al riguardo, non disse mai: "Non vuole portarmi il romanzo di cui mi ha parlato Broch?". Non disse niente perché sapeva che il libro, non appena ci fosse stato un libro, non appena la stampa lo avesse reso definitivo, io glielo avrei portato. Sonne sapeva pure che dovevo proteggere il mio manoscritto dal suo giudizio, perché lui era l'uomo, lui solo, che avrebbe potuto distruggerlo con una parola. A questo pericolo, di cui mi rendevo conto perfettamente, non volevo esporre né il romanzo né i due drammi, e non mi sembrava che la mia fosse viltà, perché tutto ciò che possedevo erano quelle tre opere, delle quali nemmeno una era ancora arrivata alla pubblicazione. Mi sentivo capace di proteggerle da chiunque altro, ma davanti a lui sarebbero state inermi, poiché istintivamente, ma anche deliberatamente, avevo eletto Sonne a mia autorità suprema. A quell'autorità ero pronto a inchinarmi, perché essa mi era tanto necessaria quanto la consapevolezza dell'esistenza delle tre opere. Ma adesso Sonne era venuto ad ascoltarmi, e dopo tutto quello che ho detto sembrerà strano che la sua presenza non m'incutesse il minimo timore. Broch non era a Vienna e Anna era in ansia per la grave malattia di sua sorella Manon. Di coloro che l'anno prima mi avevano riservato solo umiliazione, non c'era nessuno. Il grido di Werfel, "E lasci perdere queste cose!", non mi tornò mai alla mente, sebbene restasse ancora conficcato in me come l'aculeo dell'odio. Doveva essere una maledizione contro ogni altro tentativo letterario da parte mia, e sebbene io non ne tenessi alcun conto, la maledizione restava, perché si era incuneata nella commedia in cui credevo con ogni mia fibra. Il mondo di casa Zsolnay, che non avevo mai preso sul serio, era lontano: adesso avevo di fronte quello che per me era il vero, l'autentico mondo di Vienna, quello per cui parteggiavo e che - ne ero certo - era il mondo dell'avvenire. All'esito esterno della serata contribuì in maniera decisiva anche il comportamento dei pittori, una coorte molto risoluta, capitanata da Wotruba, che non lesinò gli applausi. Fu essa forse, quella sera, a destare l'impressione che la commedia avesse finalmente trovato il suo pubblico. Era un errore, come poi si vide, ma perdonabile: per una volta potevo permettermi di presumere che la commedia fosse stata capita e potesse avere una sua efficacia nel tempo per il quale era stata scritta. La lettura era appena finita quando Musil mi si avvicinò. Credo che mi abbia parlato di getto, col cuore, senza il riserbo che tutti gli conoscevano. Io ero confuso e inebriato, quella che mi rivolgeva era la faccia, non la schiena, e io vedevo la sua faccia vicina, davanti a me, e ne ero talmente dominato che non afferrai ciò che mi diceva. Musil non ebbe neanche molto tempo, perché subito mi sentii agguantato alla spalla, costretto energicamente a fare dietrofront e abbracciato: era Wotruba, il cui entusiasmo fraterno non aveva riguardi per nessuno. Mi sottrassi alla stretta e presentai Fritz a Musil. Fu allora, in quel momento pieno di fervore, che venne gettato il seme della loro amicizia; e se poi questa amicizia fu così ricca di vicende che essi dimenticarono quel momento isolato e per entrambi ancora sterile, io non l'ho scordato e lo considero una delle occasioni luminose della mia vita. Dovemmo separarci perché sopraggiunse altra gente, c'erano molti che vedevo per la prima volta, la ressa aumentò, finché fummo invitati a trasferirci allo SteindlKeller, dove era stata riservata una sala al primo piano. Un lungo corteo si mise in cammino alla spicciolata, e quando arrivai e mi affacciai a guardare dentro la sala prenotata, vidi che molti erano già seduti alla lunga tavola a ferro di cavallo. Davanti all'ingresso della sala trovai Musil che stava lì in piedi, indeciso, accanto a sua moglie. Franz Zeis, l'amico di cui si fidava, cercava di persuaderlo a prender posto. Musil esitava: gettò un'occhiata nella sala, ma non si mosse di un passo. Quando mi avvicinai e lo invitai molto rispettosamente, mi fece le sue scuse, disse che c'era troppa gente, che per lui la sala era troppo affollata. In verità sembrava ancora indeciso, ma ormai aveva declinato l'invito e non poteva tirarsi indietro. Alla fine andò a cercarsi un tavolo lì fuori e vi si sedette con la moglie e i due Zeis. Forse fu meglio così: come avrei potuto sentirmi in libertà davanti a lui? Un uomo per il quale avevo un'ammirazione così profonda, sarebbe stato sconveniente farlo sedere pigiato in mezzo a tanti altri, che poi erano lì a mangiare, bere e far baccano per festeggiare la serata di un giovane scrittore. Io dovevo invitarlo, vedendolo in piedi vicino alla porta aperta e immaginando la sua titubanza; accettare la sua esclusione sarebbe stata un'indelicatezza peggiore che invitarlo. In fondo, poteva essere addirittura che si aspettasse un invito per poi ricusarlo. Gli atti di difesa che ho visto compiere Musil, nei miei riguardi o verso altri, mi sono tutti sembrati infallibilmente giusti. Li ricordo volentieri, ed è un ricordo cui non vorrei rinunciare. Se di lui avessi sperimentato solo quell'aspetto e nient'altro (per fortuna non è stato così), avrei almeno la sensazione di aver conosciuto Musil nel modo giusto, in un modo preciso, addirittura conforme al linguaggio della sua opera. Nella sala interna regnava la massima allegria. Erano presenti certi pittori che in fatto di baldorie la sapevano lunga. Dissi a me stesso che non c'era nessuna delle persone di cui mi sarei vergognato. E" una fortuna che in simili occasioni si rinunci ad accertamenti minuziosi. Tuttavia mi mancava qualcosa, e specialmente quando c'era da brindare esitavo un poco ogni volta, come se in realtà dovessi ancora aspettare: non sapevo che cosa, perché avevo dimenticato quel che era più importante. Forse, contagiato com'ero dall'allegria generale, non osavo dire a me stesso che la cosa decisiva, essenziale, doveva ancora venire. Aspettavo il giudizio, sì, ma non lo cercavo. Non ero nella condizione di stabilire esattamente chi fossero tutte quelle persone. A poco a poco ognuno si presentava, e questo almeno era un punto fermo. Ma per una volta, una sola volta, mi sentii addosso uno sguardo. Non c'era nessuno che mi gridasse qualcosa. Guardai, senza cercare, in una certa direzione. Piuttosto lontano da me, esile, nascosto in mezzo agli altri, perfettamente tranquillo, c'era il dottor Sonne. Non appena si accorse del mio sguardo, sollevò leggermente il bicchiere, sorrise e bevve alla mia salute. Mi parve che muovesse le labbra, ma non si udì una parola, mano e bicchiere erano sospesi in un gesto vagamente irreale e rimasero alzati, come in un quadro. Tutto quello che aveva da dirmi lo disse così, e non aggiunse altro nemmeno nei giorni seguenti, quando ci ritrovammo a uno dei tavolini di marmo del Café Museum. Mi aveva parlato sollevando il bicchiere, tenendolo sospeso, e questo valeva ben più di qualsiasi applauso o parola ad alta voce. Sonne aveva ascoltato soltanto delle parti, non un'opera intera, e perciò non voleva pronunciarsi. Ma non si frapponeva sulla mia strada, non mi segnalava i pericoli che forse lui avrebbe visto. Mi dava via libera, con la sua solita discrezione, con tutto il riguardo che usava verso ogni essere vivente; e io interpretai come un segno di approvazione quello che forse era già qualcosa di più. Tra le persone che erano venute allo SteindlKeller c'era Ernst Bloch. Sapevo del suo Thomas Münzer, (2) ma non me n'ero mai occupato. La sua presenza era stata notata da molti, anche da Musil, come seppi poi. Dopo il mio vano invito a Musil, quando entrai nella sala interna già piena di gente, Bloch si alzò dal posto che si era appena assicurato e mi venne incontro. Mi prese in disparte, per così dire, se pure era possibile in quella confusione, e volle esprimermi il suo parere in forma riservata e circostanziata. Il suo discorso cominciò con un gesto molto efficace. "Prima impressione" disse sollevando le mani un po'"sopra l'altezza delle spalle e tenendole a una certa distanza tra loro, ma con le palme aperte rivolte l'una verso l'altra. Poi, scandendo le sillabe, continuò: "E" una cosa - eminente". Il lungo intervallo tra le due parti della frase mi colpì come il gesto delle mani alzate. La frase era cominciata in un tono indefinito e si concludeva in modo sorprendente e quanto mai perentorio. Guardai confuso quella testa lunga e nodosa le cui linee erano come sottolineate dalla posizione "eminente" delle mani. Bloch disse poi altre cose che dimostravano come avesse subito afferrato il senso della commedia, e riuscì perfino a indovinare lo sviluppo dell'azione nella seconda parte. Fu un commento molto ampio, perfettamente articolato, e io non mi sarei potuto augurare niente di meglio. Ma era come ascoltare un discorso in una lingua straniera. "E" una cosa - eminente" è tutto ciò che mi è rimasto nella memoria. Non vorrei tacere un certo strascico di quella serata, anche se per me è piuttosto imbarazzante. Riguarda Musil e le sue effettive reazioni durante la lettura, qualcosa che non potevo immaginare e che sarebbe rimasto ignorato, tanto era grande la felicità per la sua presenza e per il suo comportamento nei miei riguardi, se non l'avessi saputo da Franz Zeis alcuni giorni dopo. Franz Zeis era consigliere all'ufficio brevetti e conosceva Musil da molto tempo. Era un amico fedelissimo che ne aveva capito per tempo tutto il valore. In quegli anni, a Vienna, c'era un certo numero di persone, forse una dozzina, alle quali era gran merito legarsi poiché i rapporti con loro non assicuravano alcun vantaggio ma piuttosto procuravano dispiaceri. Alcune di esse erano riunite in piccoli sodalizi, come Schönberg e i suoi allievi, altre erano isolate. Franz Zeis le conosceva ed era in stretti rapporti con tutte. Un acuto istinto lo portava a capire la loro solitudine. Si rendeva conto che era necessaria, ma sapeva anche quanto ne soffrissero. Conosceva Musil meglio di chiunque altro ed era ormai abituato alla sua suscettibilità e alla diffidenza di Martha, la moglie, che vigilava con occhi d'Argo affinché nessuno gli si avvicinasse troppo. Zeis non ignorava le sfumature della particolare condizione di spirito necessaria all'esistenza di un uomo di quella levatura, né le reazioni, anche quelle più nascoste, che ci si potevano aspettare da lui; e aveva l'accortezza di considerarle e di tenerne conto in tutte le iniziative a favore di Musil. Zeis sapeva quale opinione io avessi di Musil, e non appena si era convinto della profondità e della saldezza della mia stima ne aveva parlato con lui, il quale esaminava scrupolosamente ogni forma di ammirazione prima di accettarla. Franz Zeis doveva sempre sottoporsi a un'indagine rigorosa, e ogni volta che riportava un commento, questo veniva messo sul bilancino ed era per lo più giudicato insufficiente. Se però c'era anche il minimo motivo per ottenere l'approvazione di Musil, Zeis non mollava e lo metteva in evidenza. Gli intermediari si dividono in due categorie. Gli uni fanno quello che possono per inimicare le persone: riferiscono ogni osservazione negativa isolandola dal contesto e ingrandendola, così da provocare reazioni difensive - naturalmente ostili -, poi riportano anche queste e intensificano il loro gioco fino a gettare la discordia anche tra buoni amici. Costoro godono del senso di potere che traggono dall'esercizio di tale gioco, e a volte riescono addirittura a prendere il posto del vecchio amico presso entrambe le parti. L'altra categoria, assai meno numerosa, riferisce solo i commenti positivi, si sforza di attenuare l'effetto delle reazioni ostili passandole sotto silenzio, stimola la curiosità e a poco a poco anche la fiducia, finché inevitabilmente viene il momento in cui le due persone, avvicinate l'una all'altra con tanta pazienza, s'incontrano anche nella realtà. Franz Zeis apparteneva a questa seconda categoria, e credo che si preoccupasse sinceramente di mitigare un poco in Musil il suo senso di isolamento e di procurare a me la gioia di conoscerlo da vicino. L'impresa era riuscita a Zeis quando aveva persuaso Musil ad assistere alla mia lettura. Ma Zeis voleva anche darmi altri ragguagli sulle reazioni di Musil, e la prima volta che c'incontrammo questi ragguagli mi sorpresero non poco. Dapprima Musil era sembrato stupito: "Ha un buon pubblico" aveva detto accennando alla presenza di persone come Ernst Bloch e Otto Stoessì, lo scrittore. Ne era impressionato. Ma poi, durante la lettura del "Buon padre", aveva afferrato improvvisamente i braccioli della poltrona e aveva detto al suo accompagnatore: "Sa leggere meglio di me!". Non era assolutamente vero, tutti sapevano che Musil era un lettore eccellente, ma la cosa curiosa non era il contenuto della sua osservazione, bensì la forma in cui la esprimeva. Era una prova di quello che in seguito mi colpì profondamente in lui come elemento agonistico. Musil si misurava sugli altri, anche una lettura era per lui l'equivalente dell'agone presso i greci antichi. Tutto questo mi sembrò quasi assurdo, non mi sarei mai sognato di volermi misurare con lui, che collocavo tanto più in alto di me. Ma forse, dopo la severa umiliazione dell'anno prima, per me era diventata una necessità senza che allora me ne rendessi conto - scendere in gara davanti ad ascoltatori migliori e infine vincere la prova. NOTE: (1) Kokoschka fece tre ritratti, nel 1911, 1916 e 1924 al dottor Hermann Schwarzwald, marito della pedagoga Eugenie Schwarzwald, che aveva aperto nel 1903 una "scuola di coeducazione" ?N" d'T"*. (2) Thomas Münzer als Theologe der Revolution ("Thomas Münzer teologo della rivoluzione") è il titolo del libro che il filosofo Ernst Bloch aveva dedicato nel 1922 al pastore luterano tedesco, uno degli ispiratori dei movimento anabattista. Münzer si mise alla testa dei contadini in rivolta, ma fu sconfitto, catturato e decapitato nel 1525 ?N" d'T"*. Funerale di un angelo Da quasi un anno la spingevano in giro sulla sedia a rotelle, tutta agghindata, dipinta con ogni cura, una preziosa coperta sulle ginocchia, il viso cereo animato da una fiducia apparente, sebbene in realtà non avesse più alcuna speranza. La voce non aveva sofferto, era rimasta quella degli anni innocenti, quando la ragazza accorreva a passettini, come una cerbiatta, e offriva a tutti i visitatori l'immagine in negativo di sua madre. Il contrasto, che era sempre apparso incredibile, adesso era diventato ancora più forte. La madre continuava la vita alla quale era avvezza, ma le pareva di essere migliore per la disgrazia che aveva colpito la figlia adorata. La figlia era ancora in grado di dire "sì", e, paralizzata com'era, le trovarono un fidanzato. Doveva essere un fidanzamento utile. La scelta cadde sul giovane segretario del Fronte Patriottico, un protetto del professore di teologia morale che pilotava il cuore della principesca primadonna della Hohe Warte. Il segretario, che non si faceva scrupolo di fidanzarsi con una creatura cui restava poco da vivere, si muoveva liberamente per la casa quando andava a trovare l'inferma, e così, accanto alla sedia a rotelle, conobbe tutte le celebrità che venivano in visita per lo stesso scopo. Si parlava molto di lui, nonché del suo ghigno compiacente, dei suoi vezzosi inchini, della sua voce uggiolante. Era diventato un personaggio: il giovane di belle speranze, sconosciuto fino al giorno prima, che sacrificava se stesso, la propria presenza, il suo tempo sempre più prezioso per dare a quell'angelo l'illusione di una possibile guarigione. Al tempo del fidanzamento, infatti, c'era ancora speranza che potesse arrivare al matrimonio. Faceva impressione la scena del giovane in smoking che baciava la mano alla fidanzata. "Bacio la mano" è un modo di dire che ricorre spesso a Vienna, i viennesi l'hanno sempre sulle labbra, e per lui era diventato un modo di fare altrettanto frequente. Quando poi si rialzava - con la felice sensazione di sapere che tutti l'avevano visto in quell'atto, che lì non si faceva niente per niente, che tutto veniva segnato a suo credito, e in particolare un baciamano su quella mano -, quando si rialzava, indugiando un poco in quell'incantevole inchino davanti alla paralitica, allora lui si faceva garante per tutt'e due, e c'era gente che, come la madre, credeva in un miracolo e diceva: Vedrete, guarirà. E" così felice del suo fidanzato che la felicità la farà guarire". Ma c'erano anche quelli che assistevano nauseati e indignati a quel gioco obbrobrioso e coltivavano ben altre speranze. Essi, e io con loro, si auguravano una cosa sola: che il fulmine si abbattesse sulla madre e sul promesso sposo e li lasciasse entrambi paralizzati, nello stesso istante, senza ucciderli, paralizzati, e che lo spavento facesse balzare in piedi dalla carrozzella l'inferma, guarita. Al suo posto, da quel momento, sulla sedia a rotelle sarebbe finita la madre, e l'avrebbero spinta in giro, anche lei tutta agghindata, il viso dipinto con cura, la preziosa coperta sulle ginocchia, mentre il promesso sposo, fissato in posizione eretta su speciali rotelle, sarebbe stato trascinato con una catena verso di lei e si sarebbe sforzato di ripetere il baciamano e l'inchino, diventati ormai impossibili per lui e comunque, adesso, destinati non più alla giovane ma alla vecchia. In verità la ragazza avrebbe impegnato tutta se stessa, la sua purezza e la sua bontà, per regalare alla madre la propria guarigione e per sostituirsi a lei ritornando allo stato di prima, ma un ostacolo insormontabile sarebbero stati i continui e sempre vani tentativi del fidanzato di inchinarsi e di baciare quella mano: così, alla fine, tutti e tre si sarebbero irrigiditi in un gruppo di statue di cera che a volte si metteva in moto grazie a impulsi esterni e restava a raffigurare per l'eternità la situazione che regnava alla Hohe Warte. Ma la realtà non conosce giustizia, e fu il segretario a recarsi col suo smoking impeccabile nella chiesa di Heiligenstadt, dove assistette al rito funebre stando appoggiato a un pilastro. Fu la fine del suo fidanzamento con Manon Gropius: lei era morta, come si prevedeva, e lui, invece di andare a nozze, dovette accontentarsi di un servizio funebre. La seppellirono nel cimitero di Grinzing. Anche da questa occasione fu spremuto quanto più si poteva. Ci andò tutta Vienna, ossia la Vienna che usava ritrovarsi ai ricevimenti della Hohe Warte. Ma ci andarono anche persone che morivano dalla voglia di essere invitate alla Hohe Warte e non avevano mai potuto mettervi piede: non si poteva mica usare la forza per tenerle lontane dal funerale. Una lunga fila di automobili salì verso il cimitero sulla piccola strada, che in realtà non era una strada ma solo un sentiero. In quelle condizioni, non si poteva pensare che un'automobile superasse l'altra solo perché gli occupanti volevano assicurarsi un posto d'onore. Le posizioni di partenza dovettero essere rispettate quando la lunga fila si avviò lentamente su per la collina. Io ero con Wotruba e Marian in una di quelle automobili, un taxi. Marian, al colmo dell'eccitazione, non si stancava di aizzare lo chauffeur gridandogli negli orecchi: "Ma si decida a superare! Dobbiamo portarci avanti! Non è capace di superare? Siamo troppo indietro! Dobbiamo portarci avanti! E si decida una buona volta!". Le sue frasi erano come frustate, ma non cadevano su un cavallo, e lo chauffeur diventava sempre più placido quanto più lei lo incitava. "Non si può, gentile signora, non si può". "Si deve potere," gridava Marian "dobbiamo portarci avanti". Era così agitata che scoppiò in singhiozzi: "Non possiamo finire tra gli ultimi! Oh, che vergogna, che vergogna!". Io non l'avevo mai vista in quello stato, e neanche Wotruba. Da tempo il mio amico cercava di ottenere l'incarico per un monumento a Gustav Mah -ler. Gli chiedevano di sottoporre un altro bozzetto e poi un altro e un altro ancora. Lo tenevano a bada con i pretesti più futili. Anna, la sua allieva, si era battuta con tutte le sue forze perché la madre si pronunciasse a favore di Wotruba. Carl Moli, il pittore, (1) era corso a destra e a sinistra: era stato lui a prodigarsi a suo tempo per Kokoschka e adesso faceva altrettanto per Wotruba. Ma sempre, all'ultimo momento, c'era qualcosa che non andava. Io avevo molti sospetti sulla vedova onnipotente, ed era proprio lei, infatti, a sabotare la candidatura di Wotruba per il monumento. Wotruba le piaceva, ma poiché Marian era sempre lì tra i piedi, la vecchia Mahler aveva poche probabilità di sedurlo. Andava a trovarlo all'atelier portando sotto braccio delle enormi mortadelle, ma poi doveva ritirarsi delusa e diceva alla figlia: "No, non va bene per Mahler. In fondo è solo un proletario". Marian, intanto, andava all'assalto di tutti gli uffici pubblici di Vienna che potevano influire anche minimamente sulla decisione. La sua passione per il "Mahler" lei e Fritz, parlando tra loro, chiamavano così il monumento raggiunse una punta massima mentre il taxi ci portava all'inumazione di Manon Gropius, la quale in verità, dopo le molte e complicate relazioni coniugali di sua madre, aveva ben poco a che fare con Mahler, e adesso, da morta, niente del tutto. Marian Wotruba continuava a smaniare, e poiché le automobili procedevano molto lentamente aveva il tempo di sfogarsi: "Adesso si può! Provi adesso! Dobbiamo portarci avanti! Insomma, faccia qualcosa! Se no arriviamo ultimi! Dobbiamo portarci avanti!". Wotruba mi guardava come se volesse dire: "Fa presto a parlare, questa qui", ma non osava aprir bocca per timore che Marian lasciasse stare lo chauffeur e scaricasse la sua rabbia su di lui. Del resto neanche lui poteva restare indifferente. Senza dubbio avrebbe preferito trovarsi ben più avanti, e quindi più vicino al monumento a Mahler. Per uno scultore il nesso fra tombe e monumenti ha qualche cosa di irresistibile. Un cimitero è certamente il primo agglomerato di pietre di tale genere che ha mai veduto, e quando si tratta della figliastra postuma dell'uomo da onorare con un monumento, il nesso diventa indissolubile. Non so più come scendemmo dal taxi. Marian deve averci spinti avanti attraverso la fitta schiera dei fortunati dolenti, perché alla fine, malgrado tutto, ci trovammo in prossimità della fossa aperta, e io udii lo struggente discorso di Hollensteiner, l'uomo che allora regnava nel cuore della madre in lutto. Costei piangeva, e le sue lacrime mi colpirono perché avevano anch'esse dimensioni non comuni. Non erano troppe, ma Alma riusciva a piangere in modo che le lacrime, scendendo, confluissero in formazioni di eccezionale volume. Non mi era mai accaduto di vedere lacrime così grosse, simili a enormi perle, a un prezioso ornamento; e non si poteva guardare senza prorompere in esclamazioni di meraviglia di fronte a tanto amore materno. Certo, la povera ragazza aveva sopportato la terribile prova con una sovrumana pazienza che Hollensteiner non mancò di descrivere eloquentemente, ma quanto crudele era mai stata la prova per quella madre, che aveva visto e sofferto tutto, per un anno intero, davanti agli occhi del mondo, che venne sempre tenuto al corrente; sì, molte cose erano accadute nel mondo in quei mesi, altre madri erano state uccise, i loro figli erano morti di fame, ma nessuna aveva sofferto quello che soffriva la povera Alma, un'anima che rappresentava tutte le altre e soffriva per l'universo intero, e non crollava, neanche adesso, nemmeno davanti alla tomba. Una formosa penitente, anche se molto invecchiata, stava lì davanti a tutti, più Maddalena che Maria, adorna non di contrizione ma di turgide lacrime, sfarzosi esemplari, quali nessun pittore ha ancora saputo dipingere. A ogni parola dell'orazione funebre tenuta dal suo amico, altre lacrime si agglomeravano e infine penzolavano come grappoli da quelle guance carnose. Così voleva essere vista, e così la videro, e ognuno dei presenti si sforzava di farsi vedere da lei. Per questo erano venuti, per tributare al suo dolore il pubblico riconoscimento che gli spettava. Era giusto, era bello essere stati al funerale, aver partecipato a una delle ultime grandi giornate di Vienna, prima che finisse barcollando nell'abisso e fosse dichiarata provincia dai nuovi padroni. Ma ci furono anche altri che si misero in vista in quell'occasione, un po'"in disparte ma non tanto da passare inosservati. A costoro non bastava partecipare alla gloria della madre duramente provata, e infatti riuscirono a dare spettacolo del proprio dolore, un dolore personale ma certamente non meno pubblico. Su un tumulo fresco, in un punto elevato, un tantino appartato ma nemmeno troppo, era inginocchiata e immersa in fervida preghiera la vedova di Jakob Wassermann, lo scrittore morto un anno prima quasi ancora al culmine della fama. Si era scelta con cura il suo tumulo, che era ben visibile da ogni parte. Le mani scarne, unite nella preghiera, tremavano ogni tanto per la commozione, mentre gli occhi, austeramente chiusi, non vedevano nulla del mondo, nonostante l'ardente desiderio di constatare l'effetto di quel suo isolamento. Un po'"meno d'austerità, e ci avresti creduto davvero. Il viso sottile, in quella posa di fervida preghiera, doveva somigliare al viso di una contadina macilenta, e il cappellino, con saggia preveggenza, aveva una forma che ricordava un fazzoletto da testa. Tutta la scena era un filo troppo caricata: se il tremito delle mani fosse stato meno frequente, se gli occhi si fossero aperti di tanto in tanto, se la tomba da poco ricoperta di terra - e non occorreva certo che fosse la tomba del povero angelo - non si fosse trovata in un punto così palesemente favorevole, si sarebbe anche potuto prendere per buona tutta quella commozione. Ma non ci si poteva fidare di un'ostentazione così insistita, e non ci si chiedeva nemmeno a chi fossero destinate le preghiere di Martha: erano per suo marito che, gravemente malato di cuore, si era ammazzato di lavoro; erano per il povero angelo, al quale anche le untuose parole di Hollensteiner e le lacrime colossali della madre non potevano più nuocere; o magari per gli scarabocchi letterari della stessa Martha, la quale si riteneva più brava di suo marito e, dopo essere rimasta vedova, si era cacciata in testa di dimostrarlo al mondo. Per quanto fosse penoso tutto lo spettacolo inscenato nel cimitero di Grinzing, mi rifeci con quei due personaggi: con Martha Wassermann, che vidi benissimo nel momento in cui stava per inginocchiarsi, ma non quando si rialzò; e con la madre, che si dedicava con cuore inesausto alla produzione di ponderose lacrime. Mi sforzai di non pensare alla vittima che tutti avevano amato. NOTE: (1) Carl Moli (1861-1945), uno dei promotori della Sezession, era il patrigno di Alma, avendone sposato la madre, Anna Bergen vedova Schindler. Fu uno dei testimoni alle nozze di Alma con Gustav Mahler. Sulla sua morte, Alma scrisse nell'autobiografia: "Come tanti nazisti che a Vienna avevano occupato posti di primo piano, Carl Moli, sua figlia e suo genero si giustiziarono da sé poco prima che i russi entrassero nella città" ?N" d'T"*. La suprema autorità A metà di ottobre del 1935 uscì Die Blendung. Un mese prima ci eravamo trasferiti nella Himmelstrasse, a mezza collina, tra i vigneti di Grinzing. Era una doppia liberazione: sfuggivo alla tetra atmosfera della Ferdinandstrasse e nello stesso tempo avevo tra le mani il romanzo che si era nutrito degli aspetti più cupi di Vienna. La Himmelstrasse, dove ora abitavamo, saliva verso una località chiamata "Am Himmel", e questo nome mi metteva addosso un tale buonumore che Veza mi fece stampare della carta da lettere su cui come indirizzo non era scritto Himmelstrasse 30 bensì "Am Himmel 30". (1) Veza accolse il trasferimento e la pubblicazione come una salvezza dal mondo del romanzo, che le aveva sempre dato un senso di disagio. Sapeva che non l'avrei mai ripudiato, e fintanto che il pesante manoscritto era in casa mia lo temeva come un pericolo. Era convinta che con la pubblicazione qualcosa si fosse allentato dentro di me e che le mie possibilità di scrittore fossero meglio rappresentate dalla Commedia della vanità, che lei preferiva agli altri miei scritti. Con molto tatto, credendo che non me ne accorgessi, cercò di sapere quali erano le persone a cui mandavo una copia del romanzo con la dedica. Quando vide che erano poche, neanche una dozzina, ne fu contenta. Era convinta che l'invio avrebbe irritato la gente. Non si poteva evitare che i critici mi saltassero addosso, ma almeno non mi sarei giocato l'amicizia di coloro, e non erano moltissimi, che mi conoscevano bene e che avevano una certa opinione di me, come sarebbe avvenuto se avessero letto un libro così opprimente. Veza mi faceva lunghi discorsi sulla differenza tra le letture pubbliche e la lettura personale. Per le mie letture pubbliche avevo scelto, oltre al "Buon padre", che ormai era un pezzo d'obbligo, "La passeggiata" (il primo capitolo) e alcuni brani della seconda parte: "Il paradiso ideale" e "La gobba". Qui il protagonista era Fischerle, la cui arroganza maniacale aveva sempre un effetto contagioso. Ma anche "Il buon padre" riusciva a toccare gli ascoltatori ispirando un po'"di compassione per la figlia perseguitata. Più d'uno avrebbe forse voluto leggere il resto della storia, ma il romanzo restava inedito e dopo qualche anno tutti avevano capito che inedito sarebbe rimasto: così, nessuno era costretto a sorbirsi la descrizione della lotta tra Kien e Therese, insopportabile nella sua minuziosità. Nessuno aveva motivo di prendersela con l'autore e la gente veniva ad ascoltare la lettura successiva, che confermava l'opinione precedente. Nei ristretti ambienti di Vienna che si interessavano a una letteratura meno tradizionale aveva cominciato a diffondersi un'ingannevole reputazione che adesso, con l'uscita del libro, avrebbe ricevuto un colpo mortale. Da parte mia non avevo alcun timore, come se tutte le paure se le fosse accollate Veza. Ogni rifiuto da parte delle case editrici aveva semplicemente rafforzato la mia fede nel romanzo. Ci credevo con una sicurezza assoluta, anche se non per il presente. Non so da che cosa traessi tanta sicurezza. Forse ci si difende dall'ostilità dei contemporanei decidendo fermamente di affidare il giudizio ai posteri. Cadono così tutti i dubbi meschini, tutti gli scrupoli. Non cerchi più di immaginare che cosa potrebbe dire questo o quello. Poiché niente dipende da lui, non vuoi nemmeno immaginare la sua reazione. E non pensi neppure a ciò che i contemporanei di allora hanno detto dei libri degli scrittori che ami. I vecchi libri con cui vivi, li consideri in sé e per sé, sciolti da tutte le meschinità in cui i loro autori si dibattevano da vivi. In molti casi è addirittura come se i libri stessi fossero diventati delle divinità. Ciò significa non solo che esisteranno per sempre, significa anche che sono sempre esistiti. Ma questa consolante sicurezza in una posterità non è assoluta. Anche per essa vi sono dei giudici, e non è facile trovarli. Qualcuno può avere la disgrazia di non incontrare mai l'uomo da eleggere, con la coscienza tranquilla, come giudice della posterità. Io avevo incontrato un uomo simile, e il suo prestigio era diventato così grande ai miei occhi, dopo un anno e mezzo di lunghi colloqui quotidiani, che a lui avrei riconosciuto anche il diritto di pronunciare una condanna a morte per il mio romanzo. Ho vissuto cinque settimane aspettando il suo giudizio. Gli mandai il libro con una dedica che lui solo poteva capire: "Al Dr" Sonne, più ancora per me. E" C"" Nelle altre copie, quelle per Broch, per Alban Berg, per Musil, non lesinai le espressioni di ammirazione: vi si poteva leggere chiaro e tondo ciò che veramente provavo per loro, ben comprensibile per ognuno dei destinatari. Col dottor Sonne era diverso. Poiché tra me e lui non vi era mai stata una parola che sapesse di "privato", non avevo mai osato neanche dirgli quanto io l'ammirassi. In presenza di altre persone non pronunciavo mai il suo nome senza farlo precedere dal "dottor", e ciò non significava assolutamente che quel titolo avesse per me qualche valore, dal momento che a Vienna, su due persone che incontravi, una era "dottore": la parola non era più che una pleonastica espressione di rispetto. Non buttavi fuori quel nome di colpo, gli preparavi la strada con qualcosa di neutro, di incolore. Era anche un modo di far capire che con quel nome nessuno aveva il diritto di prendersi confidenze, quel nome restava sempre alla stessa distanza da chiunque, intangibile e remoto; e se poi, subito dopo il "dottor", veniva una parola sacra come Sonne, luminosa, fiammeggiante, alata, origine e - come a quel tempo si credeva ancora - fine di ogni forma di vita; se quel nome non diventava moneta corrente nonostante la sua rotondità e la sua semplicità, il merito andava a quel prenome che ristabiliva le distanze. Nemmeno io pensavo quel nome in maniera diversa, davanti a me come davanti a chiunque altro era sempre "dottor Sonne"; e soltanto adesso, dopo quasi cinquant'anni, il titolo accademico mi appare troppo esteriore e formale per questo nome; soltanto adesso, scrivendo, mi permetto di non ripeterlo ogni volta. A quel tempo il destinatario della dedica, lui solo, poteva capire che per me lui contava più del sole. Era anche l'unico davanti al quale il nome dell'autore si riduceva alle sole iniziali, quasi scomparendo. La calligrafia, per la grandezza delle lettere, rimaneva incorreggibilmente orgogliosa: l'autore non era uno che volesse scomparire, anzi sfidava finalmente il pubblico con quel libro che da anni viveva solo un'esistenza clandestina. Ma l'autore era pronto a scomparire davanti a colui che aveva a cuore soltanto il pensiero, e non se stesso. In un pomeriggio di metà ottobre, al Café Museum, consegnai al dottor Sonne il libro che egli non aveva mai visto in forma di manoscritto, il libro del quale non gli avevo mai parlato, del quale conosceva un unico capitolo, isolato, grazie alla lettura di quella serata. Forse ne aveva saputo qualcosa di più da altri, da Broch o da Merkel. L'opinione di Broch nelle questioni letterarie avrebbe potuto avere qualche peso per lui, ma neanche quella sarebbe stata decisiva. Il dottor Sonne si fidava solo del proprio giudizio, ma si sarebbe ben guardato dall'esprimersi in termini così presuntuosi. Da quel momento continuai a vederlo ogni giorno, come sempre. Ogni pomeriggio entravo al Café Museum, mi sedevo al suo tavolino, e lui non faceva mistero di avermi aspettato. Continuavano tra noi le conversazioni che a trent'anni mi avevano fatto rinascere. Niente era cambiato, ogni conversazione era certamente nuova, ma non nuova in maniera diversa da prima. Dalle sue frasi non trapelava nessun indizio di una lettura del romanzo. Su questo argomento egli taceva tenacemente, e io lo assecondavo. Ardevo dalla voglia di sapere se aveva cominciato, almeno cominciato, ma non glielo domandai una sola volta. Mi ero abituato a rispettare ogni ambito del suo silenzio, perché solo quando prendeva inaspettatamente a toccare un argomento era davvero all'altezza di se stesso. La sua autonomia, e lui sapeva difenderla nel modo più trasparente, senza mai ricorrere alla forza, ti insegnava a capire che cos'è l'autonomia intellettuale, e ciò che avevi imparato da lui era qualcosa che non potevi trascurare, meno che mai davanti a lui. Passarono le settimane, e io dominavo la mia impazienza. Un suo giudizio negativo, per quanto enunciato nella maniera più circostanziata, per quanto motivato con argomentazioni stringenti, mi avrebbe annientato. Era l'unica persona cui riconoscevo il diritto di pronunciare una sentenza di morte intellettuale nei miei riguardi. Ma lui taceva, e Veza, alla quale non potevo nascondere una cosa così importante, mi domandava una sera dopo l'altra, quando ritornavo nella Himmelstrasse: "Ha detto niente?". Io rispondevo: "No, credo che ancora non abbia avuto il tempo di dare un'occhiata". "Macché tempo e tempo! Ma se ogni giorno se ne sta due ore con te al caffè!". Quando io cercavo di darmi un contegno e dicevo distrattamente: "Ma non ha importanza. Abbiamo già discusso di molte Blendungen"; (2) quando tentavo di sviare il discorso in questo o in altri modi, Veza andava in collera e inveiva: "Sei diventato uno schiavo! Che tu fossi disposto ad accettare un padrone, non me lo sarei mai immaginato. Guarda che cosa mi tocca vedere! Adesso il libro è uscito, finalmente, e tu sei uno schiavo!". Sicuramente non ero schiavo di Sonne. Se avesse fatto o detto qualcosa di spregevole, non l'avrei più seguito. Da lui non avrei accettato qualcosa di volgare o di indegno, da lui meno che mai. Ma ero certissimo che era incapace di una sciocchezza o di una volgarità. Agli occhi di Veza questa fiducia, assoluta anche se vigile, diventava schiavitù. Lei conosceva molto bene questo stato, perché era ciò che provava per me. Si riteneva giustificata in questo sentimento dalle opere, e adesso ce ne erano finalmente tre di qualche valore. Ma quali erano le opere del dottor Sonne? Se esistevano, era molto abile nel nasconderle a tutti. Perché le nascondeva? Non gli sembravano degne delle poche persone con cui aveva rapporti? Veza sapeva perfettamente che il ritegno era la qualità che Broch, Merkel e altri ammiravano più di ogni altra nel dottor Sonne. Ma che adesso spingesse questo ritegno fino al punto di non dire una parola sul romanzo, di tacere per settimane nonostante i nostri incontri giornalieri, questo per Veza era disumano. Lei non faceva complimenti e non aveva riguardi per la mia sensibilità. Attaccava Sonne in tutti i modi possibili. Quando parlava di lui, sembrava che andasse in fumo l'umorismo di cui era più che provvista. Poiché lei stessa non era molto sicura del romanzo, temeva che il silenzio di Sonne equivalesse a una condanna, e non si faceva illusioni sull'effetto che quella condanna avrebbe avuto su di me. Un pomeriggio, al Café Museum, avevamo appena avuto il tempo di salutarci e di sederci quando Sonne disse subito, senza fare alcuna premessa, senza preamboli o parole di scusa, che aveva letto il romanzo. Volevo sapere che cosa ne pensava? Ne parlò per due ore, quel pomeriggio non si parlò d'altro. Esaminò il romanzo a fondo, chiarendone il contenuto e individuando una serie di connessioni di cui io non avevo mai sospettato la presenza. Lo trattò come un libro che esisteva già da tempo e che avrebbe continuato a esistere. Ne spiegò le origini e ne indicò gli sbocchi. Se si fosse limitato a generiche frasi di apprezzamento, avrei già potuto dirmi felice, dopo cinque settimane di dubbi, di fronte alla serietà del suo consenso; ma Sonne fece molto di più, soffermandosi su particolari che io avevo scritto ma non avevo motivato, e spiegandomi perché erano giusti e non potevano essere diversi da come erano. Parlò come se stesse facendo un viaggio di esplorazione, e mi portò con sé. Imparai da lui come se io fossi qualcun altro, non già l'autore: ciò che mi mostrava era così sorprendente che quasi non l'avrei riconosciuto come cosa mia. Era già stupefacente la padronanza con cui dominava ogni minima sfumatura, come se si trattasse di un vecchio testo che commentava davanti a una scolaresca. La distanza che stabiliva così tra me e il libro era maggiore di quella creata dai quattro anni in cui il manoscritto era rimasto nel cassetto. Vedevo davanti a me una struttura coerente, meditata in ogni particolare, che aveva in sé la sua dignità non meno che la sua giustificazione. Ero affascinato da tutte le sue considerazioni, perché ognuna mi colpiva come qualcosa di inaspettato, e desideravo soltanto che non smettesse più di parlare. Solo a poco a poco mi resi conto che il suo discorso aveva anche uno scopo: Sonne vedeva chiaramente che il libro avrebbe avuto un destino difficile e voleva armarmi contro gli attacchi che non sarebbero mancati. Dopo aver detto un'infinità di cose dalle quali non affiorava ancora il suo intendimento, si dispose finalmente a formulare gli attacchi ai quali bisognava essere preparati. Disse tra l'altro che qualcuno avrebbe visto nel libro l'opera di un vecchio asessuato. Mi dimostrò il contrario, adducendo con precisione le prove. Altri sarebbero insorti contro Fischerle, perché era ebreo, e avrebbero accusato l'autore di aver creato un personaggio che poteva essere sfruttato a favore delle idee venefiche che circolavano in quegli anni. Ma il personaggio era autentico, come erano autentici l'ottusa governante venuta dalla campagna e il portinaio violento. Passata la catastrofe, tutte le etichette di questo genere sarebbero cadute di dosso ai personaggi, che sarebbero rimasti a rappresentare ciò che alla catastrofe aveva portato. Cito fra i tanti solamente questo particolare, perché in seguito, col procedere degli eventi, mi accadde spesso di sentirmi a disagio per Fischerle, e allora cercavo sempre rifugio in quella precoce giustificazione. Ma infinitamente più importanti erano i nessi profondi che Sonne mi svelava. Preferisco non parlarne. Nei cinquant'anni trascorsi da allora molti di quei nessi sono stati oggetto di discussione. In libri e saggi si sono dette cose che Sonne aveva chiarito fin da allora. E" come se un libro nascondesse in sé un serbatoio di segreti al quale si attinge a poco a poco finché tutti sono scoperti e consumati. Questo momento finale mi fa paura, ma non è ancora arrivato. Conservo ancora dentro di me, intatta, una buona parte del tesoro che Sonne mi consegnò quel pomeriggio; e se ancora adesso ogni reazione seria suscita in me un moto di curiosità - di cui alcuni si stupiscono -, ciò dipende da quel tesoro, l'unico nella mia vita che posso dominare con lo sguardo e amministro consapevolmente. I rimproveri che mi vengono fatti ancora oggi da lettori furibondi non mi toccano veramente, neanche quando si tratta di persone che amo per la loro innocenza e che proprio per questo ho cercato di dissuadere dalla lettura. A volte, con preghiere insistenti, riesco a tenerne lontano qualcuno. Ma anche agli occhi di certi buoni amici che non vogliono più vedersi proibire questa lettura, accade che dopo io non sia più lo stesso. Intuisco allora che essi cercano in me il male di cui il libro è pervaso. So anche che non lo trovano, perché il male che adesso ho dentro di me non è più quello di allora, ma un altro. Io non posso aiutarli a uscire dalle loro perplessità: infatti, come potrei spiegare loro che Sonne mi ha tolto di dosso quel male, estraendolo, davanti ai miei occhi, da tutte le giunture e fessure del libro, per ricomporlo fuori di me, a una distanza che significa salvezza? NOTE: (1) Himmelstrasse vuol dire "via del cielo" e Am Himmel "In cielo" ?N" d'T"*. (2) Plurale di Blendung, "accecamento" ?N" d'T"*. Parte quarta - Grinzing Himmelstrasse Nella mia ricerca di ciò che non era in vendita, mi imbattei a Grinzing nella signorina Delug, che per tre anni sarebbe stata la nostra padrona di casa. L'appartamento, il più bello che avessi mai avuto, lo occupammo provvisoriamente, in attesa che si facesse avanti qualcuno disposto a pagare un affitto per tutti i locali che lo componevano. Noi avevamo diritto a quattro stanze, tra cui un vasto atelier con relativa loggia a vetri, e le arredammo alla meglio, mentre altri quattro locali rimasero vuoti. Quando avevamo ospiti, li accompagnavamo in giro per tutto l'appartamento, anche nelle stanze vuote, ed essi erano entusiasti della posizione, dell'ampiezza e del numero di quei locali, della vista che si godeva da ciascuno. Erano pochi quelli che non ci avrebbero invidiato le stanze vuote, che però non erano in vendita. L'onestà inflessibile della signorina Delug era la nostra difesa. Ci aveva affittato le quattro stanze a una condizione: se qualcuno avesse voluto l'appartamento intero, che era piuttosto caro, noi dovevamo sloggiare. Altrimenti restavamo gli unici inquilini, perché la signorina Delug si rifiutava di prenderne altri da mettere con noi. Le proposte non le mancavano, ma lei non ce le comunicava nemmeno e noi ne venivamo a conoscenza per altre vie. Diceva "no" senza esitare, rinunciando così a un secondo affitto dello stesso importo del nostro. Non era nei patti, diceva lei, sicuramente non sarebbe stato corretto nei nostri riguardi. Era una donna di poche parole, ma una delle più frequenti era "corretto", che lei pronunciava in modo gutturale, da tirolese qual era. Il suono della sua voce mi ricordava la Svizzera, e bastava questo a rendermela simpatica. Il gigantesco mazzo di chiavi si portava appresso una persona minuta: per quante stanze ci fossero in quell'edificio, progettato in origine per diventare un'accademia, stanze vuote e stanze abitate, in tutte la signorina Delug faceva la sua ronda quotidiana, salvo i casi in cui, temendo di disturbare, si annunciava cautamente il giorno prima; ed era quello che faceva con noi. Nell'edificio, tutto aveva grandi proporzioni, e già l'androne e la scalinata con i comodi gradini bassi ti davano l'impressione di entrare in un castello. Ma non c'era un signore a comandare, bensì quella piccola signorina, curva e canuta, che si lasciava rimorchiare dal suo mazzo di chiavi ed emetteva ogni tanto, fin troppo raramente, quelle poche parole gutturali che suonavano aspre ma volevano essere piene di riguardi. Viveva tutta sola, io non vidi mai nessuno della sua famiglia, forse aveva ancora dei parenti nel Tirolo meridionale, ma lei non ne parlava, non diceva una parola da cui si potesse desumere un legame qualsiasi con altre persone. Noi la vedevamo solo dentro la casa e nell'orto, mai nella Himmelstrasse, che scendeva a Grinzing, mai in una bottega: sembrava che non uscisse a fare la spesa, e portava una borsa solo quando andava a cogliere gli ortaggi. Arrivammo alla conclusione che la signorina Delug viveva di verdura e di frutta, mentre il latte se lo faceva portare dall'inquilino che abitava nello scantinato, nella parte posteriore della casa, di fronte all'orto, e che forse provvedeva anche all'acquisto del pane. La signorina abitava nella torre, in una grande stanza che Veza aveva occasione di vedere solamente quando saliva a pagare l'affitto. Lì c'era una quantità di cose vecchie, forse provenienti da una bella casa del Tirolo, ma tutte addossate le une alle altre, in parte nascoste alla vista, in un disordine poco accogliente, come se si fosse dovuto accatastarle alla rinfusa perché non c'era altro posto, sebbene poi nell'edificio ci fossero non poche stanze, molto grandi, che restavano completamente vuote. Quello era il centro, l'ufficio per così dire, dal quale la signorina Delug cercava di tenere insieme il "castello", ed era un impegno ben superiore alle sue forze. L'edificio era sorto più di vent'anni prima e già aveva bisogno di riparazioni in ogni angolo. La signorina doveva far fronte a quelle spese con gli affitti degli appartamenti, poiché suo fratello, il pittore Delug, verosimilmente aveva dato fondo a tutte le proprie sostanze per costruire l'accademia, il sogno della sua vita. Lei non ne parlava mai. Non si lamentava mai. Si limitò ad accennare, una volta, che c'erano tante riparazioni da fare. Come una contadina pensa soltanto alla sua fattoria, così lei cercava di tenere in piedi il sogno di suo fratello, ed era assolutamente sola, ed è probabile che non avesse altro pensiero che quello. L'imponente edificio, a mezza costa lungo la Himmelstrasse, doveva diventare un'accademia di pittura, ma non era mai servito al suo scopo. Delug era morto subito dopo la fine dei lavori di costruzione, e il compito di salvare l'accademia, di salvare almeno i muri, era caduto sulle spalle della sorella. Erano stati ricavati sei grandi appartamenti da dare in affitto, tre per ogni ala, ma c'erano anche costruzioni annesse e discreti scantinati. Il giardino, che si estendeva su tre lati, era suddiviso in diverse parti da belle scalinate e arricchito di statue che dovevano far pensare a reperti archeologici. Sul loro valore artistico si poteva anche non essere d'accordo, ma tutto l'insieme, concepito a imitazione di un giardino all'italiana, aveva una sua non comune attrattiva. Poiché la proprietà si trovava in mezzo a terreni coltivati a vigna, non stonava nel paesaggio, e proprio perché era un'imitazione aveva il fascino dell'arte. Da una piccola terrazza laterale, a cui si accedeva salendo una serie di gradini sconnessi e coperti d'erba, si godeva la vista della pianura del Danubio, che sembrava sconfinata, con la parte più vicina occupata dalle case di Vienna. Il luogo era già bello in sé, ma ciò che lo rendeva soprattutto attraente era la sua posizione, esattamente a metà strada tra il capolinea del tram 38 a Grinzing, in basso, e il bosco che cominciava più avanti, in alto. Chi ne aveva voglia poteva risalire la seconda metà della Himmelstrasse, passando davanti a ville più modeste, fino a un punto panoramico, chiamato "Am Himmel", che dominava Sievering e dopo il quale cominciava quasi subito il bosco. Chi invece non sentiva il richiamo del bosco poteva seguire la strada, non troppo larga, che descriveva un ampio arco prima di arrivare al Kobenzi, da dove lo sguardo spaziava ancora sul vasto panorama della pianura, mentre nelle vicinanze, sopra i vigneti, si vedeva il superbo edificio dell'accademia, nel quale avevo il privilegio di abitare. Quasi di fronte all'accademia, un po'"più in basso lungo la Himmelstrasse, abitava Ernst Benedikt, che fino a poco tempo prima era stato proprietario e editore della "Neue Freie Presse". Era un personaggio ricorrente nella "Fackel", e come tale lo conoscevo da parecchio tempo, anche se non mi era familiare come suo padre, Moritz Benedikt, che era veramente una delle bestie nere di Karl Kraus. (1) Ci eravamo già trasferiti al nuovo indirizzo quando venni a sapere di avere un vicino così malfamato, e sento ancora il brivido d'orrore che provai allorché Anna Mahler, venuta a ispezionare il mio nuovo e già celebrato atelier, mi indicò la casa dei Benedikt. Eravamo sulla terrazza panoramica del giardino, e io volevo farle ammirare la pianura del Danubio, poiché Anna aveva una passione per le ampie visuali; ma lei, con mio grande stupore, accennò in direzione di una casa assai vicina e disse: "Ma quella è la casa dei Benedikt!". Vi era stata qualche volta, raramente, perché non le interessava molto ciò che si faceva in quella casa. In passato la "Neue Freie Presse" aveva esercitato un potere notevole, ma adesso quello della madre di Anna era senza dubbio maggiore. Probabilmente Anna sapeva che il nome dei Benedikt aveva assunto qualcosa di demoniaco, essendo da tanti anni il bersaglio della "Fackel", ma per lei questo non contava, poiché nulla le era più estraneo della satira; si può anzi giurare che non avesse letto fino in fondo non dico una pagina, ma neanche una sola frase della "Fackel". Disse "casa dei Benedikt" come se si trattasse di una casa qualsiasi, e si meravigliò non poco vedendo che io, pungolato dalla sua innocente informazione e già in preda a tutti i sintomi dell'orrore, cercavo di sapere di più su quella pericolosa famiglia. "Ma sono proprio loro?" domandai più di una volta. "E abitano così vicino a noi?". "Non avrai mica bisogno di vederli" disse Anna. Voltai sgomento le spalle al panorama e ritornai all'accademia. Preferivo qualunque cosa piuttosto che continuare ad avere sotto gli occhi quella casa. "Lui è un uomo poco interessante" disse Anna. "Ha quattro figlie e suona il violino, neanche male, per dire la verità. Parla troppo. Ma pochi gli danno retta. Vuol sempre far vedere quanto è bravo, e in quanti campi, ma è piuttosto noioso". "E pubblica la "Neue Freie Presse"?". "L'ha venduta. Non ha più niente a che fare col giornale". "E adesso che cosa fa?". "Scrive. Di storia". Feci altre domande, ma senza uno scopo preciso. Volevo solamente parlare per nascondere la mia agitazione, che però era troppo grande per lasciarsi nascondere. In altri tempi doveva provare qualcosa di simile un credente che veniva a sapere di avere per vicino di casa un eretico, un essere col quale ogni contatto era pericoloso - e subito dopo gli dicono che non si tratta di un eretico, e neanche di qualcosa che comunque abbia a che fare con la salvezza dell'anima, bensì di un personaggio innocuo che non viene preso molto sul serio. Ero troppo spaventato per lasciarmi portar via così presto un personaggio che Karl Kraus aveva coltivato dentro di me per tanti anni. Ma continuavo a fare domande perché non volevo che Anna scoprisse la strana paura che quella specie di vicinanza abominevole mi metteva addosso. Ma lei se ne accorse lo stesso. Non mi derise perché in realtà non lo faceva mai con nessuno: era per lei qualcosa di antiestetico, una forma di indiscrezione, e dopo le esperienze fatte con sua madre ne rifuggiva scrupolosamente. Ma doveva sembrarle poco dignitoso che io mi soffermassi più di un attimo su quella vicinanza, e probabilmente voleva anche calmarmi per dare un'altra piega alla conversazione, perché di solito ci occupavamo di cose ben più interessanti e importanti. Per ritrovare il dominio di me stesso, ricorsi al solito espediente. Misi al bando la casa dei Benedikt e non la vidi più. Del resto la casa non era visibile dalla finestra della stanza in cui si trovavano i miei libri e il tavolo al quale scrivevo. La stanza dava sull'anticorte e la Himmelstrasse, mentre la casa dei Benedikt sorgeva più in basso, un po'"di sbieco di fronte a noi, e aveva il numero 55. Non si poteva vedere da nessuna finestra dell'appartamento, neanche dalle stanze disabitate. Per poterla notare, quella casa abominevole, bisognava scendere là dove il giardino vero e proprio si allargava, e mettersi sulla terrazza panoramica dove avevo accompagnato Anna. Dal giorno in cui avevo udito la sua esclamazione, che per me era diventata una minaccia, evitai la terrazza. In ogni modo questa si trovava un po'"in disparte, e il giardino, che si estendeva tutt'intorno all'edificio, era così vario e ricco di curiosità che si poteva mostrarlo agli ospiti senza dover andare a finire su quella certa terrazza. Quando poi scendevo per la Himmelstrasse e andavo in paese, quasi sempre per prendere il tram, guardavo a sinistra, senza neanche riflettere tanto, fino a quando avevo superato la casa col numero 55. Ci eravamo trasferiti all'accademia ai primi di settembre, e per quattro mesi buoni, fino a inverno inoltrato, quella precauzione fu sufficiente. Senza accorgermene, mi ero fatto però un'idea precisa della forma della casa Benedikt. Conoscevo la veranda aperta del primo piano, che dava sulla strada, la posizione delle finestre, il tipo del tetto, gli scalini che portavano all'ingresso: credo che nessun'altra casa dei dintorni mi fosse entrata nella testa con tanta esattezza, avrei potuto perfino disegnarla, io che sono sempre stato un pessimo disegnatore - ma non guardavo mai in quella direzione. Guardavo ogni volta verso sinistra, dall'altra parte; e per me resterà un enigma il modo e l'occasione in cui mi ero fatto - prima di mettervi piede - un'immagine così precisa della casa. Avevo bisogno di quell'immagine per esorcizzarla. Avevo informato Veza già durante la visita di Anna, e lei aveva riso della mia paura. Veza subiva non meno di me il fascino della "Fackel", ma solo fintanto che era seduta nella sala davanti a Karl Kraus, non un attimo di più. Poi leggeva tutto ciò che le interessava, incontrava le persone che voleva senza lasciarsi soggiogare dagli anatemi di Kraus, e le giudicava per quello che le apparivano, come se lui non ne avesse mai parlato. Anche adesso, su quegli stramaledetti vicini, non aveva trovato niente da ridire, anzi sembrava addirittura compiaciuta all'idea che in quella casa abitassero quattro ragazze, appunto le figlie di Ernst Benedikt, che la incuriosivano come tutte le ragazze di quell'età. Dopo avere scherzato sulla mia paura, Veza volle sapere se le ragazze erano carine, ma Anna non seppe dirle nulla di preciso. Allora domandò se ce n'era una di cui potevo innamorarmi, e Anna rispose che, secondo lei, non ce n'era nessuna, perché erano tutte ochette con le quali non si poteva nemmeno parlare; comunque avevano preso molto dalla madre, una donna amabile, senza grandi pretese, e non da quello stravagante del padre. Veza mise fine allo scherzo al momento giusto. Dopo aver fissato chiaramente la sua linea di indipendenza anche in questa faccenda, come in tutte, fece capire che non mi avrebbe negato il suo sostegno; e quando poi le annunciai il mio esorcismo su quella casa, promise di aiutarmi, evitando di complicare o confondere le cose con la sua curiosità per le quattro ragazze. Io stesso non mi arrovellai troppo a pensare che aspetto potevano avere le ragazze. In ogni caso portavano in sé il contagio maligno della "Neue Freie Presse", da cui discendevano. Quando percorrevi la Himmelstrasse per scendere in paese, ti accadeva spesso di incontrare le stesse persone alle stesse ore. Tu eri in vantaggio su di loro perché camminavi più svelto, i loro passi essendo rallentati dalla salita. Era come se si offrissero all'osservazione mentre ti avvicinavi dall'alto e passavi in fretta davanti a loro. C'era tuttavia un incontro che ti induceva a rallentare, quando vedevi salire dal basso una ragazza che si faceva avanti di gran carriera. Avvolta in un mantello aperto di colore chiaro, con i capelli neri come la pece sempre scoperti, il fiato grosso, gli occhi scuri puntati su una meta ignota, giovanissima, forse diciassettenne, bella come un pesce scuro se il respiro che sentivi non fosse stato così forte, qualcosa di orientale nei lineamenti (ma troppo alta e robusta per una giapponese della sua età), correva via con un tale impeto, quasi alla cieca, che avevi un attimo di esitazione nel timore che ti piombasse addosso, ma uno sguardo le bastava per evitare l'urto. Ti sentivi colpito da quello sguardo, in cui leggevi soltanto la fuga. Dalla sua persona emanava una vita tempestosa, ma sembrava così giovane che ti trattenevi dal seguirla con gli occhi e perciò non potevi scoprire dove corresse con tanta furia, benché fosse chiaro che doveva abitare in qualcuna delle case che sorgevano più avanti, nella parte superiore della Himmelstrasse. La vedevo passare solo verso mezzogiorno, e non so proprio che cosa io stesso andassi a fare in paese a quell'ora. Dopo alcuni incontri con l'eccitante fretta di quell'essere tutto nero, quasi ogni giorno mi trovai alla stessa ora sulla Himmelstrasse, e non sospettavo che lo facevo per lei, sebbene avessi cura di non arrivare troppo presto al bivio con la Strassergasse, perché lei veniva di là e io non ero diretto da quella parte. Così non deviavo di un passo per causa sua, non le andavo incontro, perché facevo la mia strada: se lei arrivava, era affar suo e della sua furia; e se ormai facevo quella camminata quasi ogni giorno per amor suo, a me stesso non lo confessavo. Il suo nome, qualunque nome, mi avrebbe deluso, salvo che fosse un nome orientale. A quel tempo avevo una certa familiarità con le stampe giapponesi a colori. Si erano impadronite di me allo stesso modo del teatro Kabuki, di cui per tutta una settimana ero andato a vedere gli spettacoli alla Volksoper. Le stampe di Sharaku, che raffiguravano attori del Kabuki, mi erano tanto care anche perché avevo sperimentato su di me, per sette serate consecutive, l'effetto di un dramma Kabuki. In questi spettacoli le parti femminili erano interpretate da uomini, e anche nelle stampe di Sharaku non c'era assolutamente nessuno che somigliasse all'apparizione quotidiana nella Himmelstrasse. Ma la veemenza, la stessa che mi affascinava nella ragazza che saliva di furia, era comune a tutte quelle figure; e così mi sembra adesso che proprio quell'incantevole corsa a perdifiato mi costringesse, a una determinata ora del giorno, a fare la strada che mi collegava al paese e alla città, la strada che in ogni caso dovevo fare per arrivare a Vienna. A quell'ora - verso l'una - lo spettacolo cominciava, e io ne ero lo spettatore puntuale. Non m'interessava guardare dietro le quinte, non volevo scoprire niente, ma non mi lasciavo sfuggire l'entrata in scena, quella no. Con l'acuirsi del freddo, stavamo addentrandoci nell'inverno, crebbe la drammaticità di quelle entrate in scena, perché la ragazza spandeva un nembo di vapore. Il mantello sembrava ancora più aperto e lei sembrava ancora più frettolosa, le sue violente espirazioni si disegnavano come nuvole nell'aria gelida. Avevo la sensazione che in lei la fretta crescesse da una volta all'altra: la temperatura si abbassava, nuvole sempre più grosse le uscivano dalla bocca aperta, e quando mi passava accanto, quasi sfiorandomi, la udivo ansimare. Non appena si avvicinava la sua ora, io interrompevo il lavoro. Lasciavo cadere la matita, balzavo in piedi e uscivo di casa senza che nessuno se ne accorgesse, da una porta speciale che collegava la mia stanza col vestibolo. Scendevo l'ampia scala dai gradini bassi, arrivavo nell'anticorte, guardavo verso le finestre del primo piano come se io stesso fossi ancora lassù, e subito ero sulla strada. Avevo sempre un po'"di paura, il personaggio del Kabuki, la ragazza orientale, poteva già essere passata, ma poi in realtà non era mai così: avevo il tempo di evitare dopo pochi passi la casa del numero 55, guardando tenacemente a sinistra e obbedendo all'anatema che l'aveva colpita, e ogni volta vedevo venirmi incontro a passo di carica, tra il numero 55 e il bivio della Strassergasse, quella creatura scatenata che emanava eccitazione intorno a sé. Di quella visione assorbivo tutto ciò che potevo, per avere una scorta che durasse anche più di ventiquattr'ore. Di solito mi informavo sul conto di molte facce nuove che vedevo da quelle parti e mi facevo raccontare ciò che ne sapevano gli altri. Sulla ragazza che saliva di furia non feci mai domande. Rumorosa e spavalda come appariva, dentro di me era diventata un segreto. NOTE: (1) All'inizio della prima guerra mondiale Karl Kraus aveva bollato Moritz Benedikt come "il banchiere delle battaglie". Nell'epilogo degli Ultimi giorni dell'umanità lo raffigurò come il Signore delle iene che scorrazzano ancora sul campo di battaglia tra i corpi dei caduti ?N" d'T"*. L'ultima versione Un anno e mezzo prima del trasferimento a Grinzing, quando abitavamo ancora nella Ferdinandstrasse, Veza e io ci eravamo sposati. Avevo tenuto nascosta la notizia a mia madre, che abitava a Parigi, e se in seguito lei ebbe forse qualche sospetto su ciò che si celava dietro il nuovo indirizzo di Himmelstrasse, questo sospetto non fu mai espresso apertamente. Non avevo più potuto tacere con Georg, mio fratello, ma anche lui, che conosceva la mamma meglio di tutti, aveva tenuto il segreto. Poi la mamma aveva ricevuto la notizia insieme col mio libro, che per lei era stato una grande sorpresa. Fintanto che si parlava del libro, e la mamma ne parlava in termini molto inconsueti, remissivi, il matrimonio passava per lei in seconda linea, in mezzo a tutte le altre notizie. Io mi cullavo nella speranza che tra lei e me il peggio fosse passato, che per lei non avessero più tanta importanza gli anni in cui (per proteggere Veza, ma anche per risparmiare alla mamma la pena maggiore) l'avevo ingannata sul perdurare, anzi sull'indissolubilità della relazione con Veza. La mamma si era compiaciuta del libro senza rinunciare al suo solito orgoglio: il libro era proprio come lei stessa l'avrebbe scritto, sembrava opera sua, avevo fatto bene a voler scrivere, avevo fatto bene a mettere da parte tutto il resto, a uno scrittore la chimica non serve proprio! Lasciata la chimica, e io mi ero battuto con energia per liberarmene, avevo tenuto testa a lei stessa e con quel libro avevo giustificato le mie pretese. Erano queste le cose che la mamma mi scriveva, ma poi, quando la rividi a Parigi e cercai di schermirmi da quella "remissività" che in lei non avevo mai conosciuto e che sopportavo a stento, vennero fuori molte altre cose, sempre di più. Improvvisamente la mamma si mise a parlare di mio padre, della sua morte, che aveva avuto tanto peso su tutta la nostra vita successiva. Non voleva più avere riguardi nei miei confronti, adesso mi prendeva sul serio e mi diceva la verità. Per la prima volta appresi ciò che per tutto quel tempo, ed erano passati più di ventitré anni, la mamma mi aveva dissimulato con versioni sempre nuove, ogni volta differenti. (1) A Reichenhall, in Germania, dove era andata per le cure termali, aveva incontrato quel medico che parlava la sua stessa lingua, che dava a ogni parola i suoi contorni netti, precisi. Si era sentita costretta a rispondere e aveva trovato in sé cose inaspettate e ardite. Lui le diede da leggere Strindberg, e lei da allora ne rimase soggiogata, perché Strindberg pensava delle donne tutto il male che ne pensava lei stessa. Confessò al medico chi era il suo "santo", Coriolano, e lui non trovò in questo nulla di stravagante, anzi un motivo per ammirarla. Non le domandò come una donna potesse avere scelto un modello simile: invece, preso com'era dalla fierezza e dalla bellezza di lei, le dichiarò i propri sentimenti. Lei non si stancava di ascoltarlo, ma non gli cedette. Gli permise ogni parola, ma nel rispondere non ne usò mai una che lo riguardasse personalmente. Dalle sue parole lui era escluso: lei voleva parlare di ciò che lui le dava da leggere, e sentire lui parlare delle persone che, come medico, conosceva bene. Si meravigliò delle cose che lui le diceva, ma non ne accettò nessuna; lui però la esortava a separarsi e a sposarlo. Era affascinato dal suo tedesco, lei parlava il tedesco come nessun altro, per lei l'inglese non avrebbe mai avuto lo stesso valore. Per due volte lei chiese a mio padre di prolungare il soggiorno a Reichenhall, perché la cura le faceva bene. A Reichenhall era rifiorita, ma sapeva perfettamente che cosa le faceva tanto bene: le parole del medico. Quando chiese una terza volta di rinviare la partenza, mio padre oppose un rifiuto e le ingiunse di ritornare immediatamente. Lei ritornò con la coscienza di non aver mai pensato, nemmeno per un istante, di cedere al medico. Non ebbe la minima esitazione a raccontare tutto a mio padre. Era tornata da lui, aveva vinto, la sua vittoria era un trionfo per lui. Gli portava se stessa e ciò che le era accaduto, e lo deponeva - usò questa frase - ai piedi di mio padre. Ripeté davanti a lui le parole di ammirazione del medico e non riuscì a capire la crescente agitazione di mio padre. Lui voleva sapere sempre di più tutto voleva sapere -, anche quando non c'era più niente da sapere continuava a fare domande. Voleva una confessione, e lei non aveva niente da confessare. Lui non poteva crederci: se non era accaduto niente, com'era possibile che il medico le avesse fatto una proposta di matrimonio, a lei, a una donna sposata, madre di tre figli? Lei non ci trovava niente di strano, perché sapeva come tutto era nato da quelle conversazioni. Lei non si rammaricava di niente, non ritirava niente, diceva e ripeteva che la cura le aveva fatto bene, che adesso si sentiva perfettamente in salute, che solo per questo era andata a Reichenhall e che era felice di essere di nuovo a casa. Ma mio padre le faceva le domande più incredibili. "Ti ha visitata?" le chiese. "Ma certo, era il mio medico". "Avete parlato in tedesco?". "Sì. Che altra lingua dovevamo usare?". Lui volle sapere se il medico conosceva il francese, e lei disse che era probabile, dal momento che avevano parlato anche di libri francesi. Allora, perché non avevano tenuto le loro conversazioni in francese? Questa domanda era sempre rimasta incomprensibile per la mamma. Ci aveva ripensato infinite volte. Come poteva essergli venuta l'idea che un medico delle terme di Reichenhall usasse con lei una lingua diversa dal tedesco, se per lei il tedesco era la lingua più familiare? Mi stupii che la mamma non si rendesse conto di ciò che aveva fatto, perché la sua infedeltà consisteva appunto in questo: nell'avere usato con un uomo innamorato di lei quella che per lei e per mio padre era la lingua dell'intimità, il tedesco. Nei momenti importanti della vita di mia madre, il fidanzamento, il matrimonio, la liberazione dalla tirannia del nonno, solo il tedesco aveva regnato. Forse per lei il ricordo non era più così vivo da quando mio padre, a Manchester, si dava tanta pena per imparare l'inglese. Ma lui sentiva benissimo che la mamma era ritornata al tedesco con passione, e credeva di avere davanti agli occhi le inevitabili conseguenze. Lui si rifiutò di parlarle prima di avere avuto una confessione, tacque una notte intera e tacque il mattino seguente. Morì nella convinzione che lei l'avesse ingannato. Non ebbi il coraggio di dire alla mamma che era colpevole nonostante la sua incolpevolezza, perché aveva consentito l'uso di quella lingua che non avrebbe mai dovuto consentire. Per settimane aveva continuato a parlare così, e a mio padre aveva addirittura taciuto una cosa, come lei stessa ammetteva, una cosa sola: Coriolano. Lui non avrebbe capito, disse la mamma. Erano ancora così giovani quando parlavano tra loro del Burgtheater. Negli anni dell'adolescenza abitavano tutt'e due a Vienna, e prima ancora di conoscersi avevano assistito spesso ai medesimi spettacoli. Ne avevano parlato in seguito, e allora avevano la sensazione di essere andati a teatro insieme. L'idolo di mio padre era Sonnenthal, l'idolo di mia madre era Charlotte Wolter. A lui gli attori interessavano più che a lei, li imitava, ne parlava più volentieri. Lui non si soffermava molto sui testi, lei si rileggeva tutto a casa, mentre lui si divertiva a declamare. Come attore lui sarebbe riuscito molto meglio di lei. Lei rifletteva troppo e tendeva a essere più seria. A lei le commedie non piacevano come a lui. Si erano conosciuti a fondo, lei e mio padre, attraverso gli spettacoli ai quali tutt'e due avevano assistito. Il Coriolano lui non l'aveva mai visto, non gli sarebbe neanche piaciuto, non poteva soffrire certe forme di orgoglio spietato. Proprio perché i parenti di mia madre erano così orgogliosi, aveva dovuto tribolare non poco prima di superare la loro opposizione al matrimonio. Ci sarebbe rimasto male se avesse scoperto che fra tutti i personaggi di Shakespeare quello più caro a mia madre era Coriolano. Lei non si era mai resa conto che con lui evitava di parlare di Coriolano: le venne in mente solo quando a Reichenhall, all'improvviso, lo tirò fuori nelle conversazioni col medico. C'era forse qualcosa che la rendeva infelice? Mio padre l'aveva offesa in qualche modo? Io non le feci molte domande, la mamma andava avanti per conto suo, era impossibile distoglierla dalle cose che in lei covavano da tempo. Ma quella domanda mi assillava, e feci bene a non tacere. No, lui non l'aveva mai offesa, nemmeno una volta. Era Manchester a offenderla, perché non era Vienna. Non diceva niente quando mio padre mi portava da leggere dei libri inglesi e ne parlava con me in inglese. Era questo il motivo che l'aveva indotta, allora, ad allontanarsi da me. Mio padre era entusiasta dell'Inghilterra. E sì, in fondo aveva ragione, perché la gente era civile e beneducata. Peccato che lei non conoscesse tanti inglesi, costretta com'era a vivere tra i suoi parenti, con quella loro ridicola educazione. Non c'era nessuno con cui potesse conversare veramente. Per questo si era ammalata, non per il clima. Per questo la cura di Reichenhall, ossia il conversare con quel medico, le aveva fatto tanto bene. Ma era una cura, ed era bastata. Le sarebbe piaciuto andarvi ogni anno. Ma la gelosia di mio padre distruggeva tutto. Avrebbe dovuto non dirgli il vero? Questa domanda mia madre la fece con la massima serietà, e voleva che fossi io a rispondere. Me la rivolse in tono perentorio, come se tutto fosse appena avvenuto. Sull'incontro col medico non aveva niente da rimproverarsi. Non mi domandava: avrei dovuto non ascoltarlo? Le sembrava di aver fatto abbastanza restando sorda alla corte del medico. Io le diedi la risposta che non avrebbe voluto. "Non dovevi far vedere quanto era importante per te" dissi con qualche esitazione, ma già era implicito un rimprovero. "Non avresti dovuto vantartene. Avresti dovuto accennarvi di sfuggita". "Ma era una cosa che a me aveva fatto piacere!" rispose con impeto. "E mi fa piacere ancora oggi. Credi che altrimenti avrei mai scoperto Strindberg? Io sarei un'altra persona, tu non avresti scritto il tuo libro. Saresti rimasto fermo alle tue poesiole. Nessuno si sarebbe mai accorto di te. Tuo padre è Strindberg. Io ti ho avuto da Strindberg. Ho fatto di te un suo figlio. Se io avessi rinnegato Reichenhall, tu non saresti approdato a nulla. Tu scrivi in tedesco perché io ti ho portato via dall'Inghilterra. In te c'è ancora più Vienna di quanta ce ne sia in me. Il tuo Karl Kraus, che io non potevo soffrire, l'hai trovato a Vienna. Hai sposato una viennese. Adesso abiti addirittura a Grinzing, dove i veri viennesi lasciano il cuore, e sembra che il posto non ti dispiaccia. Appena stò un po'"meglio vengo a farvi una visita. Dillo a Veza, dille che di me non deve aver paura. Un giorno tu la abbandonerai, come hai abbandonato me. Si avvereranno le storie che hai inventato per nascondermi la tua relazione con lei. Tu devi inventare, tu sei un poeta. Per questo ti ho creduto. A chi si deve credere, se non ai poeti? Forse alla gente d'affari? Ai politici? Io credo soltanto ai poeti. Ma devono essere diffidenti come Strindberg e leggere fino in fondo nell'anima delle donne. Non si penserà mai abbastanza male degli esseri umani. E tuttavia non vorrei vivere un'ora di meno. Siano pure malvagi! Vivere è meraviglioso! E" meraviglioso vedere tutte le malvagità fino in fondo, e tuttavia vivere! Da quelle parole compresi che cos'era successo a mio padre. Aveva sentito che la mamma, pur non avendo niente da confessare, gli aveva voltato le spalle. Forse una confessione nel senso corrente della parola lo avrebbe colpito meno profondamente. La mamma non aveva saputo valutare quel che avveniva in lei, altrimenti non avrebbe potuto aggredire mio padre con la propria felicità. Non era una donna senza pudore, non si sarebbe vantata se avesse sospettato nel proprio comportamento qualcosa di impuro. Ma come poteva mio padre accettare ciò che era accaduto? Per lui le parole tedesche che scambiava con la mamma erano intangibili, e lei aveva fatto sacrificio di quelle parole, di quella lingua. Per lui era diventato amore tutto ciò che si era svolto sul palcoscenico davanti a loro. Se l'erano raccontato innumerevoli volte, e grazie a quelle parole avevano sopportato l'angustia del loro ambiente. Quando da bambino mi rodevo d'invidia per quelle parole straniere, avevo la misura di tutta la mia superfluità. Non appena cominciavano a parlare in tedesco, per loro non c'era più nessun altro lì intorno. Quel senso di esclusione mi gettava in preda al panico, e così mi ritiravo nella stanza vicina a ripetere tra me, disperatamente, le parole tedesche di cui non capivo il significato. La confessione della mamma mi riempì di amarezza. Mi sentivo ingannato. Nel corso degli anni avevo ascoltato versioni sempre nuove, e ogni volta sembrava che mio padre fosse morto per un motivo differente. Ciò che la mamma spacciava per un riguardo verso la mia giovane età, era in sostanza un sapersi colpevole, un modo sempre diverso di valutare la propria colpa. Nelle notti successive alla morte di mio padre, quando io dovevo impedirle di compiere gesti inconsulti, il senso di colpa era stato così forte da toglierle la voglia di vivere. La mamma ci aveva portati a Vienna per essere più vicina al luogo di cui si erano nutrite le sue prime conversazioni con mio padre. Nel viaggio verso Vienna fece tappa a Losanna e mi forzò col suo metodo atroce a imparare la lingua che prima ero condannato a non capire. A Vienna, durante le serate che dedicavo con lei alla lettura e alle quali devo la mia formazione, fece rivivere quelle lontane conversazioni con mio padre, ma vi aggiunse il Coriolano, col quale si era resa colpevole. A Zurigo, nella Scheuchzerstrasse, si abbandonava sera per sera a quei volumi gialli di Strindberg che io le regalavo uno dopo l'altro. Poi la sentivo cantare sottovoce al pianoforte, parlare con mio padre e piangere. Gli avrà detto il nome di colui che lei leggeva così avidamente e che lui non conosceva? Adesso la mamma vedeva in me il figlio della sua infedeltà. Mi diceva in faccia chi ero. E mio padre? Chi era, che cos'era adesso mio padre? In quei momenti la mamma faceva tutto a pezzi e mostrava il coraggio che avrebbe avuto se avesse vissuto la sua autentica vita. Aveva il diritto di riconoscersi nel mio libro e di dire che lei stessa l'avrebbe scritto così, che lei era quel libro. E perciò ritrovava anche la sua generosità e accettava Veza, sorvolando sul fatto che io l'avevo ingannata per tanto tempo sul conto di Veza. Ma a quella generosità univa una perfida profezia: allo stesso modo che avevo abbandonato lei, avrei abbandonato anche Veza. Non poteva vivere senza il pensiero di una vendetta. Nell'annunciare una visita a Grinzing immaginava già di poter assistere in casa nostra al compiersi della sua predizione. Precipitosa e irruente com'era, dava per certo che la pubblicazione del libro - un libro di cui si sentiva compenetrata - avrebbe segnato l'inizio di un periodo trionfale. Mi vedeva circondato da donne che mi corteggiavano per la "misoginia" del romanzo e anelavano a farsi punire per il fatto di essere donne. Vedeva una fila di affascinanti bellezze spuntare accanto a me a Grinzing, ma in un rapido avvicendarsi, l'una dopo l'altra, e vedeva Veza, finalmente scacciata e dimenticata, rifugiarsi in un piccolo appartamento simile a quello che lei stessa occupava a Parigi. Così le bugie con cui avevo distolto la sua attenzione da Veza sarebbero un giorno diventate realtà; e non aveva importanza quando quel giorno sarebbe venuto. Io avevo semplicemente anticipato gli avvenimenti, io non avevo ingannato la mamma, e lei non si era lasciata ingannare, perché nessuno poteva tenerle testa con le proprie cattiverie, lei aveva il dono di leggere nell'animo, un dono che aveva trasmesso anche a me: io ero suo figlio. Quando partii da Parigi ero convinto che la mamma si fosse rassegnata al nostro matrimonio e che provasse per Veza un sentimento simile alla pietà, proprio a causa della sventura che incombeva su di lei. La mamma credeva di conoscere il futuro di Veza, ciò che Veza non osava ammettere neanche con se stessa, e da tutto questo traeva un senso di soddisfazione. Io mi immaginavo le future conversazioni tra loro e me ne sentivo sollevato. Forse questa prospettiva mi consolava un poco delle cose terribili che avevo appreso sulla fine di mio padre. Ma tutto andò diversamente. Io mi ero illuso, avevo sottovalutato l'ampiezza delle oscillazioni che avvenivano in mia madre e che adesso diventarono spaventose. La mamma aveva finalmente parlato con me, e io non avevo riflettuto sugli effetti che questa circostanza doveva avere su di lei. Fino allora mi aveva tenuto a bada: in tutti gli anni della nostra passata convivenza, che a me era apparsa così piena di sincerità, mi aveva fuorviato con versioni sempre nuove, riuscendo a custodire il suo segreto. Adesso lo aveva rivelato, mi aveva chiesto la mia opinione, e io, nella mia sensibilità per le parole, l'avevo biasimata, non per ciò che era avvenuto, ma perché non aveva risparmiato mio padre, perché non voleva rendersi conto del male che gli aveva fatto vantandosi di ciò che era successo a Reichenhall. Lo sfogo con cui la mamma aveva accolto i miei rimproveri non mi aveva spaventato, ma era servito a rafforzarmi nell'opinione che lei era ancora la stessa, indistruttibile; e a farmi credere che ora compisse un gesto sovrano per metter fine alla lunga guerra tra noi, una guerra di cui capiva la necessità. Ciò che non avevo previsto avvenne pochi mesi dopo. In quello stesso anno la mamma tornò a irrigidirsi contro di me, e senza denigrare Veza come faceva in passato, senza accusarla, annunciò di non volermi vedere mai più. NOTE: (1) Si veda il primo volume dell'autobiografia di Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, Milano, 1983, pp" 79-87 ?N" d'T"*. Alban Berg Oggi mi sono riguardato con commozione alcune immagini di Alban Berg. Non oso ancora adesso parlare dei miei rapporti con lui. Voglio soltanto accennare ad alcuni incontri, e lo farò, per così dire, solo dall'esterno. L'ultima volta l'ho visto al Café Museum poche settimane prima della sua morte, e fu un breve incontro notturno, dopo un concerto. Io lo ringraziai di una sua bellissima lettera, lui mi domandò se qualcuno aveva già recensito il mio libro. Gli dissi che era ancora troppo presto, ma lui non sembrava d'accordo ed era pieno di sollecitudine verso di me. Senza dirlo espressamente, voleva avvertirmi di un pericolo a cui dovevo prepararmi. Era in pericolo lui stesso, e tuttavia voleva proteggermi. Sentivo il calore che aveva per me fin dal nostro primo incontro. "Ma che cosa può succedere di tanto grave," gli dissi "quando si è ricevuta una lettera come la sua?". Si schermì, sebbene fosse contento di quel che dicevo. "A sentire lei, sembrerebbe che la lettera gliel'abbia scritta Schönberg," disse "ma è soltanto una lettera mia". Non che mancasse di amor proprio. Sapeva benissimo chi era. Ma c'era un uomo che con fede incrollabile metteva sopra di sé: Arnold Schönberg. Io gli volevo bene per quella generosa ammirazione di cui era capace. Ma avevo motivo di volergli bene per molte cose. Allora non sapevo che Berg soffriva da mesi di foruncolosi, non sapevo che gli restavano solo poche settimane di vita. A Natale, improvvisamente, ebbi da Anna la notizia che era morto il giorno prima. Il 28 dicembre 1935 andai al cimitero di Hietzing per assistere alla sepoltura. Non vi trovai tutto il movimento che mi ero aspettato, non c'erano persone che camminassero in una determinata direzione. A un piccolo becchino deforme domandai dove si teneva la cerimonia per Alban Berg. "La salma Berg è lassù a sinistra!" strillò a gran voce. Mi spaventai, ma seguii la direzione indicata e trovai un gruppo di forse trenta persone. C'era Ernst Krenek, c'erano Egon Wellesz e Willi Reich. (1) Dei diversi discorsi ricordo soltanto che Reich si rivolse al defunto come al suo maestro, con la dimestichezza di un allievo. In verità non fu un gran discorso, ma era pieno ancora di umiltà davanti al maestro scomparso, e furono le sole parole che in quel momento non mi diedero fastidio. Gli altri, quelli che parlarono in maniera più intelligente e composta, non li ascoltai, non volevo ascoltarli perché non mi sentivo di ammettere che eravamo lì a seppellire Alban Berg. Lo vedevo davanti a me, lo vedevo ondeggiare lievemente dopo un concerto in cui lo avevano commosso alcuni poèmes di Debussy. Alto com'era, camminava piegato in avanti, e quando poi cominciò quell'ondeggiare pareva che il vento gli soffiasse intorno, così che lui somigliava a un lungo stelo. Disse "meraviglioso", ma la parola gli rimase a metà in gola, sembrava quasi ubriaco. Era un balbettio che racchiudeva in sé un elogio, una confessione ondeggiante. Quando andai a trovarlo la prima volta a casa sua - gli ero stato raccomandato da H" (2) -, mi colpì l'allegria con la quale mi accolse. Famoso nel mondo, lebbroso a Vienna - mi ero immaginato un uomo di spettrale ritrosia. Me lo figuravo lontano dal suo ambiente di Hietzing e non mi domandavo perché abitasse lì. Non lo collegavo con Vienna, se non sotto un aspetto: lui, grande compositore, era lì per sperimentare il disprezzo della città musicale per eccellenza. Pensavo che Berg doveva essere così, che le opere meritevoli di attenzione potevano nascere solamente in una simile atmosfera di ostilità; e non facevo differenza tra compositori e scrittori, negli uni e negli altri c'era la stessa capacità di resistenza, una qualità fondamentale nella loro natura. Mi sembrava che quella resistenza scaturisse da un'unica fonte, che quella forza si alimentasse alla sorgente di Karl Kraus. Non ignoravo l'importanza che Karl Kraus aveva per Schönberg e per i suoi allievi. All'inizio, forse, dipendeva da questo la buona opinione che avevo di loro. Ma nel caso di Alban Berg si aggiungeva il fatto che aveva scelto il Wozzeck come soggetto della sua opera. Ero andato da lui con le più grandi speranze, immaginando però una persona ben diversa: quando mai si riesce a immaginare esattamente un uomo eccezionale? Ma Alban Berg è l'unico che, dopo avermi ispirato tante speranze, non mi abbia deluso. Rimasi sbalordito dalla sua naturalezza. Non pronunciava grandi frasi. Era curioso perché di me non sapeva niente. Domandò che cosa avevo fatto fino allora, se era possibile leggere qualcosa di mio. Dissi che non avevo pubblicato neanche un libro, soltanto l'edizione di Nozze per il teatro. In quel momento cominciò a volermi bene, anche se in realtà me ne sono reso conto solo più tardi. Ciò che provai allora fu un calore improvviso, quando mi disse: "Dunque non c'è nessuno che si sia fidato. Potrei leggere il dramma?". Nella domanda non c'era un'enfasi particolare, e tuttavia non si poteva dubitare che dicesse sul serio, perché subito aggiunse per farmi coraggio: "A me è successo esattamente lo stesso. Vuol dire che c'è qualcosa che vale". Con questo accostamento non sminuiva se stesso, ma con una frase simile mi riempiva di speranza, mi faceva il dono più grande. Non era la speranza che H" dispensava con la sua abilità organizzativa, la speranza che ti lasciava freddo o ti deprimeva, la speranza che H" si affrettava a trasformare in strumento di potere: era qualcosa di personale, di semplice, senza nessuna apparente pretesa, anche se presupponeva una richiesta. Gli promisi il testo del dramma e non ebbi alcun dubbio sulla sincerità del suo interessamento. Gli raccontai in quale stato d'animo mi ero imbattuto nel Wozzeck a ventisei anni e quante volte avessi letto e riletto quel frammento durante una sola notte. Venne fuori che Berg aveva ventinove anni quando aveva vissuto l'esperienza della prima rappresentazione del Wozzeck a Vienna. L'aveva visto molte volte e aveva subito deciso di farne un'opera. Io gli dissi anche come il Wozzeck avesse preparato la strada a Nozze: non c'era una connessione diretta, ma io solo sapevo quanto il mio dramma fosse legato a quello di Büchner. Poi, nel corso della conversazione, mi permisi alcune temerarie osservazioni su Wagner, e lui le rintuzzò deciso, ma senza asprezza. Del Tristano aveva un concetto che sembrava immutabile. "Lei non è un musicista," disse "altrimenti non parlerebbe così". Mi vergognai della mia impertinenza, ma come si vergognerebbe uno scolaro che ha dato una risposta sbagliata, e non ebbi la sensazione che il mio passo falso avesse intiepidito l'interesse che Berg mi aveva dimostrato. Subito dopo, infatti, per togliermi dall'imbarazzo, mi pregò di nuovo di fargli avere il testo di Nozze. Non fu quella la sola occasione in cui Berg intuì ciò che stava accadendo in me. A differenza di molti musicisti non era sordo alle parole. Le accoglieva in sé quasi come la musica, capiva il linguaggio degli uomini non meno di quello degli strumenti. Già dopo il primo incontro sapevo che Berg apparteneva a quel piccolo gruppo di musicisti che vedono gli uomini nello stesso modo degli scrittori. Quando ero andato a trovarlo ero per lui un perfetto sconosciuto, e questa circostanza mi rivelò il suo amore per gli esseri umani, un amore così forte che Berg poteva difendersene soltanto con la sua inclinazione alla satira. Nel viso aveva sempre un tratto di ironia, intorno alla bocca e agli occhi, e gli sarebbe bastato poco per alzare una barriera di asprezza davanti alla propria cordialità. Preferiva invece servirsi dei grandi satirici, ai quali rimase fedele per tutta la vita. Vorrei parlare di ogni mio singolo incontro con Alban Berg, e non furono tanto rari nel corso dei pochi anni della nostra conoscenza. Ma su tutti si è allungata l'ombra della sua morte precoce: morì, come Gustav Mahler, prima di arrivare al cinquantunesimo anno. Così tutti i colloqui di cui conservo il ricordo hanno perduto colore, e io temo di alterare la serenità di Berg con la tristezza che continuo a provare per lui. Penso a una frase contenuta in una lettera a un suo allievo, della quale venni a sapere solo molti anni dopo: "Uno, due mesi ho ancora da vivere ma poi? - Non penso ad altro e non mi arrovello che su questo - sono dunque profondamente depresso". Questa frase non si riferiva alla malattia, ma all'urgenza della minaccia che incombeva. Negli stessi giorni Berg mi scriveva la meravigliosa lettera sul mio romanzo, che aveva letto in quella condizione di spirito. Soffriva atrocemente e temeva per la vita stessa, ma non buttò via il libro, se ne lasciò opprimere, era risoluto a rendere giustizia all'autore e gli rese giustizia; perciò la sua lettera, la prima che io abbia ricevuto su quel libro, mi è rimasta la più cara di tutte. Sua moglie Helene gli è sopravvissuta per più di quarant'anni. C'è gente che trova da ridire su questo e in particolare contesta il fatto che Helene possa essere rimasta in comunicazione col marito per tutti quegli anni. Anche se lei era prigioniera di un'illusione, anche se lui le parlava solo dentro di lei e non dall'esterno, questa è pur sempre una forma di sopravvivenza per la quale io provo rispetto e ammirazione. Io stesso vidi Helene trent'anni dopo la morte di Berg, al termine di una conferenza di Adorno a Vienna. Usciva dalla sala, piccola e rattrappita, una donna decrepita, così assente che dovetti farmi coraggio per rivolgerle la parola. Non mi riconobbe, ma quando le dissi il mio nome rispose: "Ah, signor C"! E" passato tanto tempo. Alban parla sempre di lei". Ero imbarazzato e talmente commosso che mi congedai subito. Rinunciai a farle una visita, sebbene mi sarebbe veramente piaciuto ritornare nella casa di Hietzing in cui lei abitava tuttora. Non volevo disturbare l'intimità del dialogo in cui era sempre assorta, tutto quello che era avvenuto tra loro due continuava ad avvenire come se fosse oggi. Quando si trattava delle opere del marito, lei gli chiedeva consiglio e lui le dava la risposta che lei si immaginava. Qualcuno crede forse che altri conoscessero meglio i desideri di Berg? Ci vuole moltissimo amore per dare vita a un morto in modo che non scompaia mai più, in modo da udirne la voce, da parlare con lui e conoscere i desideri che egli avrà sempre, poiché gli si è data la vita. NOTE: (1) Ernst Krenek, nato nel 1900, è il compositore già ricordato come secondo marito di Anna Mahler. Per Egon Wellesz (1885-1974), compositore e musicologo, si veda più avanti a p" 327. Willi Reich (1898-1980) pubblicò importanti studi su Berg ?N" d'T"*. (2) Si veda il capitolo "Il direttore d'orchestra", dove già si accennava alla parte avuta da H" (Hermann Scherchen) nel favorire l'incontro di Canetti con Alban Berg ?N" d'T"*. Incontro al LiliputBar Quell'inverno H" ritornò a Vienna ancora una volta. Dovevo incontrarlo in città a notte fatta. Nella Naglergasse, non lontano dal Kohlmarkt, era stato aperto un nuovo bar, e Marion Marx, una cantante che ne era anche la titolare, aveva chiesto il sostegno dell'avanguardia viennese. Era una donna alta, piena di calore umano, con una voce profonda, e riempiva di buonumore il suo LiliputBar, come si chiamava il locale. I giovani scrittori li trattava con molta disinvoltura, secondo il suo stile, e si faceva un vanto della loro presenza. Da lei si stava bene, e quando alla fine il cameriere portava il conto c'era scritta una cifra fittizia: si pagava qualcosa, tanto per non sentirsi imbarazzati davanti ai clienti della ricca borghesia, ma in sostanza non si pagava niente, e fu con questa delicatezza che Marion si conquistò le mie simpatie. Io non frequentavo i bar, ma nel suo ci andavo volentieri. Vi accompagnai H", che amava i locali notturni dopo le sue strenue giornate di disumano lavoro. Il bar era gremito, neanche un tavolo libero, ma Marion mi avvistò, interruppe la sua canzone prima dell'ultima strofa, ci salutò con grande effusione e ci condusse a un tavolo. "Sono miei buoni amici, vi ci troverete bene. Vi presento io". Due sedie furono infilate nel poco spazio libero, e H", che di solito era l'alterigia in persona, si adattò. Con mia grande meraviglia sembrava disposto a dividere il tavolo con estranei, gli piaceva Marion e più ancora gli piaceva il tavolo. Marion disse i nostri nomi e poi aggiunse con tutto il suo calore ungherese: "Questa è la mia amica Irma Benedikt con la figlia e il genero". "Ci conosciamo di vista già da un pezzo" mi disse la signora. "Lei guarda sempre dall'altra parte, come il suo professor Kien. Mia figlia ha solo diciannove anni, ma ha già letto il suo libro. Poteva aspettare ancora un po', secondo me, ma non fa che parlarne giorno e notte. Ci perseguita con i personaggi del romanzo, continua a imitarli. Per lei, il mio nome è Therese. E dice che non potrebbe farmi un'offesa più terribile". La signora Benedikt sembrava una donna schietta e semplice, quasi infantile, pur avendo forse quarantacinque anni, né decadente né raffinata, proprio il contrario di tutto quello che nella mia immaginazione si legava al nome dei Benedikt. Ero un po'"stupito all'idea che i personaggi del mio romanzo si aggirassero per la sua casa, come lei diceva. Così, io guardavo dall'altra parte per evitare ogni contatto con gente da cui mi sarei sentito contaminato, e intanto Kien e Therese, persone molto meno socievoli di me, avevano già l'aria di sentirsi a casa loro sotto il tetto dei Benedikt. Il genero, un omaccione piuttosto goffo, non molto più giovane della signora Benedikt, non diceva una parola. I suoi lineamenti erano belli lisci ed eleganti come il suo vestito; se ne stava lì zitto e sembrava irritato per qualche ragione. La ragazza di diciannove anni, quella che aveva letto la Blendung troppo presto, era sua moglie, ma mi ci volle un bel po'"di tempo prima che la cosa mi entrasse in testa. In ogni modo la ragazza non era molto felice di avere quel marito, perché gli dava le spalle e non gli rivolgeva una parola: dovevano aver litigato e continuavano a litigare in silenzio. La ragazza aveva un aspetto limpido, radioso, e quando tentò di dirmi qualcosa i suoi occhi si fecero sempre più luminosi. Ci provò un paio di volte inutilmente, senza spiccicare una sillaba, e io insistevo a guardarla, più a lungo e forse più intensamente di quanto fosse il caso. Così non poté sfuggirmi che aveva gli occhi verdi. Non che ne fossi particolarmente affascinato, perché gli occhi che a quel tempo avevano un potere su di me erano ancora quelli di Anna. "Di solito mia figlia ha la lingua sciolta" disse la signora Irma, la madre, e subito l'omaccione e genero annuì con tutto il torace. "Adesso ha paura di lei. Si chiama Friedl. Le dica qualcosa, e finalmente l'incantesimo sarà rotto". "Io non sono il sinologo" dissi alla ragazza. "Di me non deve certo aver paura". "E io non sono Therese" disse Friedl. "Mi piacerebbe prendere lezioni da lei. Voglio imparare a scrivere". "Non si impara così facilmente. Ha già scritto qualcosa?". "Non fa altro tutto il giorno" disse la madre. "A Presburgo, ha piantato suo marito ed è ritornata da noi a Grinzing. Non ha niente contro suo marito, ma non vuole occuparsi della casa, vuole scrivere. Adesso lui è qui per riportarla a casa. Ma lei non vuole saperne". La signora Irma raccontava i fatti privati della famiglia con la massima innocenza. A sentirla, sembrava quasi una bambina che parlasse di una sorella maggiore. Il genero, per confermare l'intenzione che gli veniva attribuita, posò la mano sulla spalla di Friedl. "Giù la mano!" lo investì la ragazza. Per la durata di quelle tre parole si era girata verso il marito, ma subito ritornò a me, riprese il suo aspetto radioso - così almeno mi parve - e disse: "Non riuscirà a tenermi sotto chiave. Da me non riuscirà a ottenere niente. Non crede anche lei?". Il matrimonio era finito prima ancora di cominciare, e tutto sembrava così irrevocabile che non provavo il minimo imbarazzo. Neanche l'omaccione mi faceva pena. Bastava vedere con quale rapidità aveva tolto la mano dalla spalla di Friedl. Quella creatura raggiante di speranza non faceva per lui, aveva vent'anni buoni di meno. Ma perché l'ha sposato? "Voleva andarsene di casa," disse la signora Irma "e adesso se ne sta sempre rintanata da noi. Ma questo dipende dal fatto che abbiamo vicini così illustri". Voleva essere una battuta ironica, ma il tono era serio, così serio che H" non resistette più. Era abituato a essere al centro dell'attenzione, e adesso invece toccava a un altro. Infastidito da quell'insopportabile isolamento, vi mise fine col suo piglio brutale e andò in soccorso del povero marito. "Ha già provato col bastone?" domandò. "La accontenti: lei non vuole che questo". Era troppo anche per quel marito così impacciato - quando doveva vedersela con gli uomini poteva essere più deciso. "E lei che cosa ne sa?" sbottò. "Lei non conosce Friedl. Non è come le altre". Di colpo, con questa uscita, il marito ebbe tutti dalla sua parte, e H" vide naufragare il tentativo di richiamare l'attenzione su di sé. Ma la signora Irma, che riceveva nella sua casa un gran numero di artisti, e anche musicisti famosi, sapeva come comportarsi. Si rivolse al direttore d'orchestra e gli disse, scusandosi, che non era mai andata a uno dei suoi concerti. La sua povera testa proprio non si raccapezzava con la musica moderna. "Si può imparare, gentile signora, provi un po'"a incominciare!" la consolò H". Ma non poté impedire che Friedl, imperterrita, lo lasciasse di nuovo nel suo brodo. "Io vorrei imparare a scrivere. Non mi prenderebbe come allieva?". Era da capo con la sua prima frase. Dovetti ripetere, un po'' più diffusamente, ciò che le avevo già detto: non avevo allievi, e poi, a mio giudizio, non era qualcosa che si potesse imparare. Non aveva già tentato con qualcun altro, per caso? "Con scrittori vivi, mai" disse Friedl. "Io vorrei imparare da qualcuno che mi stia davanti in carne e ossa". Quali erano le sue letture preferite? Dostoevskij fu la risposta, senza un solo attimo di esitazione. "E" stato il mio primo maestro". "A lui, certo, non poteva mostrare le sue esercitazioni". "No, proprio no. E non sarebbe servito a niente". "Perché no?". Perché io scrivo esattamente come lui. Non si sarebbe nemmeno accorto che non è roba sua. Avrebbe creduto di trovarsi davanti a una copia di qualche suo testo". "Vedo che lei non ha una cattiva opinione di se stessa" dissi io. "Al contrario, non potrebbe essere peggiore. Sono sicura che con lei una cosa simile non mi succederebbe. Non è possibile copiare una riga. C'è solo lei che sappia scrivere cose tanto perfide". "Ed è questo che le piace in quello che scrivo?" "Sì. Therese mi piace. Tutte le donne sono come quella lì". "Lei odia le donne? Creda pure che io non le odio affatto!". "Io odio le donne di casa, quelle sì". "Si riferisce a me" disse la madre, e di nuovo il tono era così schietto e accattivante che quasi l'avrei abbracciata, sebbene avesse sposato un Benedikt. "Ma che cosa dice, gentile signora!". "Non si lasci ingannare dalle apparenze" disse Friedl. "Dovrebbe sentirla quando parla con lo chauffeur. E" tutta un'altra musica". H" si alzò. Non vedeva proprio perché dovesse passare la notte al bar ascoltando le baruffe familiari di gente che non conosceva. In verità la scena era piuttosto penosa, anche se mi colpiva l'esuberanza della ragazza, l'impeto con cui si lasciava andare in pubblico, davanti a testimoni imbarazzati. Nessuno si era mai rivolto a me con tanto slancio, a me, l'autore di un libro in cui tutto parlava di orrore. Me ne andai volentieri. La signora Irma mi invitò a farle visita, dal momento che eravamo vicini di casa. Friedl disse qualcosa a proposito della Himmelstrasse: era costernata nel vederci andar via così presto e riponeva le sue speranze, almeno mi parve, nella Himmelstrasse, nel tratto che portava giù al capolinea del tram. Quella fu infatti l'unica parola che afferrai della sua ultima frase. L'omaccione rimase seduto, non salutò e tenne la bocca chiusa. Aveva un buon motivo per fare il villano, perché H", nel congedarsi, non diede la mano a nessuno. Quando fummo fuori, H" disse: "Una bella bambina, e già così svitata. Si è messo in un bel pasticcio, C"". Ma non aveva ancora finito, perché prima di salutarmi aggiunse: "E sarebbero quattro sorelle? Si tenga pronto, si faccia forte! E pensare che basta scrivere un po'"di cattiverie per trovarsi con quattro sorelle sulla schiena!". Non mi era mai successo di vederlo così pieno di compassione. La Himmelstrasse cominciava a interessargli, e H" si annotò l'indirizzo del nostro nuovo appartamento semivuoto. L'esorcismo Fu incredibile la frequenza con cui da quella sera si susseguirono i miei incontri con Friedl. Il tram 38 era vuoto, io prendevo posto e nell'alzare gli occhi la vedevo seduta di fronte a me. Faceva tutto il tragitto fino allo Schottentor, io andavo al caffè che aveva lo stesso nome, e lì, quando entravo, lei mi aveva già preceduto ed era seduta a un tavolino con amici. Salutava, ma restava al tavolino col suo gruppo, senza importunarmi. Quando ripartivo per Grinzing, lei era già sul tram, ma questa volta più in disparte, in un angolo, e tuttavia abbastanza vicino perché mi sentissi esposto ai suoi sguardi. Io ero sprofondato in un libro e non mi curavo di lei. Ma poi, arrivato a Grinzing, quando iniziavo la salita, me la trovavo improvvisamente al fianco. Salutava e proseguiva di buon passo, come se avesse fretta. Non ero mai stato molto guardato dalle donne, e meno che mai da ragazze così giovani, e quindi non mi davo granché pensiero per la frequenza di quegli incontri. Ma di colpo sembrava che la Himmelstrasse, specialmente durante la discesa, fosse popolata da Friedl e dalle sue sorelle. Una ebbe l'ardire di presentarsi e disse: "Scusi, sono la sorella di Friedl Benedikt". "Ah" feci io, e non la guardai finché non si fu allontanata. Di solito, però, era proprio Friedl quella che trovavo sulla mia strada. Arrivava di corsa, aveva sempre fretta, e presto mi divenne familiare il suono dei suoi passi leggeri. Mai una volta succedeva che io arrivassi al capolinea senza che lei mi avesse raggiunto e superato. Il suo saluto non era indiscreto, ma aveva sempre qualcosa di supplichevole, che io avvertivo anche se non lo confessavo a me stesso. Se non fosse stata così delicata, avrei perso la pazienza, perché ormai la cosa si ripeteva troppo spesso, forse due o tre volte al giorno, e raramente passava un giorno senza che lei mi superasse di corsa o mi corresse incontro o salisse sullo stesso tram. Io ero sempre sopra pensiero, ma Friedl non mi disturbava quasi mai. Non mi importava che attraversasse così i miei pensieri, perché non si fermava e non si faceva avanti con me. Poi, una volta, telefonò. Veza se l'aspettava, e fu lei a rispondere. Friedl domandò se poteva parlare con me. Veza, senza neanche interpellarmi, pensò che la cosa migliore era invitarla a prendere il tè. "Venga da me per il tè" le disse. "C" non sa mai prima se avrà tempo. Lei venga da me, semplicemente, e forse lui il tempo lo trova". Io ero un po'"irritato per quella sopraffazione. Ma Veza mi persuase che era meglio così. "Non puoi mica vivere in questa specie di stato d'assedio. Bisogna fare qualcosa. E tu non puoi fare niente se prima non la conosciamo un po'. Forse è una forma di esaltazione. Ma forse la ragazza vuole davvero scrivere e crede che tu possa aiutarla". Presero il tè nella stanzetta di Veza, tutta foderata di legno, e dopo un po'"entrai anch'io. Avevo appena preso posto, ed ecco che Friedl rovesciò tutto il suo tè sul tavolo e sul pavimento. La cosa, in quella graziosa stanzetta, riuscì ancora più goffa: sembrava che Friedl non fosse nemmeno capace di reggere a dovere una delle tazze delicate e trasparenti del servizio di Veza. Invece di chiedere scusa Friedl disse: "Non si è rotto nulla. Sono così eccitata nel vederla qui". "Non ci faccia caso" disse Veza. "Lui viene sempre a prendere il tè. Gli piace questa stanza. Basta non dirgli niente prima". Friedl le rispose senza alcuna soggezione, come se io nemmeno ci fossi: "Dev'essere bello. Così lei può sempre parlargli". "Perché, a casa vostra non parlate?". "Sì, tutto il tempo. Ma a me non interessa ciò che dicono quelli là. I miei danno sempre ricevimenti. Solo gente celebre. Se uno non è celebre non viene invitato. Non trova anche lei che la gente celebre è così noiosa?". Non ci volle molto a capire che Friedl non aveva niente in comune con l'immagine che mi ero fatto di una ragazza della famiglia Benedikt. Per lei suo padre era tutt'altro che un padre, lei non era nemmeno una figlia ribelle, semplicemente non lo ascoltava. Sembrava che lui avesse cento, mille opinioni su ogni argomento possibile, si dilungava su troppe cose e, se afferravo bene quello che diceva Friedl, non c'era niente che in lui avesse peso. Saltava di palo in frasca e credeva di far colpo, mentre dava soltanto l'impressione di essere un confusionario. Era molto buono, i figli non gli erano indifferenti ma non riuscivano a interessarlo. Non voleva che lo disturbassero, li lasciava in tutto e per tutto nelle mani della madre. Ma loro facevano quel che volevano, e perciò erano ammessi solo singolarmente e piuttosto di rado ai grandi pranzi che avevano luogo in continuazione. Senza dubbio il racconto di Friedl era sincero e anche abbastanza efficace, ma il linguaggio era così primitivo che nessuno avrebbe sospettato in lei un interesse per la letteratura o, meno che mai, la capacità di scrivere qualcosa. Estrasse dei fogli da una borsa e domandò se volevo leggere un suo scritto. Era una cosa molto scadente, lo sapeva lei per prima, e se io avessi giudicato che proprio non era il caso, avrebbe smesso di scrivere. A suo padre non faceva vedere niente, lui demoliva tutto sotto un fiume di parole, e dopo se ne sapeva ancor meno di prima. A lei premeva imparare a scrivere sotto la mia guida, ci teneva molto, moltissimo. Era chiaro che mi stava alle costole solo per quel motivo, non c'era nessun'altra ragione. Veza era dello stesso parere. Io presi i fogli e promisi di leggerli. "So già che lei non vorrà prendermi come allieva" disse Friedl alla fine, un po'"avvilita. "E" una cosa troppo scadente per lei. Ma se non altro mi dirà se devo smettere o se ha un senso che io continui a scrivere". Probabilmente, senza che me ne rendessi conto del tutto, mi piaceva in Friedl quella smania di scrivere, e anche il suo desiderio di sapere da me la verità. Fatto sta che mi ritirai nella mia stanza e lessi subito i suoi fogli. Non credevo ai miei occhi: aveva copiato di sana pianta cinquanta pagine di Dostoevskij e le presentava come opera sua! Era un testo piuttosto avvincente ma un po'"campato in aria, io non lo conoscevo, doveva appartenere a un abbozzo che Dostoevskij aveva messo da parte. Mi pesava il pensiero di rivedere Friedl e di doverle dire il fatto suo. D'altra parte non si poteva accettare e star zitti, anche per rispetto verso Dostoevskij. Era proprio quella mancanza di rispetto a indignarmi più di tutto. Ma mi irritava anche la faccia tosta di Friedl: come poteva credere che non scoprissi il trucco? Era chiaro come il sole, chi conosceva anche un solo libro di Dostoevskij e poi leggeva uno di quei fogli non poteva non accorgersene, non c'era bisogno di essere scrittori o insegnanti. Tutto questo glielo dissi due giorni dopo, quando me la vidi davanti sulle scale. Non la invitai neanche a salire nella mia stanza, tanto ero seccato. "E" così scadente?" domandò lei. "Non è scadente né buono" dissi io. "E" di Dostoevskij. Dove l'ha pescato?". "L'ho scritto io". "Trascritto, vorrà dire. Da quale libro di Dostoevskij l'ha copiato? Dopo il primo paragrafo si sa già chi è l'autore, ma non conosco il libro da cui lei ha copiato". "Da nessun libro. L'ho scritto io". Teneva duro sulla sua versione, e io mi inalberai. Cercai di fare appello alla sua coscienza, e lei stette ad ascoltarmi. Sembrava che ne godesse. Invece di confessare continuò a negare decisamente e mi provocò a tal punto che persi ogni ritegno e la maltrattai. Voleva scrivere? Che cosa si era messa in testa? Credeva davvero che bastasse rubare per cominciare a scrivere? E il tentativo, per giunta, era così goffo che il primo imbecille non poteva non accorgersene. E poi, anche a non considerare il disprezzo che dimostrava per un così grande scrittore, che senso aveva tutto ciò? A chi voleva darla a intendere? Aveva studiato forse alla scuola del giornalismo? Era questa la lezione che aveva succhiato come il latte materno dalla "Neue Freie Presse"? Friedl era raggiante, con gli occhi beati che pendevano dalle mie labbra. Sembrava in preda all'entusiasmo quando improvvisamente disse: "Ah, che bellezza quando lei si mette a urlare! Le accade spesso di urlare così?". "No! Mai! E con lei non parlo più se prima non mi dice da dove ha copiato!". In quel momento, per fortuna, arrivò Veza. Guardò me, che sfogavo la mia rabbia lì in piedi sullo scalino, e poi vide Friedl, che aspettava giuliva il seguito della sfuriata. Non so come sarebbe finita senza l'intervento di Veza. Come mi disse poi, ebbe lì per lì la sensazione che io accusassi a torto la ragazza, ma le sfuggiva il motivo per cui Friedl era così contenta. Prese da parte la ragazza per accompagnarla nella stanzetta foderata di legno. A me disse: "Chiariremo tutto. Cerca di calmarti! Và a passeggiare per un'oretta e poi torna da me". Mentre io passeggiavo venne a galla la verità. Le cinquanta pagine della controversia non erano copiate, erano davvero di Friedl. Non per niente mi erano sembrate campate in aria. Non per niente mi era stato impossibile scoprire da quale libro venissero fuori. Non venivano da nessun libro. Friedl aveva divorato tutto Dostoevskij, letteralmente ingoiato, e adesso non riusciva più a esprimersi in modo diverso. Scriveva come lui, ma non aveva niente da dire. Che cosa poteva avere da dire, a diciannove anni? Buttava giù una pagina dopo l'altra, furiosamente, a ruota libera, e quelle pagine sembravano di Dostoevskij senza però essere una parodia. Era un caso di "possessione" che faceva pensare alle storie delle suore isteriche. Non molto tempo prima mi ero occupato di Urbain Grandier e delle suore di Loudun. Come queste erano possedute da Urbain Grandier, così in Friedl si era insediato Dostoevskij, un diavolo anche lui, e non meno complicato. "Tu dovrai fare l'esorcista" mi disse Veza. "Devi cacciare da lei Dostoevskij. Fortuna che non è più al mondo, altrimenti rischierebbe di essere condannato al rogo. E meno male che non è entrato in tutt'e quattro le sorelle, ma solo in una. Alle altre Dostoevskij non interessa. Ma non sarà una faccenda tanto semplice". Veza, che era così indipendente e sapeva difendersi senza sforzo da ogni influsso che andasse contro le sue inclinazioni o il suo giudizio, cominciò a prendersi cura di Friedl. La riteneva una ragazza intelligente, ma di un'intelligenza inconsueta. Friedl riusciva a impegnarsi sul serio solo quando sottostava a un influsso esterno. Tentava disperatamente di essere il contrario di suo padre, non voleva diventare un guazzabuglio di cultura né un polo di mondanità; la toccavano e la esaltavano le cose umane, puramente umane. Si lasciava guidare solo da qualcuno cui si fosse votata per qualche suo estro incomprensibile. Questo qualcuno, da quando aveva letto la Blendung, ero io; e dunque, diceva Veza, avevo forse il diritto di infischiarmi degli effetti del mio stesso libro? "A te piace tanto andare a passeggiare, da quando abitiamo a Grinzing. Qualche volta prendi Friedl con te e cerca di parlarle. Ha un carattere facile e allegro, tutto il contrario di quello che ha scritto. Le vengono certe idee buffe. Credo che abbia un'inclinazione per il grottesco. Devi sentirla quando racconta dei ricevimenti a casa sua! Niente a che fare con quello che si potrebbe supporre leggendo la "Fackel". Piuttosto, viene fatto di pensare a Gogol"". "Impossibile" dissi io, ma Veza sapeva benissimo dov'ero vulnerabile, e l'immagine che una creatura così limpida e graziosa fosse cresciuta in un'atmosfera gogoliana e ora fosse posseduta da Dostoevskij - il quale era uscito "come tutti noi dal Cappotto" (1) - mi pareva una versione ben originale di quella celebre parentela letteraria. Proprio in questo vedevo forse una possibilità di liberarla dalla sua ossessione. Era un compito piacevole quello che Veza pensava di assegnarmi, non c'era niente che non avrei fatto a maggior gloria di Gogol". Mi sembrava anche di capire che Veza, con molta delicatezza, aveva fatto la pace con la Blendung, perché anche il mio romanzo era uscito "come tutti noi dal Cappotto". Veza - con mio sollievo - non si preoccupava più tanto della sorte del libro. Capiva che cos'era successo alla ragazza con quella lettura, se ne dava pensiero e mi chiamava in aiuto. Veza era irresistibile quando il suo istinto sicuro si alleava al suo calore umano. Presto finì come doveva finire, e accettai di farmi accompagnare da Friedl nelle mie passeggiate. Certo, la ragazza non doveva pretendere di imparare a scrivere come s'impara un'altra materia, ma potevo uscire con lei, parlarle e scoprire che cosa si annida in un essere umano. Friedl era piuttosto capricciosa e qualche volta partiva di corsa, mi precedeva di un tratto e si fermava ad aspettare che la raggiungessi. "Devo sfogarmi," diceva "sono così contenta di poter uscire con lei". La facevo raccontare di sé, non c'era argomento di cui non parlasse, parlava in continuazione, sempre a proposito di persone che frequentavano la sua casa. Da un po'"di tempo aveva il permesso di partecipare anche lei ai ricevimenti. Non aveva il minimo rispetto per gli illustrissimi invitati e li vedeva quali erano veramente. Spesso le sue comiche osservazioni mi lasciavano interdetto, e allora facevo mostra di non crederci, lei esagerava, quel che diceva non era possibile. Ma poi venivano fuori tanti particolari che io non smettevo più di ridere, e quando cominciavo a ridere Friedl rincarava la dose inventando sempre nuove storie, finché anch'io cominciavo a inventare. Era quello a cui lei voleva arrivare: una gara di invenzioni. Le davo anche dei "compiti": la interrogavo sulle persone che incontravamo nelle nostre passeggiate, ma solo su quelle che lei non conosceva. Doveva raccontarmi ciò che pensava di loro, e magari, se le veniva qualche buona idea, anche la loro storia. Così avevo un certo riscontro, perché quelle persone le vedevo anch'io e potevo stabilire che cosa Friedl notava in loro e che cosa le sfuggiva. E la correggevo, non già rimproverandola per una negligenza o una inesattezza, bensì sfoderando la mia versione a proposito di questo o quel passante. Era una specie di gara tra Friedl e me, e per lei diventò una vera passione, sebbene non le interessasse tanto mettere alla prova la propria immaginazione quanto ascoltare la mia storia. Il dialogo era molto spontaneo, senza ritegni. Se qualcosa le dava da pensare me ne accorgevo subito, perché allora Friedl ammutoliva e qualche volta, per fortuna raramente, era presa da un profondo scoraggiamento: "Non imparerò mai a scrivere. Sono troppo schlampig, mi mancano le idee". Schlampig a Vienna stava per "pasticcione", e lei era certamente pasticciona, ma di idee ne aveva più che a sufficienza. Non mi dispiaceva in lei una certa inclinazione per il fantastico, che era poi la qualità più rara nei giovani scrittori di mia conoscenza. A volte le facevo inventare i nomi delle persone che incontravamo. Non era il suo forte, e questo "compito" lo svolgeva di malavoglia. Preferiva parlare dell'aspetto delle persone, dei discorsi che facevano a casa loro. Poteva essere un chiacchierio innocente che serviva soltanto a confermare quanto Friedl fosse brava nelle imitazioni. Ma poi, all'improvviso, veniva fuori un particolare orribile che mi sbalordiva. Friedl ne parlava senza nessun turbamento e senza immaginare quanto fosse strano e quanto poco s'intonasse alla sua limpidezza infantile, alla leggerezza della sua andatura. Tranne i pochi giorni della sua vita coniugale, Friedl aveva sempre abitato a Grinzing. Era venuta al mondo su un'automobile. Quando sua madre era stata presa dalle doglie, il padre l'aveva caricata sulla vettura e si era seduto accanto a lei per condurla in clinica. Lui aveva attaccato a parlare e aveva continuato, secondo il suo solito, per tutto il tragitto. Arrivarono alla clinica, la vettura si fermò, e la bambina giaceva sul pavimento, venuta al mondo senza che nessuno dei due se ne fosse accorto. Friedl attribuiva la sua instabilità a quell'autoparto. Doveva sempre muoversi, non resisteva in nessun posto; al tempo del matrimonio, quando suo marito, che era ingegnere, andava in fabbrica, lei non poteva stare a casa ad aspettarlo. Una mattina, una delle prime mattine, scappò fuori, se ne andò di casa, se ne andò da Presburgo e si ritrovò a Grinzing, nella Himmelstrasse. Lì conosceva tutti i sentieri e correva nel bosco. I prati le piacevano ancora di più, si accovacciava a cogliere i fiori e scompariva nell'erba. A volte, durante le passeggiate, notavo gli sguardi bramosi che lanciava ai prati, ma tuttavia riusciva a dominarsi perché uno di noi stava raccontando una storia, e questo era per lei ancora più importante della sua libertà. La attiravano soprattutto le cose piccole e umili, ma non era insensibile neanche ai panorami, specialmente se c'era una panchina per sedersi e magari un tavolo dove si poteva ordinare qualcosa da bere. Ma per lei la cosa che contava di più era ciò che si manifestava nelle parole. Non ho mai conosciuto un bambino che ascoltasse così avidamente. Dopo che io l'avevo provocata in tutti i modi possibili, andava sempre a finire che toccava a me raccontare una storia; ed è vero che l'eccitazione con cui Friedl accoglieva ogni frase aveva su di me un effetto più profondo di quanto fossi disposto ad ammettere. NOTE: (1) Secondo una frase famosa di Dostoevskij, tutta la letteratura russa moderna è uscita dal Cappotto di Gogol" ?N" d'T"*. La delicatezza dello spirito In quei pochi anni di Grinzing condussi una vita molto varia, così contraddittoria che non riesco a stabilire tutte le parti di cui si componeva. A ogni esperienza di allora reagivo con la stessa intensità, e sebbene non vi fosse alcun motivo per essere sereni, non mi lasciavo neanche spaventare dalla minaccia incombente. Mi attenevo ostinatamente al mio programma. Non mi stancavo di leggere e di prendere appunti per il libro sulla massa, e ne parlavo a tutti quelli con cui valeva la pena di parlarne. Non so quanti altri si sarebbero votati a un'impresa simile con lo stesso impegno e le stesse pretese. Ma nessuna delle teorie correnti riusciva ad afferrare tutto ciò che accadeva - e accadeva una mostruosa quantità di cose che si rovesciavano vorticose su una quantità anche maggiore di altre cose. Si viveva in una vecchia capitale che non era più capitale ma aveva attirato su di sé gli occhi del mondo grazie ai suoi programmi sociali, arditi e ben ponderati. Erano state fatte cose nuove che potevano servire da modello. Erano state fatte senza usare la violenza, si poteva esserne orgogliosi e si viveva nell'illusione che avrebbero resistito, mentre nella vicina Germania la grande ossessione guadagnava terreno e i suoi corifei occupavano tutti i posti di comando nell'apparato statale. Ma ora, nel febbraio del 1934, il potere del municipio di Vienna era stato stroncato. Tra coloro che ne avevano sostenuto la causa regnava lo sconforto. Era come se tutto fosse stato inutile, quella che era stata la nuova peculiarità di Vienna era cancellata. Rimaneva il ricordo di una Vienna precedente, non ancora abbastanza remota per essere assolta dalla correità nella prima guerra mondiale in cui era andata a cacciarsi. I viennesi non avevano più dinanzi agli occhi una speranza che potesse contrapporsi alla miseria e alla disoccupazione. Molti, incapaci di vivere in un simile vuoto, furono colpiti dal contagio germanico e sperarono di arrivare a una vita migliore lasciandosi ingoiare dalla massa più grande. I più non volevano ammettere neanche con se stessi che tutto ciò poteva solo condurre a una nuova guerra, e quando se lo sentivano dire dai pochi che avevano coscienza del pericolo preferivano chiudere gli occhi alla verità. In quei giorni, come ho già detto, la mia vita personale era assai varia e ricca di contraddizioni. Trovavo una giustificazione a me stesso nel mio ambizioso progetto. Ad esso restavo fedele, ma non facevo niente per affrettarne l'attuazione. Tutto quello che accadeva nel mondo confluiva nel mio progetto come esperienza. Non era un'esperienza superficiale, perché non si fermava alla lettura dei giornali. Ogni avvenimento era discusso con Sonne nel giorno stesso in cui se ne era avuta notizia, e lui l'analizzava a più riprese, cambiando spesso il punto di vista per penetrare più a fondo e offrendo alla fine una sintesi delle possibili prospettive, nella quale i pesi erano distribuiti con la più scrupolosa equità. Quelle ore del giorno erano le più importanti, una incancellabile e feconda iniziazione agli eventi della scena mondiale, alle loro complicazioni, alle loro tensioni e alle loro sorprese. Nulla però riusciva a farmi desistere dai miei studi personali. Intorno a quel periodo mi rivolsi, con maggiore attenzione che per il passato, agli studi etnologici, e sebbene poi, per una specie di discrezione nei confronti di Sonne, mi inducessi solo raramente a esporgli qualche idea che mi sembrava nuova e importante, era inevitabile che le nostre conversazioni finissero pur sempre nella storia delle religioni, un campo nel quale egli aveva una cultura immensa, mentre io avevo acquistato a poco a poco una preparazione che mi permetteva di afferrare tutti i suoi discorsi e di controbattere ciò che non mi pareva convincente. Quando gli accennavo alle ricerche sulla massa e alla mia intenzione di approfondirle, Sonne non dava segni di insofferenza. Ascoltava le mie spiegazioni, rifletteva e taceva. Non disse mai una parola che potesse scalfire ciò che andava preparandosi dentro di me. Per lui sarebbe stato un gioco rendere ridicolo il mio concetto di massa, un concetto che stava prendendo una consistenza sempre maggiore e sfuggiva a ogni definizione. Nel giro di un'ora Sonne avrebbe potuto distruggere quello che era diventato il compito della mia vita. Con me non discusse mai il problema, ma neanche mi scoraggiò; né cercò (come aveva fatto Broch) di distogliermi dall'impresa. Si astenne dall'aiutarmi, e in tutto ciò che riguardava la massa non lo ebbi mai come maestro. Una volta, nonostante tutto, mi avvenne di toccare l'argomento e lo feci con riluttanza, proprio malvolentieri, perché sapevo che ogni obiezione di Sonne poteva essere molto pericolosa per me. Lui mi ascoltò attentamente, con calma, rimase zitto più a lungo di quanto accadesse di solito durante una discussione, e poi disse, quasi con delicatezza: "Lei ha aperto una porta. Adesso deve entrare. Non cerchi l'aiuto di nessuno. Sono cose che bisogna fare da soli". Raramente si esprimeva in questi termini, e si guardò bene dall'aggiungere altro. Non intendeva dire che mi negava il suo aiuto. Se gliel'avessi chiesto non me l'avrebbe rifiutato. Ma io, all'inizio, non gli avevo domandato nulla. Gli avevo esposto ciò che per me era già chiaro, e forse volevo soltanto che mi fermasse se riteneva che mi ero messo su una strada sbagliata. Ora, con la parola "porta", mi diceva che per lui quella strada non era affatto sbagliata. Ma certamente voleva mettermi in guardia, col tocco leggero che gli era abituale. "Sono cose che bisogna fare da soli". Mi metteva in guardia contro le teorie che abbondavano tutt'intorno e che non spiegavano niente. Sapeva meglio di ogni altro quanto quelle teorie sbarrassero la strada a ogni conoscenza dei fenomeni collettivi. Sonne era amico di Broch, lo stimava e forse gli voleva anche bene. Quando parlava con lui il discorso non poteva non cadere su Freud, al quale Broch era profondamente devoto. Mi sarebbe davvero piaciuto scoprire come faceva Sonne a sopportare quei discorsi senza reagire in maniera offensiva, ma non era proprio possibile porgli una domanda così personale. Che avesse obiezioni fondamentali contro Freud lo sapevo da quando, una volta, aveva attaccato con veemenza la "pulsione di morte": "Anche se fosse vero, non si sarebbe mai dovuto esprimere un concetto simile. Ma non è vero. Tutto sarebbe troppo semplice, se fosse vero". Ciò che si svolgeva tra Sonne e me lo sentivo come la vera sostanza della mia giornata: valeva per me anche più di ciò che scrivevo a quel tempo. Allora non riuscivo a concludere nessuna delle cose a cui lavoravo. Le ragioni erano molte, e la più importante era certamente la consapevolezza della mia insufficiente preparazione. Non che ritenessi assurda l'impresa in cui ero impegnato: restava ben salda la mia convinzione che dipendeva da noi stabilire e poi anche applicare le leggi della massa e del potere. Ma con l'incalzare degli avvenimenti le dimensioni di una simile impresa sembravano crescere ogni giorno, incessantemente. Le conversazioni con Sonne avevano il potere di acuire a dismisura la sensibilità per il futuro. Lui non cercava in nessun modo di sminuire il pericolo, anzi la coscienza del pericolo diventava sempre più forte in te, come se Sonne ti mettesse a disposizione uno straordinario telescopio che solo lui sapeva regolare a dovere. Nello stesso tempo avevi la percezione della tua spaventosa ignoranza. Non bastavano le idee che ti ballavano nella testa. Sì, lampi e folgorazioni ti riempivano di orgoglio, ma c'era il rischio che ti precludessero la via della verità. C'era una pericolosa vanità dell'intelligenza. L'originalità non era tutto, e neanche la forza, e neanche il micidiale ardire al quale Karl Kraus ti aveva educato. I lavori letterari in cui allora ero occupato mi lasciavano insoddisfatto e restavano a metà. Non vi rinunciavo definitivamente, li accantonavo. Era proprio questo che ispirava a Veza le più profonde apprensioni. Una volta, durante una seria discussione, Veza arrivò a sostenere che l'intelligenza di Sonne esercitava sugli altri un'azione che li rendeva sterili. Certo, era il migliore di tutti i critici - alla fine, non senza sforzo, Veza doveva ammetterlo -, ma bisognava andare da lui solo per mostrargli qualcosa di compiuto. Non era una persona da frequentare ogni giorno. Era l'uomo della rinuncia, forse un saggio, un asceta puro. Egli prevedeva il peggio, ma poi non agiva concretamente per opporvisi, si limitava a dirlo, a enunciarlo: come potevo accontentarmi di questo? Quando tornavo a casa dai colloqui con Sonne sembravo quasi paralizzato, secondo Veza, e lei faticava a strapparmi qualche parola. Sì, a volte - e fu un'osservazione che mi ferì profondamente - Veza aveva l'impressione che Sonne mi avesse convertito alla prudenza. Avevo smesso di leggerle ciò che scrivevo, un capitolo di un nuovo romanzo, un nuovo dramma. Quando mi interrogava cautamente, la mia risposta era sempre la stessa: non è ancora al punto giusto per te, voglio lavorarci ancora. Perché in passato tutto era al punto giusto per lei? Perché allora avevo più coraggio? Veza diceva che tutto era cominciato con l'umiliazione sofferta a causa di Anna. Di ciò si era resa conto perfettamente, e per molto tempo aveva temuto le conseguenze della serata in cui avevo letto la commedia nel palazzo della Maxingstrasse. Per questo lei aveva stretto amicizia con Anna, per capire che creatura fosse in realtà, poiché io l'avevo vista trasfigurata e l'avevo glorificata in tutti i modi facendone il contraltare di sua madre. Adesso Veza la conosceva così bene da essere sicura di una cosa: con Anna non bisognava sentirsi sconfitti - lei non amava come gli altri esseri umani, e certamente non amava come sua madre. Anna aveva le sue leggi personali, rigide, come vetrificate: si poteva contemplarla e ammirarla, trovare meravigliosi e ineguagliabili i suoi occhi, ma non si doveva mai sentirsi guardati da lei. Se una volta posava gli occhi su una cosa, lei doveva giocarci, doveva conquistarsela, come se si trattasse di un gomitolo, di un oggetto, non di alcunché di vivo. Soltanto quel gioco degli occhi era pericoloso in lei, per il resto era una buona amica, fiduciosa, ingenua, generosa, su cui addirittura si poteva fare assegnamento; ma c'era un limite da non superare: non si doveva mai tentare di legarla. Senza la sua libertà Anna non poteva esistere, ne aveva bisogno per il suo gioco degli occhi, per nient'altro, ma quella era l'esigenza più profonda della sua natura e non sarebbe cambiata mai, nemmeno con l'avanzare dell'età: chi aveva avuto in sorte occhi simili non poteva fare altrimenti, era soggetto e asservito alle pretese di quegli occhi, come anche altri esseri umani, certamente, ma loro in veste di vittime, lei di cacciatrice. Quella mitologia degli occhi mi divertiva. Sapevo quanto c'era di vero nelle parole di Veza e quanto Veza mi aveva aiutato grazie alla sua amicizia con Anna. Ma sapevo anche quanto Veza si ingannasse sull'altro punto. La mia amicizia con Sonne non era nata dall'infelice esperienza con Anna, era qualcosa di autonomo e di sovrano, la più pura esigenza della mia natura, che si vergognava delle proprie scorie e poteva trovare una correzione o almeno una giustificazione solo nei severi dialoghi con uno spirito di gran lunga superiore. Invito in casa Benedikt Durante quel primo incontro al LiliputBar la signora Irma, la madre di Friedl, mi era piaciuta per le sue parole schiette, senza fronzoli, dietro le quali non si avvertiva niente di pretenzioso: si era pronti a credere a quel che diceva, e senza pensarci due volte. Aveva una testa molto rotonda, come non ne conoscevo: non era una testa slava, che pure sarebbe stata attraente, era di un altro tipo. Venni a sapere da Friedl che sua madre era per metà finlandese. Benché fosse nata a Vienna, era andata molto presto in Finlandia come ospite della famiglia materna e vi era poi ritornata regolarmente. In casa loro si parlava spesso di una zia della madre che si era fatta notare per la sua vita indipendente e le sue attività intellettuali. Zia Aline era vissuta molti anni a Firenze e aveva tradotto Dante in svedese. Possedeva un'isola lassù in Finlandia e ogni tanto vi si ritirava per scrivere in assoluta solitudine. Non si era mai sposata, per orgoglio e per riservare la sua libertà alle cose dello spirito. Friedl era la sua pronipote prediletta, e zia Aline aveva in animo di lasciarle in eredità l'isola finlandese. Faceva impressione sentire Friedl quando parlava di quell'isola. A lei non interessava il possesso materiale, ma l'idea di un'isola tutta sua la mandava in estasi. Non vi era mai stata, ma ne aveva un'immagine molto avventurosa, specialmente delle tempeste invernali, quando si restava tagliati fuori da ogni rapporto con la terraferma. Non parlava mai dell'isola senza offrirmela solennemente: un regalino, per così dire, che secondo lei era l'unico modo per attestare la sua ammirazione a colui che considerava il suo modello letterario. A volte accettavo l'isola, a volte no. In ogni caso era il luogo in cui Dante era stato tradotto in svedese. Mi commuoveva piacevolmente la generosità dell'offerta, ma più ancora la longevità che così Friedl mi attribuiva. Mentre mi descriveva i luoghi solitari e le bellezze dell'isola, venivo a sapere per inciso alcuni particolari che mi facevano un'impressione assai maggiore. Una volta, quando il discorso si spostò dall'isola finlandese verso temi svedesi, Friedl mi disse che la sua madrina di battesimo era Frieda Strindberg, la seconda moglie di Strindberg, un'amica di gioventù di sua madre che adesso abitava a Mondsee e spesso veniva a trovare i Benedikt. Friedl ne portava il nome ma aveva anche altre cose in comune con lei. La signora Irma, quando la figlia la faceva disperare per il suo disordine, le diceva: "Ecco che cos'hai ereditato da Frieda, la tua madrina. E" proprio vero che col nome si prendono anche certe qualità". Quella Frieda Strindberg era nota come l'essere più disordinato del mondo. Friedl era andata da lei una volta, quando era ancora piccolissima. La confusione che aveva trovato l'aveva talmente colpita che subito si era messa in testa di riprodurla nella sua stanza di bambina. Ci aveva provato spesso, quando la lasciavano sola: apriva cassetti e sportelli, tirava fuori tutti i vestiti e la biancheria, li buttava alla rinfusa in mezzo alla stanza e poi si sedeva felice su quel disordine. Così aveva anche lei una stanza come la casa della sua madrina. Ma non aveva mai confessato alla mamma quale fosse l'origine di quel terribile disordine. Questo era il suo grande segreto, il più grande di tutti, e perciò doveva rivelarmelo. Guai se fossi entrato improvvisamente nella sua stanza, perché a vederla anche solo una volta avrei provato un tale orrore di lei da rifiutarmi per sempre di condurla a passeggio con me. In realtà io non avevo nessuna intenzione di vedere la sua stanza e non dovevo quindi preoccuparmi di quella eventualità. Ma l'accenno a Strindberg mi diede come una fitta, e credo che fu questo a farmi apparire la casa dei Benedikt in una nuova dimensione. Immagino che Friedl, per attirarmi in casa sua, abbia assillato ben bene sua madre perché gli invitati fossero quelli giusti e messi a tavola al posto giusto. Infatti, sebbene lei si annoiasse a quei ricevimenti, sebbene si rassegnasse di rado a parteciparvi, aveva intuito ben presto dalle nostre conversazioni che io fiutavo qualcosa di perverso e di equivoco là dove per lei non c'era altro che convenzionalità e noia. Fin da bambina non aveva sentito altro che nomi celebri. Per un certo periodo, quando già andava a scuola, aveva pensato che tutti gli adulti fossero celebri, e non era affatto una buona raccomandazione, né per loro né per gli altri. Se a casa sua un nome nuovo veniva ripetuto spesso, i motivi potevano essere soltanto due: o era qualcuno che era diventato celebre all'improvviso - come si può fare perché accetti un invito? - o era qualcuno che la celebrità l'aveva conquistata da un pezzo - era nato celebre, pensava Friedl - e che, trovandosi di passaggio a Vienna, veniva naturalmente a pranzo da loro. Non le sarebbe mai passato per la testa che le cose potessero stare diversamente, era sempre e soltanto la stessa storia, e quindi la stessa noia. Adesso però, se durante i nostri incontri mi faceva il nome di qualcuno che frequentava la loro casa, Friedl avvertiva in me un soprassalto e mi sentiva domandare: "Come? Anche lui viene da voi?", quasi fosse un atto illecito metter piede in quella casa. Friedl notava che a certi nomi non reagivo minimamente, e in effetti non mi stupivo che la casa fosse frequentata da quei personaggi, perché era l'ambiente giusto per loro, secondo il codice della "Fackel". Ma poi c'erano gli altri, quelli che mi davano da pensare, e Friedl cominciò a interessarsene e non tardò a capire che solo quelle erano le esche con cui poteva attirarmi in casa sua. Ma anche questo richiedeva tempo e preparativi abbastanza lunghi. "Oggi è venuto a pranzo Thomas Mann" disse un giorno, e mi guardò piena di speranza. "Ah sì? E di che cosa parla Thomas Mann con suo padre?" Non avevo saputo trattenermi, e capii troppo tardi quanto fosse indelicata la domanda, perché era facile arguirne tutto il mio disprezzo per il padre di Friedl. Evidentemente io non gli riconoscevo la capacità di sostenere una conversazione con Thomas Mann. "Di musica" rispose Friedl. "Non hanno fatto che parlare di musica, soprattutto di Bruno Walter". Ma aggiunse che lei di musica non capiva niente e quindi non poteva darmi ragguagli precisi. Perché non andavo a sentire con le mie orecchie? Sua madre mi avrebbe invitato così volentieri, ma proprio non ne aveva il coraggio. Tutti mi giudicavano un tipo scontroso, simile al Kien del romanzo: un misogino, e anche piuttosto sgarbato. "Io dico sempre alla mamma che lei mi racconta un mucchio di cose divertenti. "E" uno che ci disprezza" dice la mamma. "Non capirò mai come può uscire a passeggio con te"". Dopo diversi tentativi Friedl riuscì ad adescarmi. Della famosa triade che aveva brillato nel cielo della décadence viennese tra Ottocento e Novecento: Schnitzler, Hofmannsthal e BeerHofmann, soltanto il terzo era ancora al mondo. Aveva scritto pochissimo e passava per il personaggio più "esclusivo" della città. Ormai da decenni continuava a lavorare allo stesso dramma. Non ne era mai soddisfatto, nessuno sapeva persuaderlo a terminare la sua fatica. Era questo l'unico motivo per cui BeerHofmann mi interessava: vedevo in lui tutto l'opposto di un giornalista e conoscevo di lui soltanto una poesia. La sua riservatezza, nella Vienna di quegli anni, aveva qualcosa di misterioso. La gente si domandava come fosse arrivato a un prestigio così alto con così poche opere. Io mi immaginavo che evitasse ogni contatto "inquinante" e che frequentasse soltanto persone del suo stesso valore. Ma come faceva, adesso che gli altri due della triade non erano più in vita? Ed ecco che Friedl veniva a dirmi che BeerHofmann era un ospite quasi fisso a casa sua, che ci andava spesso e che non era affatto un misantropo. Era un vecchio vigoroso, con una moglie bellissima che aveva vent'anni meno di lui e sembrava ancora più giovane. Tutto questo era già abbastanza allettante, ma la spinta decisiva, quella che mi indusse ad accettare l'invito, fu un vero colpo di scena. Emil Ludwig, il personaggio del giorno, colui che scriveva un libro in poche settimane e ancora se ne vantava, aveva promesso di andare dai Benedikt per conoscere il colendissimo Richard BeerHofmann. Adesso, diceva Friedl, tutti erano curiosi di assistere a quell'incontro, e io non dovevo lasciarmi sfuggire un'occasione così divertente. Lei immaginava già che il dialogo tra i due si sarebbe svolto come tra due personaggi di fantasia. Aveva convinto sua madre a invitarmi, e sua madre mi avrebbe telefonato quel giorno stesso. La mia curiosità era stuzzicata, ringraziai e accettai. Invece della cameriera venne ad aprirmi Friedl, che dalla finestra mi aveva visto arrivare. Disse subito, come se fossimo dei congiurati: "Ci sono già, tutt'e due!". Nel salotto il padre di Friedl mi salutò con un paio di frasi smaccatamente adulatorie, che però non si riferivano a niente in particolare. Disse che non aveva ancora letto il mio libro, perché tutte - le signorine e sua moglie - se lo passavano tra loro, ma finalmente era riuscito a strapparglielo, e adesso era lì - mi indicò un tavolino -, non se lo lasciava più portar via, avrebbe iniziato la lettura quel pomeriggio stesso, voleva farsi forte conversando con l'autore prima di imbarcarsi nella pericolosa avventura, c'erano in giro certe leggende, si raccontava quanto il libro fosse perfido, ma anche avvincente, benché dopo una prima occhiata all'autore non si sarebbe proprio detto. Non senza stupore mi accorsi della sua innocuità, ma anche lui della mia. Dopo le descrizioni che gli avevano fatto della Blendung si aspettava di trovarsi di fronte a un poète maudit. Mi condusse da BeerHofmann, il più illustre dei suoi ospiti, quello che non scriveva più di due righe in un anno. Il vecchio signore dall'aria imponente restò seduto e disse con sussiego: "Giovanotto, io non mi alzo, lei non pretende mica che mi alzi?". Emisi qualche sillaba di assenso, come lui sicuramente si aspettava, e già ero trascinato verso un ometto piccolo piccolo che stava lì in tutta la sua esplosiva gracilità. Costui non fece caso alla mia mano, e così non fui costretto a dargliela, ma subito potei ascoltarlo mentre inondava BeerHofmann con la sua spumeggiante ammirazione. L'ometto era Emil Ludwig, intento a proclamare la venerazione che già da tanto tempo - fin dall'infanzia? - nutriva per BeerHofmann. La parola "maestro" affiorò più volte dallo sproloquio, e anche "perfezione", e perfino "compiutezza", un vocabolo piuttosto indelicato all'indirizzo di uno che asseriva di aver bisogno di decine d'anni per scrivere un dramma di normale lunghezza e poi non lo portava neanche a compimento. BeerHofmann dondolava gravemente la testa, ascoltava tutto attento, non perdeva una parola, era molto sicuro di sé; e chi non si sarebbe sentito sicuro al cospetto di quel minuscolo velocista della scrittura, primatista delle vendite e intervistatore universale? - Un peso massimo si misurava contro una piuma. (1) - Ma il vecchio signore corpulento non si sentiva del tutto a suo agio, il contrasto tra la sua dignitosa parsimonia di scrittore e la diarrea letteraria del mingherlino era troppo clamoroso, e poi lì c'erano anche altri ad ascoltare. Così BeerHofmann interruppe quell'uggiolio idolatrico e disse con rammarico, ma anche con fermezza: "E" troppo poco". Aveva pubblicato così poco che doveva dirlo, e chi avrebbe potuto rispondergli su questo punto? Nella sala c'era forse una dozzina di persone, e tutte trattennero il fiato. Ma Emil Ludwig aveva pronta la risposta, questa volta una frase sola: "Shakespeare sarebbe meno Shakespeare se avesse scritto soltanto l'Amleto?". La sua impudenza lasciò tutti a bocca aperta. BeerHofmann non dondolava più la testa. Oso ancora oggi cullarmi nella speranza che, nonostante la grande presunzione che lo distingueva, non si attribuisse la paternità di un Amleto. Subito dopo, durante il pranzo, Emil Ludwig provvide a rifarsi di tanta abnegazione badando più a sé e tessendo l'elogio della propria fecondità e facilità di scrittura, della propria conoscenza del mondo, degli importanti amici e ammiratori che aveva in ogni Paese. Conosceva tutti, da Goethe a Mussolini. Seppe descrivere con toccante efficacia il contrasto tra quella che definì la spoglia dimora di Goethe a Weimar e l'immensa sala in cui era stato ricevuto a Palazzo Venezia. Quel salone, che paragonò a un continente imperiale, lui l'aveva percorso in tutta la sua lunghezza, a passettini, per arrivare fino all'uomo che con aria risoluta lo aspettava all'altra estremità, dietro il mastodontico scrittoio. Mussolini sapeva chi era l'uomo che veniva verso di lui, e quando Ludwig, dopo la lunga traversata, si trovò infine davanti allo scrittoio (senza alcun dubbio il più grande del mondo, anche più grande di quello che lo stesso Ludwig aveva ad Ascona), lo accolsero parole lusinghiere che la modestia impediva di riferire. Mussolini dimostrava un istinto sicuro nel cogliere l'importanza di un personaggio come Ludwig, noto in tutto il mondo letterario, e infatti gli accordò una serie di lunghi colloqui che furono pubblicati in tutti i grandi giornali del pianeta e naturalmente anche in volume. Ma questa era acqua passata. Da allora erano usciti altri libri, sei, otto, l'ultimo era Il Nilo. Per scriverlo, Ludwig era stato in Egitto. L'aveva terminato in sei settimane. Il padrone di casa, seduto a capotavola, interruppe il racconto e indicò con un gesto riverente e invitante un tavolino poco lontano, sul quale Il Nilo era posato in piena solitudine e in tutto il suo spessore. Ma Ludwig non ci fece caso, era già proteso verso altri lidi, si diffondeva con trilli di gioia o con toni sibillini su tre o quattro progetti che lo aspettavano. Di quel che sarebbe venuto poi, era meglio non parlare, giacché dopo tutto non era lui l'unico invitato. "E noi non vogliamo dimenticare, pur con tutto il nostro legittimo amor proprio - solo i pezzenti sono modesti ATTENZIONE: SI E" RISCONTRATO UN ERRORE NON PREVISTO DALLA CONVERSIONE DEL FILE. SI PREGA COMUNICARE ALLA BIBLIOTECA CIECHI IL NOME DI QUESTO FILE. GRAZIE PER LA COLLABORAZIONE. , non vogliamo dimenticare colui che oggi, a questa tavola, rappresenta il prezioso Jung Wien di fine secolo. l'unico rappresentante di una tradizione imperitura che sia ancora tra noi, l'unico e il più grande". Non era una tirata da poco, ma corrispondeva all'opinione di casa Benedikt e forse anche a quello che BeerHofmann pensava di sé, perché diversamente sarebbe stato difficile conservare quella sostenutezza di fronte al mondo. BeerHofmann, come poi ebbi modo di vedere più di una volta negli incontri con lui, lasciava trapelare che Hofmannsthal aveva ceduto troppo alle tentazioni del mondo: ai suoi occhi, tutto quello che aveva a che fare con Salisburgo, i libretti, l'interesse per l'opera lirica, era un'aberrazione. Emil Ludwig doveva essergli profondamente antipatico - lo era a tutti i commensali, con l'eccezione del padrone di casa -, ma BeerHofmann non poteva restare indifferente nel sentirsi proclamare "il più grande" fra i tre grandi dello Jung Wien. Subito dopo Ludwig volse di nuovo il timone verso se stesso. Doveva farsi vedere all'Opera, era un debito che aveva con Vienna, e aveva prenotato un palco per quella sera. Ma non poteva andarci senza un'accompagnatrice. Si augurava di trovarla in una delle quattro figlie dei Benedikt. La più bella. Friedl, seduta di fronte a lui, lo ascoltava con interesse. Non lo interruppe e non rise neanche una volta. Ludwig si sentiva ammirato da lei, e in verità era lei che lo spronava, con la sua ingannevole attenzione, a prolungare quelle iperboliche effusioni su se stesso. Ludwig la pregava dunque di tenersi libera per quella sera e di accompagnarlo all'Opera. Friedl aveva avvertito nettamente la mia antipatia per Ludwig e forse esitava ad accettare l'invito nel timore di perdere un po'"della mia stima. L'istinto le diceva che la mia stima non poteva essere molto grande, perché dopo tutto lei apparteneva a quella famiglia esecrata. Ma pregustava il ridicolo contegno che Ludwig avrebbe probabilmente tenuto all'Opera, come anche il resoconto pepato con cui lei mi avrebbe divertito. Così accettò, e alcuni giorni dopo, alla nostra prima passeggiata, venni a sapere tutto quello che era successo. Emil Ludwig, nel suo palco, non si stancava di balzare su dalla poltrona per farsi notare dal pubblico. Aveva fatto il galante con Friedl accompagnando le arie dell'opera, prima sottovoce, poi sempre più forte. Gli spettatori dei palchi vicini avevano reagito contro l'importuno, ma era proprio quello che Ludwig voleva. Alle proteste non fece caso, sembrava in trance, inebriato dalla presenza della sua giovane accompagnatrice. Riuscì a distrarre gli occhi del pubblico dal palcoscenico per attirarli sul suo palco. Alla fine qualcuno andò a cercare l'usciere dei palchi per fargli le sue rimostranze e perché cessassero quei rumori molesti, e così venne a sapere chi era quel tappo che saltava su continuamente e si affacciava alla balaustra a cantare e a gesticolare: Emil Ludwig in persona. La voce si sparse in un battibaleno, e quando fu ben sicuro che tutti erano al corrente, Ludwig si concesse di colpo un po'"di riposo. Non ricordo quale opera si rappresentasse quella sera, ma Friedl raccontava che al momento degli applausi lui si era inchinato e invece di battere le mani si era preso gli applausi come se fossero diretti a lui, e solo quando lei gli aveva fatto notare l'inopportunità della sua condotta si era rassegnato molto a malincuore a battere le mani una o due volte. NOTE: (1) Nel testo eine Feder vale "una piuma", ma anche "una penna per scrivere", mentre è implicito il riferimento a Federgewicht ("peso piuma") ?N" d'T"*. "Io cerco i miei pari!" Già alla seconda visita in casa Benedikt accadde qualcosa che per me trasformò in un palcoscenico orientale quello che era stato un regno del demonio. Avevo salito i gradini che portavano all'ingresso e avevo già suonato il campanello quando udii dietro di me dei passi frettolosi, un po'"strascicati; mi meravigliai, perché non potevano essere i passi di un ospite adulto, e mi voltai. Davanti a me stava tutta affannata la giovane "giapponese", come la chiamavo io, la ragazza che da mesi incontravo nella Himmelstrasse, col mantello aperto, una ciocca di capelli neri sul viso, le impetuose movenze da mimo, come in un ritratto d'attore di Sharaku, come in una scena del teatro Kabuki. Era un'invitata, come me? Una ragazza così giovane? Ero talmente sbalordito da questa idea che dimenticai di salutare. Lei fece un cenno col capo e non disse una parola, la porta si aprì, Friedl si affacciò, come la prima volta, rise vedendoci l'uno accanto all'altro sulla stuoia e disse: "Sei tu, Susi? Questo è il signor C". E questa è Susi, la mia sorella più piccola". Avevo buoni motivi per sentirmi imbarazzato, ma anche Susi lo era. Infatti, sebbene le fossi del tutto indifferente, senza dubbio sapeva che la incontravo ogni giorno nella Himmelstrasse. Non veniva come invitata, veniva dalla scuola, aveva fatto tardi come sempre, e questa era la ragione dell'affanno e della fretta. Subito scomparve salendo al piano di sopra, e Friedl disse stupita: "Ma allora la Susi lei l'ha già vista spesso. Non me ne ha mai parlato". "Non sapevo chi fosse. Lei non mi aveva detto che la sua sorella più piccola ha quattordici anni?". "Infatti. Però ne dimostra diciotto". "L'ho presa per una giapponese". "Ha un aspetto così esotico. Nessuno sa spiegarsi come sia spuntata nella nostra famiglia". Poi entrai nel salotto. Ma ancora per un poco mi sentii confuso. Finalmente mi rendevo conto di aver cercato quegli incontri nella Himmelstrasse: ero sceso sempre alla stessa ora e avevo fatto in modo da non lasciarmi sfuggire la ragazza quando usciva dalla Strassergasse. Una ragazzina di quattordici anni che veniva dalla scuola! Il suo affanno, la sua eccitazione, che si erano comunicati anche a me, non avevano nessun significato particolare: una ragazzina che temeva di far tardi a casa per il pranzo. Certo, gli attori giapponesi, che non potevo dimenticare, avevano contribuito a quell'impressione, e anche il mio amore per le stampe di Sharaku. Ma perché mai Susi aveva l'aria di un attore uscito da una di quelle stampe? Aveva un fascino esotico, e non c'era paragone tra la sua bellezza inspiegabile e Friedl, che incarnava l'impertinenza e la leggerezza di Vienna. Era una sensazione così forte che non ne feci parola, e nessuna delle sorelle venne a sapere che ad attirarmi sempre più nella loro casa era ormai il pensiero del mistero che avvolgeva quella ragazzina. Domandai un giorno a Friedl se era capace di ascoltare molte cose insieme in un locale affollato, mentre da tutte le parti si parlava, si litigava, si cantava. Non voleva credere che fosse possibile: che cioè si potesse ascoltare più di una voce contemporaneamente senza lasciarsi scappare qualcosa. Le spiegai che nell'orecchio entravano due, tre, quattro voci tutte insieme e che la cosa più interessante era il gioco che si svolgeva tra quelle voci. Le voci non avevano riguardo l'una per l'altra e prorompevano alla loro maniera, come un meccanismo d'orologeria caricato a dovere, inarrestabili, ingovernabili; ma quando poi insieme ad esse si afferravano altre voci contemporaneamente, ne venivano fuori le cose più strane, era come se tu avessi la chiave giusta di un particolare meccanismo d'orologeria, una chiave capace di svelare le interazioni, per così dire, delle quali le voci stesse non sapevano niente. Promisi di darle una dimostrazione: doveva solo venire con me qualche volta, cominciare con le mie orecchie, in un certo senso, mettendosi al mio posto, e presto avrebbe acquistato anche lei quella facoltà che poi sarebbe diventata un'abitudine di cui non avrebbe più potuto fare a meno. La condussi una volta, a tarda notte, nel caffè della Kobenzlgasse, dove la gente si ritrovava quando gli Heurigen (1) avevano già chiuso e l'ultimo tram della linea 38 era partito. Il pubblico era più assortito che negli Heurigen. In principio arrivavano quelli che non si erano divertiti abbastanza nelle ore precedenti la mezzanotte e pensavano di "arrotondare" la nottata. Ad essi si univano persone del posto che dopo aver servito da bere per tante ore, finito il lavoro, volevano spassarsela a loro volta in un'atmosfera diversa ma non troppo estranea. Erano costoro a dare il tono: i clienti degli Heurigen non erano più al centro dell'interesse, non erano in maggioranza, né occorreva badare a loro in particolare. Col passare delle ore, infatti, i clienti venivano relegati sempre più nella parte di spettatori, e al posto dei canterini degli Heurigen, di cui il pubblico aveva ascoltato o accompagnato le canzoni tra una bevuta e l'altra, entravano in scena i veri cittadini di Grinzing, personaggi che per la loro originalità e le loro stranezze superavano tutte le aspettative di chi frequentava le mescite popolari o i locali di maggiori pretese. In un'ora potevano succedere più cose al caffè della Kobenzlgasse che in tutta una serata negli altri posti; e quasi ogni sera, mentre i clienti di fuori cambiavano, i personaggi del luogo erano gli stessi. Eravamo arrivati piuttosto tardi perché volevo che Friedl, per la sua iniziazione, sperimentasse tutta la discordanza delle voci quando l'attesa era già al culmine. Il caffè era pieno zeppo, fumo e baccano ti venivano sbattuti in faccia come strofinacci, neanche un posto libero da nessuna parte, ma in onore di Friedl, che arrivava come una boccata d'aria fresca - lei saltava come un gatto in quella baraonda, gli occhi le scintillavano -, ci lasciarono un varco e ci costrinsero a sederci invece di farci lottare per la conquista di un posto. "Non capisco niente," disse Friedl "le orecchie sentono tutto, ma non capisco niente". "Udire è già tanto," dissi io "adesso succederà qualcosa che sbroglierà il garbuglio". Contavo sulla comparsa di un uomo che avevo già visto alcune volte: la notte del sabato non mancava mai e mi dava non poco da riflettere per tutta la settimana. Non passò molto tempo, la porta si aprì e apparve il personaggio, secco, piuttosto alto, una nera testa da uccello con gli occhi sporgenti. Con passo ondeggiante, quasi danzando, si aprì la via fino al centro della sala, fece arretrare con i gomiti, senza però urtare nessuno, tutti quelli che gli stavano intorno, cominciò a girarsi su se stesso, levando le mani a mezza altezza in un gesto di supplica, e accompagnò il gesto dicendo: "Io cerco i miei pari! Io cerco i miei pari!". Lo disse in un modo che sembrava quasi un canto. Quel "miei" suonava solenne come l""io" o il "noi" di un sovrano. Le mani abbracciavano nell'aria qualcuno che non c'era, appunto i suoi pari, e intanto l'uomo continuava a girarsi su se stesso, continuava instancabile, impedendo a tutti di avvicinarsi alle sue mani, e cantava: "Io cerco i miei pari! Io cerco i miei pari!" - il grido lamentoso e protervo di un trampoliere. "Ma quello è il Leimer!" disse Friedl. Lo conosceva, ma come poteva averlo riconosciuto lì? Lo conosceva di giorno, non l'aveva mai visto di notte, quando andava tra la gente col suo grido regale. Di giorno stava alla piscina di Grinzing, di cui era proprietario con i fratelli. Là assegnava le cabine ai clienti o sedeva alla cassa. A volte, se ne aveva voglia, dava anche lezioni di nuoto. Poteva permettersi qualche capriccio, perché la piscina incontrava le simpatie generali ed era sempre ben frequentata. Spesso era così piena che non si riusciva più a entrare: da tutte le parti di Vienna la gente arrivava in tram per fare il bagno a Grinzing, e i Leimer passavano per una delle famiglie più ricche del posto, forse la più ricca. I fratelli dovevano il loro benessere a una madre ardimentosa, la quale ancora nel secolo scorso - si era lanciata davanti alla carrozza dell'Imperatore e, giovane e bella com'era, aveva gettato a Francesco Giuseppe una supplica in cui la famiglia Leimer chiedeva un privilegio per l'acqua, necessario per l'apertura di una piscina. Da poco era entrato in funzione l'acquedotto che dalle montagne portava a Vienna l'acqua migliore, e l'intraprendente signora aveva saputo approfittare del momento. L'Imperatore le concesse il privilegio, e la sua benevolenza assicurò alla piscina di Grinzing, come alla famiglia Leimer, i vantaggi desiderati. Era una storia arcinota, perché a quella piscina ci andavano tutti. Ciò che il pubblico diurno ignorava era l'effetto che la graziosa concessione dell'Imperatore aveva avuto, adesso che di imperatori non ce n'erano più, su quel membro della famiglia. "Io cerco i miei pari!" - quel grido "monarchico", a leggerlo stampato, può anche suonare ridicolo. Ma non riusciva ridicolo sulla bocca e nei gesti di colui che lo intonava di notte e lo ripeteva con una cadenza sempre uguale, scandendo lentamente le sillabe. Struggendosi su se stesso, l'uomo si aggirava tra i tavoli e poi di nuovo nell'angusto spazio centrale. Non parlava a nessuno, nessuno gli parlava, per nulla al mondo avrebbe interrotto il suo grido. Nessuno gli faceva il verso, nessuno tentava di distoglierlo dalla sua ricerca. L'entrata in scena del Leimer era ormai ben nota, e sembrava che non disturbasse nessuno, nonostante la serietà che lui ci metteva. Essendo il padrone di tutta quell'acqua di cui poteva disporre a piacimento, era un personaggio rispettato, e tuttavia la sua irrequietezza portava nel caffè una nota sinistra. Il grido si spegneva quando l'uomo si faceva largo per uscire. Ma anche dopo che lui si era allontanato il grido restava nell'orecchio. Poi un vignaiolo seduto vicino a me disse: "Arriva il francese!". Un altro, che mi stava quasi di fronte, raccolse la frase e la ripeté avidamente. Era un fatto nuovo, qualcosa che non capivo, e non potei spiegare alla mia accompagnatrice di che si trattasse. Sembrava che anche agli altri tavoli ci fosse molta attesa per "il francese". Non sapevo di nessun francese che abitasse a Grinzing, ma la gente del posto doveva avere un'idea precisa del personaggio: da come ne parlavano sembrava che il suo arrivo fosse atteso come una scadenza annuale. Friedl ascoltò un paio di volte l'annuncio: "Arriva il francese! Arriva il francese!", e quel senso di attesa generale la indusse a rivolgersi a un vicino, un uomo beatamente ubriaco - non che volesse incoraggiarlo, perché già doveva difendersi da lui - per domandargli: "Quando arriva il francese?". Nelle condizioni in cui si trovava, l'ubriaco non sarebbe stato in grado di rispondere a una domanda più complessa. - "Ma subito! Arriva subito!". Di lì a poco apparve un gigante biondo che dava l'impressione di sovrastare di tutta la testa ogni persona presente nel locale. Una giovane donna si stringeva a lui, e dietro di loro tutto un codazzo faceva ressa. "Ecco il francese! Ecco il francese!". Era proprio lui, mentre il seguito era composto da gente di Grinzing. La donna era anche lei una Leimer, la sorella di quello che era venuto a cercare i suoi pari. Il gigante si procurò un posto, con tutto il suo seguito, ed era incredibile quanta gente potesse accogliere il locale che già prima era pieno. Ma si sedettero tutti, a un lungo tavolo - quelli che lo occupavano in precedenza avevano fatto largo ai nuovi venuti e si erano pigiati ad altri tavoli. La sorella del Leimer era ancora al fianco del francese, continuava a stringersi a lui, ma adesso si capiva che cercava di trattenerlo da qualcosa che non era ancora accaduto e non sarebbe dovuto accadere. Qualcuno mi spiegò che la donna era la moglie del francese: era andata a sposarlo in Francia e una volta l'anno tornava in visita a Grinzing portandosi dietro il marito. Lui era marinaio su un sommergibile, ma non era chiaro se lo fosse ancora o lo fosse stato durante l'ultima guerra. Io non mi capacitavo e lo guardavo stupito: un gigante simile in un sommergibile! Io mi ero immaginato che per quei compiti si scegliessero uomini piuttosto piccoli. Tutti gli rivolgevano la parola, lui non capiva niente di tedesco, e sembrava che le persone sedute al suo tavolo non s'interessassero ad altri che a lui. Non conversavano tra loro, pensavano solamente a lui. Tutti gli domandavano qualcosa e lui non sapeva rispondere, gridavano addirittura per farsi capire, ma la situazione non migliorava. Restava assolutamente muto, non diceva una parola neanche nella sua lingua: un francese così alto e così silenzioso non l'avevo mai visto. Quanto meno diceva, tanto più la gente strillava al suo indirizzo. Anche da altri tavoli si facevano tentativi di stuzzicarlo a parlare. La moglie, che gli serviva da interprete e perciò gli si teneva così vicina, fece all'inizio, allungando il collo, qualche movimento con le labbra. Ma presto rinunciò. Non c'era speranza, forse la donna non sapeva il francese abbastanza bene, ma anche se lo avesse conosciuto come la sua lingua materna era escluso che potesse tener dietro a quella valanga di grida e di richieste. Intanto continuava a tenere il marito per il braccio, sempre più stretto. Il caos creato nel locale da tutti i rumori possibili salì rapidamente fino a diventare un enorme muggito che da tutte le parti si scaricava sul francese. Se al nostro tavolo il frastuono era assordante, si può immaginare che cosa doveva essere al suo. Potevo vederlo benissimo e non gli toglievo gli occhi di dosso. Come tutti gli altri, anch'io ero concentrato su di lui. Mancò poco che gli gridassi qualcosa, nella sua lingua, ma lì, al culmine dell'eccitazione generale, non gli sarebbe servito granché. All'improvviso balzò in piedi e ruggì: "Je suis français!". Con due poderosi movimenti delle braccia spazzò via tutti quelli che aveva vicino. Con un salto formidabile scavalcò il tavolo e si trovò in mezzo a un cumulo di corpi. Tutti gli si buttarono addosso mentre lui andava avanti a ruggire con quanto fiato aveva. Si udiva soltanto il suo grido di guerra: "Français! Français!". Spezzò quel groviglio umano con una forza incredibile, anche per un uomo della sua statura era un'impresa stupefacente. Si aprì un varco verso la porta trascinandosi dietro uomini appesi a ogni parte del suo corpo. Aveva perso il contatto con la moglie, che era rimasta indietro, in mezzo a quelli del suo gruppo. L'uomo le era sfuggito con quel primo balzo al di sopra del tavolo, e adesso lei cercava di seguirlo, confusa tra gli altri della turba ostile che gli stava alle calcagna. Ma lei non era tra quelli che gli si aggrappavano alle braccia e alle gambe e non volevano mollarlo. Quando il francese ce l'ebbe fatta, lei cercò di uscire e di raggiungerlo, ma ciò che accadde poi sulla strada non potei vederlo. Alcuni, rientrando, raccontarono che adesso la moglie lo riportava a casa. Come cognato, il francese aveva diritto all'ospitalità dei Leimer, quelli della piscina, e su questo punto sembrava che nessuno avesse niente da obiettare. Dentro il caffè, da quel momento, non si parlò d'altro. Il francese, si diceva, veniva ogni anno. Si sapeva in anticipo del suo arrivo, ci si preparava, e finiva ogni volta allo stesso modo. Domandai a questo e a quello perché il francese era saltato su all'improvviso. Faceva sempre così, fu la risposta, e nessuno sapeva dire di più. In principio, per un poco, se ne stava seduto lì in silenzio. Ma capiva quello che gli gridavano? - No, non capiva una parola. - Allora, perché la gente ci provava? - Così, dipendeva dall'umore generale. - E lui ruggiva sempre a quel modo, dicendo le stesse parole? - Sì, sempre: "Je suis français!", e la gente cercava di imitarle. Che forza, però, quel tipo. Già, ma la gente non si lasciava mettere sotto. Io mi domandavo quante parole straniere, completamente incomprensibili, bisogna sentirsi dire, ognuna schiacciata in mezzo a cento altre, per dare fuori da matto. NOTE: (1) Le numerose osterie dei dintorni di Vienna, e soprattutto di Grinzing, con sale interne, giardino e tavoli all'aperto. Il nome si richiama al vino nuovo, bianco e frizzante, chiamato Heurige, che si produce sulle colline viennesi ?N" d'T"*. Una lettera di Thomas Mann Era una lettera circostanziata, scritta a mano, tutta in quel linguaggio ben calibrato che si conosceva dai suoi libri. Vi erano cose che non potevano non sorprendermi e rallegrarmi. Esattamente quattro anni prima avevo mandato a Thomas Mann il manoscritto del romanzo, in tre grossi volumi rilegati in tela nera che dovevano avergli dato l'impressione di una trilogia. Nella lettera di accompagnamento, lunga e asciutta, gli avevo esposto il progetto di una "Comédie humaine dei folli". Non avrei potuto usare un tono più altero, era difficile trovarvi una sola parola di omaggio al destinatario, e Thomas Mann dovette domandarsi che cosa mai poteva avermi indotto a scegliere proprio lui come lettore. Veza amava I Buddenbrook quasi quanto Anna Karenina, e se in lei l'entusiasmo arrivava a un grado tale, succedeva spesso che mi tenesse lontano dalla lettura di un libro. Avevo letto invece La montagna incantata, la cui atmosfera mi era familiare grazie ai racconti della mamma, che aveva trascorso due anni ad Arosa nel sanatorio tra i boschi. Il romanzo mi aveva fatto una grande impressione, se non altro per la problematica della morte, e sebbene io avessi altre idee in proposito, l'analisi fatta dall'autore era senza dubbio circostanziata, pari all'importanza del tema. Allora, nell'ottobre del 1931, non mi vergognavo di rivolgermi in prima istanza a Thomas Mann. Musil non l'avevo ancora letto, e un motivo di ritegno sarebbe potuto venire solo dal fatto che avevo già letto qualche libro di Heinrich Mann, che a me piaceva più del fratello. Ciò che era stupefacente, in ogni modo, era la mia fiducia in me stesso. In quella prima lettera non rendevo omaggio a Thomas Mann, mentre La montagna incantata lo avrebbe senz'altro giustificato. Ma ero dell'idea che gli sarebbe bastato dare un'occhiata al manoscritto per sentirsi costretto a leggere fino in fondo, senza scampo, perché quello era un libro irresistibile per un autore pessimista quale Thomas Mann mi sembrava. Ma l'enorme plico ritornò indietro intatto, con una garbata lettera nella quale lo scrittore chiedeva venia spiegando che l'impegno era superiore alle sue forze. Fu un colpo molto duro. Se non lo leggeva lui, chi altri avrebbe voluto leggere un libro così tetro? Da lui mi ero aspettato assai più che un consenso, qualcosa di molto vicino all'entusiasmo. La parola di Thomas Mann, una parola che il libro meritava e che egli avrebbe pronunciato con convinzione e non solo per amichevole solidarietà, avrebbe potuto aprire la strada al romanzo. Non vedevo ostacoli davanti a me, e forse per questo gli avevo scritto con tanta presunzione. La sua lettera di diniego era la risposta alla mia presunzione, e probabilmente era la risposta giusta, dal momento che Thomas Mann non conosceva il libro. Così il manoscritto rimase bloccato per quattro anni. E" facile immaginare le conseguenze per la mia vita esterna. Ma le conseguenze furono ancora più gravi per il mio orgoglio. Mi sentivo offeso da quel diniego e decisi di non prendere più iniziative per il libro. Solo a poco a poco, dopo essermi fatto qualche amico attraverso le letture pubbliche di brani del romanzo, mi lasciai persuadere a provare con questo o con quell'editore. Furono tentativi infruttuosi, come del resto mi aspettavo dopo il colpo che Thomas Mann mi aveva vibrato. Ora finalmente, nell'ottobre del 1935, il libro aveva visto la luce, e io avevo la ferma intenzione di mandarne una copia a Thomas Mann. La ferita che mi aveva inferto era rimasta aperta. Lui era l'unico che potesse guarirla, se la lettura del libro lo avesse convinto che aveva avuto torto, che aveva respinto qualcosa che avrebbe meritato la sua attenzione. La lettera che scrissi questa volta non era sfacciata, poiché mi limitavo a esporgli i fatti e lo mettevo già così, senza forzature, dalla parte del torto. Mi rispose con una lunga lettera. Il suo carattere, la sua scrupolosa coscienza lo avevano spinto a riparare a quel torto. La sua lettera, dopo tutto quello che era successo, mi rese felice. Nello stesso periodo il romanzo ebbe anche un'eco pubblica, molto pubblica, poiché nella "Neue Freie Presse" apparve la prima recensione. Era un articolo traboccante di elogi, ma firmato da uno scrittore che io non stimavo e che era difficile stimare. Fece tuttavia il suo effetto, poiché nello stesso giorno (o fu il giorno dopo?), quando entrai al caffè Herrenhof, Musil mi venne incontro con una cordialità che non gli avevo mai conosciuto. Mi tese la mano e non solo sorrise, era addirittura raggiante, e ne fui tanto più colpito perché ero convinto che in pubblico non si permettesse mai un atteggiamento simile. Disse: "Mi congratulo con lei per il suo grande successo!". Aveva letto soltanto una parte del romanzo, ma se continuava così, disse, quel successo me l'ero meritato. Nell'udire dalla sua bocca quella parola, "meritato", fui preso da una specie di ebbrezza. Aggiunse altre osservazioni molto positive, ma preferisco non riportarle, perché forse, con la piega che presero poi le cose, Musil avrebbe anche potuto ritirarle più tardi. Furono parole che mi fecero perdere la testa. All'improvviso capii quanto avessi contato sul giudizio di Musil, forse non meno che su quello di Sonne. Ero inebriato e confuso, dovevo essere molto confuso perché, altrimenti, come avrei potuto commettere la più penosa delle gaffes? Lo ascoltai fino in fondo e poi dissi subito: "E immagini un po', ho anche ricevuto una lunga lettera da Thomas Mann!". Musil cambiò fulmineamente, fu come se con un balzo si fosse ritirato in se stesso, la faccia gli diventò grigia, era ridotto al solo guscio. "Ah sì!" disse. Mi diede la mano a metà, così che potei stringergli soltanto le dita, e si voltò bruscamente. Così fui congedato. Il suo fu un congedo definitivo. Musil era un maestro nell'imporre le distanze, aveva una lunga pratica in quell'arte: se respingeva una persona, la respingeva per sempre. Nel corso dei due anni successivi mi accadde qualche volta di vederlo in mezzo ad altra gente, ma non mi rivolse mai la parola pur mostrandosi sempre cortese. Non si lasciò più attirare in una conversazione con me. Se qualcuno faceva il mio nome, se ne stava zitto come se non sapesse di chi si parlava e non avesse nessuna voglia di informarsi. Che cos'era successo? Che cosa avevo fatto? Qual era la colpa imperdonabile da cui non poteva più assolvermi? Avevo pronunciato il nome di Thomas Mann nello stesso istante nel quale lui, Musil, mi esprimeva il suo apprezzamento. Avevo parlato di una lettera di Thomas Mann, una lunga lettera, subito dopo che lui, Musil, si era congratulato con me e aveva motivato le sue congratulazioni. Doveva supporre che io avessi mandato il romanzo a Thomas Mann, come a lui, con una dedica altrettanto piena di ammirazione. Non conosceva l'antefatto e non sapeva che il primo invio era avvenuto già quattro anni prima. Ma anche se avesse conosciuto tutta la vicenda, anche se fosse stato al corrente di ogni particolare della vecchia storia, non si sarebbe offeso meno profondamente per la mancanza che avevo commesso nei suoi riguardi. In Musil il senso dell'onore arrivava a una suscettibilità che non ho mai sperimentato in nessun altro, e non può esservi dubbio che io, felice e confuso com'ero, mi ero preso troppa confidenza. Era comprensibile che mi facesse espiare la mia colpa. E" un'espiazione che mi ha molto addolorato, in realtà non sono mai riuscito a consolarmi del fatto che Musil mi voltò le spalle in quello che per me rimane il momento più alto tra quanti ne ho vissuti con lui. Ma proprio perché era lui a infliggermela, ho accettato questa espiazione. Ho capito tutta la gravità dell'offesa che gli facevo in quello stato di confusione mentale che accompagna l'improvviso riconoscimento di un merito, e me ne sono vergognato. Musil doveva credere che io collocassi Thomas Mann più in alto di lui. Non poteva ammettere una simile valutazione da parte di qualcuno che aveva sempre proclamato il contrario. Per Musil il rispetto doveva avere una motivazione intellettuale, altrimenti non era da prendere sul serio. Per Musil fu sempre importante una chiara scelta tra lui e Thomas Mann. Se si fosse trattato soltanto di un personaggio come Stefan Zweig, la cui fama era affidata soprattutto all'intensa attività, il problema di una simile scelta non si sarebbe mai posto. Ma Musil sapeva benissimo chi era Thomas Mann, e ciò che lo irritava principalmente era la misura dell'apprezzamento riservato a Thomas Mann in rapporto a quello riservato a lui. A suo modo, proprio in quel periodo, Musil si era adoperato in favore di Thomas Mann (senza che io ne avessi la più pallida idea), ma nella consapevolezza che lui stesso valeva di più, con l'intima sensazione che lui aveva il diritto di strappargli una parte della sua celebrità. Tutte le lettere di Musil a Thomas Mann, nelle quali gli offre aiuto, hanno il tono di altrettante rivendicazioni. Le cose cambiavano nel mio caso: qui c'era un giovane che, dopo avergli reso l'omaggio più convinto, proprio nel momento in cui vede accettata e riconosciuta da lui la propria opera, tira fuori per l'appunto il nome che lui, Musil, ha il diritto di soppiantare, che lui - per il momento - tenta ancora inutilmente di scalzare. Questo comportamento getta un'ombra di sospetto su tutti gli omaggi del passato. Nelle cose dello spirito ciò equivale a un delitto di lesa maestà e merita la pena dell'ostracismo. Il brusco commiato di Musil lasciò in me un segno profondo. Già nel momento in cui avveniva davanti a me, in senso strettamente fisico, nella sala dello Herrenhof, intuii che qualcosa di irreparabile si era compiuto. Adesso però non mi sentivo di rispondere alla lettera di Thomas Mann. Dopo l'effetto che il suo nome aveva prodotto su Musil era subentrata in me una sorta di paralisi. Per alcuni giorni non riuscii a prendere in mano la lettera. Rimandai la risposta così a lungo che a un certo punto mi era diventato impossibile anche solo ringraziare Thomas Mann. Poi ritornai alla sua lettera e la rilessi con una gioia tanto maggiore. Fintanto che ad essa non avevo reagito, la mia gioia rimaneva intatta. Ogni giorno avevo la sensazione di avere appena ricevuto la lettera. Può darsi che, dopo averla aspettata per quattro anni, volessi fare aspettare Thomas Mann ancora un po', ma questa è una congettura di oggi. Gli amici che sapevano di quella lettera mi domandavano come avessi risposto, e tutto quello che io potevo dire era soltanto: "Non ancora, non ancora!". Dopo qualche mese la domanda era: "Che spiegazione lei gli darà? Come giustificherà il fatto che non ha ancora risposto a una lettera simile?". Era un'altra domanda alla quale non sapevo rispondere. Nell'aprile del 1936, dopo più di cinque mesi, appresi dai giornali che Thomas Mann sarebbe venuto a Vienna per una conferenza su Freud. Mi parve l'ultima occasione per rimediare al mio ritardo. Gli scrissi la lettera più ridondante della mia vita, non vedevo altro modo per chiarire la mancanza che avevo commesso. Oggi proverei un po'"di vergogna a leggere quella lettera. Al momento di scriverla, infatti, conoscevo l'opera di uno scrittore che per me contava più di lui: i primi due volumi dell'Uomo senza qualità. A Thomas Mann ero realmente grato, perché quella ferita si era chiusa. Nella sua lettera c'erano cose che mi riempivano di orgoglio. In fondo, senza confessarmelo, facevo dopo quattro anni la stessa cosa che proprio Thomas Mann aveva fatto: un atto di riparazione dopo una negligenza. Lui aveva letto la Blendung e aveva espresso la sua opinione, io avevo sostituito la mia prima lettera piena di presunzione con un'altra in cui moltiplicavo la riverenza che avrei dovuto tributargli fin da allora. Credo che Thomas Mann se ne sia compiaciuto. Ma il cerchio non si è mai chiuso del tutto. Io dicevo nella mia lettera quanto piacere mi avrebbe fatto poterlo incontrare durante il suo soggiorno a Vienna. Fu invitato a pranzo dai Benedikt. Là, quel giorno, Thomas Mann chiese di me e disse che mi avrebbe visto assai volentieri. Al pranzo era presente Broch, il quale spiegò che io abitavo lì a due passi, dall'altra parte della strada, e si offrì di cercarmi e di andare a prendermi. Venne a casa mia e non mi trovò, avevo appena preso il tram per andare da Sonne al Café Museum. Così avvenne che Thomas Mann lo sentii parlare in pubblico ma non l'ho mai conosciuto di persona. Ras Cassa. - Gli schiamazzi notturni Una comitiva indiana, a tarda sera, in uno degli Heurigen della Kobenzlgasse. Davanti all'ingresso cinque o sei automobili di lusso depositano il loro carico, una comitiva di forse trenta persone occupa il locale, sono tutti indiani, cercano di accaparrarsi una sala, gli altri clienti che li hanno preceduti sgomberano premurosamente i posti e passano nella seconda sala. Vi sono giovani indiani, vestiti elegantemente all'europea, con gioielli alle dita che brillano di pietre preziose, bellissime donne in sari, tutti, uomini e donne, scuri di pelle, neanche un bianco tra loro - hanno l'aria di non volere estranei e lo fanno capire mentre cercano sorridendo, ma con piglio risoluto e sempre in inglese - nessuno di loro conosce il tedesco -, di far vuotare la sala laterale. Ora che sono tutti seduti, i musicisti del posto si avvicinano dall'altra stanza e si accingono a cantare per loro. Il portavoce degli indiani rifiuta con un gesto energico: è la loro musica che vogliono far sentire lì, alla meglio. Da un angolo si ode già un suono che sembra il verso di un grillo, inconsueto, vago; tutti ammutoliscono, poi segue un canto che alla gente del paese sembra malinconico, quasi un inno funebre, e proprio lì, nell'allegro Heurige di Grinzing; ed è per questo che tutti hanno fatto silenzio. Adesso si vorrebbe sapere - la canzone è appena finita - che roba è, e il portavoce degli indiani, con un sorriso invitante che chiede comprensione per quella musica, dice: "An Indian lowsong". Nessuno capisce. Che cos'è un lowsong? Da quando gli indiani hanno attaccato con la loro musica c'è nell'aria una curiosa tensione, altre teste spuntano nel vano della porta, c'è gente fuori che preme per vedere. Nessuno ha ancora messo piede nella sala degli indiani. Lowsong? Lowsong? Poi qualcuno, forse io stesso, trova la soluzione: lovesong, lovesong, una canzone d'amore indiana. Allora la delusione si fa strada: "Una canzone d'amore! Oh bella! Hai sentito!". E la musica dello Heurige ha dovuto smettere per questa roba. La chiamano canzone d'amore, da quelle parti! Gli indiani si aspettavano applausi per la loro canzone. Invece avvertono ostilità, grida come quelle che accompagnano le canzoni tradizionali del posto, che si sentono soppiantate e offese. Gli indiani esitano, forse quella che hanno eseguito non era la giusta. Provano con un'altra, ma il cantante non ha molta fortuna, per orecchi inesperti l'effetto è ancora lo stesso. Ora c'è gente del posto che, spinta da dietro, è già nella sala. Fuori le grosse automobili sono state ispezionate con occhi pieni di astio. Il portavoce degli indiani continua a sorridere, ma s'intuisce il suo disagio di fronte ai plebei che gli si avvicinano; le donne, sì, sono ancora sedute, ma si fanno piccole e non hanno più il loro aspetto radioso, le voci degli intrusi diventano più forti e più rudi, un indiano fa ancora sentire il verso del grillo. Nessuno lo ascolta, in mezzo alla sala qualcuno lancia un grido astioso e sguaiato: "Ras Cassa!". E" il nome del capo abissino che combatte ancora contro gli italiani. Mussolini ha aggredito l'Abissinia, bisogna difendersi contro aeroplani e bombe. La fotografia di Ras Cassa è su tutti i giornali. E" ammirato per il suo valore. Ha la pelle scura. A parte il colore della pelle non ha altro in comune con questi indiani di Grinzing; e tuttavia il suo nome, una volta gettato lì, ha l'effetto di un grido di guerra. Benché pronunciato alla viennese, lo afferrano anche gli indiani, che però vi sentono qualcosa di minaccioso. Le note del grillo e il canto si perdono nel frastuono crescente. Gli indiani si alzano e si spingono verso l'uscita, prima esitanti, poi più in fretta. La gente li lascia passare. Si ode ancora qualche grido di "Ras Cassa!", fuori c'è un assembramento intorno alle grosse automobili. L'ammirazione per tanta ricchezza cede il posto all'esecrazione per tutto quel lusso. E" ancora un ostilità titubante, non aggressiva, ma molto prossima a scatenarsi. L'ostilità si esprime, in fondo, in quel grido di "Ras Cassa!", divenuto però un insulto, l'ultima cosa che ci si potesse aspettare durante questa guerra in Abissinia: tutte le simpatie, si pensava, erano dalla parte dei deboli, degli aggrediti che hanno deciso di difendersi in una guerra senza speranza. Ras Cassa! Ras Cassa! Gli indiani scompaiono nelle automobili. Adesso tutto ciò che è scuro di pelle è Ras Cassa. Gli indiani si allontanano. Di notte scendevo nel giardino che dietro la casa digradava per un ampio tratto lungo la collina. All'inizio dell'estate l'aria era rischiarata da tracce luminose, dappertutto lucciole, che io cercavo di seguire con gli occhi ma perdevo di vista, erano troppo numerose. La loro moltitudine era inquietante come se le avesse inviate un misterioso potere, risoluto a eliminare la notte. Nella loro luce c'era un fascino che mi entusiasmava fintanto che erano poche, ma poi si faceva ossessivo col loro rapidissimo moltiplicarsi. Ero contento che si tenessero basse, che non si levassero in alto e non si disperdessero troppo. Giungeva fino a me un cantare scomposto, da tutte le parti, non troppo vicino, non fastidioso, soprattutto dalla direzione del paese sottostante, il canto a squarciagola degli ubriachi negli Heurigen, le loro canzoni impossibili da distinguere l'una dall'altra, un mugghiare tra la gioia e il pianto, non l'ululare di lupi. Era la voce di un animale vero e proprio, un animale che lì si adagiava volentieri, contento di accucciarsi, di commuoversi su se stesso e di abbandonarsi a questa commozione, con una voce in cui non si sentiva tanto una minaccia quanto un desiderio di beatitudine. Anche chi non aveva la minima inclinazione per la musica poteva tuffarsi in quella fonte di giovinezza e diventare parte di quel curioso animale d'osteria unendosi alle voci di tutti gli altri. Ogni notte stavo ad ascoltare tutto ciò dal giardino della casa, nella parte alta della Himmelstrasse. Fintanto che accoglievo in me quei canti a squarciagola nel loro insieme, potevo giustificare davanti a me stesso il fatto di vivere lì. Me ne veniva una sorta di disperazione che però non mi impediva di sentire che avrei superato la prova, perché la affrontavo. Era un esempio plausibile di quella che in seguito chiamai massa festiva. (1) Quando scendevo a Grinzing con amici e mi sedevo in una delle osterie con giardino, anche noi vi prendevamo parte a modo nostro. Ci limitavamo a bere e a raccontarle grosse, senza unirci a quei canti scomposti. Ad altri tavoli c'erano altri che le raccontavano grosse. Tutto era a portata d'orecchi e tutto era tollerato. Era comico e poteva essere impudente, ma non ti era proibito eguagliare l'impudenza altrui. Tutto si muoveva nel senso dell'esagerazione, ma nessuno toglieva qualcosa all'altro e non c'erano scontri: per quanto grossolani fossero i desideri, ognuno sembrava disposto a concedere all'altro la sua parte di esagerazione. Nel frattempo si continuava a bere, il bere era il magico strumento dell'amplificazione, e fintanto che si beveva tutto s'ingrossava, sembrava che non ci fossero ostacoli, divieti o nemici. Quali enormi pietre, destinate allo scalpello di Wotruba, mi accadeva di vedere quando ero seduto lì con lui! Ma intanto lui tollerava che un giovane architetto, seduto con noi, elevasse città intere. Wotruba lasciava addirittura che gli gettassero addosso il nome di Kokoschka, cosa che raramente poteva passare liscia. Era il nome più importante di cui allora potessero gloriarsi i pittori e gli scultori di Vienna, e sebbene a quel tempo Kokoschka fosse a Praga e di Vienna non volesse più saperne, chiunque avesse a cuore la celebrità era fiero di lui, che era ritenuto insuperabile. Quando gli amici volevano raffreddare i bollori di Wotruba, quando avevano l'impressione che si prendesse troppo sul serio, ecco che saltava fuori ad un tratto il nome di Kokoschka; e sebbene Wotruba non avesse niente in comune con lo stile del pittore - egli era l'esatto opposto di ciò che in Austria, negli ultimi tempi, si richiamava al barocco -, quel nome, a causa della sua importanza, aveva su di lui l'effetto di una mazzata sulla testa. Questa reazione la osservai più di una volta: era come se improvvisamente lo paralizzasse la paura di non poter arrivare tanto in alto, era qualcosa che proprio non s'intonava alla sua natura, e io usavo allora appellarmi alla sua coscienza e metterlo in guardia da una sopravvalutazione di Kokoschka, del quale, comunque, egli non teneva in nessun conto le opere più recenti. Solo allo Heurige, mentre fantasticava intorno a enormi blocchi di pietra e raccontava di Michelangelo, che voleva scolpire montagne intere dalle parti di Carrara per poi imbarcarle sulle navi che si vedevano laggiù sul mare, montagne intere, non semplici blocchi da spedire a Roma per la tomba del papa; mentre si intuiva quanto lo affliggeva l'idea che Michelangelo non lo avesse fatto davvero, sembrava che Wotruba pensasse ancora adesso di incitare Michelangelo a farlo, e in verità erano i suoi blocchi di pietra che stavano improvvisamente in mezzo a quelli di Michelangelo, e lui gli toglieva il lavoro di mano senza tanti complimenti -, solo in quegli istanti il nome di Kokoschka, se mai qualcuno era tanto stupido da pronunciarlo, diventava un nome insulso, più o meno come Hähnlein, (2) e Wotruba, al confronto, possente come una montagna. Con Wotruba assistevo letteralmente al moltiplicarsi e all'ingrossarsi, si vedevano le pietre crescere. Non l'ho mai sentito cantare, e dunque neanche unirsi a quei cori d'osteria, tutt'al più ringhiare, ma allora era in collera e lui non andava allo Heurige per sfogarsi. Ma quando di notte scendevo tutto solo nel giardino e udendo quei canti a squarciagola mi vergognavo di abitare così vicino e non me ne andavo prima di averli assimilati fino in fondo e di aver superato la vergogna, allora mi avveniva qualche volta di chiedermi se laggiù non vi fossero anche altri che, come Wotruba, non si abbandonavano a quei canti e dalla generale volontà di amplificazione traevano forza per un fine particolare, per un fine legittimo. Non mi sono mai dato una risposta. Non mi sarebbe stato possibile scalfire la fiducia nella solida, inconfondibile personalità del mio amico, ma già il fatto che mi ponessi la domanda smorzava un poco la superbia dell'ascoltatore che si credeva superiore a quegli schiamazzi di ubriachi. Negli Heurigen ci andavo - di tanto in tanto, non spesso - in compagnia di amici e specialmente di ospiti che venivano dall'estero. In questi casi era quasi inevitabile fare gli onori di Grinzing. Allora capivo anch'io, con l'aiuto di occhi stranieri, che cosa avevano da offrire quei locali. Lì, dove la vita conservava davvero un tono campagnolo, dove si poteva star seduti tranquillamente in un giardino senza troppa gente intorno, affiorava in molti il ricordo di antichi dipinti olandesi, di Ostade, di Teniers. Non mancavano gli argomenti a favore di questa idea, che ravvivava di colori la mia avversione per quel cantare scomposto. Grazie a questi richiami pittorici compresi finalmente che cos'era in realtà a disturbarmi in quella specie di svago. Io ero ancora e sempre soggiogato da Brueghel, amavo tutto ciò che aveva la sua ricchezza e le sue dimensioni, continuerò sempre ad amarlo. A me riusciva insopportabile la caduta da quei portentosi quadri d'insieme ai piccoli particolari addomesticati dello stesso mondo, appunto ciò che avveniva nella pittura olandese di genere. Era lo svilimento, era lo spezzettamento a darmi la sensazione dell'inganno, e solo quando si arrivava a scene come quelle provocate dalla presenza dei distinti ospiti indiani che eseguivano le loro canzoni d'amore in un simile ambiente e così si attiravano una reazione di ostilità, solo allora quell'ambiente ritornava di colpo a somigliare al mondo reale, a Brueghel. NOTE: (1) Cfr" Massa e potere, cit", pp" 73-75 ?N" d'T"*. (2) Hähnlein, un cognome abbastanza diffuso, equivale a "galletto", mentre Kokoschka vuol dire "gallinella", "piccola chioccia" ?N" d'T"*. Il tram 38 Non era un lungo tratto, io lo facevo da capolinea a capolinea, neanche mezz'ora in tutto. Ma il viaggio sarebbe anche potuto durare di più, era un tratto interessante, e non c'era niente che facessi tanto volentieri quanto installarmi in una vettura alla curva di Grinzing. All'inizio del pomeriggio, quando vi salivo, la vettura era ancora quasi vuota. Mi sedevo in libertà e aprivo il libro, uno dei non pochi che avevo con me. Lo stridere delle rotaie completava la mia partitura, e per quanto questa mi assorbisse, non tutti i sensi vi erano impegnati: ero pronto ad accorgermi di ogni fermata e badavo a tutti quelli che prendevano posto sulla panca di fronte a me. Era la distanza giusta per osservare le persone. Prima si sedevano qua e là a caso, a una certa distanza tra loro. A ogni fermata gli spazi liberi diminuivano. I passeggeri che si sedevano dalla mia parte sfuggivano all'osservazione. I più lontani erano coperti da quelli che sedevano più vicino a me, e potevo guardarli solo quando salivano nella vettura o quando poi si alzavano per scendere. Ma di fronte a me se ne radunavano sempre in numero sufficiente, e poiché questo avveniva un po'"per volta c'era il tempo di inquadrarli con calma, mentre si susseguivano quasi a intervalli precisi. Alla prima fermata, al Kaasgraben, saliva Alexander von Zemlinsky che io conoscevo come direttore d'orchestra, non come compositore: una testa da uccello, tutta nera, con un naso triangolare assai sporgente, senza alcuna traccia del mento. Lo vedevo molto spesso, lui non badava a me, era davvero sprofondato nei suoi pensieri, pensieri musicali, mentre io facevo solo mostra di leggere. Ogni volta che lo vedevo, era inevitabile che mi mettessi alla ricerca del mento. Non appena spuntava sulla porta del tram io avevo come un piccolo sobbalzo e cominciavo la mia ricerca. Questa volta ce l'ha, non ce l'ha, l'avrà finalmente trovato? Non l'aveva mai, e anche senza il mento conduceva la sua vita molto intensa. Per me era come se fosse il rappresentante dell'uomo che a quel tempo non era più a Vienna, Arnold Schönberg. Pur avendo soltanto due anni meno di Zemlinsky, Schönberg era stato suo allievo e lo aveva ripagato con la venerazione, che era l'elemento essenziale del suo carattere e di cui fu gratificato lui stesso dai suoi allievi Berg e Webern. Schönberg era povero, e chi sa in quali condizioni aveva dovuto tirare avanti a Vienna! Per lunghi anni aveva strumentato operette, aveva dovuto contribuire digrignando i denti allo splendore più dozzinale di Vienna, lui che fonda ex novo la fama mondiale della città come culla di grande musica. A Berlino gli era stato concesso di insegnare ufficialmente composizione. Poi, licenziato come ebreo, era emigrato in America. Io pensavo a Schönberg ogni volta che vedevo Zemlinsky, la cui sorella era stata sposata con Schönberg per ventidue anni. E ogni volta lo guardavo con soggezione, sentivo l'energia concentrata in quella testa piccola piccola, profondamente segnata da linee pure, spirituali, così austera, quasi macilenta, senza un'ombra della boria del direttore d'orchestra, sebbene in tondo anche lui lo fosse. Non aveva limiti il prestigio di cui Schönberg godeva presso i giovani più seri e promettenti, e forse dipende da questo il silenzio che circondava la musica di Zemlinsky. Nel guardarlo, non immaginavo che esistesse musica sua. Sapevo però che Alban Berg gli aveva dedicato la sua Suite lirica. Berg non era più al mondo. Schönberg non era più a Vienna, e da questo pensiero ero sempre commosso quando Zemlinsky, che li rappresentava, saliva alla fermata del Kaasgraben. Ma il viaggio poteva anche cominciare in tutt'altro modo se al Kaasgraben saliva Emmy Wellesz, la moglie del compositore Egon Wellesz. Questi si era reso benemerito con le sue ricerche sulla musica bizantina, per le quali aveva avuto il riconoscimento dell'Università di Oxford. Si parlava anche della sua opera di compositore, ma meno di quanto Wellesz avrebbe desiderato. Per lui era quasi un'offesa ricordargli che si era distinto in un altro campo. Sua moglie era una storica dell'arte, e io l'avevo già osservata da qualche tempo sul tram prima di farne la conoscenza in società. Aveva uno sguardo intelligente, un po'' troppo mite, come se avesse deciso di convertirsi alla mitezza per vincere una natura forse troppo penetrante. Poi, nel corso di una lunga conversazione, appresi da dove veniva tanta mitezza. Emmy Wellesz aveva un'infatuazione per Hofmannsthal, che aveva conosciuto di persona, e quando parlava di lui, di come lui le era apparso in anni lontani durante una passeggiata, simile a una visione soprannaturale, quei lineamenti così assennati e critici si trasfiguravano, la voce cedeva alla commozione e lei doveva trattenere una lacrima. Ne parlava come se avesse incontrato Shakespeare. Io trovavo ridicolo quel fanatismo, e da allora non potei più prenderla sul serio. Solo molto tempo dopo scoprii quanto Emmy Wellesz fosse già allora in armonia con la germanistica più avanzata del secolo; e allorché venni a sapere dei preparativi per l'edizione di tutte le opere di Hofmannsthal in centottantotto volumi cominciai a vergognarmi della mia miopia. Che cosa non darei adesso, a posteriori, per aiutare quella lacrima a scorrere liberamente e per bagnarmi in quella mitezza. Nei pressi del parco Wertheimstein, là dove la linea 39 si distacca per Sievering, saliva talvolta un giovane pittore che abitava nella vicina Hartäckerstrasse. Ero andato a trovarlo nel suo studio un giorno che presentava i suoi quadri. Era il padrone di una creatura dai capelli nerissimi, una bellezza eccitante che aveva il fascino di un'antica yakshini (1) indiana, senza però essere minimamente indiana. Si chiamava Hilde, e le sue origini le davano diritto a quel nome. Era sottomessa al suo signore come una schiava: una schiava che si guarda intorno con occhi languidi alla ricerca di un liberatore ma che poi, quando le arride la liberazione niente sarebbe stato più facile per una donna così bella -, ritorna docilmente alla frusta del suo padrone. Mai, in nessun caso, si sarebbe lasciata liberare. Soffriva sotto quella dura signoria, ma soffriva volentieri. Mi avevano raccontato di quell'insolito rapporto, ma soprattutto della bellezza della ragazza, e forse per questo avevo accettato l'invito all'atelier senza avere ancora un'idea dei quadri del pittore. Questi, sotto l'influsso di Braque, si era votato al cubismo. La presentazione dei quadri avvenne con una solennità vagamente rituale. Lentamente, impersonalmente, a intervalli regolari, senza il minimo tentativo di accattivarsi lo spettatore con charme o lusinghe, i quadri venivano collocati a turno sul cavalletto, e sembrava doveroso reagire con altrettanta regolarità. Uno scrittore che abitava al piano di sopra della stessa casa assisteva alla presentazione in compagnia della sua amica. Era un individuo imponente e mi colpì per le continue smorfie che faceva e per le braccia lunghissime. Si era accomodato a una giusta distanza dal cavalletto. La sua amica, poco vistosa ma a suo modo assai docile anche lei, di un biondo un po'"insipido, gli sedeva accanto e sorrideva come lui, sia pure con maggior discrezione, all'apparire di ogni nuovo quadro. L'aria di dolciastro apprezzamento che emanava dallo scrittore mi urtava i nervi nella generale monotonia: ogni quadro suscitava in lui lo stesso piacere ben calcolato, la stessa partecipazione come se fossimo stati in San Marco a Firenze ad ammirare un Fra Angelico dopo l'altro. Io ero talmente affascinato dal regolare ripetersi dello spettacolo di quella reazione che tenevo gli occhi più sullo scrittore che sui quadri, ai quali sicuramente non resi giustizia. Proprio a questo mirava lo scrittore: la sua presenza e il gioco dei suoi consensi diventarono la principale attrazione di quella piccola brigata, e non era un risultato da poco se si considera che intanto la schiava locale non risparmiava alcuno sforzo per richiamare l'attenzione sul proprio stato di oppressa. Con incrollabile sicumera, come se fosse a cavallo, lo scrittore sorrideva dall'alto, intrepido cavaliere mai sfiorato da un dubbio su se stesso, in confidenza da sempre con la Morte e il Diavolo, abituato a trattare con loro da pari a pari. Ma non guardava la prigioniera che si torceva in catene non lontano da lui; anzi pareva a me che non vedesse nemmeno i quadri che gli sfilavano davanti, tanto puntuale e uniforme era il sorriso con cui li liquidava. Finita la presentazione, ringraziò sentitamente per quella grande esperienza. Non si trattenne un attimo di più, e mentre la schiava sorrideva invano, lui si ritirò con la sua amica. Solo allora appresi il suo nome, un nome che trovai un tantino comico sebbene si attagliasse a tutte quelle smorfie: si chiamava Doderer. (Lo rividi vent'anni dopo in circostanze molto mutate. Era diventato celebre, e venne a farmi visita a Londra. La celebrità, mi disse, una volta che ha preso piede, è irresistibile come una corazzata. Mi domandò se avevo mai ucciso qualcuno, e alla mia risposta negativa fece una grande smorfia che esprimeva tutto il disprezzo di cui era capace, e disse: "Allora lei è una vergine!"). Ma era il giovane pittore a salire sul tram 38 a quella fermata e a salutarmi col suo stile formale e incolore. Era sempre solo, e un giorno che chiesi della sua amica la risposta non fu meno contegnosa del saluto: "E" a casa. Quella non esce mai. Quella non sa comportarsi". "E come va lo scrittore con le lunghe braccia da scimmione, quello che abita sopra di lei?". Indovinò il mio pensiero. "Quello è un signore. Quello sa comportarsi. Quello si fa vedere solo quando io lo invito". Di lì in poi, nella Billrothstrasse, il tram cominciava già ad affollarsi, e quasi sempre finiva la possibilità di osservare tranquillamente i passeggeri. Ma per me il viaggio offriva ancora altre suggestioni, di natura storica. Dopo il Gürtel veniva finalmente la Währingerstrasse, e ben presto passavo davanti all'Istituto di Chimica, nel quale avevo passato alcuni anni senza scopo e senza risultato. Mai una volta mi lasciavo sfuggire la vista dell'Istituto in cui non avevo più messo piede dal 1929. Lo guardavo con sollievo, congratulandomi di averla scampata bella, e mentre il tram vi correva davanti si ripeteva per me la fuga che non avrei mai potuto benedire abbastanza. Con quale rapidità si può riguardare a un certo passato e con che gioia si sfiora la salvezza dal pericolo corso un tempo! Quel senso di esultanza mi accompagnava fino allo Schottentor e si rinnovava ogni volta che il tram passava per la Währingerstrasse. Hermann Broch, che veniva a trovarci a Grinzing, mi domandò una volta se era quello il motivo per il quale mi ero stabilito lì; e se nel fare la domanda non avesse tentato di squadrarmi con l'occhio indagatore dell'analista, forse gli avrei dato ragione. NOTE: (1) Yakshini o yakshi: un genio femminile, spirito degli alberi, portatore di vita e di abbondanza, che nell'arte indù è spesso effigiato come donna di aspetto rigoglioso ?N" d'T"*. Parte quinta - L'evocazione Incontro insperato Ludwig Hardt, che io avevo conosciuto in veste di dicitore durante una matinée a Berlino nel 1928, viveva adesso in esilio a Praga e veniva di tanto in tanto a Vienna a tenere qualche lettura. Andai a sentirlo una volta e di nuovo rimasi incantato, come allora. Ero sicuro che non si sarebbe ricordato di me, ma andai ugualmente nel suo camerino per ringraziarlo. Non avevo ancora aperto la bocca che mi balzò addosso e mi spaventò con una frase che coglieva nel segno: "Lei ha perduto il suo idolo e non è nemmeno andato al funerale!". Karl Kraus era morto da poco, e in effetti non ero andato al funerale. La delusione per la sua condotta dopo gli avvenimenti del febbraio 1934 era stata enorme. Si era pronunciato a favore del cancelliere Dollfuss, aveva accettato la guerra civile per le strade di Vienna e avallato il peggio. Tutti, veramente tutti l'avevano abbandonato. Ormai Karl Kraus teneva soltanto piccole serate clandestine di cui non si sapeva nulla, non si voleva saper nulla: in nessun caso si sarebbe cercato di esservi ammessi. Era come se la persona Karl Kraus non esistesse più. I vecchi numeri della "Fackel" erano ancora al loro posto senza che io li avessi più aperti negli ultimi due anni: lui, come persona, era soppresso in me come in molti altri, cancellato, non più presente, in nessun modo e in nessun luogo. Era proprio come se Karl Kraus, davanti al suo pubblico riunito, avesse tenuto uno dei suoi più grandiosi discorsi contro se stesso e così si fosse annientato. In quegli ultimi due anni della sua vita veniva ancora nominato nelle conversazioni, sia pure con una certa riluttanza, ma già come se si parlasse di un defunto. La notizia della sua morte vera - morì nel giugno 1936 - la accolsi senza la minima commozione. Non mi è rimasta nella memoria neppure la data, e adesso ho dovuto addirittura documentarmi sul mese. Il problema di andare al funerale non me lo posi nemmeno per un istante. Nel giornale non lessi una riga, e non la sentii come un'omissione. La prima persona a spendere una parola sull'argomento in mia presenza era adesso Ludwig Hardt. Dopo otto anni mi aveva riconosciuto subito e si ricordava di quella conversazione a Berlino nella quale mi ero coperto di ridicolo mostrando una cieca venerazione per il mio semidio. Sapeva che cos'era successo nel frattempo e dava per certo che non ero andato al funerale. Per la prima volta provai un senso di colpa per quell'assenza. Volendo rimediare all'effetto della sua frase, Ludwig Hardt si invitò da sé e venne a farci visita a Grinzing. Mi aspettavo una grande discussione, un colloquio imbarazzante, ma ero talmente stregato dall'arte di Ludwig Hardt che ero pronto a mettermi nelle sue mani. D'altra parte non potevo pensare che un uomo come lui volesse aver ragione a tutti i costi. Forse mi avrebbe compianto e si sarebbe aspettato una sorta di confessione, l'ammissione che per Karl Kraus avevo preso un abbaglio. Ma come avrei potuto rinnegare l'uomo al quale ero debitore degli Ultimi giorni dell'umanità e di innumerevoli letture di Nestroy, del Lear, del Timone, dei Tessitori? Io ero fatto di quelle letture, su questo non poteva esservi dubbio, e ciò che era accaduto di terribile negli ultimi tempi, pochi anni prima della sua morte, era inspiegabile e doveva restare inspiegabile. A una discussione non c'era neanche da pensare, si poteva solo tacere: era la più profonda delusione che un grande spirito mi avesse mai riservato in trent'anni, una ferita così grave che neanche i prossimi trent'anni avrebbero potuto guarirla. Vi sono piaghe che si portano addosso fino alla morte, e tutto quello che si può fare è nasconderle agli occhi degli altri: è semplicemente assurdo frugarvi dentro in pubblico. Non sapevo con sicurezza come mi sarei comportato nel colloquio con Ludwig Hardt, ma di una cosa ero certo: mai e per nessuna ragione avrei rinnegato ciò che Karl Kraus era stato per me. Io non l'avevo sopravvalutato, nessuno l'aveva sopravvalutato, era cambiato lui, ed era morto - così pensavo - in seguito a quel cambiamento. Ludwig Hardt venne a Grinzing e non dedicò a Karl Kraus una sola parola, nemmeno un'allusione. La frase con cui mi aveva tanto spaventato dopo la sua recita non era stata nient'altro che un segno di riconoscimento. Un altro avrebbe forse detto: "Mi ricordo perfettamente di lei, sebbene siano passati già otto anni e non ci siamo più parlati da allora". Lui aveva dovuto dimostrarlo subito, alla sua maniera, saltandomi addosso, per così dire, e anch'io del resto lo ricordavo sempre nell'atto di saltare da un tavolino all'altro, nella casa di quell'avvocato di Berlino, quando voleva dire qualcosa o declamava Heine. Arrivò, e io lo accompagnai subito nella stanza dove avevo i miei libri e il tavolo al quale scrivevo. Era un mio dovere verso di lui, ma non volevo nemmeno distrarlo col paesaggio. Da quella stanza non c'era niente da vedere, non i vigneti, né la pianura, né la città: soltanto l'ingresso del giardino e il breve sentiero che portava alla casa. Forse mi ci sentivo più sicuro, dal momento che mi aspettavo uno scontro. E lui doveva vedere che lì, tra i molti libri, si trovavano ancora al completo quelli dell'uomo per il quale ci saremmo accapigliati. Ma lui non vi prestò attenzione, parlava di Praga, quel piccolo uomo dal bel viso e dalla straordinaria mobilità, incapace di star fermo un attimo e poco disposto a sedersi. Mentre andava su e giù per la stanza, teneva la mano destra affondata nella tasca della giacca e giocava con un oggetto che aveva la forma di un libriccino. Alla fine lo tirò fuori, era davvero un libro, me lo porse con un gesto solenne e disse: "Vuole vedere la cosa più preziosa che possiedo? La porto sempre con me, non mi fido a lasciarla a nessuno, e quando vado a dormire la metto sotto il cuscino". Era un'edizioncina ottocentesca dello Schatzkästlein (1) di Hebel. L'aprii e lessi la dedica: "A Ludwig Hardt, per la gioia di Hebel, da Franz Kafka". Era l'esemplare dello Schatzkästlein appartenuto a Kafka, quello che anche lui usava portare con sé. Dopo avere ascoltato per la prima volta Ludwig Hardt che recitava Hebel, Kafka era rimasto talmente commosso che gli aveva regalato il libro con quella dedica. "Le piacerebbe sapere quali brani ascoltò Kafka da me quella volta?" domandò Hardt. "Sì, sì" dissi io. E a memoria come sempre - il libro l'avevo in mano io - Hardt declamò nell'ordine: "La notte insonne di una nobildonna", i due brani su Suvarov, "Malinteso", "Moses Mendelsohn" e, per finire, "Incontro insperato". Vorrei che tutti potessero aver ascoltato quest'ultimo racconto dalla voce di Hardt. Erano passati dodici anni dalla morte di Kafka, e le stesse parole che egli aveva udito allora, dalla stessa bocca, giungevano adesso al mio orecchio. Restammo entrambi in silenzio, consapevoli di aver vissuto una nuova versione della stessa storia. Poi Hardt domandò: "Le piacerebbe sapere quale fu il commento di Kafka?". Non aspettò la mia risposta e aggiunse: "Kafka disse: "E" la storia più meravigliosa che esista!"". L'avevo pensato anch'io, e avrei continuato a pensarlo. Ma era già straordinario udire un tale superlativo sulle labbra di Kafka, nel racconto di una persona che per aver recitato quella storia era stata premiata col dono del suo esemplare dello Schatzkästlein. I superlativi di Kafka, come si sa, sono contati. Da quel giorno i rapporti tra Ludwig Hardt e me furono diversi. Avevano acquistato un senso di intimità quale ho provato per pochissime persone. Adesso Hardt veniva spesso a trovarci, ogni volta che capitava a Vienna correva subito da noi. Passava molte ore nella Himmelstrasse, recitando quasi senza sosta. Il suo repertorio era inesauribile, e io non ne avevo mai abbastanza. Aveva tutto nella testa, e forse non ho ascoltato proprio tutto ciò che aveva nella testa. Il ricordo di quel momento hebeliano non impallidiva mai. Qualche volta, quando ci sembrava che appunto per questo l'atmosfera si facesse troppo solenne, andavamo nella stanzetta di Veza, tutta foderata di legno, e lì Hardt declamava altre cose che piacevano anche a lei: molto Goethe e poi sempre quella poesia di Lenz, "Die Liebe auf dem Lande", scritta a Sesenheim, che sembra di Goethe e in cui Goethe è presente. Seguiva poi una vivace discussione su Lenz, il cui destino appassionava Hardt non meno di me; e una volta, quando io dissi che quella poesia era pervasa di ciò che Goethe era stato per Lenz, e che in ogni suo momento Lenz aspettava Goethe, come lo aveva aspettato Friederike Brion, e che Goethe non poteva tollerare tutto questo e perciò lo aveva distrutto, allora Hardt mi balzò addosso e mi abbracciò: un raro segno del suo pieno consenso. Per Veza, ma anche per me, recitava Heine, al quale mi aveva convertito a suo tempo a Berlino, e a Veza dedicava Wedekind e Peter Altenberg. C'erano due brani da cui non poteva mai esimersi, entrambi di Matthias Claudius. Erano il "Canto di guerra ": "E" guerra! E" guerra! O angelo di Dio& soccorri e intercedi!& E" guerra, ahimè - e io chiedo soltanto& di non avervi colpa!" del quale ancora oggi potrei trascrivere a memoria ognuna delle sei strofe, e lo "Scritto di un cervo, abbattuto nella caccia di corsa, al principe che lo aveva abbattuto". Alla fine di questo brano avveniva il miracolo della metamorfosi che da allora ho sempre davanti agli occhi: la metamorfosi di Ludwig Hardt in un cervo morente. Se avessi potuto dubitare che di tutti gli atti di cui l'essere umano è capace la metamorfosi è il più alto - la sua giustificazione, il suo coronamento dopo tutto ciò che ha commesso -, lì ne avrei avuto la prova con schiacciante evidenza. Hardt era il cervo morente, e quando aveva esalato l'ultimo respiro mi riusciva inconcepibile come potesse riaversi e ridiventare Ludwig Hardt; e benché godesse del nostro stupore, non era mai meno veritiero: quella era l'agonia dell'animale incalzato, qualcosa di emozionante, perché l'animale era al tempo stesso una persona, e una persona che per questo aveva il nostro affetto. NOTE: (1) Il titolo completo è Schatzkästlein des rheinischen Hausfreundes ("Tesoretto dell'amico di famiglia renano"). Johann Peter Hebel vi raccolse nel 1811 raccontini e articoli apparsi negli anni precedenti nell'almanacco "Der rheinische Hausfreund" che redigeva per i contadini del Baden. Dallo Schatzkästlein Canetti rimase affascinato fin dalla prima lettura, avvenuta negli anni del liceo in Svizzera. "Non ho scritto un solo libro senza averlo misurato sulla sua lingua" afferma in La lingua salvata, cit", pp" 314-16 ?N" d't"*. La guerra civile spagnola L'amicizia che mi legava a Sonne compì il suo secondo anno al tempo della guerra civile spagnola. Era questo il tema dominante della nostra conversazione giornaliera. Tutti quelli che conoscevo e avevo in simpatia stavano della parte dei repubblicani. A favore del governo spagnolo si prendeva partito scopertamente e ci si pronunciava con passione. Se ne parlava dappertutto, ma mentre di solito le conversazioni scaturivano dalla lettura quotidiana dei giornali e non andavano oltre le notizie, con Sonne si allargavano a un preciso esame della situazione spagnola e degli effetti che sul futuro prossimo dell'Europa avrebbe avuto ciò che avveniva, per così dire, davanti ai nostri occhi. Sonne si rivelò un eccellente conoscitore della storia spagnola. Sapeva una quantità di cose sulla guerra che si era combattuta per secoli in terra iberica, sul periodo moresco e su tutti i particolari della Reconquista. Le tre culture della Spagna gli erano familiari come se fosse di casa in tutte, come se esistessero ancora, come se la padronanza delle tre lingue, spagnolo, arabo, ebraico, e la lettura del loro patrimonio letterario bastassero per acquisire il senso della loro continuità. Da lui imparai non poco sulla poesia araba. Con facilità, come se si trattasse di testi biblici, Sonne traduceva per me la lirica moresca di quel tempo e me ne spiegava l'influsso sul Medioevo europeo. Del tutto incidentalmente, senza che se ne fosse mai fatto un vanto, venne fuori che per lui la lingua araba non aveva segreti. Quando io cercavo di spiegare certi avvenimenti della storia spagnola, contemporanei o anteriori, richiamandomi alle peculiari aggregazioni di massa proprie della penisola, Sonne ascoltava e si sforzava di non scoraggiarmi; anzi, avevo l'impressione che si astenesse da ogni intervento personale solo perché intuiva che i miei pensieri erano ancora allo stato fluido ed era meglio lasciarli sviluppare liberamente, evitando di consolidarli prima del tempo con una discussione. Veniva spontaneo, in quei mesi, pensare a Goya e alle sue acqueforti, i Disastri della guerra. Perché il primo dei pittori moderni, e anche il più grande di tutti, è dovuto passare attraverso l'esperienza del suo tempo per diventare ciò che fu. "Non ha girato gli occhi dall'altra parte" diceva Sonne, e io sentivo quale peso avesse per lui quella frase che gli veniva dal cuore. Il rococò dei primi quadri, e poi quelle acqueforti e i dipinti della vecchiaia! Si sapeva che Goya aveva una sua concezione del mondo, che prendeva partito: come avrebbe potuto non avere una sua concezione l'uomo che vedeva con quegli occhi la famiglia reale! E tuttavia vedeva ciò che avveniva come se lui appartenesse a entrambi gli schieramenti, perché la sua scienza era quella dell'uomo e il suo orrore era la guerra, e sapeva meglio di tutti - come nessuno prima di lui e forse con una passione che nessuno ha eguagliato ancora oggi - che non c'è una guerra che sia buona, perché attraverso ogni guerra si perpetua ciò che vi è di più perverso e pericoloso nella tradizione dell'umanità, ciò che non si può correggere. Con la guerra è impossibile abolire la guerra, la guerra non fa che rafforzare tutto quello che si esecra più profondamente nell'uomo. La testimonianza di Goya trascese la sua passione di parte, ciò che vide era mostruoso ed era più di quanto si augurasse. Dopo il Cristo di Grünewald, nessuno aveva rappresentato l'orrore come lui, senza migliorarlo di un filo rispetto alla realtà, ripugnante, opprimente, più sconvolgente di qualsiasi profezia, e tuttavia senza soggiacervi. La coercizione che esercitava sul riguardante, la direzione ineludibile che imprimeva ai suoi occhi, era l'ultimo brandello di speranza, anche se nessuno avrebbe osato chiamarlo così. Quelli per i quali non era andata in fumo la lezione che avevano tratto dalla prima guerra mondiale vivevano nella più tormentosa condizione di spirito. Sonne capiva la vera natura della guerra civile spagnola e sapeva a che cosa avrebbe condotto. Lui che odiava la guerra riteneva necessario ed essenziale che la Repubblica spagnola si difendesse. Con occhi di Argo scrutava ogni passo delle altre potenze che cercavano di evitare un allargamento del conflitto in Europa. Si doleva dell'ingenuità con cui le potenze democratiche scoprivano i propri punti deboli quando dichiaravano il nonintervento, facendosi così ingannare consapevolmente dalla controparte. Sapeva che tanta debolezza scaturiva da quell'orrore della guerra di cui volevano impedire a ogni costo il dilagare. La loro condotta era alimentata dall'orrore che Sonne condivideva, ma tradiva anche una totale ignoranza dell'avversario e una spaventosa miopia. Ogni scrupolo, ogni esitazione, ogni cautela imbaldanziva Hitler, il quale voleva soltanto saggiare fin dove poteva spingersi e la cui determinazione di fare la guerra cresceva sulla paura che della guerra avevano gli altri. Sonne riteneva che nulla si potesse più mutare nella determinazione di Hitler, la giudicava un dato acquisito, la legge naturale di quell'uomo (ricavata dalla sua esperienza della guerra), una legge che aveva seguito e grazie alla quale era arrivato al potere. Era inutile, secondo Sonne, tentare di influire su quella volontà. Era invece necessario troncare la catena dei suoi successi fintanto che in Germania sopravviveva una resistenza contro la guerra. Si poteva ravvivare dall'esterno, quella resistenza, soltanto con atti chiari e inflessibili. La marcia trionfale di Hitler era diventata per tutti, compresi i tedeschi, il pericolo più letale, poiché la sua cieca concezione della storia gli imponeva di travolgere infine nella guerra tutte le potenze e tutti i popoli; e come avrebbe potuto la Germania vincere contro il resto della Terra? Mi è impossibile dare un'idea adeguata della chiarezza con cui Sonne vedeva tutto questo. La sua visione era di gran lunga in anticipo su un'età in cui i politici si trascinavano traballando da un espediente all'altro. Sebbene per lui si delineasse sempre più netta la rovina incombente, prendeva parte a ogni minimo aspetto degli avvenimenti spagnoli. Lo straordinario era infatti che per uno spirito così lucido nulla era definitivo, da un episodio inappariscente che nessuno aveva previsto poteva discendere una speranza nuova - e non si doveva trascurarla, bisognava tener d'occhio tutto, non c'era niente che non fosse importante. Nel corso della guerra civile affioravano nomi spagnoli, luoghi ai quali si collegava un ricordo storico o letterario. Sonne mi dava ragguagli in proposito, e io non finirò mai di stupirmi del modo in cui scoprii la Spagna, con tanto ritardo e tanto fervore. In passato un senso di soggezione mi aveva trattenuto dall'occuparmi più da vicino del Medioevo spagnolo. I proverbi e le canzoni della mia infanzia restavano indimenticati, ma non erano stati di stimolo, erano rimasti sepolti dentro di me, irrigiditi nell'orgoglio della mia famiglia, che si arrogava un diritto su tutto ciò che era spagnolo in quanto giovasse alla sua fierezza di casta. Tra gli "spagnoli" della Bulgaria conoscevo individui che vivacchiavano nell'indolenza orientale, paghi di uno sviluppo intellettuale inferiore a quello di chi aveva frequentato la scuola a Vienna, convinti che per essere felici nella vita bastasse e avanzasse credersi superiori agli altri ebrei. Non avevo neanche torto se, nel caso di mia madre, notavo che era imbevuta di quasi tutte le letterature europee ma poi sapeva poco o niente di quella spagnola. Aveva visto alcuni drammi di Calderòn al Burgtheater, ma non si sarebbe mai sognata di leggerne uno nel testo originale. Per lei lo spagnolo non era una lingua da leggere. Ciò che aveva ereditato dalla Spagna era il ricordo di un Medioevo glorioso, un ricordo che aveva forse qualche valore solo perché era orale e ispirava un certo contegno "distinto" a persone dell'ambiente più vicino a lei. Dalla mamma non potevo ricevere impulsi che mi avvicinassero alla letteratura spagnola. Perfino i modelli del suo orgoglio, che aveva moltissimo di spagnolo, andava a prenderseli in Shakespeare, nel Coriolano. La sua rispettabile cultura si ispirava a Vienna, non certo alle sue origini familiari. Avevo trent'anni quando venni a sapere qualcosa dei poeti che hanno fondato il patrimonio durevole di quel lontano periodo della Spagna; e lo appresi da Sonne, che per mia madre era un "todesco" - la sua famiglia veniva dalla Galizia austriaca - al quale non avrebbe mai riconosciuto il diritto di accedere ai "nostri" poeti, che lei poi ignorava del tutto. Sonne me li traduceva a voce dall'ebraico e me li commentava, ma poteva succedere che nello stesso pomeriggio avesse tradotto dall'arabo e commentato poesie moresche. Poiché mi mostrava qualcosa nell'insieme, senza isolarlo dai nessi del suo tempo per il ridicolo gusto di farsi bello, io misi da parte la mia diffidenza contro tutto ciò che era "spagnolismo" mal riposto e cominciai ad averne rispetto. Era curiosa la piega che prendevano quelle conversazioni. Si partiva dalle notizie dei giornali sui combattimenti in Spagna. Se ne discuteva con realismo valutando le forze contrapposte, facendo congetture sul tempo necessario perché gli aiuti promessi arrivassero a destinazione, cercando di prevedere gli effetti di una ritirata sull'atteggiamento degli altri Paesi sarebbero aumentati gli aiuti, sarebbero diminuiti? -, prendendo in esame i cambiamenti avvenuti nel governo spagnolo, il crescente influsso di un partito, il peso specifico delle regioni nella loro volontà di autonomia -; ed era un realismo che non ometteva nulla e non dimenticava nulla. Spesso mi sembrava di avere davanti a me un uomo nelle cui mani confluissero i fili degli avvenimenti. Ma Sonne, era evidente, voleva anche darmi la sensazione che tutte quelle cose si compivano in un Paese che a me doveva essere familiare, e si adoperava lui stesso perché tale mi diventasse. Nel suo modo pregnante mi spingeva nei domini spirituali che erano tutt'uno con la Spagna non meno di quella terribile guerra. Posso dire ancora oggi quali furono le occasioni che mi avvicinarono a questa o a quell'opera. Esse sono rimaste legate molto spesso ai nomi di allora e continuano a portare dentro di sé l'emozione di una notizia, così che il libro non è più fatto soltanto di se stesso: dagli avvenimenti di quei mesi si è formato un cristallo segreto, la seconda, immutabile struttura di quel libro. Venni spinto allora verso i Sogni di Quevedo, e questi diventò, dopo Swift e Aristofane, uno dei miei antenati. Uno scrittore ha bisogno di antenati. Alcuni deve conoscerli per nome. Quando teme di essere soffocato dal proprio nome, dal nome che continua a portare, si ricorda di antenati che portano i loro nomi felici, non più mortali. Gli antenati possono sorridere della sua invadenza, ma non lo respingono. Anche a loro stanno a cuore gli altri, ossia i posteri. Sono passati per mille mani; nessuno li ha mai scalfiti, perciò sono diventati antenati, perché senza combattere possono difendersi dai più deboli, e diventano tanto più forti quanto più prestano la propria forza. Ma vi sono anche antenati che vogliono prendersi un po'"di riposo. Dormono per cento, duecento anni. A un certo punto vengono svegliati, di questo si può essere certi, e allora squillano improvvisamente da ogni parte, come fanfare, e già anelano a ritornare alla solitudine del loro sonno. Forse a Sonne riusciva insopportabile il fatto di lasciarsi totalmente assorbire dagli avvenimenti del tempo. Forse non sopportava il loro corso perché su di esso non poteva influire. Non perdeva occasione per richiamarsi alla mia origine, per renderla vera, proprio perché io ci tenevo così poco. Per lui era importante che in una vita non scompaia niente. Un essere umano porta con sé tutto ciò che ha toccato. Se mai se ne dimentica, bisogna ricordarglielo. Non è in gioco l'orgoglio delle origini, che è sempre piuttosto dubbio. E" in gioco la necessità che non sia rinnegato nulla di ciò che si è vissuto. Un uomo racchiude in sé tutto quello che ha sperimentato e continua a sperimentare, e in questo consiste il suo valore. Di un tale patrimonio fanno parte i Paesi in cui egli è vissuto, le lingue che ha parlato, gli uomini di cui ha inteso le voci. Ne fa parte anche la sua origine, se mai è possibile saperne qualcosa. Ma per Sonne l'origine non era, non poteva essere un fatto puramente privato, al contrario era l'insieme del tempo e del luogo da cui si proviene. Le parole di una lingua che forse si è conosciuta soltanto da bambini sono legate alla letteratura in cui quella lingua è fiorita. Le notizie su una persecuzione o su un'espulsione sono legate a tutto ciò che l'ha preceduta, e non soltanto alle pretese scaturite da un caso singolo. Altri casi sono avvenuti in precedenza in altro modo, e anch'essi rientrano nella stessa storia. E" difficile farsi un'idea della giustizia in questo genere di pretese verso la storia. Per Sonne la storia era il regno perfetto della colpa. Bisognerebbe sapere di che cosa sono stati capaci i nostri simili nel passato, non soltanto quello che hanno subito. Bisognerebbe sapere di che cosa si è capaci noi stessi. E poi ancora bisognerebbe conoscere tutto, da qualunque parte e da qualunque distanza si offra la conoscenza, bisognerebbe cercare di coglierla, di esercitarvisi, di tenerla fresca e irrigarla e fecondarla con quanto altro si viene a sapere in seguito. Sonne non si peritava di usare l'attualità di quella guerra civile - che ci toccava più da vicino che non gli avvenimenti stessi della città in cui vivevamo - per rafforzarmi nel mio passato, che solo grazie a lui diventò un passato reale. Così Sonne ha provveduto affinché più di quel che io ero partisse quando, di lì a poco, fui costretto a lasciare Vienna. Mi ha preparato a portare con me una lingua, a salvaguardarla con tale forza che in nessun caso essa corresse il rischio di andare perduta a me stesso. Non voglio dimenticare il giorno in cui, in preda a una grande eccitazione, mi presentai da Sonne al Café Museum e lui mi accolse in silenzio. Il giornale era davanti a lui sul tavolo, la sua mano vi era posata sopra, lui non si alzò per darmela. Dimenticai di salutarlo, una frase con cui volevo precipitarmi su di lui mi rimase in gola. Era pietrificato, e io, io mi sentivo sconvolto come da un delirio. Era stata la stessa notizia a provocare in lui e in me reazioni così differenti. Guernica era stata coperta di bombe e distrutta dagli aviatori tedeschi. Volevo udire da lui una maledizione, e doveva essere la maledizione di tutti i baschi, di tutti gli spagnoli, di tutti gli uomini. Non volevo quella pietrificazione. Era impotenza, la sua impotenza non la tolleravo. Sentii che la mia rabbia si volgeva contro di lui. Rimasi in piedi e aspettai una sua parola prima di prendere posto. Mi ignorò. Sembrava come spento. Sembrava come morto da tempo e rinsecchito. "Una mummia!" fu il pensiero che mi passò per la testa. "Ha ragione lei. E" una mummia". Così lo chiamava Veza quando scendeva in campo contro Sonne. Ero sicuro che lui sentiva il mio insulto anche se io non lo pronunciavo. Ignorò anche l'insulto. Disse: "Io tremo per le città". La voce era appena percettibile, ma sapevo di aver udito bene. Non lo comprendevo. In quei giorni non era ancora così facile capire quelle parole come sarebbe oggi. E" confuso, pensai, non sa quello che dice. Guernica distrutta, e lui parla delle città. Non sopportavo quello stato di confusione. La sua lucidità era diventata per me la cosa più importante al mondo. Era come se due notizie di catastrofi mi avessero colpito contemporaneamente. Una città distrutta dagli aviatori. Sonne in preda alla follia. Non feci domande. Non cercai di aiutarlo. Non dissi niente e me ne andai. Anche fuori, una volta sulla strada, non provai compassione per lui. Provavo - lo dico con ripugnanza - compassione per me stesso. Mi sembrava che Sonne fosse perito a Guernica, e io tentavo di rendermi conto che avevo perduto tutto. Non feci molta strada, e di colpo mi venne un pensiero: forse sta male, era terribilmente pallido. Mi sorpresi a riflettere che no, non poteva essere morto, aveva parlato, avevo udito la sua frase, era stata l'assurdità di quella frase a colpirmi così profondamente. Tornai indietro, lui mi accolse sorridendo, era quello di sempre. Avrei voluto dimenticare ciò che era accaduto nel frattempo, ma Sonne disse: "Lei voleva prendere una boccata d'aria. Posso capirla. Anch'io dovrei forse prendere un po', d'aria". Si alzò, e io lo accompagnai. Fuori del caffè parlammo come se niente fosse accaduto. Anche in seguito non tornò più sulla frase che mi aveva riempito di sgomento. Forse è questo il motivo per cui non ho mai potuto dimenticarla: anni dopo, durante la guerra, io ero in Inghilterra, fu come se mi cadesse una benda dagli occhi. Eravamo molto lontani l'uno dall'altro, ma anche lui era vivo, come me. Lui era a Gerusalemme, non ci scrivevamo. Pensavo: non c'è mai stato un profeta meno contento di esserlo. Ha visto quale destino sarebbe toccato alle città. Ha visto anche il resto. C'erano ragioni sufficienti per farlo tremare. Non ha mescolato un orrore con l'altro. Era uscito dalla spirale delle vendette di sangue della storia. Discussione nella Nussdorferstrasse Una rivista in quattro lingue, progettata da Hermann Scherchen, doveva chiamarsi "Ars Viva" come il ciclo di concerti che egli teneva allora a Vienna e per il quale aveva costituito una propria orchestra. La rivista non doveva servire soltanto alla musica nuova: letteratura e arti figurative dovevano esservi rappresentate con la stessa ampiezza. Quando mi domandò quali collaboratori si potevano prendere in considerazione a Vienna, gli feci i nomi di Musil e di Wotruba. Risoluto e rapido com'era in ogni cosa, propose un incontro a quattro per discutere le prospettive di collaborazione a una rivista di quel genere. Doveva essere un incontro riservato, senza testimoni, e in quel periodo di tensione politica un caffè sembrava un luogo troppo pubblico. Wotruba, per la prima volta, aveva lasciato sola la madre nella casa della Florianigasse, con la sorella, e si era trasferito in un appartamento della Nussdorferstrasse. Sembrava il posto giusto, favorevole per la posizione e per di più neutrale. La Himmelstrasse, a Grinzing, era piuttosto fuori mano. E" vero che Scherchen abitava presso di noi con la moglie cinese, ma da quando, un anno prima, con la mia infelice uscita su Thomas Mann, ero incorso nella collera di Musil, questi si comportava freddamente con me e io non mi sentivo di invitarlo a casa mia. Wotruba aveva conosciuto Musil la sera della mia lettura alla Schwarzwaldschule. Da allora, erano passati quasi due anni, si salutavano senza però che ci fosse stato un vero avvicinamento. Tra loro comunque non era successo niente che potesse rendere difficile un invito. Così Wotruba gli scrisse una lettera, piena di "robusto" rispetto, per la quale si era consultato con me, e Musil accettò l'invito. Fin dall'inizio tutto fu complicato, come si addiceva a Musil. L'invito valeva anche per sua moglie, perché si sapeva con quanta riluttanza Musil andasse da solo in un posto nuovo. Ma non si limitò ad arrivare con lei, si portò dietro altri due signori che nessuno aveva invitato. Uno era Franz Blei, un personaggio magro, altero, un tantino troppo sofisticato, di cui nessuno si sarebbe augurato la presenza. L'altro era un giovane che nessuno conosceva. Musil lo presentò senza il minimo imbarazzo, quasi allegramente, come un ammiratore dell'Uomo senza qualità; e Blei completò la presentazione dicendo: "Appartiene al circolo del caffè Herrenhof!". E adesso erano lì, in quattro. Musil aveva l'aria di sentirsi a suo agio, sotto la protezione della moglie, del vecchio amico Blei (1) e del giovane ammiratore, che non aprì mai bocca ma stava molto attento a tutto quello che si diceva. Blei prese un tono solenne, come se fosse lui a fondare una rivista, mentre Musil disse schiettamente e senza alcun ritegno quello che pensava. Sull'altro versante cominciarono subito i malumori, perché le affettazioni "estetizzanti" di Blei non garbavano affatto a Wotruba. Blei, entrando nella stanza intonacata di bianco e notando alla parete due quadri di Merkel, si era bloccato e aveva intonato un panegirico che era degenerato quasi in un insulto: "Ha del fascino" disse; e dopo una pausa: "E" un giovane?". Wotruba, a ragione, riferì quel "giovane" a se stesso e fiutò che Blei lo giudicava semplicemente un "giovane", mentre per il resto non sapeva niente di lui. Reagì quindi con calcolata villania: " Bè, è vecchio quanto lei!". Era certamente un'esagerazione, Georg Merkel non era vecchio come Blei, ma apparteneva alla stessa generazione di Musil. Per Wotruba l'idea che un quadro appeso in casa sua dovesse per forza essere di un giovane era un'insolenza bella e buona. Quando Marian entrò poco dopo col caffè, Fritz le disse a voce alta, interrompendo senza complimenti la conversazione degli altri: "Ehi tu, lo vuoi sapere che cos'è il Merkel? E" un giovane!". Scherchen cominciò a esporre il progetto della sua rivista. A lui interessava un'impronta originale e una qualità elevata, doveva essere qualcosa di veramente nuovo. Tutto ciò che era accademico doveva essere escluso in anticipo. Ma Scherchen non voleva legarsi a un determinato indirizzo del moderno, tutti dovevano poter esprimersi, in qualunque lingua, si sarebbe sempre provveduto alla traduzione. Musil volle sapere che lunghezza potevano avere le collaborazioni e sembrò contento della risposta di Scherchen, perché questi disse: "Qualunque lunghezza". Ma aggiunse subito: "Può essere anche un lavoro intero. Mi piacerebbe veder pubblicato un dramma del mio amico Canetti. Lui veramente non vuole, ma noi lo convinceremo". Dopo più di tre anni non aveva ancora dimenticato Nozze, che io però volevo pubblicare solo in forma di libro. Non era il momento di discuterne, ma Scherchen teneva a far notare che non era digiuno di letteratura moderna. Per lui Nozze era pur sempre qualcosa di "nuovo". Non aveva ancora terminato la sua frase che Blei prese la parola. "Il teatro non è letteratura," proclamò "per una rivista letteraria il teatro è escluso". Lo disse con tanta sicurezza che noi tre, Scherchen, Wotruba e io, restammo a bocca aperta. Musil sorrise soddisfatto. Secondo lui, credo, Blei doveva spuntarla e aveva bell'e preso nelle sue mani la rivista. Ci fu anche un lungo discorso di Blei, in punta di penna, sul modo in cui doveva essere fatta la rivista, e ogni sua frase rafforzava l'impressione che la rivista sarebbe stata proprio così. Con mio stupore Sch", quel dittatore, lo lasciò dire, almeno fino a quando l'odio ribollente di Wotruba mi fece temere il peggio. Adesso lo prende per il collo, pensai, e lo scaraventa fuori della finestra. Benché fossi indignato anch'io, cominciai a temere per la vita di quel sofisticato rompiscatole. Se avessi saputo che Blei era uno degli scopritori di Robert Walser, gli avrei perdonato ogni arroganza, non l'avrei trattato con rispetto solo per un riguardo verso Musil. Ma adesso Sch" gli troncò improvvisamente il discorso: "Noi la pensiamo in tutt'altro modo, i miei giovani amici e io" disse. "Tutto quello che lei sostiene è all'opposto delle nostre intenzioni. Noi vogliamo una rivista viva, non un fossile scolastico. Lei si preoccupa solo di mettere limiti, mentre "Ars Viva" deve servire a un allargamento. Noi non abbiamo paura, è inutile avere paura prima del tempo. Per i fossili ci sono già abbastanza riviste in giro". In tanti anni che lo conoscevo, era la prima volta che sentivo Sch" parlare col cuore. Wotruba, furente, disse: "A me l'opinione del signor Blei non interessa. Nessuno l'ha invitato. Io voglio sapere come la pensa il signor Musil, su questa rivista". Wotruba era famoso per la sua villania, e nessuno gliene voleva. Chi non lo conosceva ancora di persona sarebbe rimasto deluso se a un primo incontro lui si fosse comportato diversamente. La sua serietà era irresistibile. Sarebbe riuscito ridicolo se si fosse sforzato di fare il gentile: sarebbe stato come se avesse tentato di balbettare in una lingua straniera, sconosciuta. Avevo la sensazione che Wotruba piacesse a Musil, il quale non sembrava offeso per Blei sebbene l'avesse ascoltato senza risparmiare i segni di approvazione. A questo punto Musil uscì, per così dire, dall'ombra di Blei e si aprì con una schiettezza non inferiore a quella di Wotruba. Confessò di essere incerto e di non potere ancora dire niente. Aveva pronto un lavoro su Rilke che si prestava bene per la rivista. Forse gli sarebbe venuto in mente qualcos'altro da scrivere per l'occasione. Il suo modo di parlare era così netto che contrastava ancor più col contenuto delle sue parole. Non prometteva proprio niente. Era indeciso. Ma era stato invitato e accolto con tale rispetto che non poteva tirarsi indietro come se niente fosse. Si sentiva sicuro, lì col suo seguito. A Franz Blei lo legava una vecchia amicizia, ma Blei era imprevedibile e volubile, e poi era stato lui che tutt'a un tratto aveva esaltato I sonnambuli di Broch fino a collocarli quasi al livello di Musil. Broch non era stato proposto per la nuova rivista: in quei giorni non si trovava a Vienna, ma per il momento ci eravamo guardati dal fare il suo nome, ben sapendo quale opinione Musil avesse di lui. Se uno di noi ci si fosse provato, Musil avrebbe rifiutato subito lasciando cadere l'invito a una discussione. Nelle sue ripulse Musil era brusco e tagliente. Sul suo "no" correvano leggende che mandavano in estasi noi due, Wotruba e me. Lì, in compagnia di tre guardie del corpo e di fronte a tre uomini che lo corteggiavano, non si sentiva alcun indizio di quel "no". La sua era la prudenza indecisa di una persona che non voleva lasciarsi adoperare per fini poco chiari ma non voleva nemmeno trascurare una buona occasione. Musil aveva bisogno di tempo per riflettere, e perciò non diceva né sì né no, ma si sforzava di sapere qualcosa di più. Sch", che in vita sua non si era mai tenuto tanto indietro e adesso, a ogni frase, metteva avanti i suoi "giovani amici" prima di dire "io", poteva non piacergli. Era chiaro che Sch" non sapeva niente di cose letterarie e si sarebbe affidato a me. Ma io ero stato messo al bando per il mio eretico accenno a Thomas Mann. Tuttavia la tenacia con cui avevo continuato a sostenere che lui, Musil, stava più in alto di tutti, aveva avuto il suo peso nell'indurre Musil ad accettare la mia presenza. Verso Wotruba si sentiva attratto. Wotruba gli piaceva straordinariamente: non aveva niente a che fare con la letteratura, ma le sue parole avevano vigore e penetravano come proiettili. La faccia di Musil, quando qualcuno gli piaceva, esprimeva meraviglia. Era una meraviglia controllata che non degenerava mai in effusioni. Musil aveva il potere di determinare il peso esatto delle proprie reazioni e non si sbagliava. La sua meraviglia era limitata, ma entro quei limiti non perdeva nulla della sua purezza. Musil non la assoggettava a scopi particolari. Adesso, quando diceva qualcosa, dava la sensazione di aspettare una reazione, quella di Wotruba, come se nessun'altra contasse. Non aveva dato troppo peso al proclama ben tornito di Blei. Erano cose che conosceva da un pezzo e senza dubbio le aveva già assimilate. Mi venne il sospetto che lo annoiassero. Le mandò giù perché erano pronunciate dal suo primattore, ma non vi si soffermò e sorrise con indulgenza, prendendone così le distanze. Il rude intervento di Wotruba, col rifiuto opposto a Blei e poi con l'invito a Musil perché dicesse la sua, fu apprezzato da quest'ultimo, che infatti cominciò senza timore a sondare cautamente il progetto della rivista. Insistette nel suo proposito di scrivere su un tema di poesia e cercò di sapere qualcosa di più preciso su quello che poteva fare al caso. Sch'osservò che era una bella coincidenza, perché sua moglie, che non era presente alla discussione, s'interessava in modo del tutto particolare alla poesia. A buon diritto, dal momento che per lei, cinese, la lirica faceva parte di un antico patrimonio ereditario. Per sua moglie la lirica era addirittura più importante della musica. Certo, lui l'aveva conosciuta come allieva a un corso di direzione orchestrale che teneva a Bruxelles, e la ragazza era venuta apposta dalla Cina a Bruxelles per averlo come maestro, ma lui era sempre più convinto che le stesse più a cuore la poesia. Adesso gli dispiaceva di non averla portata con sé. Sua moglie aveva preparato per la rivista certi progetti che si riferivano esclusivamente alla lirica e si era annotata tutta una serie di possibilità, quella che lei chiamava la sua "lista". Ed era prontissima a presentarla subito, ma a lui, Sch", non avevano detto che il signor Musil si occupava anche di poesia, e perciò gli era sembrato sconveniente mettere in tavola questo argomento fin dalla prima discussione. Ma c'era tempo, meglio preparare la cosa con la cura necessaria. Avrebbe provveduto lui a mandare al signor Musil le riflessioni di sua moglie insieme a quella lista di temi nel campo della lirica, che cadevano tutti a proposito. Del resto sua moglie parlava solo il francese, lui all'occorrenza poteva intendersi con lei, a voce non era tanto facile, e anche per questo aveva esitato a portarsela subito dietro; ma lei scriveva un francese eccellente, già a Bruxelles tutti le avevano fatto grandi elogi. E poi anche Veza si era offerta di rivedere punto per punto quei testi francesi, per maggior sicurezza, e quindi il signor Musil non doveva darsene pensiero. Nessuno era abituato ad ascoltare da Scherchen perorazioni così circostanziate. In generale si accontentava di dare ordini o di spiegare faccende musicali. Ma della sua nuova moglie cinese parlava volentieri. Era fiero di lei, con lei al fianco faceva scalpore. Era una donna affascinante, molto colta, di ottima famiglia. Aveva assistito all'invasione giapponese, e quando ne parlava faceva rivivere quegli spaventosi avvenimenti. A Bruxelles, così delicata, esile, avvolta in seta cinese, aveva diretto Mozart, e a quella vista Sch" si era innamorato di lei; ma quando parlava della guerra in Cina, dalla sua bocca crepitavano le mitragliatrici, tactactac. Dopo essere tornata a Pechino aveva scritto a Sch", e lui aveva disdetto tutti i concerti ed era partito con la Transiberiana per Pechino. Disponeva solo di cinque giorni, non poteva concedersi più di cinque giorni per sposare ShüHsien. All'arrivo gli avevano detto che non era possibile fare le cose così in fretta, che doveva prendersi più tempo già solo per il matrimonio, ma anche là aveva fatto valere la propria volontà: in capo a cinque giorni aveva sposato ShüHsien, l'aveva lasciata provvisoriamente presso i genitori, si era rimesso in treno e dopo poco più di un mese era di nuovo in Europa, ai suoi concerti. ShüHsien lo seguì alcuni mesi dopo, e i due si stabilirono nella nostra casa di Grinzing. Lì fummo testimoni del primo periodo del loro matrimonio. La lingua in cui dovevano intendersi era il francese: corretto, ma scandito in una musica di monosillabi, quello di lei; un francotedesco indicibilmente barbaro, infarcito di errori e per noi assolutamente incomprensibile, quello di lui. Sch" mise subito al lavoro la moglie cinese, che tutto il giorno doveva copiare note per lui, voci per la sua orchestra. Mi domando quando le restasse il tempo per trovare temi di poesia per la progettata rivista "Ars Viva". Forse le era capitato una volta di parlare con Sch" della lirica cinese. Può darsi che lui allora, pronto com'era a trarre profitto da tutto, le avesse dato l'incarico di mettere su carta le proprie idee sull'argomento. Ora, durante la discussione, questo ricordo gli veniva proprio al momento buono. Poteva promettere a Musil qualcosa, una serie di temi che forse lo avrebbe allettato e la cui esposizione non sarebbe costata alcuna fatica a ShüHsien, che era ferrata in letteratura francese. Sch'era talmente infatuato del suo amore cinese che non avrebbe mai smesso di parlarne. A quel tempo mi riusciva simpatico. Il rancore che covavo in me dai giorni di Strasburgo sembrava sfumato. Il cambiamento era cominciato quando avevo ricevuto un suo telegramma, del tutto inatteso, con cui mi pregava caldamente di andare il tal giorno e alla tal ora, con le indicazioni più precise, alla stazione Ovest di Vienna, dove lui avrebbe fatto una sosta di un'ora fra due treni. Io c'ero andato, più per curiosità che per compiacerlo. All'arrivo del treno, ancora dal finestrino aperto, Sch" mi aveva dato la grande notizia: "Vado a Pechino a sposarmi!". Poi, appena ebbe messo piede sulla banchina, giù tutta la storia, senza nemmeno prender fiato. Parlava della sua cinese con entusiasmo. Mi descrisse quel che aveva provato nel vederla dirigere Mozart in costume cinese. Era incredibile: Sch'aveva parole, parole estasiate, per un altro essere umano. Le aveva promesso di sposarla non appena lei gli avesse scritto, sui due piedi, per così dire. E adesso lei gli aveva scritto, ed era come se lui, che di solito dava sempre ordini, fosse agli ordini di qualcun altro: gli ordini venivano dall'altra parte della Terra, e lui vi si assoggettava ciecamente e beatamente. Non l'avevo mai visto in quella disposizione di spirito, e mentre continuava a parlare senza prender fiato sentii che all'improvviso mi era simpatico. Sembrava inconcepibile che lui, quell'animale da lavoro, avesse disdetto per cinque settimane tutti i concerti e le prove. Nella sua ebbrezza nuziale aveva dimenticato qualcosa d'importante. A un tratto spuntò di corsa Dea Gombrich, la violinista, anche lei convocata alla stazione. Era in ritardo, lui le disse soltanto che andava a Pechino a sposarsi e la pregò di correre a comprargli una cravatta, perché si era dimenticato di portarsene dietro una per la cerimonia. Lei scappò via subito e ritornò in tempo, prima che il treno si avviasse. Gli allungò la cravatta attraverso il finestrino dello scompartimento, lui era lì in piedi, sorrideva, ringraziava, non teneva le labbra strette come sempre. Era già in viaggio verso la Siberia quando io raccontai tutta la storia a Dea, ancora trafelata per il gran correre. Avevo visto Sch" soggiogato, e per un bel po'"rimase vivo in me il nuovo calore che provavo per lui. Poi, come ho già detto, accogliemmo i due sposi, per un periodo abbastanza lungo, nella nostra casa della Himmelstrasse. Veza era entusiasta di ShüHsien, che aveva spirito, vedeva Sch" come realmente era, pur essendone innamorata, ed era capace perfino di ridere di lui. Non mi sfiorò il sospetto che adesso, durante la discussione su "Ars Viva", Sch" si servisse di lei, di fronte a Musil, come si serviva di tutti. Sentivo piuttosto che non poteva fare a meno di vantarsi di quella moglie cinese, perché ne era ancora innamorato. Forse avviene un miracolo, pensai, e questa storia non finisce come tutto finisce con lui: forse Sch" rimane con la cinese. Nel mio amore per tutto ciò che era cinese, mi stava a cuore l'esito di quella storia, e la mia preoccupazione per ShüHsien, capitata in un mondo così estraneo al suo, era maggiore di quella che avevo mai provato per una delle mogli europee di Sch". Ma all'improvviso, durante quella discussione nella Nussdorferstrasse, ShüHsien era ben presente. Musil, che evidentemente aveva cura soprattutto di non promettere nulla di "epico" per la rivista e quindi metteva avanti la possibilità di argomenti lirici, aveva evocato ShüHsien con le sue domande dubbiose. Tutti ormai sapevano di lei, la si pensava con simpatia, era diventata lei stessa un argomento poetico. Della rivista non si fece nulla, ma quella discussione preliminare rimase, credo, un gradevole ricordo per tutti, grazie alla cinese. NOTE: (1) Franz Blei (1871-1942), scrittore e critico, si era avvicinato a Musil dopo la pubblicazione dei Turbamenti del giovane Törless (1906) e l'aveva invitato a scrivere racconti per una sua rivista, "Hyperion" (che pubblicò anche, fin dal 1908, i primi frammenti di Kafka). Nel 1920 Blei aveva poi trovato a Dresda un editore disposto a pubblicare I fanatici di Musil. Come curatore e traduttore contribuì a far conoscere nell'area tedesca G" K" Chesteron, Paul Claudel, André Gide e Francis Jammes. Per la sua opera a favore di Rohert Walser, si veda la pagina seguente ?N" d'T"* Hudba. Danze di contadini Il 15 giugno 1937 morì mia madre. Alcune settimane prima, in maggio, ero andato per la prima volta a Praga. Mi sentivo ancora leggero e libero, e presi una stanza all'albergo Juli` s nella piazza San Venceslao, all'ultimo piano. Della stanza faceva parte un'ampia terrazza, dalla quale si vedeva di giorno il traffico della piazza sottostante e di notte le sue luci. Quella vista sembrava fatta apposta per il pittore che abitava nella stanza vicina alla mia: Oskar Kokoschka. Per il suo cinquantesimo compleanno si era aperta a Vienna una grande mostra al Museo d'Arti e Mestieri, sullo Stubenring. Lì mi ero fatto un'idea precisa della sua opera, che prima conoscevo solo attraverso quadri isolati. Kokoschka si era rifiutato di ritornare a Vienna per la circostanza, e rimase a Praga, dove stava facendo il ritratto al presidente Masaryk. Il suo vecchio paladino di Vienna, Carl Moli, mi aveva raccomandato di rintracciare Kokoschka a Praga e mi aveva affidato una lettera per lui. Dovevo raccontare a Kokoschka della mostra e ricordargli quanti ammiratori avesse a Vienna. Si sapeva che il pittore era pieno di rancore verso l'Austria ufficiale. Non si trattava soltanto del disprezzo dimostrato per la sua opera. Kokoschka non poteva scordare gli avvenimenti del febbraio 1934. Sua madre, alla quale era affezionato più che a qualsiasi altro essere umano, era morta di crepacuore per la guerra civile nelle strade di Vienna. Dalla sua casa nel Liebhartstal aveva potuto vedere i cannoni che sparavano contro le case dei lavoratori costruite dal municipio. Proprio perché il luogo offriva quella vista su Vienna, il figlio aveva comprato la casa alla madre, che fin dall'inizio aveva creduto in lui e aveva partecipato con tanta passione alla sua vicenda di pittore; e adesso, ecco che cos'era diventata quella bella vista! (1) La madre si trovava abbastanza vicino per udire il tuonare dei cannoni, e non poté fare a meno di seguire lo svolgersi dei combattimenti. Poco dopo si era ammalata, e da quella malattia non si era più ripresa. Carl Moli l'aveva conosciuta ed era convinto che senza di lei il figlio non sarebbe più stato lo stesso. Il fatto che non ci fosse più quella donna che portava un nome meraviglioso, Romana, era un pericolo per lui. Ora Kokoschka avrebbe troncato ogni rapporto con l'Austria. Per il nuovo regime al potere in Germania Kokoschka era un pittore degenerato, per l'Austria si offriva un'occasione per accogliere a braccia aperte il suo pittore più grande. Ma anche se a Vienna fossero stati così lungimiranti da invitarlo a un ritorno con tutti gli onori, come avrebbe potuto Kokoschka ritrovarsi sotto un regime al quale attribuiva la responsabilità della morte di sua madre? Già prima avevo sentito parlare molto di lui. A una fase turbolenta del suo passato mi avevano riportato i racconti di Anna. La passione per Alma Mahler, la madre di Anna, era diventata leggenda attraverso alcuni dei quadri migliori di Kokoschka. Durante la mia prima visita alla Hohe Warte avevo visto il ritratto che lei chiamava "la Lucrezia Borgia". Era appeso nella stanza "trionfale" dell'instancabile vedova e veniva presentato ai visitatori con molta enfasi, non senza sottolineare che l'artista, a quel tempo ancora così capace, aveva preso purtroppo una brutta strada - era diventato un povero emigrante. Adesso lo vedevo in persona per la prima volta, da una terrazza all'altra, con quei lineamenti che mi erano familiari dagli autoritratti. Ciò che mi sorprese non poco fu la sua voce. Parlava così sommessamente che stentavo a capirlo. Stavo molto attento a non lasciarmi sfuggire nessuna frase, ma ciò nonostante ne perdevo molte. Carl Moli gli aveva anche scritto direttamente per annunciargli la mia visita, ma era un caso inaspettato che abitassimo in due stanze contigue. Kokoschka parlava con molta discrezione, non solo a bassa voce. Ancora sotto l'impressione della grande mostra, ero un po'"imbarazzato vedendo che mi trattava da pari a pari. Chiese del mio libro, disse che voleva leggerlo, che Moli gliene aveva scritto con grandi elogi. Lì sulla terrazza ebbi la sensazione che fosse curioso di conoscermi. Mi sentivo addosso il suo occhio da polipo, che però non mi sembrava ostile. Chiese scusa se quella sera non era libero, quasi che si sentisse in obbligo di dedicarmi subito una serata. Era una delicatezza tanto più stupefacente se ripensavo ai racconti di Anna, a un episodio della sua prima infanzia: lei, Gucki, (2) come la chiamavano allora, era seduta sul pavimento in un angolo dell'atelier e ascoltava atterrita una scenata di gelosia che si svolgeva tra sua madre e Kokoschka. Lui minacciava di chiuderla a chiave nell'atelier prima di andarsene, e forse una volta aveva davvero messo in atto la minaccia. Di nessun'altra cosa Anna mi aveva parlato con tanta emozione. Quelle scenate me le immaginavo fragorose e violente, e quindi mi ero aspettato di incontrare un uomo appassionato che avrebbe accolto le mie notizie sulla mostra viennese indirizzando subito parole di fuoco contro il governo austriaco. A questo argomento, invece, dedicò soltanto qualche parola sprezzante, ma sempre in tono sommesso. La parte più aggressiva della sua persona mi sembrò il mento, che era molto pronunciato, quasi come amava dipingerlo negli autoritratti. Ma quello che colpiva davvero era l'occhio, immobile, opaco, fisso, in agguato: stranamente, pensavo sempre a un solo occhio, così come ho scritto adesso. Le sue parole erano atone e appannate, come se Kokoschka le emettesse quasi a caso e controvoglia. Mi diede appuntamento per il giorno dopo e mi lasciò alla mia perplessità: non riuscivo a conciliare i suoi quadri e tutto ciò che sapevo di lui con quella mansuetudine. Il giorno dopo lo incontrai al caffè. Era in compagnia del filosofo Oskar Kraus, un fedele allievo di Franz Brentano. Questo Kraus, professore di filosofia, un personaggio assai noto a Praga, aveva ereditato dal suo maestro l'interesse per gli indovinelli e ora faceva la parte del leone con Kokoschka e con me. Riuscì ad avvincere Kokoschka con enigmi d'ogni genere e con discorsi che si riferivano sempre a quell'argomento, e di nuovo il pittore mi diede un'ingannevole impressione di modestia, anzi addirittura di ingenuità. In realtà, me ne resi conto solo in seguito, era tutt'altro che un semplice, il suo spirito prendeva volentieri strade complicate. Non era neanche modesto, ma gli piaceva scomparire dentro certi ambienti, quasi adattandosi a un determinato colore, quello dominante. Questa iridescenza era un suo dono: Kokoschka somigliava a un polipo anche nel suo naturale e agevole cambiar di colore, mentre il suo occhio, molto grande e - come ho già detto - apparentemente unico, spiava la preda con una forza inesorabile. Ma lì, al caffè, c'era poco da spiare. Kokoschka conosceva bene il vecchio Oskar Kraus, e difficilmente si sarebbe lasciato eccitare da quel professore chiacchierone e tanto sicuro di fare effetto. L'insistenza con la quale costui, alla sua età, si richiamava ancora all'antico maestro, il filosofo Brentano, aveva qualcosa di subalterno; così almeno sembrava a me, che di Brentano non mi ero ancora occupato e avevo un'idea inadeguata dei suoi molteplici influssi. Mi pareva poi di cattivo gusto quell'instancabile loquacità di fronte a Kokoschka, ma questi aveva l'aria di trovarla gradevole: non aveva voglia di prendere la parola e si ostinava nel suo iridescente occhieggiare. In verità io ardevo dal desiderio di sentire da Kokoschka qualche notizia su Georg Trakl. Sapevo che l'aveva conosciuto e che Trakl gli aveva suggerito il titolo meraviglioso di un quadro, La sposa del vento. Ero convinto che senza quel titolo il quadro non sarebbe esistito, che se si fosse chiamato in altro modo non avrebbe attirato l'attenzione. Era il periodo in cui Trakl mi aveva conquistato, nessun lirico moderno ha avuto per me tanta importanza. Del suo destino sono ancora tutto preso come la prima volta che ne venni a conoscenza. (3) Certo, essendo lì con noi l'arido ometto degli enigmi, non era il momento migliore per portare il discorso su Trakl, e tuttavia lo feci e domandai a Kokoschka se l'aveva conosciuto. "L'ho conosciuto molto bene" rispose con la sua voce atona. Non disse altro, e anche se avesse voluto non avrebbe potuto dire di più, perché l'ometto aveva già tirato fuori un nuovo indovinello e lo snocciolava belando con la sua voce da capra. (4) Io avevo l'impressione che Vienna non contasse più per Kokoschka da quando ne era partito. All'inizio della sua carriera, quando improvvisamente spuntava dappertutto tenuto per mano da Adolf Loos, Vienna aveva rappresentato qualcosa per lui. Ma adesso non era Vienna a metterlo al bando, era lui che metteva al bando Vienna; e il buon vecchio Moli, che da decenni si dava tanto da fare per Kokoschka, non era la persona più adatta a risvegliare in lui l'interesse per quella città. E" vero che Kokoschka eccelleva nell'arte di scomparire, ma intuivo che adesso scompariva soltanto per essere lasciato in pace da tutti. Avevo quasi rinunciato alla speranza di un vero colloquio con lui quando si scaldò all'improvviso e portò il discorso su sua madre e su suo fratello Bohi. La casa nel Liebhartstal, dove il fratello abitava ancora dopo la morte della madre, era l'unica cosa che al momento legasse Kokoschka a Vienna. Era convinto che suo fratello fosse uno scrittore. Lo conoscevo? Aveva scritto un grande romanzo in quattro volumi. Era stato marinaio e aveva viaggiato molto. Nessun editore voleva pubblicargli il libro. Sapevo di qualcuno che potesse interessarsene? In quel genere di cose suo fratello non aveva fortuna. Non gli mancava la coscienza del proprio valore, ma la capacità di fare il proprio interesse. A Kokoschka non sembrava assolutamente un disonore che il fratello si lasciasse aiutare da lui. Lo manteneva volentieri e senza brontolare. Ne parlava con delicatezza e rispetto. Io ero commosso da quell'amore per il fratello che aveva sempre creduto in lui ma anche in se stesso; e mi parve un tratto molto accattivante di Kokoschka l'insistenza con cui cercava di stabilire davanti al mondo una sorta di equivalenza tra sé e suo fratello. Con alcuni miei amici di Vienna si era parlato spesso di Bohi. Il prestigio di Kokoschka era così grande che ogni relazione con lui, anche la più modesta, tornava a onore di chi poteva vantarla. Un giovane architetto, Walter Loos, che non era parente del grande Loos ma aveva lo stesso cognome, si sentiva in dovere - forse proprio a causa di quella omonimia - di conoscere almeno il fratello di Kokoschka; e nello Heurige in cui s'incontrava con Wotruba e con me si abbandonava a entusiastiche descrizioni della bella e prosperosa ragazza, figlia di uno spazzacamino, che sembrava nata apposta per essere l'amica del grasso Bohi. Raccontava degli alti e bassi di quella relazione, della gelosia di Bohi, di violente scenate e tempestose riconciliazioni. Tutti correvano dietro alla figlia dello spazzacamino, ma lei restava assolutamente fedele al suo Bohi, era impossibile sedurla. Così Bohi era proprio il fratello del famoso pittore, il quale era in realtà il vero oggetto di tutti quei discorsi, e perciò la gelosia diventava "obbligatoria" anche per lui. Wotruba ascoltava quasi con devozione tutti i racconti che si riferivano al fratello di Kokoschka. Il giovane Loos, come noi lo chiamavamo, continuava a stuzzicarlo con la celebrità del pittore; e a furia di esaltarlo con una fiducia incrollabile, come fosse una bandiera, si era fatto una certa posizione nella nostra cerchia, sebbene per il resto non dicesse niente di molto interessante. Adesso era Kokoschka a portare il discorso su suo fratello. Nominava Bohi con la massima naturalezza, come se a Vienna tutti dovessero sapere di lui senza bisogno di altre spiegazioni; e quando io mi addentrai nell'argomento e raccontai quel che sapevo dal giovane Loos, il pittore sembrò un po'"irritato da questo nome. "Sarebbe meglio se non ci fosse un altro architetto che si chiama così: di Loos ce n'è stato uno solo". Non si rasserenò neanche quando difesi il nome del mio conoscente dicendo che in fondo costui era amico del fratello e non, come il vecchio Loos, del vero Kokoschka. Ne prese spunto per tessere l'elogio di Bohi, e così ebbi notizie più precise sull'opera in quattro volumi che non trovava un editore. Possibile che il cosiddetto "giovane" Loos non avesse mai accennato a quel romanzo? No, lui parlava solo e sempre del suo amore per la figlia dello spazzacamino e delle scenate tra i due. Kokoschka, che reagiva con una prontezza sbalorditiva, subodorò il nesso con le leggendarie scenate avvenute tra lui e Alma Mahler, e parò il colpo senza che io avessi avuto l'indelicatezza di alludervi. "Questo è Nestroy bello e buono," disse "questo non ha niente a che fare con Bohi e col suo modo di scrivere. Le loro baruffe fanno tanta impressione solo perché tutt'e due sono così grassi. Ma Bohi è un uomo puro. Non fa quelle scene perché si parli di lui". Sembrava che volesse giustificare se stesso per le sue scenate di una volta. Quando insegnava a Dresda viveva con una bambola di grandezza naturale, preparata secondo le sue indicazioni, che riproduceva le sembianze di Alma Mahler; e così aveva perpetuato - si può ben dire - le chiacchiere che correvano su loro due. Questa storia era familiare anche a coloro che sapevano solo inorridire davanti alla sua pittura. La bambola se la trascinava sempre dietro, era ciò che gli restava delle scenate di un tempo con Alma. Al caffè stava seduta al tavolino accanto a lui, aveva la sua tazzina davanti, e poi, così si diceva, finiva addirittura nel letto di Kokoschka. Bohi, tutto al contrario del fratello, non muoveva un dito per farsi conoscere, e perciò Oskar lo chiamava "un uomo puro", perciò ne parlava volentieri e si richiamava a lui come se personificasse la sua innocenza. In uno dei giorni successivi ebbe luogo una grande sfilata di contadini nella piazza San Venceslao. Dall'alto della terrazza della mia stanza all'albergo Juli` s si poteva seguire benissimo tutto lo spettacolo. Ludwig Hardt, che adesso abitava appunto a Praga, venne con sua moglie. Lo avevo invitato con qualche altro conoscente a guardarsi la sfilata, e in quell'occasione conobbi sua moglie, piccola come lui, una personcina graziosa, che si prendeva alquanto sul serio. A vederli insieme non si poteva non pensare a un numero di circo equestre. Da un momento all'altro ci si aspettava di assistere all'ingresso dei cavalli e di vedere quella figurina ben tornita saltare da un cavallo all'altro mentre lui eseguiva acrobazie non meno temerarie, passando a un millimetro da lei oppure insieme con lei. Ma adesso stavano entrambi accanto a me sulla terrazza, alta sulla piazza in cui contadini di tutte le parti del Paese sfilavano nei loro costumi, non pochi a cavallo, accompagnati dalla musica e da acclamazioni: sembrava un quadro di nozze campestri. Singoli contadini cominciarono a ballare, ognuno per conto suo, avvicendandosi in rapida successione, e il modo in cui uscivano all'improvviso dal corteo muovendosi di traverso e facendosi largo in quel trambusto, senza però rinunciare in nulla alla loro aria solenne, aveva una tale levità che mi vennero le lacrime agli occhi. Mi voltai da una parte per nascondere la commozione, e proprio allora il mio sguardo incontrò quello di Kokoschka, che era uscito sulla sua terrazza e guardava giù, come noi, verso i contadini. Egli notò la mia emozione e mi fece un cenno affettuoso, come se parlasse di suo fratello Bohi. Che cosa mi toccasse così da vicino negli assolo di danza dei contadini che si staccavano dal loro gruppo, allora non avrei saputo dirlo. Nella loro allegria, nella loro forza, in tutti i loro colori non c'era niente che potesse turbare. Era un momento libero da ogni cattivo presagio, uno stato di felice commozione, anche se non si prendeva parte alla loro sfilata - che cosa si poteva avere in comune con un contadino? La mia commozione veniva anche da un ritrovamento: ritrovavo davanti a me i balli dei contadini di Brueghel. I quadri condizionano le nostre esperienze. Si incorporano in noi quasi come una terra che ci appartenga. A seconda dei quadri di cui siamo fatti ci è data in sorte una vita diversa. Era ricca di colori e liberatrice l'emozione per quei contadini impegnati nelle loro danze sulla piazza San Venceslao. Due anni dopo il destino di Praga era segnato. Ma a me fu ancora consentito di vivere la forza e la grazia un po'"greve di quegli esseri umani. Qualcosa di simile sentivo anche nella lingua, che mi era del tutto sconosciuta. A Vienna i cechi erano moltissimi, ma all'infuori di loro nessuno conosceva quella lingua. Innumerevoli viennesi avevano nomi cechi, e non si sapeva che cosa significassero. Uno dei nomi più belli l'aveva il mio "gemello", Wotruba. Neanche lui conosceva una parola della lingua di suo padre. Adesso ero a Praga e andavo in giro da ogni parte, di preferenza nei cortili delle case dove abitava molta gente di cui potevo ascoltare i discorsi. Mi sembrava una lingua combattiva, perché tutte le parole erano fortemente accentate sulla prima sillaba, e quindi, in ogni discorso che si ascoltava, si percepiva una serie di piccole scosse che si ripetevano per tutta la durata della conversazione. Io mi ero occupato della storia delle guerre hussite, il quindicesimo secolo mi aveva sempre attirato, e chi tentava di capire qualcosa delle masse non poteva non rimuginare a lungo sugli hussiti. Avevo un grande rispetto per la storia dei cechi, ed è probabile che lì, da profano, mentre cercavo di ascoltare la loro lingua nei suoi vari gradi d'intensità, credessi di scoprirvi cose che derivavano soltanto dalla mia ignoranza. Ma non potevano esservi dubbi sulla vitalità di quella lingua, e non poche parole erano per me sorprendenti nella loro assoluta originalità. Rimasi incantato nell'apprendere la parola ceca che significa musica: hudba. Nelle lingue europee, per quanto ne sapevo, la parola era sempre la stessa: musica, una bella parola sonante. A pronunciarla in tedesco, Musik, con l'accento sulla seconda sillaba, si aveva la sensazione di balzare in alto insieme con la parola. Là dove l'accento cadeva invece sulla prima sillaba, la parola non sembrava così dinamica, rimaneva un poco a librarsi nell'aria prima di dilatarsi. Avevo per quella parola un attaccamento pari quasi a quello per la cosa che significava, ma a poco a poco non mi era sembrato giusto che fosse usata per ogni genere di musica. Quanto più ascoltavo musica nuova, tanto più incerto diventava il mio rapporto con quella denominazione universale. Una volta ebbi il coraggio di domandare ad Alban Berg se non dovessero esservi anche altre parole per significare la musica, se l'irrimediabile chiusura dei viennesi di fronte a ogni novità non dipendesse anche dal fatto che erano diventati tutt'uno con l'idea che avevano di quella parola, a tal segno che non potevano tollerare qualcosa che ne modificasse il contenuto. Forse, se si fosse chiamata in altro modo, sarebbero stati più facilmente disposti ad abituarvisi. Ma lui, Alban Berg, non voleva saperne. Per lui, come per tutti gli altri compositori venuti prima, si trattava della musica, di nient'altro, di qualcosa che discendeva da quei predecessori; ciò che lui stesso faceva, ciò che i suoi allievi imparavano da lui era musica, ogni altra parola sarebbe stata un inganno; e non mi aveva colpito il fatto che la stessa parola si fosse diffusa su tutta la Terra? Reagì alla mia "proposta" con impeto, quasi con sdegno, con una tale determinazione che non toccai più l'argomento. Ma anche se non ne parlavo, consapevole com'ero della mia ignoranza musicale, tuttavia quel pensiero non mi abbandonava. E adesso, a Praga, scoprendo improvvisamente e come per caso che la parola ceca per musica era hudba, ne rimasi estasiato. Questa era la parola per Les Noces di Strawinsky, per Bartòk, per Janà` cek, per molte altre cose. Come ammaliato passavo da un cortile all'altro. Ciò che al mio orecchio suonava come sfida era forse semplicemente "comunicazione", ma in questo caso era più carica, racchiudeva qualcosa di più del parlante, conteneva più di quanto noi usavamo mettere di nostro nel comunicare. Forse era l'impeto con cui entravano in me le parole ceche a richiamare ricordi del bulgaro della mia prima infanzia. Ma io non ci pensavo mai, perché avevo dimenticato del tutto il bulgaro; e non saprei stabilire in che misura le lingue dimenticate permangono, nonostante tutto, dentro di noi. Di certo, in quei giorni di Praga riconfluivano in me molte cose che si erano svolte in periodi isolati della mia vita. Percepivo i suoni slavi come parti di una lingua che mi riguardava da vicino, in maniera inspiegabile. Ma con molte persone parlavo in tedesco, parlavo soltanto in tedesco, ed erano persone che avevano con questa lingua una consuetudine consapevole e differenziata. Per lo più erano uomini di lettere che scrivevano in tedesco, e ogni volta si avvertiva come questa lingua, alla quale restavano fedeli sullo sfondo vigoroso del ceco, rappresentasse per loro qualcosa di diverso che per quelli che adoperavano la stessa lingua a Vienna. Era stata pubblicata da poco la traduzione ceca della Blendung. Per questo motivo avevo intrapreso il viaggio a Praga. Un giovane scrittore, che oggi è noto sotto il nome di H" G'Adler, lavorava allora in un istituto pubblico e mi aveva invitato a tenere una lettura. Apparteneva a un gruppo di amici che scrivevano in tedesco, più giovani di me di circa cinque anni, tra i quali la Blendung passava di mano in mano. Adler, il più attivo del gruppo, si era battuto in ogni modo a favore della mia lettura. E fu ancora lui a guidarmi per la città, con molto impegno, affinché nessuna delle sue bellezze mi sfuggisse. Ciò che lo distingueva soprattutto era l'alta tensione del suo fervore idealistico. Lui, che di lì a poco sarebbe stato vittima in così grave misura di quel tempo degno di essere maledetto, dava l'impressione di non appartenere al tempo. Difficilmente si sarebbe potuto immaginare in qualche parte della Germania un uomo che fosse più segnato dalla tradizione letteraria tedesca. Ma lui viveva lì, a Praga, parlava e leggeva agevolmente il ceco, aveva rispetto per la letteratura e la musica ceche; e tutto ciò che io non capivo me lo spiegava in modo tale da rendermelo attraente. Non voglio enumerare le meraviglie di Praga, che sono sulla bocca di tutti. Mi sembrerebbe quasi sconveniente parlare di piazze, chiese, palazzi, vicoli, dei ponti e del fiume con cui altri hanno trascorso una vita e della cui presenza è impregnata la loro opera. Di tutto questo io non ho scoperto nulla da solo, ogni cosa mi veniva mostrata e spiegata: se c'è qualcuno che avrebbe il diritto di parlare di simili scoperte, sarebbe colui che le ha progettate e provocate. Il giovane scrittore, che non sembrava mai stanco di escogitare sorprese per me, era a sua volta pieno di curiosità e continuava a fare domande nel corso delle nostre camminate. Io lo accontentavo volentieri, e molte persone che erano entrate nella mia vita affiorarono davanti a lui nella conversazione, con opinioni, giudizi e pregiudizi. Ma il giovane intuì anche quanto fosse importante per me ascoltare da solo, poter ascoltare la gente, le persone più diverse, mentre parlavano in una lingua che non comprendevo, ascoltarli senza che subito mi venisse tradotto ciò che dicevano. Per lui quella doveva essere un'esperienza nuova: c'era qualcuno che inseguiva l'eco di parole incomprese, un effetto tutto particolare che non si poteva paragonare a quello della musica, poiché dalle parole incomprese ci si sente minacciati, si continua a voltarle e rivoltarle dentro di sé e si cerca di smussarle, ma quelle si ripetono e nel ripetersi diventano ancor più minacciose. Il mio accompagnatore ebbe la delicatezza di lasciarmi solo per ore intere, ed era un po'"preoccupato che io potessi smarrirmi e sicuramente non accettava senza rammarico l'interruzione che il nostro dialogo doveva subire in quel modo. Con tanto maggiore curiosità mi fece poi raccontare le cose che mi avevano colpito; e fu un segno della mia grande simpatia per lui se feci fatica a non dirgli tutto. NOTE: (1) Nel 1924 circa, Kokoschka aveva dipinto nel quadro WienLiebhartstal il paesaggio intorno alla casa della madre, nella campagna a ovest di Vienna ?N" d'T"*. (2) Il nomignolo dato alla figlia da Gustav Mahler ha anch'esso un riferimento al "gioco degli occhi", essendo legato al verbo gucken, "guardare con curiosità, con gli occhi sgranati" ?N" d'T"*. (3) Georg Trakl (1887-1914) fece visita a Kokoschka nel 1914 e vide nello studio un grande quadro in cui il pittore aveva raffigurato se stesso con Alma Mahler. Improvvisò allora una poesia in cui ricorreva la parola Windsbraut ("sposa del vento", o "tempesta"). Poi, come racconta Kokoschka nell'autobiografia, Trakl "ha indicato il quadro con la pallida mano e l'ha chiamato die Windsbraut. Di lì a poco egli è morto, disperato per il massacro di Grodek, a causa di una dose eccessiva di medicinali, nell'ospedale di guerra di Cracovia". (4) Il filosofo Franz Brentano (1838-1917), le cui idee avevano trovato molto seguito a Praga, aveva anche pubblicato, sotto il titolo Aenigmatias, una raccolta di indovinelli, sciarade, logogrifi e altri giochi. Racconta Max Brod nell'autobiografia: "La segreta attrazione di questo libro stava nel fatto che non vi erano indicate le soluzioni. Aenigmatias era entrato in molte delle grandi famiglie di Praga, e anche nelle riunioni mondane si cercava di venire a capo di quegli enigmi. Inutilmente: alcuni dei giochi più difficili erano diventati famosi, resistevano a tutti gli assalti ?...*. Si diceva che Oskar Kraus avesse ricevuto dallo stesso Brentano un esemplare del libro in cui per ogni indovinello c'era la soluzione, scritta di pugno dall'autore. Molti pregavano Kraus di svelare qualche soluzione. Lui non tradì mai il segreto" ?N" d'T"*. Morte della mamma La trovai assopita, gli occhi chiusi. Tutta consunta, ormai soltanto pelle diafana, eccola lì distesa, profondi fori neri al posto degli occhi, immobili fori neri là dove prima era il gioco delle sue ampie, stupende narici. La fronte sembrava più stretta, contratta da entrambe le parti. Mi ero aspettato lo sguardo dei suoi occhi, ed ebbi la sensazione che li avesse sigillati contro di me. Poiché gli occhi si negavano, cercai quelli che in lei erano i tratti più personali, cercai le grandi narici e la fronte imponente; ma la fronte non aveva più un'estensione, non delimitava nulla, e la collera delle narici si era persa in tutto quel nero. Mi spaventai, ma ero ancora talmente persuaso della sua antica forza che in me s'insinuava il sospetto che si celasse ai miei occhi. Non vuole vedermi, non mi aspettava. Sente che sono qui e finge di dormire. Mi passavano per la testa i pensieri che lei stessa avrebbe avuto al mio posto, perché io ero lei, conoscevamo i pensieri l'uno dell'altro, appartenevano a entrambi. Avevo portato delle rose, lei non resisteva mai al loro profumo. L'aveva respirato nel giardino della sua infanzia a Rustschuk, e quando negli anni migliori scherzavamo sulle sue narici, enormi, come nessun altro le aveva, lei diceva che erano diventate così grandi perché da bambina le aveva dilatate per accogliere il profumo delle rose. Nel più remoto dei suoi ricordi era stesa tra le rose e poi piangeva perché la riportavano in casa e il profumo svaniva. In seguito, dopo aver lasciato la casa e il giardino di suo padre, aveva saggiato ogni profumo alla ricerca di quello vero, e in questo esercizio le narici le erano cresciute ed erano rimaste così grandi. Quando aprì gli occhi, dissi: "Ti ho portato questo da Rustschuk". Mi guardò incredula, non dubitava della mia presenza, bensì del luogo che avevo nominato. "Dal giardino" dissi, e non c'era che un giardino. Lei mi ci aveva condotto, aveva respirato profondamente e mi aveva consolato con la frutta per le umiliazioni che avevo sofferto dal nonno. Ora io le porgevo le rose, lei inalò l'odore, la stanza ne fu invasa. Disse: "E" questo il profumo. Vengono dal giardino". Si arrendeva alla notizia, accettava anche me - io ero racchiuso in quella nuvola - e non domandò perché ero a Parigi. Era ricomparso il suo viso, con le narici insaziabili. Gli occhi, molto più grandi, si fissarono su di me, e lei non disse: Non ti voglio vedere! Che cosa fai qui? Io non ti ho chiamato! Riconosceva il profumo, e nel profumo mi ero insinuato anch'io. Non faceva domande, si abbandonava interamente all'olfatto, e a me parve che la fronte le si allargasse e che dovessero arrivare le sue parole inconfondibili. Aspettavo parole dure e le temevo. Udivo il suo amaro rimprovero come se l'avesse già pronunciato ancora una volta: Vi siete sposati. Non mi hai detto niente. Mi hai ingannata. Non aveva chiesto di vedermi, e quando Georg, allarmato per il suo declino, mi aveva telegrafato e scritto di accorrere subito, quando avevo interrotto dopo otto giorni la visita a Praga ed ero partito in tutta fretta per Vienna proseguendo poi per Parigi, un pensiero lo angustiava: come avremmo potuto farle accettare la mia presenza? Per lui la cosa più importante era sciogliere ciò che alla fine si era coagulato dentro di lei, ciò che le occupava la mente, ciò che la tormentava, evitando a ogni costo uno scoppio di collera che Georg paventava anche in una condizione di spirito così estenuata. Quando al mio arrivo gli spiegai ciò che avevo in mente, l'idea di portarle le "rose del giardino di Rustschuk", e dissi che lei mi avrebbe creduto, Georg non nascose i suoi dubbi: "E tu hai questo coraggio? Sarà la tua ultima bugia!". Ma non gli venne un'idea migliore, e quando capì che io non volevo semplicemente vincere in lei la resistenza alla mia visita, ma che mi premeva davvero riportarle il profumo per il quale aveva provato tanta nostalgia, allora cedette, vergognandosi un po'"e forse anche convertendosi al mio proposito. Ma non volle assistere all'incontro per non compromettere la fiducia che la mamma aveva in lui, nel caso che il mio piano fallisse e attizzasse in lei nuova collera. I fiori se li teneva sopra il viso come una maschera, e a me parve che i suoi lineamenti riprendessero forza e dimensioni. Mi credeva ancora, come una volta, e aveva ricacciato i suoi dubbi, sapeva chi ero ma dalle sue labbra non uscì una parola ostile. Non disse: Hai fatto un lungo viaggio. Sei venuto per questo? Ma a me ritornò alla mente ciò che in passato aveva raccontato tante volte. Prima di arrampicarsi sul gelso in cui usava ritirarsi a leggere, faceva ancora una corsa tra le rose. Leggeva nel segno delle rose, il profumo persisteva in lei, e ogni libro se ne saturava. Allora le riuscivano sopportabili anche le cose più spaventose, perfino quando moriva di paura non si sentiva veramente in pericolo. Nel nostro periodo peggiore gliene avevo fatto un rimprovero. Le avevo detto che tutto ciò che aveva letto in quello stato di narcosi non aveva per me alcun valore, che quella sua paura non era paura, che le cose spaventose che avevano resistito al profumo delle rose non erano spaventose. Non avevo mai ritirato quelle dure parole. Forse per questo mi era venuta l'idea di quello stratagemma. E ora disse tuttavia: "Non sei stanco del viaggio? Riposati un poco!". Non si riferiva al viaggio da Vienna, ma all'altro, quello più lungo, in Bulgaria, e io assicurai che non ero per niente stanco, che non volevo staccarmi subito da lei un'altra volta. Forse immaginò che fossi venuto soltanto per portarle quel messaggio da laggiù, che sarei subito scomparso di nuovo. Forse sarebbe stato meglio così. Non avevo pensato che nella mia persona qualcosa poteva disturbarla anche dopo il primo atto di riconoscimento e che nel suo stato sopportava le visite solo per breve tempo. Presto disse: "Siediti più lontano!". Io mi ero appena seduto. Scostai la sedia dal letto, ma lei disse: "Più lontano, più lontano!". Arretrai ancora un poco, ma a lei non bastava. Mi ritrassi fin nell'angolo della piccola stanza e compresi che non voleva parlare e perciò mi allontanava da sé. Georg, quando entrò, capì da come erano posate le rose che la mamma le aveva accettate, e dai suoi lineamenti che era sollevata. Ma poi, vedendomi in disparte nell'angolo, si meravigliò che stessi seduto e in quel punto. "Non preferisci stare in piedi?" domandò; ma lei scosse la testa quasi con violenza. "E perché non ti siedi più vicino?" aggiunse Georg, ma lei gli interruppe la frase e rispose al mio posto: "Là è meglio". Lui invece non doveva allontanarsi dal letto, le rimase vicino e iniziò una serie di operazioni di cui non mi era sempre chiaro il senso. Erano cose che lei si aspettava da Georg, in una successione prestabilita, e per le quali dimenticò tutto il resto. Non sapeva più che ero lì, a quel punto ormai le sarebbe stato indifferente se me ne fossi andato. Per quanto inerte sembrasse, preveniva Georg con tanti piccoli movimenti, come se volesse ricordargli l'ordine delle varie operazioni. Lui le inumidì le mani e la fronte e la rialzò un poco sul letto. Le portò un bicchiere alle labbra e lei accettò di bere un sorso. Le aggiustò la coperta e tentò di toglierle le rose dalla mano. Forse voleva liberarla dall'ingombro, forse pensava di metterle in un vaso, ma lei non allentò la presa e gli rivolse uno sguardo severo, come una volta. Lui avvertì l'impeto di quella reazione e si rallegrò dell'energia che la animava. Da settimane seguiva e temeva in lei il declinare delle forze. Le lasciò i fiori nella mano posata sulla coperta: occupavano molto posto e non erano meno importanti di lui. Intanto io ero stato confinato in un angolo e dubitavo che lei fosse cosciente della mia presenza. Improvvisamente la sentii dire a Georg: "E" arrivato il tuo fratello più grande. Viene da Rustschuk. Perché non vi salutate?". Georg guardò nel mio angolo, come se solo adesso si accorgesse di me. Si avvicinò, io mi alzai, ci abbracciammo. Ci abbracciammo veramente, non di sfuggita come prima, quando avevo messo piede nell'appartamento. Ma lui non pronunciò una parola, e io la sentii dire: "Perché non gli chiedi niente?". Si aspettava un dialogo sul mio viaggio, sulla mia visita al giardino. "Era tanto tempo che non ci andava" disse lei; e Georg, che non amava le invenzioni, aderì con riluttanza alla mia storia: "Da ventidue anni, dal tempo della prima guerra mondiale". Lui voleva dire che non ero più stato a Rustschuk dal 1915. Allora la mamma mi aveva mostrato un'altra volta il giardino della sua infanzia, suo padre non era più al mondo, ma il gelso era sempre al suo posto e dietro, nel frutteto, maturavano le albicocche. Le si chiusero gli occhi, e ancora mentre noi due stavamo in piedi l'uno accanto all'altro, si assopì. Quando Georg fu sicuro che avrebbe dormito per un poco, ci ritirammo nel soggiorno, e lui mi disse delle condizioni della mamma e che non c'era nulla che potesse salvarla. Molti anni prima, noi eravamo bambini, si era convinta di avere un male ai polmoni, poi la malattia era diventata realtà. Lui, giovane medico di ventisei anni, si era specializzato in malattie polmonari per assisterla. In ogni momento libero, giorno e notte, era stato vicino alla mamma. Da studente si era ammalato lui stesso di tubercolosi: i suoi amici pensavano che fosse stato contagiato dalla mamma. Allora aveva trascorso alcuni mesi in un sanatorio sopra Grenoble, lavorandovi come medico, ne era ritornato rimesso a nuovo, come si diceva, e aveva ripreso a curare la mamma con la stessa dedizione. Lo preoccupavano le difficoltà respiratorie, da anni la mamma soffriva di asma. Durante gli ultimi mesi aveva avuto un declino così rapido che alla fine Georg era arrivato, tra molte incertezze, alla decisione di chiamarmi. Sapeva che cosa voleva dire un incontro, le conseguenze potevano essere pericolose, ma per lui contava di più il pensiero di una riconciliazione. Ora sembrava, per il momento, che la cosa fosse riuscita, e sebbene Georg conoscesse i repentini mutamenti d'umore della mamma e non fosse da escludere con sicurezza un'esplosione ritardata di collera, si sentiva sollevato per il buon inizio. Con mio stupore, anche quando fummo soli, non mi rimproverò, non disse che non ero stato nel giardino del nonno e l'avevo ingannata con un mazzo di rose preso a Parigi. "Lei ti crede ancora," disse "e tu le hai sempre creduto. Ecco quello che vi unisce. Voi due avete il potere di uccidervi. Tu sapevi bene perché dovevi proteggere Veza dalla mamma. Io lo capisco. Ma io ho visto l'effetto che tutto questo ha avuto sulla mamma. Perciò non posso perdonarti. Adesso non ha più importanza. Per lei tu sei venuto dal luogo a cui continua a pensare". Nel piccolo appartamento rumoroso della Rue de la Convention non c'era posto per me. Dormivo fuori e andavo da lei più volte al giorno. Sopportava solo per poco tempo la mia presenza, ma del resto non sopportava a lungo nessuna visita. Dovevo sempre lasciare di nuovo la stanza e aspettare fuori. Al suo letto non mi avvicinavo troppo. Ogni mattina, al primo incontro, i suoi occhi diventavano più grandi e più luminosi, e io mi sentivo catturato da quello sguardo. Il respiro si attenuava, ma lo sguardo acquistava forza. Non guardava dall'altra parte: quando non voleva vedere, chiudeva gli occhi. Mi guardava fino a che mi odiava. Allora diceva: "Vattene!". Lo diceva alcune volte ogni giorno, e nel dirlo era ben decisa a punirmi. Quella parola mi colpiva, sebbene fossi consapevole del suo stato e mi rendessi conto che ero lì per questo, per essere punito e umiliato - era per questo che adesso le servivo. Mentre aspettavo nella stanza vicina, entrava da me l'infermiera e con un cenno del capo mi faceva capire che la mamma aveva chiesto di me. Allora andavo da lei, e mi puntava lo sguardo addosso, squadrandomi con una forza tale che io temevo dovesse restarne fiaccata. Lo sguardo si dilatava e si acuiva, lei non diceva niente, finché all'improvviso ordinava di nuovo in un soffio: "Vattene!", ed era come se per tutta l'eternità io fossi condannato a rimanere lontano dal suo cospetto. Mi inchinavo appena, da imputato che accetta la sentenza perché è cosciente della propria colpa, e uscivo. Pur essendo sicuro che di nuovo avrebbe chiesto di me, che presto mi avrebbe chiamato, ne restavo afflitto, non mi ci abituavo e ogni volta era come una nuova punizione. Era diventata molto esile. Tutta la vita rimasta in lei si era concentrata negli occhi, grevi del torto che io le avevo fatto. Mi guardava per dirlo, io reggevo il suo sguardo, lo sopportavo, volevo sopportarlo. Non c'era collera in quello sguardo, c'era il tormento di tutti gli anni in cui le avevo impedito di liberarsi di me. Per sciogliersi da me si era convinta di essere malata, era andata dai medici, si era spinta in luoghi lontani, in montagna, al mare, qualunque posto andava bene purché io non ci fossi, e là era vissuta e nelle lettere mi aveva nascosto la verità, e per causa mia si era creduta malata e dopo anni si era ammalata davvero. Era quello che adesso mi rinfacciava, ed era tutto nei suoi occhi. Poi cedeva alla stanchezza e diceva: "Vattene!", e io, mentre aspettavo nell'altra stanza, falso penitente, scrivevo a colei il cui nome non affiorava su quelle labbra, e accordavo a Veza la fiducia di cui ero debitore a lei. Poi, dopo il breve assopimento, chiedeva di me, come se fossi appena arrivato dal viaggio; e il suo sguardo, che nel sopore si era di nuovo caricato del passato, si puntava un'altra volta su di me e mi diceva in silenzio come io l'avessi lasciata per un altro essere umano, lasciata, ingannata e offesa. Quando però Georg era presente, in ogni atto di mio fratello avevo lo spettacolo di ciò che sarebbe dovuto essere. Lui non si era legato a nessuno. Lui era lì solamente per lei. La serviva in ogni gesto, non poteva far nulla che non fosse ben fatto, perché era fatto per lei. Quando si allontanava, non vedeva che il momento di tornare da lei. Per lei era diventato medico e andava in ospedale a raccogliere esperienze utili alla sua malattia, e mi condannava come lei, istintivamente, senza che lei glielo avesse imposto. Il fratello minore era ciò che il maggiore sarebbe dovuto essere, incurante della propria vita, sempre pronto al servizio della mamma; e quando il fardello era diventato troppo pesante per lui si era addirittura ammalato come lei, della stessa malattia. Era andato in montagna a cercarvi l'aria e la vita, ma solamente per ritornare da lei e curarla di nuovo. Verso di lei non aveva un debito di gratitudine così grande come il mio, perché io ero in tutto figlio del suo spirito, ma io avevo fallito, mi ero lasciato persuadere a inseguire chi sa quali chimere, ero rimasto a Vienna, mi ero votato anima e corpo a Vienna, e poi, quando finalmente avevo ideato qualcosa che aveva valore, si scopriva che anche quello veniva da lei, era stata lei a dettarmelo, e non le chimere. Così tutta la triste vicenda non sarebbe stata necessaria, avrei potuto percorrere la mia strada senza staccarmi da lei e sarei giunto allo stesso risultato. Questa è la forza di chi sta per morire e lotta per difendersi da chi gli sopravvive; ed è bene che sia così, è bene che si affermi il diritto del più debole. Quelli che noi non riusciamo a proteggere devono poter rinfacciarci che non abbiamo fatto niente per la loro salvezza. Nel loro rimprovero è racchiusa la sfida che tramandano a noi, la divina illusione che potremmo riuscire a vincere la morte. Colui che ha mandato il serpente, il tentatore, lo richiama indietro. La pena è durata abbastanza. L'albero della vita è vostro. Voi non morirete. Rimane in me la sensazione di una lunga marcia dietro il feretro, come se avessimo attraversato a piedi l'intera città fino al Père Lachaise. Provavo un orgoglio mostruoso e volevo dirlo a tutti quelli che si aggiravano quel giorno in quella città. Ero pieno di fierezza, come se per lei fossi sceso in campo contro tutti. Per me nessuno era meglio di lei. Non riferivo quel "meglio" alla bontà, che non aveva mai avuto, ma a un'altra qualità, alla capacità di rimanere benché fosse morta. Accanto a me, a destra e a sinistra, camminavano i due fratelli. Non sentivo nessuna differenza tra loro e me: fintanto che camminavamo, eravamo una cosa sola, noi e basta. Tutti gli altri che seguivano il feretro erano troppo poco per me. Il corteo doveva estendersi per l'intera città, per quanto era lungo il tragitto. Maledicevo la cecità che ignorava chi veniva portato alla sepoltura. Il traffico non si fermava se non per lasciar sfilare il corteo, e quando eravamo passati era di nuovo lo stesso trambusto, come se il carro non trasportasse il feretro di qualcuno. Era un lungo percorso, e sempre, per tutta quanta la sua lunghezza, durò quel senso di sfida: come se dovessimo combattere per aprirci la strada attraverso quello sterminato numero di persone. Come se, in onore di lei, cadessero vittime a destra e a sinistra; e nessuna bastava mai e nessuna poteva saziare le pretese di lei. E" la lunghezza del cammino a giustificare il funerale. "Guardatela! Eccola! Lo sapevate? Sapete chi è chiuso lì dentro? E" lei, è la vita. Senza di lei nulla esiste. Senza di lei crolleranno le vostre case e si rattrappiranno i vostri corpi". E" ciò che ancora ricordo di quel corteo. Mi vedo camminare, mi vedo sfidare, con la fronte di lei, la città di Parigi. Sento accanto a me i due fratelli. Non so come Georg abbia fatto tutta quella strada. Sono stato io a sorreggerlo? Chi lo ha sorretto? Lo sosteneva il medesimo orgoglio? Lungo il tragitto non vedo le facce degli altri, nemmeno una, e non so chi c'era. Con odio, prima di uscire, avevo assistito anch'io alla chiusura della bara, con le viti che entravano nel legno, e fintanto che lei rimase nella casa era come se le avessero usato violenza. Durante la lunga marcia non provavo nulla di simile, il feretro era diventato lei stessa, niente mi separava dall'ammirazione per lei; e così dev'essere portata alla tomba una persona come lei, perché la si possa ammirare incontaminata. Era il medesimo sentimento che non si affievoliva, aveva sempre la stessa forza, dev'essere durato per due o tre ore. E in esso non era alcuna traccia di rassegnazione, forse neanche di dolore: come si sarebbe potuto conciliare con quell'orgoglio furioso? Mi sarei battuto per lei, avrei potuto uccidere. Ero pronto a tutto. Non era paralisi, era sfida. Con la sua fronte io le aprivo la strada attraverso la città, uomini barcollanti da ogni parte, e aspettavo l'offesa che mi obbligasse a scendere in lizza per lei. Voleva star solo per parlare con lei. Per alcuni giorni rimasi vicino a Georg nel timore che si facesse del male. Poi mi pregò di lasciarlo solo due o tre giorni, per stare con lei: era ciò che desiderava, per sé non chiedeva altro. Mi fidai di lui e ritornai il terzo giorno. Non voleva lasciare la casa in cui lei era stata malata. Si sedeva sulla sedia sulla quale aveva trascorso le serate accanto al letto e continuava a parlare. Per lui, fintanto che diceva le vecchie parole, lei era ancora in vita. Non voleva ammettere che non potesse più udirlo. La voce della mamma era diventata così fievole, non era nemmeno un soffio, ma lui la udiva e continuava a parlare. E poiché lei voleva sempre sapere tutto, le raccontava della sua giornata, della gente, di insegnanti, di amici, di passanti per la strada. Raccontava come allora, come quando ritornava dal lavoro; adesso non andava più in nessun posto e tuttavia aveva da raccontare. Inventava per lei, ma non se ne faceva un rimprovero, e infatti ogni invenzione era lamento, un sommesso, monotono, incessante lamento, poiché forse tra poco lei non avrebbe più udito. Lui voleva che nulla finisse, tutti i gesti, tutte le incombenze continuavano sotto forma di parole. Le sue parole la svegliavano, e lei che era morta soffocata aveva di nuovo il respiro. La voce era intima e sommessa, come allora, quando lui la scongiurava di respirare. Non piangeva; per non perdere uno solo dei momenti di lei; quando era seduto lì, su quella sedia, dove l'aveva davanti agli occhi, non si permetteva nulla che potesse degenerare per lei in una perdita. L'evocazione non finiva mai, io udivo quella voce che non avevo mai conosciuto, pura e alta come quella di un evangelista: non avrei dovuto udirla, perché lui voleva star solo, ma la udivo, perché ero preoccupato e mi domandavo se potevo lasciarlo solo, come lui desiderava, e saggiavo a lungo quella voce prima di decidermi: mi è rimasta nell'orecchio per tutti questi anni. Come si saggia una voce, che cosa non si riesce più a trovarvi, che cosa può ispirare fiducia. Si ode il parlare sommesso alla morta che lui non abbandonerà mai, pur senza seguirla; alla quale lui parla come se avesse ancora in sé tutta la forza per trattenerla, e questa forza appartiene a lei, e lui la dà a lei, lei deve sentirlo. Si sta in ascolto come se lui le cantasse qualcosa sottovoce, non di sé, nessun lamento, solo di lei, soltanto lei ha sofferto, soltanto lei può lamentarsi, ma lui la consola e la evoca e le promette sempre di nuovo che lei è ancora lì, lei sola, con lui solo, nessun altro, ogni persona la disturba, perciò lui vuole che io lo lasci solo con lei, due o tre giorni, e sebbene sia sotto terra lei è lì, distesa dove è sempre stata durante la malattia, e lui va a prenderla con le parole e lei non può abbandonarlo. Fine