elias cannetti. il gioco degli occhi storia di una vita (1931

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elias cannetti. il gioco degli occhi storia di una vita (1931
elias cannetti.
il gioco degli occhi
storia di una vita (1931-1937)
titolo originale:
das augenspiel
lebensgeschichte 1931-1937
traduzione di gilberto forti
biblioteca adelphi
::::::::::::::::::::
copyright 1985
carl hanser verlag
münchenwien
copyright 1985
adelphi edizioni s" p'à
milano
adelphi edizioni
All'inizio di questo libro, il terzo della sua autobiografia,
Canetti ci appare circondato dai relitti fumanti del rogo in cui
sono stati distrutti i libri di Kien, il protagonista di Auto da fé.
Attorno a sé, vede il deserto e un'incombente rovina. Poi, a poco a
poco, la scena ricomincia a popolarsi, e le figure che vi si
mostrano sono memorabili. Innanzitutto Hermann Broch, che ci viene
incontro come "un uccello, grande e bellissimo, ma con le ali
mozze". Poi Hermann Scherchen, l'infaticabile direttore
d'orchestra "sempre alla ricerca del nuovo". Poi Anna Mahler,
figlia del compositore, con la quale Canetti intreccia un
complesso rapporto amoroso. Poi lo scultore Fritz Wotruba,
irruento e selvaggio, come "una pantera nera che si nutrisse di
pietra". Infine Musil, "sempre in armi, pronto alla difesa e
all'attacco", nel suo totale isolamento; e Alban Berg, che si
espone al mondo nella sua totale gentilezza d'animo, mentre un
lieve cenno di ironia gli sfiora la bocca. E, ogni volta, in
questi ritratti in movimento, avvertiamo lo straordinario dono
fisiognomico di Canetti. Un gesto, un modo di respirare, un
accento, una reticenza, tutto diventa cifra di una figura,
emblema di un qualcosa di unico, che però svela un tratto della
natura di cui siamo fatti. Dietro a quel dono riconosciamo una
fonte inesauribile dello scrittore Canetti: la sua "passione per le
persone".
A mano a mano che si delineano i profili delle figure, risalta
anche, come una presenza palpabile, lo sfondo: Vienna. Di questa
città, vista nei suoi ultimi anni di grandezza, nessuno ha
saputo tracciare un ritratto altrettanto preciso e affascinante.
Come la Vienna dell'Uomo senza qualità, sull'orlo della prima
guerra mondiale, questa di Canetti, negli anni che precedono
l'annessione nazista, è un sistema di orbite planetarie, dove
conducono esistenze parallele alcune forme pure ed estreme del
vero e del falso. Per Canetti, il vero erano sei o sette persone
che "seguivano una propria strada e non se ne lasciavano distogliere
da nessuno". Il falso era un fitto "gracidio di rane", che
proveniva da un mondo culturale pieno di vanità e di
sapienza mondana, prodigiosamente abile nel giocare le sue
carte e insieme inconsistente nel suo ultimo fondo. In questi
anni, Canetti attraversa tutte queste orbite incompatibili e qui
le descrive con la trascinante immediatezza del romanziere. Ma il
vero centro di questo sistema, il suo Sole, è una singola persona,
il dottor Sonne, che vuole dire appunto "sole". Osservato per lungo
tempo ai tavoli del Café Museum, poi conosciuto e ammirato,
quest'uomo che "parlava come Musil scriveva" diventa a poco a poco
il centro di gravità nella vita di Canetti, un'ombra benefica, un
"invisibile" Sarastro. A differenza dei tanti che si gonfiano e
che si agitano, Sonne non ha, apparentemente, un'opera a cui
dedicarsi e non si lascia prendere dall'eccitazione. Parla di
tutto fuorché di sé, e ogni volta la sua parola illumina quella
singola cosa che cade sotto il suo sguardo. In una città
sonnambolica e straparlante, è colui che veglia, come la luce
discreta e solitaria dietro una finestra, di notte. Col
personaggio di Sonne, Canetti ha svelato uno dei suoi segreti e
costruito una grande figura romanzesca. Ma non soltanto questo: ha
trovato l'occulto punto di equilibrio da cui osservare i rotanti
astri viennesi, che solo da quel punto diventano pienamente
percepibili.
Elias Canetti, premio Nobel 1981 per la letteratura, è nato nel
1905 a Rustschuk (Bulgaria) da una famiglia ebraica di origine
spagnola, ed è vissuto lungamente a Vienna e poi a Londra e
Zurigo. Presso Adelphi sono in corso di pubblicazione le sue
opere complete.
a hera canetti
Parte prima - Nozze
Büchner nel deserto
"Kant prende fuoco" (1) - questo
era allora il titolo del romanzo - aveva fatto il deserto dentro
di me. L'incendio che aveva distrutto i libri era qualcosa che
non potevo perdonarmi. Non credo che fosse rimasto in me qualche
rammarico per la sorte di Kant (colui che poi sarebbe diventato
Kien). Durante tutta la stesura del libro Kant era stato talmente
bistrattato e io mi ero talmente tormentato per reprimere ogni
compassione verso di lui, per non lasciare in me neppure la minima
traccia di compassione, che dal punto di vista dell'autore il
mettere fine alla sua esistenza era piuttosto una liberazione.
Ma per questa liberazione erano stati coinvolti i libri, e il
fatto che essi fossero finiti in fiamme lo sentivo come se fosse
accaduto a me stesso. Mi sembrava di aver sacrificato non soltanto
i miei libri personali, ma quelli del mondo intero, perché la
biblioteca del sinologo conteneva tutto ciò che aveva qualche
valore per il mondo, i libri di tutte le religioni, quelli di
tutti i pensatori, quelli delle letterature orientali, quelli
delle letterature occidentali, solo che avessero conservato
anche un minimo di vita. Il fuoco aveva distrutto tutto questo,
io lo avevo permesso senza fare neppure un tentativo di
salvare qualcosa, e adesso rimaneva un deserto, non c'era
nient'altro che il deserto, e io ne portavo la colpa. Perché ciò
che avviene in un libro simile non è mero gioco, è una realtà di
cui si deve rispondere, e non tanto di fronte alle critiche
esterne quanto davanti a se stessi; e se anche si può essere
costretti a scrivere cose simili dall'angoscia più grande, resta pur
sempre da riflettere, da domandarsi se con esse non si affretta
proprio ciò che si paventa così intensamente.
Il senso della rovina era ormai annidato in me, e non potevo
liberarmene. Aveva cominciato a imprimersi sette anni prima,
attraverso Gli ultimi giorni dell'umanità, ma ora aveva assunto
una forma molto personale che scaturiva dalle costanti della mia
vita: dal fuoco, di cui il 15 luglio 1927 avevo scoperto la
relazione con la massa assistendo all'incendio del Palazzo di
Giustizia di Vienna; e dai libri, che costituivano la mia
frequentazione quotidiana. Sebbene il protagonista del romanzo
fosse diverso da me per molti aspetti, ciò che io gli avevo
prestato era così essenziale che non potevo riprendermelo intatto,
impunemente, dopo che lui aveva raggiunto il suo scopo.
Il deserto che mi ero creato con le mie mani cominciò a ricoprire
ogni cosa. La minaccia che incombeva sul mondo in cui si viveva non
mi era mai sembrata così pesante come allora, dopo la rovina di
Kien. L'inquietudine in cui ricaddi somigliava a quella dei
giorni in cui avevo abbozzato il progetto della "Comédie humaine
dei folli", con la differenza che nel frattempo era accaduto
qualcosa di decisivo e io mi sentivo colpevole. Era un'inquietudine
che non ignorava la propria causa. Di notte, ma anche di giorno,
percorrevo a passi veloci le stesse strade. Neanche lontanamente
potevo più pensare di dedicarmi a un altro romanzo o a un libro
della serie che una volta avevo progettato: il progetto gigantesco
era rimasto soffocato nel fumo del rogo dei libri, senza rimpianto,
e al suo posto, dovunque mi trovassi, non riuscivo ormai a vedere più
nulla che non fosse minacciato da una catastrofe che poteva
sopravvenire da un momento all'altro.
Ogni conversazione di cui, passando, coglievo al volo qualche
frammento mi sembrava l'ultima. Sotto l'imperio di una forza
terribile, ineluttabile, accadeva ciò che doveva accadere negli
ultimi momenti. Ma ciò che accadeva alle vittime future si
ricollegava nel modo più stretto al loro stesso comportamento.
Erano state loro a mettersi nella situazione dalla quale non
c'era scampo. Si erano sforzate in ogni e più bizzarra maniera di
essere tali da meritare la propria fine. Ogni volta che ascoltavo una
conversazione, i due interlocutori mi apparivano tanto
colpevoli quanto lo ero io stesso da quando avevo attizzato quel
fuoco. Ma mentre questa colpa compenetrava ogni cosa come un
etere tutto speciale, senza risparmiare nulla, per il resto gli
uomini rimanevano esattamente quelli che erano. Conservavano il
loro accento e il loro aspetto, le situazioni in cui si trovavano
erano inconfondibilmente le loro proprie, non dipendevano da
colui che le osservava e le registrava. Questi si limitava a dare ad
esse una direzione e a caricarle della propria paura come di un
carburante. Ognuna delle scene a cui assisteva col fiato sospeso
e che registrava con la passione dell'osservatore, in cui l'osservare
è diventato l'unico dei sensi, si concludeva con la rovina.
Egli le annotava precipitosamente e in caratteri
giganteschi, come graffiti sui muri di una nuova Pompei. Era come la
preparazione a un terremoto o a un'eruzione vulcanica:
qualcuno si rende conto che sta per arrivare, molto presto,
inevitabile, e annota ciò che è accaduto prima, ciò che gli
uomini hanno fatto prima, divisi dal loro operare e dalle
circostanze, ignorando l'approssimarsi del loro destino, inalando col
loro respiro quotidiano l'atmosfera dell'asfissia, e proprio per
questo, prima ancora che tutto sia davvero cominciato,
respirando in una maniera un poco più ostinata e febbrile. Io
buttavo sulla carta una scena dopo l'altra, e ciascuna era
autonoma, nessuna era legata all'altra, ma ciascuna aveva una
conclusione violenta e solo da questa era legata all'altra; e se ora
esamino ciò che di esse mi è rimasto nella memoria, mi
sembrano come scaturite dai bombardamenti notturni della guerra
mondiale che stava per venire.
Una scena dopo l'altra, ed erano molte, scritte come di corsa,
con una furia ossessiva, e ciascuna portava alla rovina, e subito
dopo cominciava
una scena nuova, con altre persone, e non aveva nulla in comune
con la precedente se non la meritata rovina in cui sfociava. Era
come un tribunale cui non si poteva sfuggire, che inglobava
tutto; e la condanna più dura era inflitta a chi pretendeva di
saperne più degli altri. Poiché colui che voleva evitarlo lo
portava con sé. Era lui che capiva la mancanza d'amore di quelle
persone. Egli le sfiorava passando, le vedeva e già le aveva lasciate
indietro, udiva il suono delle loro voci, che non gli usciva più
dall'orecchio, lo trasmetteva alle altre che erano altrettanto prive
d'amore, e quando la testa minacciava di scoppiargli per
l'accumularsi delle voci dell'egoismo, allora si sentiva
costretto a mettere sulla carta le più incalzanti.
In quelle settimane la cosa che mi tormentava di più era la mia
stanza nella Hagenberggasse. Da oltre un anno convivevo con le
riproduzioni della pala di Isenheim, che mi erano penetrate
nel sangue con gli spietati particolari della crocifissione.
Finché ero occupato a scrivere il romanzo mi sembrava che
fossero al posto giusto, come un aculeo insistente mi pungolavano
sempre nella stessa direzione. Erano ciò che io volevo sopportare,
non mi ci assuefacevo, non le perdevo mai di vista, si
trasformavano in qualcosa che apparentemente non aveva niente in
comune con loro: chi potrebbe essere così temerario e così
mentecatto da paragonare le sofferenze del sinologo con quelle
del Cristo? Eppure si era stabilito come un legame tra le
riproduzioni alle pareti e i capitoli del libro. Quelle immagini mi
erano diventate così necessarie che non le avrei mai
sostituite con nient'altro. Non valeva a dissuadermi neanche il
raccapriccio delle poche persone che venivano a trovarmi.
Ma quando le fiamme ebbero divorato la biblioteca e il sinologo,
avvenne
uno strano cambiamento, qualcosa che non mi ero aspettato.
Grünewald ricuperò tutta intera la sua forza. Non appena smisi di
lavorare al romanzo il pittore tornò ad essere lì soltanto per se
stesso, e lui solo rimase operante nel deserto che io avevo
creato. Quando rincasavo, la vista delle pareti della mia stanza
mi riempiva di paura. Tutto ciò che di minaccioso io sentivo
prendeva nuovo vigore in Grünewald.
In quei giorni neanche la lettura poteva soccorrermi. Non solo
avevo perduto il mio diritto ai libri perché li avevo sacrificati
in nome di un romanzo, ma anche quando mi costringevo a superare
questo senso di colpa e allungavo la mano per prenderne uno,
come se ci fosse ancora, come se il fuoco non l'avesse bruciato e
annientato, quando mi costringevo anche a leggerlo, subito ero
preso dal disgusto, e il disgusto era tanto più forte per i libri che
conoscevo meglio, per quelli che amavo da più tempo. Ricordo la
sera in cui la nausea fu causata da Stendhal, che pure mi aveva
stimolato al lavoro per un anno, ogni giorno. Lasciai cadere il
libro in un impeto di collera, e non sul tavolo, ma sul
pavimento, ed ero così disperato per la delusione provata che
non lo raccattai neppure ma lo lasciai dov'era. Un altro giorno mi
venne l'idea assurda di provare con Gogol", e questa volta perfino
Il cappotto mi parve così insulso e arbitrario che mi domandai che
cosa potevo aver trovato di tanto eccitante in quella storia.
Nessuna delle cose care che mi avevano formato poteva aiutarmi.
Forse con l'incendio dei libri avevo davvero distrutto tutto il
passato. In apparenza i libri erano ancora lì, ma il loro
contenuto era bruciato, in me non ne era rimasto più niente, e ogni
tentativo di rianimare le ceneri provocava collera e resistenza.
Dopo alcuni penosi tentativi, tutti falliti, non presi più in mano
nulla. La libreria, con i volumi stessi che avevo letto infinite
volte, rimase intatta. Era come se addirittura i libri non ci fossero
più: io non li vedevo nemmeno, non li cercavo, e il deserto intorno
a me era diventato totale.
Poi, una notte, in una condizione di spirito che non poteva
essere più sconsolata, trovai la salvezza in qualcosa di
sconosciuto, qualcosa che era lì già da tempo ma non avevo mai
toccato. Era un libro di Büchner, alto, stampato a grossi
caratteri, rilegato in tela gialla, collocato nello scaffale in
modo tale che non si poteva non vederlo, accanto a quattro volumi
delle opere di Kleist, nella stessa edizione, di cui ogni singola
lettera mi era familiare. Sembrerà incredibile, ma non avevo mai
letto Büchner. Sapevo benissimo quanto fosse importante, e
probabilmente sapevo anche che per me avrebbe avuto ancora molta
importanza. Potevano essere passati due anni da quando avevo
messo gli occhi su quel volume nella libreria Vienna della
Bognergasse, l'avevo comprato, portato a casa e collocato accanto
alle opere di Kleist.
Tra le cose essenziali che si preparano dentro di noi vi sono gli
incontri rinviati. Può trattarsi di luoghi e di uomini, di quadri
come di libri. Vi sono città per le quali provo un'attrazione
così forte come se fossi predestinato a trascorrervi una
vita intera fin dall'inizio. Con mille astuzie evito di andarvi, e
ogni volta che si presenta l'occasione di visitarle e vi
rinuncio, sento aumentare a tal segno la loro importanza che si
potrebbe quasi pensare che io sono ancora al mondo soltanto per
quelle città e che sarei già scomparso da un pezzo se non ci
fossero loro che continuano ad aspettarmi. Vi sono persone di
cui mi piace sentir parlare, e allora ascolto quanto più è
possibile e con tale avidità che si potrebbe quasi pensare che in
fondo so di loro più di quanto ne sappiano esse stesse - ma evito
di guardare una loro fotografia e mi sottraggo a ogni raffigurazione
visiva, come se un divieto particolare e legittimo impedisse di
conoscere la loro faccia. Vi sono anche persone che mi incontrano
per anni sul medesimo percorso, che mi danno motivo di riflettere e
mi appaiono come enigmi di cui sono chiamato a trovare la
soluzione, e tuttavia io non rivolgo loro la parola, proseguo in
silenzio per la mia strada, come esse fanno con me, e tutt'e due
ci scambiamo sguardi interrogativi, tutt'e due teniamo le labbra
ben chiuse: io penso a quello che sarà il nostro primo colloquio e
mi eccito all'idea di tutte le cose inaspettate che scoprirò
allora. E infine vi sono persone che amo da anni senza che esse
possano averne il minimo sospetto, e intanto io divento sempre più
vecchio, e ormai deve apparire come un'assurda illusione l'idea che
io glielo dica mai, sebbene io viva sempre nell'attesa di questo
momento stupendo. Senza questo minuzioso prepararmi al futuro non
sarei capace di vivere, e per me, se mi studio attentamente, questi
preparativi non sono meno importanti delle improvvise sorprese che
arrivano come dal nulla e lasciano senza parola.
Non vorrei nominare i libri ai quali continuo ancora oggi a
prepararmi. La lista comprende alcune delle opere più celebri
della letteratura mondiale, opere del cui valore non potrei
dubitare perché hanno avuto in passato il consenso di tutti coloro
le cui opinioni sono state per me determinanti. E" evidente che
l'imbattersi in uno di tali libri dopo vent'anni di attesa diventa
qualcosa di sconvolgente: forse solo così è possibile arrivare a
quelle resurrezioni spirituali che ti preservano dalle
conseguenze della routine e della decadenza. Allora, in ogni
modo, si dava il caso che io, a ventisei anni, conoscessi da
tempo il nome di Büchner e che da due anni avessi in casa un volume
piuttosto appariscente con le sue opere.
Una notte, in un momento di estrema disperazione - ero sicuro
che non avrei più scritto una riga, ero sicuro che non avrei più
potuto leggere una riga -, allungai la mano verso il volume giallo
e lo aprii a caso: era una scena del Wozzeck (a quel tempo si
usava ancora questa grafia), esattamente quella in cui il dottore
parla a Wozzeck. Fu come se il fulmine mi avesse colpito. Lessi
quella scena, tutte le altre del frammento, rilessi l'intero
frammento più volte, non so quante, ma dovettero essere innumerevoli
perché lessi tutta la notte, non lessi nient'altro nel volume
giallo, sempre ricominciando dal principio il Wozzeck, ed ero in un
tale stato di eccitazione che uscii di casa prima delle sei del
mattino e corsi giù alla ferrovia urbana. Lì presi il primo
treno che portava in città, mi precipitai nella Ferdinandstrasse
e svegliai Veza dal sonno.
Alla porta non c'era la catena, e io avevo la chiave
dell'appartamento. Avevamo deciso così per il caso che
un'inquietudine improvvisa mi spingesse fuori di casa di buon
mattino, ma il nostro amore resisteva già da sei anni e non era mai
accaduto niente di simile. Se adesso accadeva per la prima volta,
sotto l'effetto di Büchner, Veza non poteva non esserne allarmata.
Veza aveva respirato di sollievo quando si era concluso l'anno
ascetico dedicato al romanzo, e forse nessun lettore, in seguito,
ha provato un uguale senso di liberazione allorché il lungo e
magro sinologo muore tra le fiamme. Veza aveva temuto nuove svolte,
una ripresa e un proseguimento della vicenda. Prima di scrivere
l'ultimo capitolo, "Il gallo rosso", mi ero concesso qualche
settimana di pausa, e Veza aveva male interpretato
quell'indugio come un mio dubbio sulla conclusione del romanzo.
Immaginava che Georges, nel viaggio di ritorno, fosse preso da
scrupoli improvvisi e si rendesse conto all'ultimo momento, ma
ancora in tempo, delle vere condizioni di spirito del fratello:
come aveva potuto abbandonarlo così! Alla prima stazione scendeva dal
treno e ripartiva in senso inverso. Era di nuovo davanti alla casa di
Kien e ne forzava l'ingresso. Senza tanti complimenti lo
impacchettava e se lo portava a Parigi per farne uno dei suoi
pazienti. Un paziente insolito, certamente, che si opponeva al
fratello con tutte le forze, ma ogni resistenza era inutile, e a
poco a poco anche lui trovava in Georges il suo padrone.
Veza sospettava che mi stuzzicasse l'idea di far
proseguire, in quella nuova situazione, la lotta tra i due
fratelli, il loro dialogo occulto che si era avviato in un lungo
capitolo senza tuttavia esaurirsi. Alla notizia che finalmente "Il
gallo rosso"
era scritto, che il sinologo era riuscito nel suo intento, Veza
aveva reagito dapprima con incredulità. Pensava che io volessi
placarla, perché mi erano ben noti i suoi dubbi sul mio modo di
vivere in tutto quel periodo. Nella terza parte del romanzo c'erano
molte cose che le erano penetrate fin nelle ossa, e Veza si era
messa in testa che quel frugare senza fine nella mania di
persecuzione del sinologo non poteva non avere effetti perniciosi
sul mio stesso stato mentale. Nessuna meraviglia, dunque,
se Veza aveva respirato di sollievo ascoltando la lettura
dell'ultimo capitolo; e mentre per me cominciava il periodo
peggiore, quello che ho chiamato il "tempo del deserto", lei
avrebbe voluto credere che il peggio era passato.
Ma si accorse che proprio adesso mi tenevo alla larga da lei come
da tutti gli altri, e benché in verità, per il momento, non facessi
nulla di particolare, non trovavo tempo né per lei né per i pochi
amici. Quando poi ci incontravamo, ero taciturno e imbronciato,
mentre tra noi non c'era mai stato questo tipo di silenzio. Una
volta Veza perse talmente il controllo da dire: "Da quando è morto,
quel tuo uomo dei libri ti è entrato nel sangue, e tu sei come lui. E"
il tuo modo di prendere il lutto per la sua morte". Veza aveva con
me una pazienza infinita, ma io non le perdonavo il senso di
liberazione che provava per la fine del sinologo. E quando una
volta mi disse: "Peccato che la tua Therese non sia una vedova
indiana, altrimenti avrebbe dovuto buttarsi nel fuoco anche lei",
io ribattei con rabbia: "Lui aveva amici migliori di una donna,
aveva i suoi libri, che conoscevano il loro dovere e sono bruciati
con lui".
Da allora Veza si aspettava che mi facessi vivo
improvvisamente, una notte o una mattina, con la notizia che
temeva più d'ogni altra: che cioè avessi cambiato parere
sull'ultimo capitolo e lo avessi cancellato, anche perché non era
scritto nello stesso stile del resto del libro. Così Kant
ritornava in vita e tutto ricominciava da capo, come se il
romanzo continuasse in un secondo volume, ciò che mi avrebbe
tenuto occupato almeno per un altro anno.
Veza si spaventò molto quando la svegliai dal sonno in quel
mattino
büchneriano. "Ti meravigli che io venga così presto? Finora non è
mai successo". "No," disse lei "ti aspettavo"; e già pensava
disperata al modo di distogliermi dal dare un seguito al romanzo.
Ma io attaccai subito con Büchner. Conosceva il Wozzeck?
Naturalmente: chi non lo conosceva? Lo disse con impazienza,
aspettando il peggio, proprio quello che secondo lei mi stava
veramente a cuore. Nel tono della sua risposta c'era qualcosa di
sprezzante, e io mi sentii offeso per Büchner.
"Ma come? Tu tratti il Wozzeck come una cosa da niente?".
La mia reazione fu così minacciosa e ostile che Veza capì
all'improvviso di che cosa si trattava.
"Chi? Io? Ma che cosa credi? Per me è il dramma più grande di
tutta la letteratura tedesca".
Non credevo alle mie orecchie, e dissi così per dire: "Però è
soltanto un frammento!".
"Frammento! Frammento! Lo chiami un frammento? Quello che
manca è ancora meglio di quello che c'è negli altri drammi, nei
migliori. Bisognerebbe averne tanti, di frammenti così".
"Ma tu non mi hai mai parlato del Wozzeck. E" molto che conosci
Büchner?".
"Lo conoscevo prima di conoscere te. L'ho letto piuttosto
presto. Al tempo in cui mi sono imbattuta nei diari di Hebbel e in
Lichtenberg".
"Ma hai sempre taciuto! I brani di Hebbel e di
Lichtenberg me li hai mostrati spesso, ma del Wozzeck mai
una parola. Si può sapere perché? Perché?".
"L'ho nascosto, addirittura. Il volume di Büchner non saresti
riuscito a trovarlo in casa mia".
"Ho passato tutta la notte a leggere il Wozzeck. A leggerlo
e a rileggerlo. Non volevo credere che esistesse qualcosa di
simile. Non ci credo ancora. Sono venuto a dirti quello che
meriti. Prima ho pensato che forse non lo conoscevi. Ma poi mi sono
reso conto che non era possibile. Con tutto il tuo amore per la
letteratura, come potevi non conoscerlo? E infatti lo conosci,
naturalmente. Ma me l'hai tenuto nascosto. Da sei anni parliamo di
tutte le cose meravigliose che ci sono. Büchner non l'hai nominato
una sola volta. E adesso vieni a dirmi che mi hai tenuto nascosto
il libro. Non è possibile. Conosco ogni angolo della tua stanza.
Dammi la prova! Mostramelo! Dove l'hai nascosto? E" un grosso
volume giallo. Non è così facile nasconderlo".
"Non è né grosso né giallo. E" un'edizione in carta India.
Adesso vedrai con i tuoi occhi".
Aprì l'armadio in cui custodiva i suoi libri più cari. Pensai
al momento in cui me l'aveva fatto vedere la prima volta. Ormai lo
conoscevo meglio delle mie tasche. E il Büchner era nascosto lì?
Veza tolse alcuni volumi di Victor Hugo. Dietro, schiacciata di
piatto contro il fondo dell'armadio, c'era l'edizione di
Büchner dell'InselVerlag. Veza mi porse il volume. A me non
piaceva vederlo in quel formato ridotto. Avevo ancora negli occhi i
grandi caratteri della notte, e ormai volevo averlo sempre davanti
con quegli stessi caratteri.
"Mi hai nascosto qualche altro libro?".
"No, questo è l'unico. Sapevo che non avresti mai tirato fuori un
libro di Victor Hugo, perché non t'interessa. Lì dietro, Büchner era
al sicuro. Del resto, proprio lui ha tradotto due drammi di Victor
Hugo". (2)
Me lo mostrò, e io, irritato, le restituii il volume.
"Ma perché, insomma? Perché me l'hai nascosto?".
"Dovresti essere contento di non averlo letto. Se no, credi
che saresti stato capace di scrivere qualcosa?
Büchner è anche il più moderno di tutti gli scrittori. Potrebbe
essere di oggi, solo che oggi nessuno è come lui. Non si può
prenderlo a modello. Si può solo vergognarsi e dire: "A che scopo
scrivere?". Si può solo tenere la bocca chiusa. Io non volevo che tu
tenessi la bocca chiusa. Io credo in te".
"Nonostante Büchner?".
"Di questo non voglio parlare, per il momento. Ci devono pur
essere cose che restano irraggiungibili. Ma l'irraggiungibile non
deve schiacciarci. Adesso che hai finito il romanzo, devi leggere
qualche altra cosa ancora. C'è un altro frammento di Büchner, un
racconto: Lenz. Leggilo subito!".
Mi sedetti e senza dire altro lessi il più meraviglioso brano di
prosa. Dopo la notte del Wozzeck spuntava il mattino del Lenz, senza
un attimo di sonno tra l'uno e l'altro. E io vidi crollare in
pezzi il mio romanzo: l'opera di cui ero stato così fiero non era
più che polvere e cenere.
Fu un duro colpo, ma salutare. Veza, dopo avere ascoltato
la lettura di tutti i capitoli di "Kant prende fuoco", mi giudicava
uno scrittore di teatro. Era vissuta nel timore che non trovassi
più la strada per uscire dal romanzo. Aveva visto come vi ero
rimasto irretito e quanto mi aveva coinvolto. Fosse quel romanzo o
un altro, uno nuovo, al quale potevo accingermi, Veza scopriva in
me la fatale inclinazione a imprese che si protraevano per
anni. Ricordava gli abbozzi per
una "Comédie humaine dei folli", quella serie di romanzi di
cui le avevo parlato spesso. La vista dello Stein
-hof dalla mia finestra, che all'inizio le aveva fatto tanta
impressione, non le piaceva più da un pezzo. Aveva la sensazione
che con la stesura del romanzo fosse ancora cresciuto il fascino che
gli invasati e gli anormali esercitavano su di me. Anche la mia
amicizia con Thomas Marek (3) la preoccupava. La mia
solidarietà con Marek era veemente e aggressiva, e una volta,
quando ero arrivato al punto di sostenere che quel giovane
paralitico contava più di tutti quelli che se ne vanno in giro ignari
e ingrati sulle loro gambe, lei mi aveva contraddetto rimproverandomi
la mia stravaganza.
Veza era davvero in ansia per me. Nel mio romanzo, nel capitolo
intitolato "Un manicomio", c'era una dichiarazione d'amore a
tutti coloro che passano per matti, e lei ne aveva tratto la
convinzione che io avessi varcato un confine pericoloso. La
tendenza all'isolamento, l'ammirazione per chiunque fosse
diverso, il desiderio di abbattere tutti i ponti tra noi e
una umanità inferiore - tutto questo le dava molto da pensare. A
proposito delle allucinazioni di certe persone di mia conoscenza mi
ero espresso con lei in termini ammirativi, come se fossero opere
d'arte perfette, e mi ero sforzato di ricostruire passo per passo
la genesi di una di quelle allucinazioni. Veza, anche per motivi
estetici, si era spesso mostrata infastidita dalla minuziosità
con cui avevo ricostruito un caso di mania di persecuzione, e io
usavo ribattere che non si poteva fare altrimenti, che ogni
particolare, ogni minimo passo aveva la sua importanza. Scendevo in
campo contro precedenti rappresentazioni della follia nella
letteratura e cercavo di dimostrarle quanto poco corrispondessero
alla realtà. Veza pensava che doveva pur essere possibile
rappresentare quelle situazioni in una forma condensata e quindi
ottenendo un'efficacia maggiore. Ma io obiettavo, nella maniera
più energica, che allora non veniva a galla la verità, bensì
l'autocompiacimento degli autori, la loro vanità di pavoni.
Bisognava finalmente decidersi a capire che la follia non ha niente
di spregevole, essendo un fenomeno pieno di significati e di
relazioni particolari che cambiano da un caso all'altro. Lei
negava tutto questo ed era pronta a difendere, contro la sua natura
e solo per il mio bene, le classificazioni dominanti nella
psichiatria. In questa sua difesa mostrava una certa propensione
per il concetto di "pazzia maniacodepressiva", mentre aveva
qualche riserva a proposito della "schizofrenia", che allora stava
diventando un concetto di moda.
Sapevo bene che Veza in realtà mirava soprattutto a
distogliermi da quel genere di romanzi. Io ero deciso,
ferocemente deciso, a non lasciarmi consigliare da nessuno,
neanche da lei, e contrapponevo come un'arma quello che
consideravo un romanzo riuscito. Anche se mi sentivo colpevole
come incendiario e soffrivo molto di questa colpa, ciò non
toglieva nulla alla qualità del romanzo, di cui ero fermamente
convinto. Sebbene, ora che l'avevo finito, tutto mi spingesse
verso il teatro drammatico, non potevo assolutamente escludere che
dopo un periodo di esaurimento mi sarei dedicato a un altro
romanzo, non meno lungo, che di nuovo avrebbe avuto per tema un
caso di follia.
Ma la notte in cui avevo scoperto il Wozzeck e la mattina
seguente in cui il Lenz mi aveva sorpreso in uno stato di eccitata
spossatezza, ebbero effetti decisivi. In poche pagine avevo
trovato tutto ciò che si poteva dire sulla peculiarità della
condizione di spirito di Lenz, e sarebbe stato terribile immaginare
tutto questo nella forma minuziosa di un romanzo. L'orgoglio e
la tracotanza mi avevano abbandonato. Non scrissi un altro romanzo,
e passarono mesi prima che ritrovassi la mia fiducia in "Kant
prende fuoco". Ma allora ero già tutto preso dal progetto di un
dramma: Nozze.
Se adesso dico che non avrei scritto Nozze senza la
folgorazione notturna del Wozzeck potrà sembrare sulle prime
un'esagerazione. Ma non posso aggirare la verità solo per evitare
questa impressione. Non devo farlo. Le visioni di rovina che
avevo allineato fino allora risentivano pur sempre dell'influsso di
Karl Kraus. Tutto ciò che accadeva, e accadeva sempre il peggio,
accadeva senza motivo e accadeva per giustapposizione, una cosa
accanto all'altra. Veniva captato da uno scrittore ed era messo
alla gogna, irriso. Era irriso dall'esterno, appunto da colui che
scriveva, e su tutte le scene dello sfacelo lui teneva alta la sua
frusta. La frusta non gli dava requie, lo incalzava continuamente,
e lui si fermava solo quando c'era qualcosa da frustare; ma non
appena la punizione era inflitta, la frusta tornava a incalzarlo.
In fondo accadeva sempre di nuovo la stessa cosa: gli uomini,
nelle loro faccende più quotidiane, pronunciavano le frasi
più banali stando ignari sull'orlo dell'abisso. Allora arrivava
la frusta, li spingeva giù, ed era lo stesso abisso quello in cui
cadevano tutti. Non c'era nulla che potesse salvarli
dall'abisso. Perché le loro frasi non cambiavano mai, erano
commisurate alla loro statura, e colui che aveva preso le loro misure
era sempre lo stesso, lo scrittore con la frusta.
Il Wozzeck mi aveva fatto scoprire una cosa per la quale trovai un
nome solo in seguito, quando la chiamai autoirrisione. Se si
esclude il protagonista, i personaggi che fanno l'impressione
più forte si presentano da sé. Il dottore e il tamburo
maggiore infieriscono su ciò che li circonda. Aggrediscono,
ma in modi così diversi che si esita a usare per entrambi la
stessa parola "aggressione". Eppure è un'aggressione, e come tale
agisce su Wozzeck. Le loro parole, che non sono intercambiabili,
si rivolgono contro Wozzeck e hanno le conseguenze più
terribili. Ma le hanno solo in quanto rappresentano se
stesse, e cioè il parlante, il quale, col proprio io, vibra
un perfido colpo, un colpo che non si può dimenticare e dal
quale lo si riconoscerebbe sempre e dappertutto.
I personaggi, come ho detto, si presentano da sé. Nessuno
li ha spinti avanti a frustate. Come se fosse la cosa più naturale
del mondo, si mettono alla gogna da sé, e in questo comportamento
c'è più irrisione che punizione. Stanno davanti a noi, comunque
siano, prima che su di loro sia stato pronunciato un giudizio
morale. Certo, si pensa ad essi con disgusto, ma al disgusto si
mescola la soddisfazione, perché si presentano senza immaginare
l'orrore che suscitano. C'è una specie di innocenza
nell'autoirrisione: non è stata ancora tesa una rete giuridica che
la riguardi, una rete che, se mai, potrà essere gettata su di essa
in seguito; ma nessun atto d'accusa, neanche quello del satirico
più violento, potrebbe avere il peso dell'autoirrisione, poiché
questa comprende anche lo spazio in cui un uomo esiste, anche il
suo ritmo, la sua paura, i suoi respiri.
E" giusto che a queste creature si conceda senza riserve il pieno
uso della parola "io" che il satirico puro non riconosce a nessuno,
tranne che a se stesso. La vitalità di questo "io" immediato, non
chiuso tra parentesi, è enorme. Questo "io" dice di sé più di
qualsiasi giudice. Per il giudicante quasi tutto è contenuto nella
terza persona, e perfino il discorso diretto, nel quale si dicono le
cose peggiori, è usurpato. Solo quando ricade nel suo io il giudice
è presente in tutta la terribilità degli atti che compie, ma allora
anche lui è diventato personaggio ed è lui, il giudicante, a
presentarsi ignaro nella sua autoirrisione.
Il capitano, il dottore, il reboante tamburo maggiore fanno la
loro apparizione come per forza spontanea. Nessuno ha prestato loro
la voce, essi dicono il proprio io, si scatenano tutti sulla
stessa persona, appunto Wozzeck, e affermano la propria
esistenza in quanto lo colpiscono. Egli serve a tutti e tre, è il
loro centro. Senza di lui non esisterebbero, ma Wozzeck lo ignora,
non meno di quei tre; e si potrebbe perfino sostenere che egli
trasmette ai suoi tormentatori il contagio della propria innocenza.
Essi non possono essere diversi da quello che sono, è nella natura
dell'autoirrisione comunicare questa impressione. La forza di
questi personaggi, di tutti i personaggi è la loro innocenza. Si
deve odiare il capitano, si deve odiare il dottore perché potrebbero
essere diversi, solo che lo volessero? Si deve sperare in una loro
conversione? Deve forse il dramma essere una scuola missionaria che
i personaggi frequenteranno fino a quando si lasceranno descrivere in
maniera diversa? Il satirico si aspetta dagli uomini che siano
diversi. Li frusta come se fossero scolaretti. Li prepara per
tribunali morali a cui essi dovranno forse rispondere un giorno. Sa
perfino come potrebbero essere migliori. Dove attinge questa
incrollabile sicurezza? Se non l'avesse, non potrebbe neppure
mettersi a scrivere. Tutto comincia perché lui è impavido
come Dio. Senza dirlo esplicitamente, il satirico è il
rappresentante di Dio e si sente a suo agio in questa veste. Non si
sofferma nemmeno un attimo a pensare che forse lui non è proprio
Dio. Dal momento che questa istanza esiste, l'istanza suprema, da
essa discende un potere di rappresentanza: si tratta solo di
conquistarlo.
Ma c'è anche un altro atteggiamento, totalmente diverso, che
si vota alle creature e non a Dio, un atteggiamento che
s'interessa alle creature in opposizione a Dio e forse arriva fino
al punto di prescindere interamente da lui per occuparsi solo delle
creature. Allora appare l'immutabilità delle creature, per quanto si
possa volerle diverse da quelle che sono. Con l'odio o con le pene
non si ottiene nulla dagli uomini. Gli uomini si accusano
presentandosi come sono, ma è la loro autoaccusa, non l'accusa di un
altro. La giustizia dello scrittore non può consistere nel
condannarli. Egli può individuare colui che è la loro vittima e
mostrare tutte le loro tracce su di lui come impronte digitali. Il
mondo pullula di tali vittime, ma sembra che la maggiore
difficoltà stia nel prendere una vittima e nel farne un
personaggio, nel farla parlare in modo che le tracce rimangano
riconoscibili e non si cancellino nelle accuse. Wozzeck è questo
personaggio, e il dramma ci fa vivere ciò che egli subisce di
volta in volta, e non c'è da aggiungere neanche una parola di
accusa. In lui sono riconoscibili le tracce delle autoirrisioni.
Quelli che si sono scatenati contro di lui sono davanti a noi, e
quando per lui è la fine essi rimangono in vita. Il frammento non
mostra come finisce Wozzeck: mostra ciò che egli fa, la sua
autoirrisione dopo quelle degli altri.
NOTE:
(1) In tedesco Kant fängt Feuer: era il titolo primitivo del
romanzo che Canetti aveva terminato nel 1931 e che pubblicò nel
1935 col titolo Die Blendung ("L'abbagliamento"). Per l'edizione
inglese del 1946 e per quella italiana del 1967 l'autore ritornò al
concetto del fuoco scegliendo il titolo Auto da fé. Alla genesi
del romanzo Canetti ha dedicato il saggio "Il mio primo libro:
Auto da fé nel volume La coscienza delle parole (Adelphi, Milano,
1984, pp" 327-344). Si veda anche il capitolo finale di Il frutto
del fuoco. Storia di una vita (1921-1931) (Adelphi, Milano, 1982)
?N" d'T"*.
(2) I due drammi tradotti da Büchner sono Lucrezia Borgia e Maria Tudor ?N" d'T"*
.
(3) Per l'amicizia di Canetti con Thomas Marek, un geniale
studente di filosofia paralizzato alle braccia e alle gambe, si
veda Il frutto del fuoco, ai capitoli "L'ammansimento", "Il
sostegno della famiglia" e "Passi falsi" ?N" d'T"*.
Occhio e respiro
I miei rapporti con Hermann Broch furono segnati, più di quanto
avvenga di solito, dalle circostanze del nostro primo incontro.
Io dovevo tenere una lettura del mio dramma Nozze nella casa di
Maria Lazar, una scrittrice viennese che entrambi conoscevamo.
C'erano alcuni invitati. Due di questi erano Ernst Fischer e sua
moglie Ruth, ma non so più chi fossero gli altri. Broch aveva
promesso di venire, tutti lo aspettavano, ma era in ritardo. Stavo
già per cominciare quando lo vidi arrivare, all'ultimo momento,
in compagnia di Brody, il suo editore. Ci fu appena il tempo per una
rapida presentazione: prima ancora che ci fossimo scambiati qualche
parola, diedi inizio alla lettura.
Maria Lazar aveva raccontato a Broch quanto io ammirassi I
sonnambuli, che avevo letto nell'estate di quel 1932. Lui non
conosceva niente di mio, né poteva, dal momento che niente avevo
pubblicato. Dopo l'impressione che avevo ricevuto dalla trilogia I
sonnambuli, e soprattutto da uno dei volumi, Huguenau, vedevo in
lui un grande scrittore, mentre io ero per lui un giovane
scrittore che lo ammirava. Poteva essere la metà di ottobre, e
avevo terminato Nozze sette od otto mesi prima. Avevo letto il
dramma ad alcuni amici, separatamente, ed erano amici che avevano una
certa fiducia in me. Non era mai accaduto che si trovassero insieme
in buon numero.
A Broch, e questo è il punto importante, capitò così di
ascoltare l'intero dramma in un colpo solo, in tutta la sua
violenza, e senza sapere niente di me. Io lessi con passione, i
personaggi presero vita e spicco a uno a
uno, ben definiti dalle loro maschere acustiche - in questo non
è più cambiato niente, in tanti anni che sono passati. Durò più di
due ore, e lessi tutto d'un fiato. L'atmosfera era densa, compatta:
oltre Veza e me ci sarà stata forse una dozzina di persone, ma la
loro presenza si faceva sentire come se il pubblico fosse ben più
numeroso.
Avevo Broch proprio davanti a me, e mi colpì il modo in cui
seguiva la lettura. La sua testa da uccello sembrava un po''
incassata tra le spalle. Notai i suoi occhi durante la scena del
portinaio Kokosch, l'ultima del prologo, quella che adesso mi è
cara più di tutte le altre. La battuta che la Kokosch morente
rivolge al marito: "Ehi tu, devo dirti una cosa", la battuta che è
costretta a ricominciare più volte e che non riesce a
terminare, segna per me il momento dell'incontro con gli occhi di
Broch. Se gli occhi potessero respirare, quelli avrebbero
trattenuto il fiato. Aspettavano che la frase fosse pronunciata
fino in fondo, e quegli attimi di sospensione e di disperati
tentativi erano riempiti dalle parole di Kokosch che raccontava la
fine di Sansone. Era una doppia lettura, e al dialogo ad alta voce,
che ormai non c'era più perché Kokosch non ascoltava le parole
della moribonda, era subentrato un dialogo sotterraneo, tra gli
occhi di Broch, che si erano concentrati sulla moribonda, e me, che
ricominciavo ogni volta quella battuta e mi facevo interrompere
dalle frasi bibliche del portinaio.
Questo accadeva nella prima mezz'ora della lettura. Poi venne il
dramma vero e proprio, che cominciava con una grande spudoratezza
della quale però non mi vergognavo affatto, allora, tanto mi
riusciva odiosa. Forse non avevo un'idea precisa del realismo di
quelle scene disgustose. Una fonte
era Karl Kraus, ma vi era stato anche un altro influsso: quello di
George Grosz, del quale avevo ammirato e detestato la cartella
dell'Ecce homo. Per la maggior parte si trattava di cose che avevo
udito con le mie orecchie.
Quando leggevo ad altri le squallide scene centrali non prestavo
mai attenzione a ciò che mi circondava. Era abbastanza naturale: a
un certo punto, sei come invasato e allora credi di librarti
nell'aria, trasportato da frasi volgari e terribili che non hanno
niente, assolutamente niente a che fare con te ma ti esaltano
sempre più, ti gonfiano a tal segno che cominci a volare sulle loro
ali - come uno sciamano, forse, sebbene a quel tempo non potessi
saperlo.
Ma quella sera le cose andarono diversamente. Durante tutta la
parte centrale del dramma sentii la presenza di Broch. Il suo
silenzio era più tangibile di quello degli altri. Broch si
tratteneva, così come si trattiene il respiro. Non sapevo quale
fosse esattamente il meccanismo, ma sentivo che aveva a che fare con
la respirazione, e credo di essermi reso conto, quella sera, che
Broch respirava in maniera diversa da tutti gli altri. Contro il
chiasso spaventoso che facevano i miei personaggi s'innalzava il suo
silenzio. Era un silenzio che aveva un che di corporeo ed era
voluto e manovrato da lui, un silenzio che si produceva da sé: oggi
so che dipendeva dal suo modo di respirare.
Nella terza parte del dramma, col crollo vero e proprio e con la
danza dei morti, non avvertii più nulla di ciò che mi accadeva
intorno. Trascinato dallo sforzo e dalla tensione, ero così preso
dal ritmo, che in quelle scene è l'elemento decisivo, da non
poter individuare le reazioni di questo o
quell'ascoltatore; e quando ebbi finito mi ero dimenticato
perfino della presenza di Broch. Avevo perso la nozione del
tempo, doveva essere successo qualcosa, e può darsi che fossi
tornato nella stanza in cui avevamo aspettato l'arrivo di Broch.
Fatto sta che egli mi rivolse la parola e disse che non avrebbe
scritto il suo dramma se avesse conosciuto Nozze. (Sembra che
proprio allora stesse lavorando a un dramma, e sarà stato quello che
fu poi rappresentato a Zurigo).
Disse altre frasi che preferisco non riportare, sebbene
rivelassero con quale acutezza era penetrato nella genesi del
dramma. Io non conoscevo ancora Broch, ma capivo che era scosso, che
c'era stata una vera partecipazione. Brody, il suo editore, si
limitò a un sorriso cerimonioso, un ghigno che non mi piacque
affatto. Per lui non era successo niente, forse lo avevano
irritato i furibondi attacchi alla borghesia, ma non voleva farlo
vedere e si nascondeva dietro la cerimoniosità. Ma forse Brody era
sempre così, non si lasciava mai scuotere. Non saprei dire che
cosa lo legasse veramente a Broch, ma non c'era dubbio che era suo
amico.
I due non si trattennero a lungo,
erano già attesi da qualche altra parte. Broch, sebbene fosse
arrivato in compagnia del suo editore e questa circostanza facesse
pensare a un certo sussiego, mi sembrò alla fine della lettura
un uomo assai fragile. Era una bellissima fragilità che
aveva il suo presupposto in un animo sensibile e dipendeva dagli
avvenimenti e dalle oscillazioni nei rapporti tra le persone. Ai
più sembrerà debolezza, ma io posso permettermi di chiamarla così
perché la considero un privilegio, anzi una virtù, quando arriva a
un tale grado di consapevolezza. Quando però sento parlare
della "debolezza" di Broch da persone dell'ambiente mercantile,
quello in cui egli era vissuto, o di altri ambienti simili, mi viene
una gran voglia di farle tacere con uno schiaffo.
Non mi riesce facile scrivere di Broch, perché non so come
rendergli giustizia. Dovrei ricordare la trepidazione con cui mi
avvicinai a lui, la corte impetuosa che gli feci fin dall'inizio
e alla quale cercava di sottrarsi, la cieca fiducia che mi faceva
apprezzare tutto di lui, la bellezza dei suoi occhi, in cui mi
sembrava di leggere tutto fuorché il calcolo: che cosa non ho visto
di nobile in lui, e con quanta ingenuità e leggerezza mi sono
lasciato andare a una specie di fanatismo senza nascondere la mia
immensa ignoranza! Per quanto avessi uno spirito aperto e ansioso di
sapere, questa ansia non aveva ancora dato i suoi frutti. Oggi, se
provo a misurare quello che ero, mi rendo conto che avevo imparato
ben poco, e addirittura nulla nel campo in cui Broch aveva una
preparazione particolare: la filosofia contemporanea. Aveva una
biblioteca principalmente filosofica e non rifuggiva, come me, dal
mondo dei concetti, ai quali era dedito come altri sono dediti ai
locali notturni.
Broch è stato il primo "debole" che ho incontrato. Non gli
interessava vincere e neanche prevalere e meno che mai mettersi in
mostra. Si guardava bene dall'enunciare grandi propositi,
perché gli ripugnava profondamente, mentre io non sapevo
pronunciare due frasi senza dire: "Ci scriverò sopra un libro" non riuscivo a esprimere un pensiero o forse soltanto
un'osservazione senza aggiungere subito: "Ci scriverò sopra un
libro". Ma la mia non era pura millanteria, perché avevo scritto un
lungo libro, "Kant prende fuoco", e il manoscritto era già pronto,
anche se pochi ne conoscevano l'esistenza, mentre mi ero prefisso
di dedicare la vita a un altro libro, per me molto più importante,
quello sulla massa, per il quale esistevano al momento
soltanto alcune esperienze, che però andavano molto in profondità,
e ampie e voraci letture che ad essa ritenevo collegate - mentre
in verità si riferivano a "tutto" non meno che alla massa. La mia
vita era dunque votata a una grande opera, e ne ero così convinto
che potevo dire senza la minima esitazione: "Certo, ci
vorranno decenni". Il fatto che io volessi includere tutto nei
miei propositi e nei miei progetti, questo programma così vasto
e inesauribile dovette sembrare a Broch il segno di una passione
autentica. Ciò che lo contrariava era il fanatismo crudele che
faceva dipendere il miglioramento dell'umanità da un intervento
punitivo, da un'autorità di cui io mi ero eletto tranquillamente
organo esecutivo. Questo era uno dei frutti dell'insegnamento di
Karl Kraus. Non avrei mai osato imitare Karl Kraus
consapevolmente, ma da lui avevo assorbito un'infinità di cose, e in
particolare, quando nell'inverno 1931-32 scrivevo Nozze, il suo
furore.
Con questo furore, che era diventato mio attraverso Nozze,
mi ero presentato a Broch la sera della lettura del dramma.
Lui se n'era lasciato soggiogare, ma non c'era niente altro in me
che potesse soggiogarlo. Per il resto, come si vide poi, se
accettò qualcosa di mio, lo fece alla sua maniera, in un modo che
compresi molto più tardi, soltanto dopo la sua morte: assimilando e
facendo propri gli impulsi di una volontà estranea dai quali non
sapeva difendersi altrimenti.
Broch cedeva sempre, e solo cedendo assimilava. Non era un
processo complicato, era la sua natura, e credo di aver visto giusto
collegando anche questo processo al suo modo di respirare. Ma tra
le innumerevoli cose che assimilava ce n'erano alcune troppo
prepotenti per lasciarsi conservare tranquillamente come in un
magazzino. Questi elementi perturbatori, che lo colpivano come
fitte dolorose e che Broch condannava moralmente, si
trasformavano in seguito, presto o tardi, in sue iniziative
personali. Dopo l'emigrazione in America, quando decise di
occuparsi della psicologia delle masse, non poteva certamente
aver dimenticato i nostri colloqui su questo argomento. Ma il
contenuto delle mie osservazioni, la sostanza vera, non l'aveva
toccato in alcun modo. L'ignoranza dell'interlocutore, che non
sapeva colorare le proprie parole con nessuna delle terminologie
filosofiche dominanti, gli faceva trascurare del tutto il
contenuto del discorso, anche quando aveva una sua originalità. Ciò
che lo colpiva era l'energia dei propositi, la pretesa di
enunciare una nuova teoria che un giorno avrebbe preso forma; e
sebbene questa teoria non esistesse affatto - se non in qualche
gracile spunto - lui accoglieva quei propositi come un comando e
lasciava che quel comando fermentasse dentro di lui, come se a lui
fosse diretto. Se in sua presenza cominciavo a parlare del mio
progetto, lui captava una voce che gli diceva: "Fallo tu! ", ma non
capiva subito fino a che punto fosse un'imposizione e si congedava
da me con dentro il germe di un compito per lui che fiorì poi in
un altro ambiente ma non diede frutti.
Mi accorgo di anticipare molte cose e di scompigliare così la
chiara linea dei nostri rapporti; ma comunque siano cominciati,
adesso è inevitabile, dopo tanti decenni, che io veda le cose così
come andarono realmente tra noi già all'inizio, senza che nessuno
di noi lo sapesse, neanche lui.
Non di rado, nelle sue frettolose camminate, Broch veniva a
trovarci nella Ferdinandstrasse. Mi pareva di vedere in lui un
uccello, grande e bellissimo ma con le ali mozze. Sembrava che si
ricordasse di un tempo in cui poteva ancora volare. Non si era mai
riavuto da quella mutilazione, da ciò che gli era successo.
Avrei voluto fargli qualche domanda, ma allora non ne avevo il
coraggio. La sua particolarità di bloccarsi nel discorso traeva in
inganno, forse Broch avrebbe anche accettato di parlare di sé. Ma
prima di parlare rifletteva, e da lui non c'era da aspettarsi
qualcuna delle facili confessioni a cui mi avevano abituato tante
persone che conoscevo a Vienna. Avrebbe parlato senza riguardi per
se stesso, perché tendeva ad accusarsi. In lui non c'era traccia
di autocompiacimento, si apriva con molta insicurezza, ma era,
così mi sembrava, una insicurezza acquisita. Benché lo irritasse il
mio tono risoluto, era troppo riguardoso per darlo a vedere. Me ne
accorgevo, tuttavia, e quando lui se ne andava mi restava addosso
un senso di vergogna. Mi facevo dei rimproveri perché avevo
l'impressione di non riuscirgli simpatico. Broch avrebbe
voluto ispirarmi qualche dubbio su me stesso, forse educarmi
cautamente a dubitare di me, ma proprio non gli riusciva. Io lo
mettevo su un piedistallo, ero entusiasta dei Sonnambuli perché vi
aveva dimostrato una capacità che io non avevo. L'atmosfera, in
un'opera letteraria, non mi aveva mai interessato, pensavo che
fosse qualcosa da lasciare alla pittura. Ma in Broch l'atmosfera
era presente in un modo che non poteva lasciare insensibili. Era
una capacità che ammiravo, perché ammiravo tutto quello che mi era
negato: non mi faceva perdere di vista ciò che mi prefiggevo, ma
era meraviglioso scoprire che c'era qualcosa di totalmente diverso
che aveva un suo diritto di esistere e che attraverso la lettura
liberava da se stessi. Per uno scrittore queste trasformazioni
dovute alla lettura sono essenziali: egli può veramente ritornare a
se stesso e ritrovarsi solo se è stato trascinato via con violenza da
qualcun altro.
Broch portava subito nella Ferdinandstrasse ogni brano di prosa
che gli veniva pubblicato. Per lui aveva una particolare importanza
ciò che appariva nella "Frankfurter" e nella "Neue Rundschau".
Non avrei mai immaginato che tenesse tanto al mio giudizio. Quale
bisogno avesse di consenso lo compresi solo più tardi, alcuni anni
dopo la sua morte, quando furono pubblicate le sue lettere. Sebbene
lo irritasse il mio modo di parlare, così affermativo, accettava
volentieri un giudizio perentorio quando riguardava lui, e lo
citava addirittura nelle sue lettere ad altre persone.
A quel tempo avevo trovato una spiegazione quasi mitica alla
frettolosa andatura di Broch: lui, il grande uccello, non sapeva
rassegnarsi all'idea che gli avessero mozzato le ali. Non poteva più
ritrovare la libertà di quell'atmosfera, unica, in cui si librava
sopra tutti gli uomini. Ma in compenso, in mezzo agli uomini, non si
lasciava sfuggire uno solo di quelli che io chiamo campi di
respirazione. Altri scrittori facevano collezione di uomini, lui
raccoglieva i loro campi di respirazione, contenenti l'aria che
avevano inalato e poi espulso dai polmoni. Da questa aria
accumulata lui desumeva la loro natura, definiva gli uomini
attraverso i loro rispettivi campi di respirazione. A me sembrava
qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa in cui non mi ero mai
imbattuto. Sapevo di scrittori che si lasciavano guidare da ciò che
è visivo, di altri che si affidavano all'udito. Non avrei mai pensato
che uno scrittore potesse lasciarsi guidare dal suo modo di
respirare.
Broch era molto riservato e, come ho già detto, dava
un'impressione di insicurezza. Dovunque posasse lo sguardo,
risucchiava tutto in sé, non col ritmo di chi inghiotte ma con
quello di chi inspira. Non toccava, non urtava nulla, tutto
rimaneva com'era, immutabile, e conservava il proprio particolare
alone d'aria. Sembrava che Broch assorbisse le cose più disparate per
custodirle in sé. Diffidava dei discorsi troppo impetuosi, e per
quanto fossero animati da buone intenzioni vi fiutava il male.
Per lui nulla era di là del bene e del male; e il fatto che fin dal
primo momento, fin dalla prima frase assumesse un atteggiamento
responsabile e non se ne vergognasse, gli valse tutta la mia
ammirazione. Questo atteggiamento si rivelava anche nel ritegno con
cui dava un giudizio, in quello che io chiamai ben presto il suo
"bloccarsi".
Questo suo "bloccarsi" - e cioè la sua tendenza a chiudersi
in lunghi silenzi, lasciando però trasparire con quanta intensità
rifletteva - io lo spiegavo col desiderio di non affliggere
l'interlocutore, chiunque fosse. Soffriva a dover badare al
proprio interesse. Sapevo che apparteneva a una famiglia di
industriali e che suo padre era stato il proprietario della filanda
di Teesdorf. Broch vi aveva lavorato controvoglia perché desiderava
invece diventare un matematico. Alla morte del padre dovette
occuparsi di tutta l'azienda, non per il proprio tornaconto, ma
perché bisognava provvedere alla madre e agli altri membri della
famiglia. Continuò a studiare per una specie di sfida e in seguito
studiò anche filosofia. Quando lo conobbi, frequentava il seminario
di filosofia dell'Università di Vienna e ne parlava come di una cosa
molto seria. Intuivo che le origini mercantili avevano suscitato in
lui una reazione simile alla mia: un'avversione profonda che
ricorreva a ogni mezzo per opporre una barriera difensiva. E poiché
non poteva smettere di dedicarsi alla fabbrica paterna, neanche da
adulto, neanche nella maturità, aveva bisogno di difese
particolarmente efficaci. Le sue inclinazioni lo portavano
verso le scienze esatte, ed era disposto ad accettarle e a
subirle anche nella loro forma accademica. Io cercavo di
immaginarlo nella veste di studente, un uomo spiritualmente così
ricco e vivo. Se era tanto saggio da rimanere insicuro, come
poteva trovare sicurezza nei seminari? Gli interessava il dialogo,
ma poi si comportava come se fosse sempre lui a dover imparare,
mentre nella maggior parte dei casi non poteva essere così,
poiché saltava agli occhi la sua superiorità sugli
interlocutori. Da tutto questo desumevo che fosse la bontà
d'animo a trattenerlo dall'umiliare il suo prossimo.
Al Café Museum feci la conoscenza di Ea von Allesch, l'amica
di Broch. C'eravamo incontrati, io e lui, non so dove. Mi disse di
avere un appuntamento con Ea e di averle promesso di condurre
anche me. Mi sembrava vagamente impacciato, aveva un tono diverso
dal solito ed era arrivato molto in ritardo. "Ci sta aspettando da
un pezzo" disse. Affrettò l'andatura e alla fine superò la porta
girevole quasi volando e trascinandomi a rimorchio dentro il
locale. "Abbiamo fatto tardi" disse subito, quasi umilmente, prima
ancora di presentarmi. Poi disse il mio nome e aggiunse in un
tono neutro che non tradiva più nessuna preoccupazione: "E questa è
Ea Allesch".
Quel nome l'avevo già sentito da lui qualche volta, e mi era
sembrato strano, perfino enigmatico, sia il nome che il cognome.
Non avevo domandato a Broch da dove venisse quell""Ea", e neppure in seguito ho
voluto saperlo. Era una
donna non giovane, sulla cinquantina, aveva la testa di una lince,
ma di velluto, e i capelli rossicci. Era bella, e io pensai
quasi sbalordito quanto doveva essere stata bella. La voce era
morbida e sommessa, ma così insistente da ispirare subito un po''
di paura. Era come se lei, senza accorgersene, ti avesse messo gli
artigli addosso. Ma dava quell'impressione solo perché si sentiva in
dovere di contraddire Broch a ogni frase, inesorabilmente. Domandò
dove ci eravamo attardati e disse che era lì ad aspettare da un'ora,
ormai convinta che non saremmo più venuti. Broch le spiegò dove
eravamo stati; ma sebbene mi chiamasse in causa, come se io fossi lì
per testimoniare, lei
aveva l'aria di non credere una parola: non fece alcuna obiezione,
ma non si rassegnava; e anche quando eravamo seduti lì da un bel
po', tornava alla carica con una frase in cui il suo dubbio era ormai
consolidato, come se fosse già diventato storia e lei volesse
soltanto far notare che lo aggiungeva a tutti gli altri suoi dubbi.
Cominciò tra noi una conversazione letteraria. Broch, per
deviare il discorso dal nostro ritardo, accennò alla serata in cui,
subito dopo la lettura di Nozze, era andato da Ea nella
Peregringasse e le aveva parlato del mio dramma. Era come se
Broch volesse pregarla di prestarmi un po'"di attenzione, e lei non
trovò niente da ridire sulle circostanze di quella serata, ma le
rivoltò subito contro di lui. Raccontò che Broch, dopo la
lettura, era molto depresso e si era lagnato di non essere un
vero drammaturgo, perché dopo tutto aveva scritto un solo dramma,
quello che aveva mandato al teatro di Zurigo e che adesso avrebbe
preferito ritirare. Da qualche tempo, disse ancora Ea, Broch si era
messo in testa di dover solo scrivere; e chi sa chi gli aveva fatto
venire un'idea simile, probabilmente una donna. Tutto questo era
detto in un tono soave, quasi accattivante, sebbene lì non ci fosse
nessuno da accattivarsi; e l'effetto era micidiale. Ea aggiunse di
aver capito già dalla grafia di Broch che lui non era un vero
scrittore, e di averglielo anche detto: lei era grafologa,
infatti, e bastava confrontare la scrittura di Broch con quella di
Musil per capire la differenza.
Io ero talmente imbarazzato che colsi al volo l'accenno a Musil
per domandarle se lei lo conosceva. Certo che lo conosceva,
da decine di anni, fin dal tempo in cui era sposata con Allesch,
anzi da prima ancora, prima di conoscere Broch. Quello sì era
uno scrittore, disse, e il tono era totalmente cambiato.
Quando poi aggiunse che Musil non aveva una grande considerazione
per Freud e non si lasciava facilmente prendere per il naso, mi
resi conto che la sua animosità si rivolgeva contro tutto ciò che
per Broch contava, mentre Musil godeva della sua ammirazione
incondizionata. Lo aveva visto spesso negli anni del suo matrimonio
con Allesch, che era il più vecchio amico di Musil, (1) e
qualche volta lo vedeva ancora, nonostante il tempo trascorso dal
divorzio. Dava molta importanza alla propria esperienza di
grafologa e aveva le sue idee anche in fatto di psicologia. "Io
sono Adler," disse indicando se stessa "e lui è Freud" aggiunse
indicando Broch. Quest'ultimo era veramente devoto a Freud,
vorrei dire in modo religioso - non che fosse diventato un
fanatico, come tanti altri che conoscevo a quel tempo, ma era
impregnato di Freud come di una dottrina mistica.
Broch non era uomo da nascondere le proprie difficoltà. Non
andava in giro a mostrare soltanto la facciata. Non so perché avesse
voluto condurmi all'appuntamento con Ea così presto, quando la
nostra conoscenza era appena cominciata. Sapeva benissimo che
lei non lo portava in palma di mano. Forse, sentendosi
disprezzato da Ea come scrittore, voleva opporle qualcuno che
invece lo stimava molto; ma questo è un particolare che allora mi
sfuggì. Solo a poco a poco venni a conoscenza dei meriti che Broch
si era fatto come mecenate: era un industriale che anteponeva le
cose dello spirito alla propria fabbrica e che trovava sempre il
modo di aiutare gli artisti. Aveva conservato il suo animo nobile,
ma ormai si capiva che non era più un uomo ricco. Non si
lamentava delle sue ristrettezze, bensì della mancanza di tempo.
Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero voluto vederlo più
spesso.
Col suo atteggiamento Broch induceva l'interlocutore a parlare
di sé, a infervorarsi, a non smetterla più.
L'interlocutore si convinceva che la sua persona, i suoi
propositi, i suoi grandi progetti suscitavano in Broch un
interesse particolare, mentre sarebbe bastato conoscere I
sonnambuli per capire che l'interesse di Broch si rivolgeva a
ogni persona. In realtà tutto questo dipendeva dal suo modo di
ascoltare, che soggiogava. Ci si effondeva nel silenzio di Broch, non
s'incontrava mai un ostacolo. Si sarebbe potuto dire tutto, lui
non respingeva niente, non si provava timore se prima una certa
cosa non era stata detta fino in fondo. Mentre di solito in queste
conversazioni si arriva a un punto in cui si ha un soprassalto
e si dice tra sé: "Alt, fin qui e non oltre!", perché il desiderio
di abbandonarsi è stato già largamente appagato e comincia a
diventare pericoloso - infatti, come si può poi tornare
indietro e ritrovare se stessi, come si potrà essere di nuovo soli?
-, con Broch questo punto e questo momento non venivano mai,
non c'era niente che ordinasse l'alt, non s'incontravano mai
segnali di pericolo o linee di demarcazione, si continuava ad
arrancare, sempre più avanti, sempre più in fretta, e come in
uno stato di ubriachezza. E" un'esperienza sconvolgente scoprire
quante cose abbiamo da dire su noi stessi; e quanto più ci
avventuriamo e ci smarriamo in questo territorio, tanto più la
corrente s'ingrossa: dal sottosuolo erompono le sorgenti calde,
diventiamo un paesaggio di geyser.
Le eruzioni di questo tipo non mi
erano ignote, le avevo subite io stesso da altri, con la
differenza che io ero abituato a reagire: dovevo dire la mia, non
potevo star zitto, e nel parlare prendevo posizione, giudicavo,
consigliavo, lasciavo trasparire simpatia o antipatia. Broch
invece, in una situazione simile, taceva. Non era un silenzio
freddo o calcolato, un silenzio come quello della psicoanalisi,
dove in sostanza un uomo si consegna irrimediabilmente a un altro che
non deve permettersi alcun sentimento, né favorevole né contrario. Il
silenzio con cui Broch ascoltava era interrotto da piccoli,
percettibili, respiri, i quali dimostravano all'interlocutore che
non era stato solo ascoltato, era stato accolto, come se ogni
frase gli avesse aperto l'accesso a una casa in cui poteva
accomodarsi a suo agio. I piccoli suoni che accompagnavano i respiri
erano gli onori che l'anfitrione rendeva all'ospite: "Chiunque tu
sia, qualunque cosa tu dica, entra pure, sei mio ospite, rimani
finché vuoi, ritorna, resta pure per sempre!". Quei piccoli suoni
erano una reazione ridotta al minimo, mentre parole e frasi
compiute avrebbero comportato un giudizio e avrebbero avuto il
valore di una presa di posizione prima ancora che tu avessi messo
piede nella casa ospitale con tutto quello che ti eri portato
dietro. Lo sguardo dell'anfitrione era sempre puntato su di te
e, nello stesso tempo, verso l'interno delle stanze in cui ti
invitava. Sebbene la sua testa somigliasse a quella di un grosso
uccello, l'occhio non celava mai propositi rapaci. Lo sguardo di
Broch si perdeva in una lontananza che quasi sempre inglobava
l'interlocutore che gli stava vicino, e ciò che vi era di più
profondo in lui, mentre guardava, si collocava nello stesso
rapporto di vicinanza e lontananza.
Era un'accoglienza arcana, quella che ti riservava, e per
quell'accoglienza ti lasciavi soggiogare da Broch. A quel tempo
non conoscevo una sola persona che non la desiderasse
ardentemente. Quell'accoglienza non
aveva "segni premonitori", non aveva un prezzo, e nelle donne
diventava amore.
NOTE:
(1) Johannes Gustav von Allesch (1882-1967), autore di
fondamentali studi sulla percezione dei colori, docente di
psicologia in diverse università tedesche. Musil ideò per lui un
apparecchio per la valutazione della sensibilità ai colori.
Allesch dedicò all'amico il saggio "Robert Musil nel movimento
intellettuale del suo tempo" ?N" d'T"*.
Inizio di un contrasto
Nel corso dei cinque anni e mezzo in cui Broch fu presente nella
mia vita, mi sono reso conto solo a poco a poco di una cosa che
oggi, mentre una minaccia perentoria sovrasta ogni forma di vita,
può apparire naturale: la nudità del respiro. Il mezzo principale
con cui Broch percepiva e assimilava il mondo circostante,
il senso che in lui primeggiava, era il respiro. Mentre altri
sono costretti a vedere e udire in continuazione, senza fine, e
si concedono un po'"di riposo solo di notte, ritirandosi nel
sonno, Broch era senza tregua in balia del proprio respiro:
non poteva liberarsene e cercava di scomporlo con quei suoni,
appena percettibili e rauchi, che io ho chiamato la sua
punteggiatura respiratoria. (1) Compresi ben presto che Broch
non era capace di scrollarsi di dosso nessuno. Mai una volta gli
ho sentito pronunciare un "no". Gli riusciva più facile scrivere un
"no", perché allora la persona a cui
era diretto non gli stava di fronte e non gli mandava il proprio
respiro.
Per strada uno sconosciuto avrebbe potuto rivolgergli la parola e
prenderlo per il braccio: Broch lo avrebbe seguito senza la minima
resistenza. Non mi era mai accaduto di assistere a una scena
simile, ma me la immaginavo e mi domandavo dove Broch avrebbe
seguito quell'uomo: fino in un luogo che era determinato dal
respiro dello sconosciuto. Quella che comunemente si chiama
curiosità assumeva in Broch una forma particolare che si è
tentati di definire "avidità respiratoria". Ho scoperto allora,
attraverso Broch, che ogni atmosfera è un mondo peculiare e
separato in cui si può trascorrere una vita senza avere coscienza di
questa peculiarità. Ogni essere respirante, e quindi ogni
persona, poteva catturare Broch. Era stupefacente il modo in cui si
esponeva, alla sua età, dopo tante esperienze e dopo essersi
occupato Dio sa di quante cose. Per lui ogni incontro era un
rischio, perché non sapeva più sottrarvisi. Per liberarsene,
aveva bisogno di persone che lo aspettassero già da qualche altra
parte.
Fissava dei punti d'appoggio, sparsi in tutta la città e magari
molto distanti l'uno dall'altro. Quando arrivava in un posto, per
esempio da Veza nella Ferdinandstrasse, andava subito al telefono e
chiamava Ea Allesch. "Sono dai Canetti," diceva "arrivo subito".
Sapeva che là era già atteso, e dava una spiegazione
rispettabile del proprio ritardo. Ma questo era il motivo
apparente e superficiale della telefonata, un motivo dettato
dall'atteggiamento ostile di Ea. Non telefonava soltanto a Ea: anche
quando l'aveva appena lasciata e lei sapeva benissimo da chi era
andato, Broch si rivolgeva a Veza, che non aveva ancora finito di
salutarlo, e le domandava: "Posso telefonare?". Dall'altra parte
c'era qualcuno a cui diceva dove si trovava in quel momento, e
sembrava naturale che ci fosse sempre una persona che lo aspettava
con cui doveva giustificare i suoi invariabili ritardi. Ma in
realtà, credo, era ben altra l'operazione che Broch cercava di
compiere. Si premuniva, si assicurava la strada che lo conduceva
dall'una all'altra persona. Si preparava a dover percorrere in
fretta la prossima tappa. Nessuna sorpresa doveva impedirglielo,
nessuna "cattura".
La fretta con cui camminava quando lo si vedeva per caso in giro,
era la sua unica difesa. La prima cosa che diceva - in tono molto
cortese, benché sostituisse il saluto - era: "Ho una gran fretta";
e muoveva le braccia, le sue ali mozzate, come se volessero levarsi
in volo, le agitava un paio di volte e le lasciava ricadere
scoraggiato. In quei momenti mi faceva pena. Pensavo: "Poveretto,
peccato che non possa volare! E" sempre costretto a correre!".
La sua era una doppia fuga: doveva strapparsi da coloro con i
quali stava in quel momento, perché altri lo aspettavano, e lungo
il cammino doveva sfuggire a tutti quelli che potevano incontrarlo
e cercavano di trattenerlo. A volte lo seguivo con gli occhi
mentre scompariva in fondo alla strada: la sua pellegrina
svolazzava al vento come un paio d'ali. La rapidità del movimento
era più apparente che reale. Quella testa d'uccello e la pellegrina
davano nell'insieme l'idea di un volo tarpato che però non era mai
indecoroso o scomposto. Quel tipo di deambulazione era diventato
qualcosa di naturale, di congenito.
Ho voluto accennare subito a ciò che vi era di
incomparabile in Broch, a ciò che lo distingueva da tutte le
persone che ho conosciuto. Se si prescinde da quei misteriosi
processi respiratori che condizionavano il suo aspetto e le sue
reazioni fisiche, ogni conversazione con Broch era così
interessante che dispiaceva interromperla. Io gli avevo dedicato una
devozione intatta e appassionata, rovesciandogli addosso un vero
diluvio di opinioni, convinzioni, progetti; ma qualunque cosa
esponessi, qualunque cosa arrischiassi, in lui restava sempre
incancellabile la prima, violenta impressione provocata da Nozze
dopo oltre due ore di lettura. Questa impressione rimase dietro a
tutto ciò che mi disse negli anni seguenti, ma Broch era troppo
riguardoso per farlo notare. Non si lasciò mai sfuggire una frase
da cui potessi desumere che con me si sentiva a disagio.
La casa di Nozze era crollata e tutti erano scomparsi nel
crollo. Broch si rendeva conto dello stato di disperazione da cui
era nato il mio dramma. In quegli anni era una disperazione
condivisa da non poche persone, anche da lui. Ma la forma
spietata in cui l'avevo espressa lo metteva in sospetto, come se io
stesso facessi parte della minaccia che incombeva su tutti noi.
Non credo che da questo egli traesse qualche conclusione. Aveva
conosciuto Karl Kraus molto prima di me - io avevo diciannove
anni meno di lui - e non era rimasto indifferente a Kraus e alla
sua violenza, tanto superiore alla mia. Nelle nostre conversazioni il
nome di Kraus non ricorreva spesso, ma Broch lo nominava con
particolare rispetto. Non mi è mai successo, al tempo in cui vi
partecipavo, di vedere Broch a una delle serate di Kraus. Una
testa come la sua non l'avrei dimenticata. Forse evitava le letture
pubbliche di Kraus da quando si era dedicato ai propri libri,
forse non ne sopportava più ciò che vi era di soffocante. In questo
caso avrebbe dovuto infastidirlo l'incontro con un'opera come
Nozze, pervasa anch'essa di paure apocalittiche. Le mie,
comunque, sono congetture: non potrò mai stabilire da che cosa
dipendessero le reazioni segrete di Broch, forse cercava
soltanto di sottrarsi alla mia impetuosa infatuazione per lui
come a ogni altra infatuazione.
Per le nostre prime conversazioni ci incontravamo al Café
Museum all'ora di pranzo, ma nessuno dei due era solito mangiare
qualcosa. Erano conversazioni animate, alle quali anche lui
partecipava vivacemente (solo in seguito fui colpito dal suo
silenzio, sempre più colpito). Ma non duravano a lungo, forse
un'ora, e proprio nel momento in cui la discussione si era fatta
così interessante che sarei rimasto lì per tutta la vita, lui si
alzava di colpo e diceva: "Devo andare dalla dottoressa Schaxl". Era
la sua analista. Broch era in analisi da anni, e poiché faceva
in modo che c'incontrassimo poco prima della seduta, io avevo la
sensazione che andasse dall'analista ogni giorno. Mi sembrava di
ricevere una mazzata sulla testa: quanto più libero e schietto era il
tono con cui mi rivolgevo a lui - ogni sua frase aveva l'effetto
di aumentare il mio slancio -, quanto più sapienti e penetranti
erano le sue risposte, tanto più soffrivo per quell'interruzione
improvvisa; e per di più mi sentivo offeso da quel nome ridicolo,
Schaxl.
C'erano lì due persone impegnate nella conversazione, e lui,
l'uomo di cui mi bevevo le parole, l'uomo che aveva scritto un'opera
come I sonnambuli, lui si alzava, lasciava una frase a metà e
correva via per andare a parlare ancora una volta, come ogni
giorno (così mi sembrava), con una donna che si chiamava Schaxl e
faceva l'analista. Io restavo interdetto, sgomento, mi vergognavo
per lui e non osavo immaginarlo nello studio di quella Schaxl,
costretto a stendersi su un divano e a dirle cose che nessun
altro poteva ascoltare e di cui forse
egli non teneva neppure un appunto. Bisogna aver conosciuto
Broch, la serietà, la dignità, la bellezza con cui stava lì seduto
ad ascoltare, per comprendere quanto appariva umiliante il fatto
che si stendesse su un divano per parlare - e senza guardare in
faccia nessuno con quei suoi occhi.
Ma è anche possibile, così penso adesso, che Broch cercasse
di salvarsi dal diluvio delle mie parole, che non potesse
sopportare il protrarsi di quelle conversazioni e che quindi
scegliesse di proposito l'ora dell'appuntamento con me in modo che
precedesse di poco la seduta dall'analista.
D'altra parte Broch era così devoto a Freud che non rifuggiva
neppure da usarne i termini, in tutto il loro significato
e senza un'ombra di dubbio, anche nel corso di una conversazione
seria e spontanea. Questo particolare non poteva non
impressionarmi, perché sapevo della vasta cultura filosofica di
Broch; ed era un'impressione poco gradevole, perché stava a
indicare che egli metteva Freud sullo stesso piano di Kant, che
pure adorava, di Spinoza e di Platone. I termini che nel
linguaggio viennese di allora erano diventati banalità
quotidiane, lui li pronunciava accanto a parole santificate da una
venerazione secolare, compresa la sua.
Ci conoscevamo da poche settimane quando Broch mi domandò
se avevo voglia di tenere una lettura all'Università popolare di
Leopoldstadt. Lui stesso vi era andato a parlare qualche volta,
e volentieri mi avrebbe presentato all'uditorio. Mi sentii molto
onorato dalla proposta e accettai. L'organizzatore, il
dottor Schönwiese, fissò la lettura per il 23 gennaio 1933. Prima
che finisse l'anno vecchio portai a Broch il manoscritto di "Kant
prende fuoco". Alcune settimane dopo, eravamo già in gennaio,
egli mi chiese di andare a trovarlo nella Gonzagagasse, dove abitava.
"Che cosa vuol dire con questo?".
Furono le sue prime parole, accompagnate da un gesto
indefinito con cui mi indicò il manoscritto del romanzo, posato sul
tavolo accanto a lui. La domanda mi lasciò talmente stupito che
non seppi rispondere. Mi sarei aspettato qualsiasi altra domanda.
Come si poteva riassumere in poche frasi ciò che si è voluto dire
con un romanzo? Balbettai qualche parola quasi incomprensibile,
certamente senza molto senso, ma dovevo pure rispondere qualcosa.
Broch chiese scusa e ritirò la domanda.
"Se lei lo sapesse, non avrebbe scritto il romanzo. La mia è
stata una pessima domanda".
Capì che non avevo un discorso bell'e pronto da tirar fuori
per l'occasione, e tentò di circoscrivere l'argomento escludendo
un po'"alla volta tutto ciò che a suo giudizio non poteva
costituire il vero intento del romanzo.
"Immagino che lei non avrà voluto scrivere semplicemente la
storia di un pazzo. Non può essere stata questa la sua vera
intenzione. Né, credo, voleva soltanto darci una figura grottesca
alla maniera di Hoffmann o di Poe".
Confermai che non era stata questa la mia intenzione, e lui
annuì. Poiché lo aveva colpito l'aspetto grottesco dei
personaggi, mi sentii in dovere di portare il discorso su Gogol", che
in effetti era stato un mio modello.
"Ero piuttosto sotto l'influsso di Gogol"" dissi. "Dovevano
essere personaggi estremi, spinti fino ai limiti del possibile,
comici e spaventosi insieme, in modo che lo spaventoso non si possa
separare dal comico".
"Lei mette addosso alla gente una bella paura. Vuole proprio
spaventarla?".
"Sì. Intorno a noi tutto suscita paura. Non c'è più un
linguaggio comune. Nessuno capisce l'altro. Credo che nessuno
voglia capire l'altro. Nel suo Huguenau mi ha molto colpito il
fatto che gli uomini sono insediati entro diversi sistemi di
valori e che fra loro non c'è possibilità di comprensione.
Huguenau è quasi un personaggio come lo concepisco io. Non che
questa situazione si esprima nel suo linguaggio, poiché Huguenau
parla ancora con gli altri. Ma alla fine del libro c'è un
documento, c'è la lettera di Huguenau con la sua richiesta alla
vedova Esch, scritta tutta nel linguaggio che gli è proprio: la
lingua tipica del mondo mercantile. Ebbene, qui lei porta al
limite estremo la separazione di quest'uomo da tutte le altre
creature del romanzo. Ciò corrisponde in pieno a quello che ho in
mente. A questo io ho voluto attenermi sempre, in ogni
personaggio e in ogni momento del mio romanzo".
"Ma questi, allora, non sono più uomini reali. Tutto si trasforma
in qualcosa di astratto. Gli uomini reali sono composti di molti
elementi. Hanno in sé impulsi contraddittori che si combattono tra
loro. Si può dare un'immagine veritiera del mondo se si prescinde
dal mondo? E" lecito deformare le creature fino al punto che non
sono più riconoscibili come esseri umani?".
"Sono figure, personaggi. Uomini e personaggi non sono la
stessa cosa. Il romanzo come genere letterario è cominciato con i
personaggi. Il primo romanzo è stato il Don Chisciotte. Che cosa
pensa lei del protagonista? Forse non le sembra credibile perché è
talmente estremo?".
"Erano altri tempi. Allora, mentre imperversavano ancora i romanzi
cavallereschi, era un personaggio credibile. Oggi ne sappiamo di
più, sul conto degli uomini. Esiste una psicologia moderna e ci
dice sugli uomini cose davanti alle quali non possiamo
semplicemente chiudere gli occhi. La letteratura dev'essere,
intellettualmente, all'altezza del proprio tempo. Se rimane indietro
rispetto al proprio tempo, diventa qualcosa di Kitsch e serve a
scopi diversi che stanno al di là della letteratura e dunque
sono illeciti".
"In altre parole, il Don Chisciotte non dovrebbe dirci più
niente. Per me non è soltanto il primo romanzo, ma rimane ancora
e sempre il più grande. Non mi fa rimpiangere nulla, neanche le
scoperte moderne. Arriverei perfino a dire che evita certi errori
della moderna psicologia. L'autore non si propone un'indagine
sull'uomo, non vuole mostrare tutto ciò che forse si nasconde in
un singolo uomo, ma crea certe unità che delinea nettamente e
contrappone l'una all'altra. Dalla loro azione reciproca nasce
ciò che egli ha da dirci sull'uomo".
"Ma così non possono essere dette molte delle cose che oggi
c'interessano e ci affliggono".
"Certo no, le cose che allora non
esistevano non possono essere dette. Ma oggi si possono concepire
personaggi nuovi, e chi sa farli agire esprime le cose che oggi
c'interessano".
"Devono esserci metodi nuovi anche nell'arte. Nell'età di Freud
e di Joyce non può restare tutto come prima".
"Credo anch'io che oggi il romanzo dev'essere diverso, ma non
perché viviamo nell'età di Freud e di Joyce. La sostanza del tempo
è un'altra, e ci vogliono personaggi nuovi per mostrarla.
Quanto più si distinguono l'uno dall'altro, quanto più sono portati
all'estremo, tanto più forti sono le tensioni tra loro. Quello
che conta è il tipo di queste tensioni. Esse ci fanno paura, la
paura che riconosciamo come nostra propria. Esse servono a inculcare
questa paura. Anche nella ricerca psicologica ci imbattiamo nella
paura e ne definiamo i contorni. Così, si applicano i mezzi nuovi,
o nuovi almeno in apparenza, che devono liberarcene".
"Ma questo non è possibile. Che cosa potrebbe mai liberarci
dalla paura? Si può forse attenuarla, ecco tutto. Ciò che lei ha
ottenuto, nel suo romanzo e anche in Nozze, è una intensificazione
della paura. Lei colpisce l'uomo nella sua malvagità, come se
di questa volesse punirlo. So che la sua intenzione più profonda
è quella di costringerlo a convertirsi. Viene spontaneo pensare a
una predica, a un quaresimale. Ma lei non minaccia l'inferno, lei
lo rappresenta, e già in questa vita. Lei non lo rappresenta
oggettivamente, affinché la gente ne abbia una visione più esatta e
una conoscenza reale, ma lo rappresenta in modo che la gente ci si
senta già dentro e ne sia angosciata. Ma il compito dello scrittore
è quello di portare più paura nel mondo? Le sembra uno scopo così
nobile?".
"Lei, per il romanzo, segue un altro metodo. E lo ha applicato
con coerenza nella struttura di Huguenau. Lei contrappone
differenti sistemi di valori, buoni e cattivi, in modo che il
contrasto salti all'occhio. A ridosso del mondo mercantile di
Huguenau c'è il mondo religioso della ragazza dell'Esercito
della Salvezza. Così lei introduce una compensazione e
toglie un po'"della paura che incute col personaggio di
Huguenau. Ho letto la sua trilogia tutta d'un fiato, me ne sono
lasciato compenetrare, ed essa ha creato in me molti spazi che sono
rimasti e resistono ancora oggi, sei mesi dopo la lettura, dentro
di me. Non c'è dubbio che con la sua trilogia lei ha allargato le
mie vedute e mi ha arricchito. Ma lei mi ha anche acquietato.
Capire acquieta. Ma è lecito che la comprensione acquieti
soltanto?".
"Lei invece vuole intensificare l'inquietudine fino a farla
diventare panico. In Nozze vi è certamente riuscito. Il risultato
finale è uno solo: distruzione e rovina. Ma lei vuole questa
rovina? Si intuisce che lei vuole esattamente il contrario.
Lei vorrebbe poter fare qualcosa per indicare una via d'uscita, ma
non ne indica nessuna: a tutt'e due le opere, al dramma come al
romanzo, lei dà un
epilogo crudele e spietato, con la distruzione. C'è in questo
una intransigenza che bisogna rispettare. Ma questa
intransigenza significa che lei ha rinunciato alla speranza, che
lei stesso non riesce a trovare la via d'uscita? O significa
che dubita addirittura della possibilità di una via d'uscita?".
"Se ne dubitassi, se avessi davvero rinunciato alla speranza,
non potrei più vivere. No, io credo semplicemente che noi sappiamo
ancora troppo poco. Lei si richiama volentieri alla psicologia
moderna, e mi sembra che ne sia orgoglioso, poiché essa ha avuto i
natali, per così dire, nell'ambiente che le è più familiare, in
questa cerchia particolare del mondo viennese. Per questa psicologia
lei nutre una specie di affetto patriottico. Forse ha la
sensazione che avrebbe potuto scoprirla lei stesso. Qualunque cosa
essa dica, lei la ritrova subito dentro di sé, non ha nemmeno
bisogno di andare a cercarla. Ebbene, a me questa psicologia
sembra del tutto insufficiente. Essa si occupa dell'individuo,
e qui è anche arrivata a qualche risultato, ma c'è poi un altro
terreno dove non sa neanche da che parte cominciare, ed è la
massa, che è la cosa più importante, quella su cui sarebbe
necessario sapere di più, perché ogni nuovo potere che sorge ai
nostri giorni si ciba deliberatamente della massa. In pratica, chi
mira al potere politico sa come bisogna operare sulla massa. Solo
gli altri, le persone consapevoli che queste operazioni portano
diritto alla nuova guerra mondiale, non sanno come influire sulla
massa per evitare che venga manovrata a danno di tutti noi.
Bisognerebbe scoprire queste leggi del comportamento di
massa. Ecco il punto, ecco il compito più importante davanti al
quale ci troviamo oggi: di questa scienza non esistono ancora
neppure i primi rudimenti".
"Non possono esistere. Lì tutto è vago e incerto. Lei è su una
pista sbagliata. Lei non può trovare le leggi della massa perché non
esistono. E" un peccato che sprechi così il suo tempo. Mi ha già
detto più di una volta che questo è il vero scopo della sua vita, di
essere ben deciso a dedicarvi anni, decenni, anche l'intera vita,
se è necessario. Sarebbe una vita buttata al vento. Si dedichi
piuttosto ai suoi drammi. Lei è uno scrittore. Non può votarsi a una
scienza che non è tale e non lo sarà mai".
Non fu questo il solo colloquio che ebbe per tema le ricerche
sulla massa. Broch, come ho già detto, era sempre pieno di riguardi
verso l'interlocutore, come se temesse di fargli male esprimendosi in
modo troppo reciso. Si preoccupava prima di tutto della natura di
chi gli stava di fronte, del suo carattere e delle premesse che
lo facevano "funzionare". Così accadeva raramente che la
conversazione prendesse un tono aspro, per Broch era impossibile
umiliare qualcuno, e quindi evitava di insistere troppo a voler
avere ragione.
Tanto più riuscivano memorabili le poche occasioni in cui la
discussione si faceva accanita. Broch disapprovava severamente
il nome che avevo scelto per il protagonista dei mio romanzo, il
quale si chiamava ancora Kant nel manoscritto che gli avevo dato da
leggere. Anche il titolo "Kant prende fuoco" lo irritava, come se
io volessi sottintendere che il filosofo Kant era una creatura
fredda, insensibile, e che ora, in quel libro crudele, era
costretto a prender fuoco. Su questo punto Broch non si esprimeva a
chiare lettere, diceva tuttavia che gli sembrava inopportuno l'uso
di un nome per il quale nutriva la massima venerazione. Non per
niente la sua prima osservazione critica fu appunto: "Lei deve
cambiare il nome"; ed era così poco disposto a ricredersi che quasi
a ogni incontro mi domandava: "Allora, ha cambiato il nome?".
Io gli spiegavo che il nome e il titolo erano sempre stati
provvisori e che prima ancora di conoscere lui mi ero reso conto
della necessità di cambiarli se il libro fosse arrivato alla
pubblicazione. Ma queste spiegazioni non gli bastavano. Non era
soddisfatto e mi domandava: "Perché non li cambia subito? Lo faccia
adesso, sul manoscritto". Io provavo una certa riluttanza, era come
un comando impartito da una persona che non poteva dare ordini
perché non si addiceva alla sua natura. Volevo restare fedele il
più a lungo possibile al mio titolo originario, anche se
provvisorio. Lasciai il manoscritto com'era e aspettai il momento
in cui avrei fatto le correzioni di mia volontà e non su pressione
altrui.
Ho già detto qual era il secondo punto su cui Broch
insisteva: l'impossibilità di una psicologia della massa. Il suo
giudizio non mi faceva la minima impressione, e per quanto
ammirassi Broch come uomo e come scrittore, per quanto rinnovassi i
miei vani sforzi per attirarmi anche la sua simpatia, non mi sarei
mai sognato di dargli ragione su questo punto solo per usargli un
riguardo. Al contrario, cercavo di convincerlo che il futuro poteva
avere in serbo cose del tutto nuove, che c'erano nessi e
situazioni su cui, stranamente, non si era mai riflettuto.
Lui mostrava scarso interesse e, pur ascoltando le mie parole, si
limitava quasi sempre a sorridere. Sembrava indignato quando io
criticavo le concezioni di Freud. Una volta tentai di chiarire che
occorreva distinguere tra panico e fuga di massa: il panico è sì una
vera disgregazione della massa, ma vi sono anche casi - e lo si può
vedere per esempio nelle mandrie - vi sono casi in cui le masse in
fuga non si disgregano, restano compatte e anzi traggono vantaggio
proprio dal senso vivissimo di essere una massa. Quel giorno Broch
mi domandò: "E lei come fa a saperlo? Le è capitato di essere una
gazzella in un branco in fuga?".
Per contro non tardai a scoprire che c'era qualcosa che gli
faceva sempre effetto, ed era la parola "simbolo". Quando usavo
l'espressione "simbolo di massa", tendeva l'orecchio e si faceva
spiegare esattamente il significato che le attribuivo. A quel tempo
avevo fatto le mie riflessioni sul nesso tra fuoco e massa, e Broch,
poiché ricordava, come tutti a Vienna, l'incendio del 15 luglio
1927, meditava su ciò che gli avevo detto e ogni tanto ritornava
sull'argomento. Ma soprattutto gli piacque un certo mio
discorso sul mare e sulle sue gocce prese singolarmente.
Gli avevo raccontato come io provassi una sorta di compassione per
le gocce isolate che mi cadevano sulla mano, perché erano
separate dal grande insieme al quale appartenevano. Lo colpiva
tutto quello che toccava o sfiorava la sfera dei sentimenti
religiosi, e quindi anche la semplice parola "compassione"
che
avevo adoperato a proposito delle gocce; e si abituò a vedere
qualcosa di religioso nelle mie ricerche sulla massa e a parlarne in
questo senso. Per me era come una riduzione del mio impegno, e
perciò reagivo vivacemente, ma alla fine rinunciai a discuterne
con lui.
NOTE:
(1) Si veda, in La coscienza delle parole, il discorso tenuto da
Canetti a Vienna, nel novembre 1936, per il cinquantesimo
compleanno di Hermann Broch ?N" d'T"*.
Il direttore d'orchestra
Teneva le labbra ermeticamente serrate perché non ne
sfuggisse una parola d'elogio. Imparare a memoria con precisione era
per lui una questione di vita o di morte. Ancora
giovanissimo, quando faceva una vita di stenti, si era avvicinato a
testi difficili e se ne era impadronito a pezzi e bocconi nei pochi
momenti strappati al lavoro con cui campava. Mentre faceva il
violinista nei locali notturni, ed era ancora un ragazzo di
quindici anni, pallido, con molto sonno arretrato, teneva Spinoza sul
leggio, sotto i suoi fogli di musica, e anche negli
intervalli più brevi studiava a memoria l'Etica, frase per frase. Ciò
che imparava non aveva niente a che fare col suo mestiere, ma era
come un gradino a sé stante della cultura. Studiava molte altre
cose, e a parte lo sforzo che tutte gli costavano in uguale misura,
non ce n'era una che avesse un reale rapporto con l'altra.
Prevaleva sempre la volontà, era una volontà
indistruttibile, aveva bisogno di cose nuove in cui esercitarsi e
continuò a trovarne per una vita intera. Fino alla vecchiaia fu la
volontà a decidere, un appetito inestinguibile che però era
diventato, per la costante consuetudine con la musica, un
appetito ritmico.
La smania di imparare, con cui si
era elevato da giovane, rimase la stessa in tutte le fasi
successive della sua vita. Si potrebbe dire che l'aveva conservata
come vocazione quando già aveva una professione. Era
diventato direttore d'orchestra precocemente, nonostante tutte le
difficoltà, ma non era ancora contento di quello che aveva
sotto mano. Forse quell'attività non bastava da sola a riempirgli
la vita, e forse per questo non è mai diventato un direttore
d'orchestra veramente grande. Teneva gli occhi puntati su tutto ciò
che era diverso, perché lì c'era ancora da imparare. Gli anni in
cui la musica si rinnovava e per rinnovarsi si ramificava come
non era mai avvenuto, furono per lui una manna dal cielo.
Ogni scuola musicale, purché fosse nuova, gli poneva dei
problemi, e lui poteva, e con tutte le forze voleva, risolvere
problemi nuovi. Ma nessun problema, neanche il più grande, poteva
per lui essere tale da eclissarne altri. Lui si accollava quel
problema, ci si accaniva, non si lasciava intimidire da nessuna
difficoltà, ma intanto si teneva in serbo tutti gli altri problemi
che per altri versi si presentavano come nuovi, e anche tutti quelli
che prima o poi si sarebbero delineati in futuro. Per lui era un
doppio impegno: doveva imparare cose nuove che voleva far sue in
tutto e per tutto (per quanto è possibile, senza escludere
interamente altre cose); ma poi si trattava anche - ed era il
punto più importante - di portare queste cose nuove alla vittoria,
cioè di presentarle nella forma più perfetta a un pubblico
impreparato per il quale erano nuove e da principio
irriconoscibili, inusitate e repellenti, in apparenza orribili. Per
lui era una prova di forza che aveva un doppio volto: bisognava far
violenza ai musicisti costringendoli a eseguire quelle novità, e
poi, presi in pugno i musicisti, far violenza al pubblico, e
tanto meglio se il pubblico era particolarmente riottoso.
La sua specialità, si potrebbe anche dire la sua libertà,
consisteva nel far violenza usando mezzi sempre nuovi e diversi, nel
non impegnarsi in una direzione precisa per volgersi invece da
qualunque parte dove gli si proponesse un problema difficile. Era
dunque il primo che avesse presentato al pubblico questa o quella
cosa assolutamente ignota, prima di chiunque altro: era lui lo
scopritore, si potrebbe dire. E gli premeva che queste scoperte si
sommassero l'una all'altra, che ce ne fossero sempre di più, e
poiché il loro numero e la loro varietà gli facevano crescere
l'appetito, a volte non si accontentava della musica e provava una
gran voglia di estendere il suo potere ad altri territori e di
annettersi, per esempio, anche il teatro drammatico: allora
pensava di organizzare dei festival che accogliessero un dramma
nuovo insieme con la musica nuova. Fu in uno di questi momenti della
sua vita che io lo incontrai.
Hermann Scherchen era sempre alla ricerca del nuovo. Quando
arrivava in una città in cui doveva dirigere per la prima volta,
tendeva l'orecchio per scoprire di chi si parlava. Conosceva
l'accento con cui la gente pronunciava il nome di chi destava
scandalo e sorpresa. Cercava di mettersi in contatto con lui, gli
faceva dire di presentarsi durante le prove e disponeva le cose in
modo che "l'uomo nuovo" lo trovasse in piena attività e ci fosse
appena il tempo per una stretta di mano, perché di là c'era
l'orchestra che lo aspettava. Se il "nuovo" gl'interessava, glielo
lasciava capire, ma purtroppo il colloquio doveva essere rinviato a
una prossima volta, e non era detto che allora ci fosse più
tempo. Bastava questo perché il "nuovo" si sentisse onorato: dopo
tutto, gli intermediari gli avevano detto e ripetuto quanto
il direttore d'orchestra tenesse a quell'incontro. Il
primo contatto era dunque piuttosto freddo, ma poteva dipendere dalla
mancanza di tempo, ci voleva poco a capire quanto fosse arduo il
compito che il direttore si era assunto, per di più in una città
come Vienna, che aveva una pessima fama per il suo inveterato
conservatorismo in fatto di musica. Non si poteva volerne a quel
pioniere del rinnovamento se era tutto assorto nel suo lavoro,
anzi bisognava ancora essergli grati se manifestava il desiderio di
un secondo incontro in un'occasione più favorevole. Era giusto
dimostrargli comprensione, accettare con entusiasmo. Perfino in
quei momenti tumultuosi delle prove era facile rendersi conto che
un uomo come lui si aspettava qualcosa dal candidato di turno, e
poiché gli stavano a cuore soltanto le cose nuove, ciò che si
aspettava era qualcosa di nuovo; e dunque il candidato, prima
ancora di essersi fatto conoscere, si sentiva incluso tra coloro
che avevano il diritto di annoverarsi tra i nuovi. Poteva
succedere che vi fossero ancora alcuni incontri successivi senza
che si arrivasse a un vero colloquio, ma ogni rinvio rendeva il
colloquio sempre più importante.
Se però tra gli intermediari c'era una creatura di sesso femminile
che lo stuzzicava, la faccenda non andava tanto per le lunghe. Dopo
una prova il maestro faceva il suo ingresso al Café Museum con
qualche persona al seguito e si accingeva ad ascoltare in silenzio il
candidato. Lo costringeva a parlare dell'argomento essenziale generalmente di una composizione, nel mio caso di un dramma -,
guardandosi tuttavia dal pronunciare anche una sola parola in
proposito. In occasioni simili si era colpiti in primo luogo dalle
sue labbra sottili, ermeticamente serrate. C'era perfino da
dubitare che stesse ascoltando, perché non si
apriva in alcun modo, il viso restava liscio e controllato, senza
mai un'espressione che tradisse approvazione o rifiuto, la testa
ben alta e dritta su un collo un po'"grassoccio e sulle spalle
rigide, inflessibili. Quanto più efficace era il suo silenzio,
tanto più il candidato parlava; e a poco a poco, senza
accorgersene, si trovava ridotto a recitare la parte del
postulante al cospetto di un principe che si riservava ogni
decisione il più a lungo possibile, forse per sempre.
Eppure Hermann non era propriamente un uomo taciturno. A
conoscerlo meglio, si restava increduli scoprendo quanto parlava e
con quale velocità. Ma erano per lo più parole di
autoincensamento, si potrebbe dire inni di vittoria se la voce non
fosse stata così incolore e monotona. C'erano anche momenti in cui
si piccava all'improvviso di stabilire un arbitrario
collegamento tra cose che per caso gli erano appena capitate
sott'occhio. Allora le disponeva in un certo ordine, come se
fosse autorizzato e ben deciso a dar loro forza di legge.
"Intorno al 1100 avanti Cristo c'è stata un'esplosione
nell'umanità". Intendeva un'esplosione di energia artistica,
perché per il resto non aveva molta simpatia per la parola
"esplosione". Ero stato con lui in un museo ed era passato
piuttosto in fretta, secondo la sua solita andatura, davanti a
oggetti dalle provenienze più diverse: cretesi, ittiti, assiri,
babilonesi. Sulle targhette con le date lui aveva letto due o tre
volte l'indicazione 1100 à c'e ne era rimasto colpito.
Precipitoso e capriccioso com'era, aveva tirato subito la sua
conclusione: "Intorno al 1100 avanti Cristo c'è stata
un'esplosione nell'umanità".
Era taciturno, spietatamente taciturno, quando aveva davanti
a sé qualcuno che pensava di scoprire o di spingere avanti. Per
lui, allora, era una questione di vita o di morte non lasciarsi
scappare una parola di lode. Se ne stava lì con le labbra
serrate e si era talmente abituato a lesinare ogni sillaba, e
soprattutto ogni elogio, che la stessa espressione del viso ne era
condizionata a dovere.
Fu H'a mandarmi da Anna Mahler con una sua lettera. Non lasciava
nulla di intentato. L'aveva conosciuta quando lei, giovanissima,
era sposata al compositore Ernst Krenek. Allora, essendo
all'inizio della carriera, H" non poteva pretendere molta attenzione
da parte di Anna. Del resto la giudicava ancora immatura,
tanto è vero che si sottometteva a Krenek, pronta a servirlo nel
suo lavoro. Krenek non faceva che comporre, rapido e instancabile,
mentre Anna se ne stava rannicchiata accanto a lui a ricopiare ogni
nota. Era ancora il periodo in cui per lei esisteva soltanto la
musica. Aveva imparato a suonare sette od otto strumenti e a turno
si teneva in esercizio con l'uno o con l'altro. Era sempre stata
un'ammiratrice del talento prolifico e vedeva il segno del genio in
una produzione copiosa, continua, senza pause. Questo culto della
fecondità ininterrotta le rimase in tutti i periodi successivi della
sua vita. Ammirava soltanto i creatori o quelli che riteneva tali.
Quando poi passò dalla musica alla letteratura, fecero colpo su
di lei i romanzi lunghi e gli autori che, finito un romanzo, ne
sfornavano subito un altro. Negli anni del matrimonio con Krenek
il culto della fecondità si limitava ancora alla musica, e Anna
sembrava ben contenta di servire quel giovane creatore.
Krenek era stato uno dei primi a entrare nella galleria dei
talenti scoperti da H". (1) Quest'ultimo aveva notato Anna fin
da allora, ma non si sentiva attratto dall'ancella di un altro.
Adesso, giunto a Vienna con la testa piena di mirabolanti progetti,
si diede a riallacciare tutte le vecchie relazioni, com'era sua
abitudine, e così fu invitato nel palazzo della Maxingstrasse che
apparteneva all'editore Paul Zsolnay. Li trovò Anna, divenuta la
padrona di quella grande magione, una donna dai capelli biondo
chiaro, con le sue ambizioni nel campo dell'arte e con una fama
incipiente di scultrice. Forse H'andò a trovarla anche
nell'atelier, sebbene sia poco probabile, ma di sicuro la vide
durante un ricevimento in casa Zsolnay. H" non godeva della stima di
Alma, la madre di Anna, della quale conosceva il potere nella vita
musicale di Vienna. Tanto più teneva dunque ai favori della figlia.
Allungò le sue antenne e cercò di ingraziarsela scrivendole una
lettera che io stesso dovevo consegnare ad Anna personalmente nel
suo atelier.
H'era ben disposto verso di me, alla sua maniera, e fu lui a
preparare la mia prima visita ad Alban Berg. Gli aveva fatto
impressione una lettura di Nozze alla quale aveva assistito nella
casa di Bella Band, cioè in un ambiente ideale, proprio l'ambiente
del mio dramma trasferito nel mondo della grande borghesia.
Non che avesse speso una sola parola per esprimere le sue reazioni:
dopo due ore di lettura - due ore di baldoria nuziale con
l'epilogo catastrofico - era rimasto muto come un pesce. I
lineamenti restarono freddi e impassibili come sempre, e le labbra,
l'ho già detto, ermeticamente chiuse. Ciò nonostante avevo notato
che in lui era avvenuto un cambiamento. Mi era sembrato - quasi
impercettibilmente - rattrappito. Ma alla fine non si lasciò
sfuggire una parola di principesca degnazione, non toccò i
rinfreschi e se ne andò molto presto.
Anche quella volta H" fu fedele alla sua abitudine di piantare
tutti in asso. Si alzava e usciva dicendo appena poche parole,
solo quelle strettamente indispensabili secondo le circostanze.
Dava la mano quasi senza allungarla, neanche in questo voleva
essere compiacente. Non solo, ma la teneva alta, e per arrivarci
bisognava tendersi in avanti e alzarsi sulla punta dei piedi. Il
permesso di toccare quella mano era una grazia concessa a pochi, e
la grazia era accompagnata da un ordine secco col quale H"
comunicava il giorno e l'occasione in cui ci si doveva presentare
al suo cospetto. Poiché era sempre attorniato da altre persone,
chi riceveva l'ordine si sentiva al tempo stesso privilegiato e
umiliato. Quando H" si accomiatava, anche le più tenui tracce di
un sorriso gli erano scomparse dalla faccia. Sembrava un essere
inanimato e solenne, la scena aveva tutta l'aria di un rituale del
potere eseguito davanti a una statua che però si muoveva a scatti
e insieme con grande energia. Poi H" faceva il suo dietrofront
con la precisione di un militare, e subito dopo il suo ultimo
ordine, con le istruzioni per la prossima udienza, si aveva
davanti agli occhi la visione di quella vasta schiena che si metteva
in marcia con decisione ma mai troppo in fretta. Come direttore
d'orchestra H'era senza dubbio abituato ad agire sul pubblico con
la schiena, ma non si può dire che il suo repertorio di movimenti
dorsali fosse molto ricco. Sembrava inanimato nel dorso come nel
viso, la mimica era assente in ogni parte del suo corpo; e
decisione, orgoglio, autorità, freddezza erano tutto ciò che H"
voleva far vedere di sé.
Il silenzio era per lui lo strumento più sicuro per
esercitare l'oppressione. Non tardò a rendersi conto che con me era
meglio lasciare da parte la musica in tutti i sensi, sia come talento
artistico sia come interesse intellettuale. Non poteva far la
parte del maestro che m'insegnava qualcosa. La relazione
maestroallievo, nella quale era bravissimo, era da escludere,
poiché io non suonavo nessuno strumento, non facevo parte di
nessuna orchestra e non ero neanche un compositore. Doveva dunque
pensare ad altre possibilità di assoggettamento. Nell'ambito dei
festival che voleva organizzare per la musica moderna, pensava
anche al teatro drammatico. Aveva ascoltato la mia lettura di
Nozze, come ho detto, ed era rimasto di ghiaccio. Avrebbe taciuto in
tutti i casi, ma quella volta il silenzio fu rinforzato dal fatto
che H" se ne andò subito, perfino un po'"prima del solito. Se
l'avessi conosciuto meglio, avrei potuto dedurne che gli era
rimasta addosso una certa perplessità.
Pensai sulle prime che gli riuscisse insopportabile
l'atmosfera della serata, con quella padrona di casa, tutta nera,
opulenta come una donna orientale, che straripava dal divano sul
quale si era adagiata nel senso della lunghezza. Non mi sentivo
affatto a mio agio mentre recitavo davanti a lei le battute di
Johanna Segenreich. Sapevo che Bella Band, la ricca e grande
borghese, apparteneva a tutt'altro ambiente, a un ambiente carico di
brillanti, e che non avrebbe degnato di un solo sguardo la
Segenreich se mai l'avesse incontrata; e tuttavia intuivo da ogni sua
parola che si trattava dello stesso tipo di donna. Ma non credo
che Bella Band si sentisse colpita: lei era la padrona di casa e
come tale ascoltava la lettura organizzata in casa sua dal figlio,
che io conoscevo. Quanto alla musica moderna, per quel poco che a
Vienna era presa in considerazione, l'onore di un invito era
riservato a H", il quale era conosciuto come un pioniere anche
in quell'ambiente, un pioniere ma niente di più. Secondo questo
criterio si comportò il divano carico di quella massa femminile:
Bella Band non si sottrasse, restò al suo posto sino alla fine,
lesinò i sorrisi esattamente come lo stesso H", al quale non fece
la corte neppure con uno sguardo. Sarebbe impossibile dire che
cosa passò per tutta quella carne durante le scene della
catastrofe: sono sicurissimo che la paura non la sfiorò nemmeno,
ma credo anche che il terremoto non valse a intimorire H".
Alla lettura erano presenti alcune persone più giovani. Anche
loro, probabilmente, si sentivano protette dalla freddezza di H'e
dall'imperturbabile amabilità di Bella Band. Così io ero proprio
l'unico che quella sera avesse paura. Non sono mai riuscito a
leggere Nozze ad alta voce senza un senso di paura. Non appena il
lampadario comincia a oscillare sento avvicinarsi la fine; e non
so spiegarmi come posso arrivare fino in fondo e leggere senza
sbagliare tutte le scene della danza macabra - che pure occupano un
terzo del dramma.
Alla fine di giugno del 1933 ricevetti una lettera di H" da Riva
del Garda. Mi scriveva di avere riletto Nozze e di essere rimasto
atterrito dalla gelida, desolata astrazione in cui tutto si
svolgeva. Era come annichilito dalla forza che l'autore aveva in sé
e dall'uso che questa forza faceva di lui stesso. "Venga presto a
trovarmi - meglio dopo il 23 luglio a Strasburgo. Così combatteremo
insieme la nostra battaglia".
Riteneva che l'autore del dramma potesse arrivare alle vette
più alte della creazione letteraria, ma non aveva mai conosciuto
un caso come il mio, in cui tutto dipendesse da quel che era
l'uomo stesso. Essere capaci di cose tanto nuove, dominare una
tecnica così diversa, frutto di una sicurezza sonnambolica,
della forza propulsiva della parola come suono e della parola come
pensiero, tutto ciò era una grande sfida. Io dovevo esserne
all'altezza.
Allegava una lettera e mi pregava di consegnarla ad "Anni",
come lui la chiamava, a lei sola. "Le interessa il prospetto
che unisco? Partecipi anche lei! Molto cordialmente, H" Sch"".
Mi costa un certo sforzo riferire il contenuto della lettera
di H" nelle sue parti essenziali. Ma non posso non accennarvi,
dal momento che ebbe un'importanza decisiva nella mia vita. Fu
quella lettera ad attirarmi a Strasburgo, e senza le persone che
incontrai grazie al soggiorno a Strasburgo il mio romanzo non
sarebbe arrivato alla pubblicazione. Ma la lettera contiene anche
il più efficace ritratto di H": non si potrebbe descrivere in
minore spazio il suo modo di accattivarsi gli uomini, di legarli
a sé, di approfittarne, di adoperarli.
Nella lettera non tutto è calcolo, e neppure tutto si riduce a
una serie di ordini. Il terrore di cui parla H'a proposito
della gelida, desolata astrazione non è inventato. Su questo tema
il discorso è più lungo di quello che ho citato, ed è un discorso
che rispecchia il suo pensiero. Ma a H" questo non potrebbe
bastare. Ha appena ammesso il destinatario nel novero dei
privilegiati, e subito lo convoca a Strasburgo, al suo convegno
per la musica moderna, dove il poveretto è un pesce fuor d'acqua,
dove H" convocherà mille altri che però sono musicisti, persone con
le quali lavora e altre di cui è il primo a eseguire le opere.
"Venga presto a trovarmi" - perché mai, a che scopo? "Così
combatteremo insieme la nostra battaglia". Sono parole di una
mostruosa presunzione: quale battaglia potrebbe combattere H'al
fianco di uno scrittore? In realtà H" vuole avere sotto mano
qualcuno da presentare come una grande promessa, vuole aggiungere un
piccolo ornamento supplementare al suo convegno brulicante di
musicisti che un giorno si faranno strada. Che razza di battaglia può
mai essere? Per avere una legittimazione - pur sapendo che non gli
resterebbe un minuto di tempo per la battaglia, anche se potesse
combatterla - H" giustifica il suo ordine di arruolamento con un
giudizio altisonante, che però revoca immediatamente accennando
al presunto rischio che corre colui che viene giudicato.
Così il destinatario, sballottato qua e là, si rende conto almeno di
una cosa: che ha bisogno di H". E" allegata una lettera per "Anni",
segreta. Anche a lei verrà ordinato di andare da qualche parte, per
altri scopi. E poi il tono si fa ancora più sbrigativo: c'è il
prospetto per il convegno, e: "Partecipi anche lei!".
Non so che cosa darei per conoscere il contenuto delle lettere
ad altre persone arruolate per quel convegno. I musicisti andarono a
Strasburgo, e loro avevano un buon motivo. Ma H'ebbe anche la bella
idea di radunare cinque vedove. Erano le vedove di cinque compositori
celebri, e io riesco a ricordare soltanto tre delle cinque invitate:
le vedove di Gustav Mahler, di Ferruccio Busoni e di Max Reger.
Nessuna andò a Strasburgo. Al loro posto andò una che non c'entrava
affatto, la vedova, di fresca data, di Friedrich Gundolf, (2) che
arrivò vestita di nero da capo a piedi e si comportò con molta
allegria e disinvoltura.
NOTE:
(1) Ernst Krenek aveva poco più di vent'anni quando fu invitato,
nel 1921, a partecipare al Festival di Donaueschingen, una delle
molte manifestazioni musicali promosse da Hermann Scherchen.
Conobbe il suo più grande successo nel 1927 con l'operajazz
Jonny spielt auf ("Jonny suona per voi") che venne ben presto
presentata in quasi tutta l'Europa. Fu il secondo marito di una
Mahler, dopo un oscuro musicista e prima dell'editore Paul
Zsolnay, del direttore d'orchestra Anatole Fistoulari e dello
scrittore e regista Albrecht Joseph ?N" d'T"*.
(2) Il famoso critico era morto nel 1931 a Heidelberg, dove aveva
la cattedra di letteratura tedesca dal 1920 ?N" d'T"*.
Trofei
Ero già stato qualche volta alla Hohe Warte, ma in forma privata
e solo per incontrare Anna, che veniva ad accogliermi di persona da
una porta secondaria. Quando finalmente decise di presentarmi a
sua madre, la curiosità era reciproca, ma per motivi molto
diversi: Alma Mahler non sapeva niente di preciso sul mio conto,
si fidava poco della conoscenza che sua figlia aveva degli uomini
e voleva sincerarsi che io fossi innocuo; quanto a me, sapevo che
tutta Vienna parlava di lei nei termini più pungenti.
Attraversai un cortile interno - ricoperto di piastrelle tra le
quali l'erba aveva il permesso di crescere con calcolata naturalezza
- e fui ammesso in una sorta di sancta sanctorum dove mi aspettava
"mammina". Era una donna piuttosto alta, straripante da tutte le
parti, fornita di un sorriso dolciastro e di occhi chiari,
spalancati, vitrei. Dalle sue prime parole sembrava che mi
aspettasse da un pezzo, perché ne sentiva tante sul conto di tutti.
"Annerl mi ha raccontato" disse subito, e fin dall'inizio fece
apparire piccola piccola sua figlia. Non voleva che ci fossero
dubbi, neanche per un momento: chi contava era lei, in casa e
fuori.
Si sedette, e uno sguardo confidenziale fece intendere che
bisognava prendere posto proprio accanto a lei. Obbedii con
riluttanza, perché dopo il primo sguardo che le avevo dato, ero
inorridito. Dappertutto si parlava della bellezza di Alma Mahler, si
raccontava che era stata la più bella ragazza di Vienna e che aveva
fatto
una tale impressione su Mahler, molto più anziano di lei, da
indurlo a chiedere la sua mano e a sposarla. La fama della sua
bellezza si tramandava ormai da più di trent'anni, ma adesso Alma
Mahler era lì in piedi e si sedette pesantemente: una persona in
stato d'ebbrezza, molto più vecchia della sua età, circondata da
tutti i trofei che aveva raccolto.
La stanza in cui riceveva era infatti sistemata in modo che il
visitatore avesse a portata di mano i pezzi più importanti di tutta
una carriera: non c'era nulla che potesse sfuggire alla vista, la
stessa Alma era il cicerone di quel museo privato. A meno di due
metri da lei si trovava la vetrina in cui era esposta la partitura
della Decima sinfonia di Mahler, rimasta incompiuta. L'ospite era
invitato a osservarla, si alzava, si avvicinava e leggeva le
disperate invocazioni del malato - era la sua ultima
opera - alla moglie: "Almina, mia amata Almina!" e altre simili.
La partitura era aperta su quelle pagine terribilmente intime.
Doveva essere un mezzo collaudato per far colpo sui visitatori. Io
lessi quelle parole tracciate dalla mano di un moribondo e guardai
la donna alla quale erano dirette. Per lei, ventitré anni dopo,
era come se fossero state appena scritte. Chi osservava quel
cimelio era tenuto a dedicarle uno sguardo di ammirazione, uno
sguardo cui lei aveva diritto per l'omaggio che il moribondo le
aveva reso nelle ore dell'agonia; e lei era così sicura
dell'effetto di quelle parole estreme che il suo sorriso
insensato si allargava in un ghigno e con quel ghigno accoglieva
l'omaggio. Non avvertì nulla dell'orrore e del disgusto che avevo
negli occhi. Io non sorridevo, ma lei interpretò erroneamente la mia
espressione seria come un segno della devozione dovuta a un genio
morente; e poiché tutto avveniva in quella specie di cappella
votiva che Alma aveva eretto alla propria felicità, anche la
devozione le apparteneva.
Ma era venuto il momento del quadro che stava appeso alla
parete proprio di fronte a lei, un ritratto di Alma, dipinto pochi
anni dopo le ultime parole del compositore. L'avevo notato subito,
mi era rimasto negli occhi da quando ero entrato; aveva un che di
feroce, di minaccioso, e la partitura
aperta mi aveva talmente sbigottito che lo sguardo mi si confuse e
il quadro mi apparve come il ritratto dell'assassina del
compositore. Non ebbi il tempo di respingere questo pensiero
perché Alma Mahler si alzò, fece tre passi verso la parete e,
stando davanti a me e indicando il quadro, disse: "E questa
sono io, dipinta da Kokoschka come una Lucrezia Borgia". Era
un'opera del periodo migliore di Kokoschka. Alma Mahler alzò subito
un muro tra sé e il pittore, che era ancora vivo e attivo,
aggiungendo compassionevolmente: Poveretto, non ha fatto molta
strada!". Kokoschka aveva ormai abbandonato la Germania, dove
era all'indice come "artista degenerato", ed era andato a Praga
per fare il ritratto al presidente Masaryk. Ero così stupito per
quell'osservazione sprezzante che non potei trattenere una
domanda: "In che senso non ha fatto molta strada?". "Ma sì,
adesso è a Praga, non è che un povero emigrante. Non ha più
dipinto niente di buono"; e con uno sguardo alla Lucrezia Borgia
aggiunse: "Allora sì che era bravo. Questo quadro fa paura a
tutti". Anch'io avevo avuto paura, ma adesso ne avevo ancora di più
nell'apprendere che il pittore non aveva fatto molta strada. Il suo
apice lo aveva toccato con le varie raffigurazioni della sua
Lucrezia Borgia, e adesso, poveretto, era solo un fallito, perché
non piaceva ai nuovi padroni della Germania, e il fatto che il
presidente Masaryk posasse per lui contava poco o niente.
Ma la vedova non accordò troppo tempo al secondo trofeo perché
pensava già al terzo, che non era presente nel sacrario e che
desiderava mostrarmi. Batté le sue mani adipose e gridò: "Ma dove si
è nascosta la mia Mutz?".
Dopo pochi istanti una gazzella entrò in punta di piedi nella
stanza, un'esile creatura bruna, travestita da ragazzina,
incontaminata dalle meraviglie in mezzo alle quali si trovava,
così innocente da apparire più giovane dei sedici anni che poteva
avere. Più che bellezza, irradiava intorno a sé timidezza, come una
gazzella angelica venuta dal cielo, non dall'arca. Io balzai in
piedi per impedirle di entrare in quell'antro dei vizi o almeno
per risparmiarle la vista dell'avvelenatrice appesa alla parete, ma
costei, che non smentiva mai il suo personaggio, aveva già preso
inesorabilmente la parola:
"Bella, eh? Le presento Manon, figlia mia e di Gropius. Non ce
n'è un'altra come lei. Tu, Annerl, non la invidi, vero?... Che
male c'è ad
avere una bella sorella? Buon sangue non mente. Lei ha mai
visto Gropius? Alto, bello. Proprio quello che si dice un vero
ariano. L'unico uomo fatto su misura per me dal punto di vista
razziale. Tutti gli altri che si sono innamorati di me erano
piccoli ebrei, come Mahler. Io vado bene per gli uni e per gli
altri. Adesso puoi andare, Mutz. Ancora un momento. Sali un po'"a
vedere se c'è Franzi. Se sta scrivendo, non lo disturbare. Ma se
non è occupato, digli di scendere".
Manon, il terzo trofeo, scivolò via dalla stanza,
incontaminata com'era venuta, l'incarico affidatole non sembrava
esserle di peso. Provai un grande sollievo al pensiero che nulla
potesse toccarla, che sarebbe rimasta sempre com'era adesso, che non
sarebbe mai diventata come sua madre, come il viso velenoso del
quadro o la vecchia donna disfatta sul divano con i suoi occhi
vitrei.
(Non sapevo in che modo orribile avrei avuto ragione. A distanza
di un anno l'agile gazzella era una povera paralitica e veniva
portata in giro sulla carrozzella, accompagnata dal
chiacchierio di sua madre, ancora lo stesso chiacchierio. Dopo un
altro anno era morta. Alban Berg dedicò la sua ultima opera "Alla
memoria di un angelo").
In una delle stanze superiori, sotto il tetto, c'era il leggio al
quale Franz Werfel scriveva stando in piedi. Una volta Anna mi
aveva mostrato quella stanza durante una delle mie visite. Sua
madre non poteva sapere che avevo già conosciuto Werfel a un
concerto al quale avevo accompagnato Anna. Quella sera Anna era
seduta tra me e lui, e per tutto il tempo mi sentii addosso un
grande occhio sporgente. Werfel si era girato tutto verso destra
per vedermi meglio, e quasi allo stesso modo il mio occhio sinistro
si era girato verso sinistra per osservare meglio l'espressione del
suo occhio. Così i due occhi fissi l'uno nell'altro
s'incontrarono, batterono dapprima in ritirata sentendosi colti
in flagrante, ma alla fine, poiché non era più possibile
dissimulare quel vicendevole interesse, ritornarono al loro posto di
vedetta.
Io non so che musica fu eseguita. Se fossi stato Werfel avrei
pensato prima di tutto al concerto, ma io non ero un tenore come
lui, ero stregato da Anna e nient'altro. Lei non si
vergognava di me, sebbene i miei pantaloni sportivi non fossero
l'ideale per un concerto, e del resto avevo saputo solo
all'ultimo momento che c'era un biglietto libero e che potevo
accompagnarla. Anna era seduta alla mia sinistra, e mentre
fissavo su di lei
uno sguardo che credevo furtivo, mi imbattevo nell'occhio da
batrace di Werfel. Mi venne in mente che la sua bocca somigliava a
quella di una carpa e che il suo grande occhio sporgente vi si
adattava a meraviglia. Ben presto il mio occhio sinistro si comportò
esattamente come il suo occhio destro. Era il nostro primo
incontro, e fu un duetto con accompagnamento musicale tra due
occhi che - separati da Anna - non potevano accorciare la distanza
tra loro. Gli occhi di lei, la cosa più bella che avesse, occhi
che nessuno poteva dimenticare dopo averli avuti addosso una
volta, rimasero esclusi dal gioco; ed era una grottesca
deformazione della realtà se si pensa quanto erano insulsi, privi
di qualsiasi irradiazione, gli occhi di Werfel e i miei.
Ma poiché dovevamo seguire il concerto in silenzio, furono
escluse dal gioco anche le parole, proprio le parole che Werfel
sapeva maneggiare da maestro, con patetica eloquenza. (Pierino
Boccadifuoco è il nomignolo che gli affibbiò il più grande dei
suoi contemporanei, Musil). Di solito avevo anch'io la lingua pronta
- almeno con Anna - ma tutt'e due stavamo zitti, ligi alla
disciplina del concerto; e già in quel primo incontro era forse
deciso il futuro dei nostri rapporti, l'ostilità di Werfel e la
mia antipatia, l'inimicizia che doveva indurre Werfel ai più rozzi
interventi nella mia vita.
Adesso però sono ancora seduto vicino ad Alma, in mezzo ai suoi
trofei, e lei, ignara di quell'incontro al concerto, ha appena
mandato il terzo trofeo a cercare il quarto - il suo nome è Franzi perché venga giù, se per caso non sta scrivendo. A quanto sembra,
stava proprio scrivendo, perché non si fece vedere, e per me
fu meglio così, perché ero sotto l'impressione sconvolgente della
vedova straripante e dei suoi primi trofei. Ero fermo a questa
impressione, volevo conservarla integra dentro di me, e c'era il
pericolo che i discorsi retorici di Werfel potessero alterarla in
qualche modo. Le cose comunque andarono così, e io non saprei dire
come me ne venni via, come mi congedai da Alma: nel ricordo io sono
ancora seduto accanto all'Immortale e la sento in eterno parlare di
"piccoli ebrei come Mahler".
Strasburgo 1933
Non so che cosa si ripromettesse Hermann Scherchen dalla mia
partecipazione al suo convegno di lavoro per la musica moderna. Io
non potevo dare alcun contributo al ricco programma di
Strasburgo. Le manifestazioni si tenevano al Conservatorio due
volte al giorno. Erano arrivati musicisti da tutto il mondo,
alcuni alloggiavano negli alberghi, i più erano ospiti di
cittadini di Strasburgo.
Io ero stato accolto dal professor Hamm, un noto
ginecologo che abitava nella città vecchia, non lontano dalla
chiesa di San Tomaso, nella Salzmanngasse. Pur essendo molto occupato, venne a p
rendermi
lui stesso all'ufficio del Conservatorio, dove i forestieri
venivano smistati alle loro abitazioni, e mi condusse a
piedi nella Salzmanngasse, illustrandomi subito alcune
particolarità della vecchia città. Quando ci fermammo davanti alla
sua casa, bella e solenne, rimasi colpito. Sentivo la vicinanza
della cattedrale: non avevo osato sperare che avrei abitato così
vicino alla meta dei miei desideri, perché era stata
soprattutto la cattedrale a farmi accettare l'invito a Strasburgo.
Entrammo nell'androne, assai più spazioso di quanto ci si potesse
aspettare in una via così angusta. Il professor Hamm mi
accompagnò su per un'ampia scala fino al primo piano e aprì la
porta della stanza riservata agli ospiti: una grande stanza,
molto comoda, arredata secondo il gusto del Settecento. Già sulla
soglia mi prese la sensazione che non ero degno di dormire lì, e fu
una sensazione così intensa da lasciarmi senza parole. Il
professor Hamm, che era un uomo vivace, molto francese, si
aspettava da me un'esclamazione di entusiasmo, perché nessun
ospite avrebbe potuto desiderare una stanza più bella. Sentì la
necessità di spiegarmi dove mi trovavo, mi fece ammirare la
vista sulla torre della cattedrale, che sembrava quasi a portata
di mano, e poi disse: "Nel Settecento questa casa era una
locanda, si chiamava "Auberge du Louvre". Herder vi ha abitato per
un inverno. Era malato, non poteva uscire, e fu qui che Goethe
veniva a trovarlo ogni giorno. Non lo sappiamo con sicurezza, ma la
tradizione vuole che Herder abbia abitato proprio in questa stanza".
Io ero sconvolto al pensiero che Goethe avesse parlato con
Herder in quella stanza.
"Proprio qui?".
"Sicuramente in questa casa".
Guardai spaventato verso il letto. Rimasi vicino alla finestra
da cui mi era stata mostrata la vista della cattedrale. Non osavo
rimettere piede nella stanza, tenevo d'occhio la porta da cui
eravamo entrati come se ormai mi aspettassi quel visitatore.
Ma non era ancora finita. Il professor Hamm, infatti, non aveva
pensato soltanto alla leggendaria tradizione della casa. Si
avvicinò rapidamente al comodino da notte, ne tolse un volumetto, un
vecchio almanacco tascabile (credo che risalisse al 1770), e me lo
porse.
"Un piccolo dono per l'ospite," disse "un Musenalmanach con
alcune poesie di Lenz".
"Di Lenz? Di Lenz?".
"Sì, prime pubblicazioni. Ho pensato che poteva
interessarle".
Come l'aveva saputo? Quel giovane poeta mi era caro come un
fratello, mi era familiare in un modo diverso da quei due grandi,
come qualcuno che ha sofferto un sopruso, che è stato defraudato
della propria grandezza. Lenz, un eterno poeta
dell'avanguardia, quello che avevo imparato a conoscere
attraverso quel racconto di
Büchner, il più bel brano di prosa tedesca; Lenz, il poeta
ossessionato dalla morte, il poeta cui non era dato aver la meglio
sulla morte. A Strasburgo, dove ora si raccoglieva un'altra
avanguardia, anche se era quella della musica, Lenz era a casa
sua. Qui aveva incontrato Goethe, il suo idolo, e l'incontro gli era
stato fatale; e qui, sessant'anni dopo, era venuto Büchner, il suo
allievo, che grazie a lui doveva portare alla perfezione, in un
frammento, il dramma tedesco. Erano queste le cose che sapevo
allora, e si concentravano tutte lì. Ma come poteva sapere il
professor Hamm che mi stavano tanto a cuore? Sarebbe inorridito se
avesse letto Nozze, e forse avrebbe perfino esitato ad
accogliermi nella sua dimora. Ma in lui l'orgoglio per quella
casa si univa all'istinto di un vero anfitrione, e perciò mi
riservava il trattamento al quale un giorno - forse avrei avuto diritto. E" vero, m'invitava a dormire nella stanza
in cui Herder aveva ricevuto Goethe, e chi mai al mondo potrebbe
aver diritto a un tale onore? Ma mi aveva anche messo lì l'almanacco
con le poesie di Lenz. Era un dono che risvegliava in me una
commozione fraterna, perché Lenz aspettava ancora una riparazione,
non
era ancora stato ammesso a pieno titolo nel santuario di cui
anche lui era degno. Portarono il mio bagaglio, e io mi insediai
nella stanza.
Durante le giornate del convegno accadeva un'infinità di cose:
due concerti al giorno, musica tutt'altro che facile, conferenze
(per esempio quella di Alois Hàba sulla sua musica microtonale),
conversazioni con persone nuove e a volte molto interessanti. Ciò
che mi piaceva particolarmente in quelle conversazioni era che
si discuteva di musica, non di letteratura, perché già allora non
sopportavo le conversazioni in pubblico su questioni letterarie.
Non mancavano gli inviti da parte dei notabili della città e gli
incontri serali dopo i concerti. Avevo la sensazione che tutto il mio
tempo fosse impegnato, sebbene io - a differenza dei musicisti in verità non facessi un bel niente. Ma ero considerato un
ospite personale di Scherchen, nessuno trovava da ridire sulla mia
presenza. Può sembrare strano che nessuno mi domandasse: "E lei,
che cos'ha scritto?". Non mi sentivo per nulla un truffatore, perché
avevo scritto "Kant prende fuoco" e Nozze, e avevo la consapevolezza
di aver fatto anch'io, come i compositori presenti a Strasburgo,
qualcosa di nuovo. Che nessuno conoscesse quelle mie opere, tranne
H", non mi procurava il minimo imbarazzo.
A tarda notte, poi, ritornavo nella stanza che, almeno ai miei
occhi, era stata sicuramente la stanza di Herder all'Auberge
du Louvre. Sentivo di non esserne degno, era una sensazione da
cui non riuscivo a liberarmi. Ogni notte era la stessa
eccitazione, una sorta di paura, la coscienza di una
profanazione, cui seguiva il castigo sotto forma di insonnia. Ma la
mattina, quando era l'ora, mi alzavo abbastanza fresco, mi
rituffavo di buon animo nel trambusto del convegno e per tutto il
giorno non pensavo a ciò che la notte mi avrebbe nuovamente
riservato. Il passato in cui ero finito quasi per errore ma nel
quale sarei rimasto volentieri per tutta la vita, suscitava in me
un'inquietudine che trovava un solo compenso; e questo era così
meraviglioso che ogni giorno mi concedevo qualche pausa per
godermelo: il mio compenso era la cattedrale.
Ero stato a Strasburgo una sola volta, nella primavera del 1927,
durante un viaggio di ritorno da Parigi a Vienna. Avevo fatto tappa
in Alsazia per vedere la cattedrale a Strasburgo e l'altare di
Isenheim a Colmar. Nelle ben poche ore della sosta a Strasburgo
avevo cercato la cattedrale, e improvvisamente, già tardi nel
pomeriggio, mentre ero nella Krämergasse, me l'ero vista davanti.
Lo splendore rosso della pietra sull'immensa facciata
occidentale era stata un'apparizione inattesa, poiché tutte le
immagini che avevo visto prima erano in bianco e nero.
Ora, dopo sei anni, ritornavo a Strasburgo, e non per poche
ore - per settimane, un mese. Tutto era avvenuto molto casualmente
o così sembrava. Nella sua instancabile ricerca di adepti H" si
era rivolto a me, io avevo accettato il suo invito, e così,
contro la mia volontà, avevo spezzato i fili dell'impetuosa
passione per Anna, una passione appena agli inizi, e di cui era
responsabile anche H", il quale aveva tentato di usarmi come
portalettere. In verità non avevo esitato ad accettare,
nonostante tutti gli ostacoli. Stavo scrivendo la Commedia della
vanità ed ero ancora alla prima parte. C'erano dunque due cose
che mi trattenevano a Vienna, entrambe molto importanti: la mia
prima passione da quando avevo conosciuto Veza e - dopo il romanzo e
Nozze - un terzo lavoro letterario che era nato sotto l'impressione
degli avvenimenti in Germania e che dopo il rogo dei libri mi
bruciava tra le dita. I contrasti con Anna cominciarono quando la
mia partenza era già decisa ed era solo rinviata da qualche
contrattempo nel rilascio del passaporto. Ma la Commedia urgeva
sempre più: costretto a perdere il mio tempo nelle anticamere
degli uffici, scrissi la predica di Brosam mentre aspettavo il
visto al consolato francese.
Se oggi mi domando che cosa mi spinse veramente a partire
per Strasburgo, devo rispondere che fu - oltre all'energica
volontà di Scherchen, alla quale nessuno resisteva - il nome stesso
della città, quella rapida occhiata alla cattedrale verso
sera, e tutto ciò che sapevo su Herder, Goethe e Lenz a Strasburgo.
Non credo che questi nessi mi fossero ben chiari: nulla mi
sembrava così irresistibile come quell'immagine della cattedrale,
ma la mia passione per lo "Sturm und Drang" nella letteratura
tedesca era molto forte e ormai legata all'idea di quel breve
periodo di Strasburgo. Proprio adesso la letteratura tedesca
era in pericolo, una minaccia pesava su quello che ieri era stato
il suo carattere distintivo: l'impulso alla libertà; (1) e
questo era anche il vero tema del dramma al quale ora pensavo
continuamente. Ma Strasburgo, la culla di ieri, era ancora libera.
C'era da stupirsi se mi attirava, se mi coinvolgeva insieme alla
mia commedia, di cui avevo scritto solo una parte, piccola ma
importante? E non era stato a Strasburgo anche Büchner, al quale
dovevo l'incontro con Lenz? E Büchner non era per me, ormai da due
anni, la sorgente di tutto il teatro drammatico?
La città vecchia non era molto grande, e quasi
naturalmente si finiva sempre col ritrovarsi davanti alla
facciata della cattedrale. Ci si arrivava senza volere, e
tuttavia era ciò che in fondo si voleva. Mi attiravano le figure dei
portali, i profeti e più ancora le vergini folli. Le vergini sagge
mi lasciavano indifferente, credo che fosse il sorriso delle
vergini folli a conquistarmi. Di una di esse, quella che mi sembrava
la più bella, mi innamorai addirittura. Più tardi la incontrai per
le vie di Strasburgo, la condussi davanti alla sua effigie e fui
il primo a mostrargliela. Stupita, guardava se stessa nella
pietra, e il forestiero ebbe così la fortuna di scoprirla nella
sua città e la persuase che lì era esistita molto tempo prima di
nascere, sorridente dal portale della cattedrale, nella parte di
vergine folle che, a vederla nella realtà, non era poi così folle:
era stato il suo sorriso a sedurre l'artista e a indurlo ad
assegnarle un posto tra le sette fanciulle del gruppo di sinistra.
Tra i profeti trovai invece un cittadino di Strasburgo, anche
lui incontrato durante quelle settimane. Era uno storico
dell'Alsazia, un uomo esitante, scettico, che non parlava molto e
scriveva anche meno. Dio sa come era capitato tra quei profeti, ma
era lì, scolpito nella pietra; e se non accompagnai anche lui
davanti al portale, spiegai tuttavia a lui e a sua moglie, una
donna molto sveglia, dove poteva ritrovarsi; e mentre egli, scettico
come sempre, non si pronunciava su quella scoperta, sua moglie mi
diede pienamente ragione.
Ma il vero avvenimento di quelle feconde settimane
brulicanti di persone, di odori e di suoni era la scalata della
cattedrale. Mi ci dedicavo quotidianamente, non saltavo un
giorno. Sconsiderato e impaziente com'ero, salivo fino alla
piattaforma, non mi concedevo un attimo di sosta e arrivavo in
cima senza fiato. Per me un giorno che non cominciava con la
scalata non era un vero giorno, e il conto dei giorni era
scandito da quelle scalate. Così il mese della mia permanenza a
Strasburgo durò in realtà più di un mese, perché a volte,
nonostante tutto quello che c'era da ascoltare, riuscivo a
eclissarmi anche nel pomeriggio per scomparire sulla torre.
Invidiavo l'uomo che aveva la sua dimora lassù, perché aveva un bel
vantaggio nel lungo percorso delle scale a chiocciola. Ero
incantato dalla vista dei misteriosi tetti della città, ma anche da
ogni pietra che sfioravo durante la salita. Vedevo
contemporaneamente i Vosgi e la Foresta Nera, ed ero ben
consapevole di ciò che in quell'anno li divideva. Ero ancora
oppresso dalla guerra finita quindici anni prima e sentivo che
pochi anni mi separavano dalla prossima.
Scalavo la torre, quella che era stata portata a termine,
e, fatti pochi passi, stavo davanti alla lastra sulla quale
Goethe, Lenz e i loro amici avevano iscritto i loro nomi. Pensavo a
Goethe, ai momenti in cui Goethe attendeva lassù l'arrivo di
Lenz, il quale poco prima annunciava in una lettera estasiata a
Caroline Herder: "Non posso più scrivere, Goethe è da me e mi
aspetta già da mezz'ora sull'alta torre della cattedrale".
Nulla era tanto lontano dallo spirito della città quanto il
convegno indetto da Scherchen. Io non ero nemico del moderno, non
certo dell'arte moderna: come potevo esserlo? Ma quando la sera,
dopo l'ultima manifestazione, andavo a sedermi al Broglie, il locale
più elegante di Strasburgo, in mezzo ai musicisti venuti da
fuori, che in generale non potevano permettersi piatti troppo
costosi, e vedevo H'intento a consumare il suo caviale - perché lui
ordinava sempre caviale e crostini, lui solo -, allora mi domandavo
se si fosse mai accorto che a Strasburgo c'era anche una cattedrale.
Sfinito per la lunga giornata di lavoro, ma cercando di
nascondere la stanchezza, H" mangiava il suo caviale e ne ordinava
una seconda porzione. Si compiaceva di far vedere che lui mangiava
caviale, lui solo, e se qualcuno lo guardava bramoso ordinava
anche una terza porzione, per sé naturalmente, per il grande
lavoratore che
aveva bisogno di un alimento concentrato. Poiché il rito del
caviale si celebrava a tarda ora, solo raramente vi assisteva la
signora Gustel, sua moglie, che si era già ritirata in albergo a
sbrigare per lui le mansioni di scrivano. H" non sopportava che
le persone della sua cerchia stessero in ozio e trovava per tutte
qualcosa da fare, come in un'orchestra.
Della continua tensione che lo circondava lui non poteva farsi un
rimprovero, dal momento che la sua tensione superava quella di
chiunque altro. Fin verso la mezzanotte se ne stava al Broglie
davanti al caviale e allo champagne, ma per le sei del mattino
aveva già convocato in albergo una cantante per le prove. Non era
mai troppo presto, lui trovava sempre il modo di anticipare
l'inizio della sua giornata di lavoro, e poiché dava a tutti
l'esempio della sua spaventosa attività, nessuno avrebbe osato
protestare per l'ora insolita di un appuntamento. Tutti prestavano
la loro opera al convegno senza ricevere un compenso. I musicisti
erano accorsi sull'onda dell'entusiasmo, in onore della musica
nuova. Il Conservatorio, con le sue sale per i concerti, era
stato messo a disposizione gratuitamente. E, dopo tutto,
gratuitamente si prestava anche l'uomo più importante, colui che
vi profondeva l'impegno di gran lunga maggiore, un impegno che
superava - lui ne era convinto - quello di tutti gli altri messi
insieme. Si tenevano innumerevoli concerti, e ciascuno filava
alla perfezione, si eseguiva musica insolita, difficile, e come
un demonio il capitano vigilava su tutto evitando qualsiasi
contrattempo. Era un'impresa grandiosa, nella quale alla fin fine
il direttore contava più dei compositori, perché era lui a
presentare tutto quanto, le cose più diverse, spesso per la prima
volta, e senza di lui non si sarebbe mai venuti a capo di niente.
Alcuni cittadini di Strasburgo, scelti a dovere, tutti amanti della
cultura, potevano accedere la sera al locale di Place Broglie e
sedersi al tavolo di Scherchen. Si erano resi benemeriti ospitando
nelle loro case i partecipanti al convegno o anche offrendo
grandi ricevimenti. Ad essi era concesso il privilegio di
guardare H" mentre mangiava il suo caviale, e tutti pensavano che
quel caviale fosse ben meritato, come lo era lo champagne. Una
sera uno di loro, che conoscevo come un medico miscredente, si
rivolse a me e disse con ammirazione: "Mi sembra di vedere Gesù
Cristo".
Ma la giornata non era ancora finita. Alla Maison Rouge, l'albergo
di H", una compagnia molto più ristretta si intratteneva
ben oltre la mezzanotte. Lì c'erano solo gli iniziati, per
così dire, erano esclusi i cittadini e i soliti musicisti, lì si
ritrovavano tra loro gli eletti che avevano il diritto di
alloggiare alla Maison Rouge. C'era il giovane Jessner,
regista anche lui come il padre (2) (doveva mettere in scena Le
pauvre matelot di Milhaud allo Stadttheater), e c'era la vedova
Gundolf, che aveva già detto addio a Heidelberg. Gundolf era morto
da poco, ma lei prendeva parte alle allegre e talvolta sguaiate
conversazioni della notte. Scherchen, quando non si chiudeva nel
suo mutismo o non era occupato a spiegare o a dare ordini,
diventava cinico, e la scelta compagnia dei presenti si sentiva
onorata dal suo cinismo e stava al gioco.
Vale la pena di soffermarsi sul momento particolare in cui aveva
luogo il convegno per la musica moderna. Erano passate alcune
settimane dal rogo dei libri in Germania. Da sei mesi
era al potere l'uomo dal nome impronunciabile. Dieci anni prima
aveva imperversato in Germania una sfrenata inflazione. Dieci anni
dopo le truppe tedesche penetravano profondamente in Russia
e piantavano la loro bandiera sulla vetta più alta del Caucaso.
Strasburgo, la sede del convegno, era una città amministrata dai
francesi in cui si parlava un dialetto tedesco.
La città aveva conservato nelle vie e nelle case un carattere
"medievale" che divenne eccessivo per il naso dei forestieri a
causa di un lungo sciopero della nettezza urbana. Sopra questo
fetore si innalzava la cattedrale, e a chiunque era possibile
mettersi in salvo dando la scalata alla piattaforma.
L'organizzatore del convegno, pur essendo incline ad
atteggiamenti dittatoriali a causa della sua professione di
direttore d'orchestra, si rifiutava tuttavia di esibirsi nella
nuova Germania, dove sarebbe potuto salire ai massimi onori
grazie a un'origine incontaminata e alla sua teutonica
laboriosità. Fu uno dei non molti, e questo punto è stato
sottolineato a suo merito. Allora, a Strasburgo, era riuscito a
riunire una sorta d'Europa, un'Europa fatta solo di musicisti che
avevano fede nei loro tentativi di innovazione, un'Europa
coraggiosa e fiduciosa: che tentativi sarebbero stati infatti, se non
li avesse sorretti la fiducia in un avvenire?
In quelle settimane vivevo in mondi molto diversi. Uno di
questi aveva per centro il Conservatorio, dove passavo la maggior
parte della giornata. Chi entrava nel palazzo era accolto da un
frastuono assordante. In tutte le stanze si facevano prove, come in
ogni conservatorio, ma lì veniva realmente messo a profitto
ogni minimo spazio. E poi accadeva di ascoltare per lo più cose
imprevedibili. In ogni altro conservatorio si crede di conoscere ciò
che arriva all'orecchio durante le esercitazioni. E quasi sempre un
confuso incrociarsi di particolari ben noti, viene voglia di
scappare di corsa, spaventati dalla banalità delle cose già udite
mille volte che si condensano in un caos nel quale tuttavia ogni
particolare resta riconoscibile e indistruttibile. Nel
Conservatorio di Strasburgo, al contrario, tutto era nuovo e
inconsueto, il particolare come il confluire dei suoni in un
tutto unico, e forse era proprio questo ad affascinare e ad
attirare sempre di nuovo. Io rimanevo stupefatto davanti
all'indomabile costanza di quei musicisti, che non solo si
raccapezzavano tra le difficoltà delle loro nuove imprese, ma
lavoravano in quell'inferno, provando e riprovando e riuscendo a
giudicare, in mezzo al frastuono generale, se avevano fatto
progressi o no.
Forse uscivo così spesso dal Conservatorio solo per potervi
rientrare più spesso. Infatti, se lasciavo alle mie spalle il
frastuono, piombavo nel fetore dei vicoli. Lo sciopero della
nettezza urbana durava da settimane. Era impossibile farci
l'abitudine o dimenticarsene, un lezzo simile non si era mai
sentito, e poiché di giorno in giorno si faceva più forte, non
c'era nulla che colpisse i sensi con la stessa intensità, tranne
appunto il caos acustico del Conservatorio.
Fu in quei giorni, in quei vicoli, che mi colse il pensiero
della peste. All'improvviso, senza preparazione né transizione,
mi trovai nel Trecento, un'epoca che mi aveva sempre interessato per
i suoi movimenti di massa, i flagellanti, la peste, gli ebrei
bruciati sul rogo, tutte cose che avevo scoperto nella Cronaca
limburghese (3) e che poi avevo continuato a studiare.
Adesso ci abitavo in mezzo, nella casa raffinata di un medico, e mi
bastava fare un passo per scendere nei vicoli in cui regnavano
l'immondizia e il fetore. Invece di fuggirne, animavo la scena
con le immagini del mio terrore. Dappertutto vedevo cadaveri e
l'impotenza dei sopravvissuti. Mi sembrava che le persone
cercassero di evitarsi, nell'angustia dei vicoli, come se temessero
il contagio. Non facevo mai la via più breve, quella che dalla
città vecchia mi portava verso i quartieri nuovi e pomposi in
cui sorgeva anche la principale sede del convegno. Camminavo di
qua e di là per tutti i vicoli possibili, è incredibile
quanti itinerari si intrecciano in un'area così limitata.
Inspiravo il pericolo fino a riempirmene i polmoni, a quel pericolo
non volevo sottrarmi a nessun costo. Le porte davanti alle quali
passavo restavano chiuse. Non ce n'era una che si aprisse, e io
vedevo tutte le case piene di moribondi e di cadaveri. Ciò che
sull'altra riva del Reno appariva come un prologo, qui lo
avvertivo già come il risultato della guerra che non era ancora
cominciata da nessuna parte. Non guardavo avanti, neanche di dieci
anni - come
avrei potuto fare simili previsioni? -, invece mi guardavo indietro di sei seco
li, e là c'era
la peste, la massa dei morti che si propagava irresistibilmente e di
là rinnovava la sua minaccia. Tutte le processioni espiatorie
sfociavano nella cattedrale, e le processioni non sono mai state
d'aiuto contro la peste. Perché in realtà la cattedrale era lì per
se stessa, e il poterla contemplare era l'aiuto, come
l'esservi entrati, come il fatto che essa continuasse a stare in
piedi e non fosse crollata mai, in nessuna delle pestilenze.
Sentivo che anche a me si comunicava l'antico impulso alla
processione, ci eravamo radunati in tutti i vicoli e marciavamo
insieme verso la cattedrale. E poi tutti eravamo in piedi lì
dentro, tutti, io solo: forse era un ringraziamento e non una
preghiera, un ringraziamento perché potevamo sostarvi indenni,
nulla essendo crollato sopra le nostre teste e restando ferma al suo
posto la meraviglia delle meraviglie, la torre. Alla fin fine io
potevo salirvi e guardare dall'alto il mondo ancora immune dalla
distruzione; e quando lassù respiravo a pieni polmoni, la peste
che tentava di nuovo di propagarsi tutt'intorno sembrava respinta,
ricacciata nel suo vecchio secolo.
NOTE:
(1) Nel testo l'espressione Drang nach Freiheit si richiama al
movimento dello "Sturm und Drang". Un richiamo analogo si può
trovare nel precedente volume autobiografico di Canetti, Il
frutto del fuoco, dove la seconda parte è intitolata "Sturm und
Zwang" ("Tempesta e costrizione") ?N" d'T"*.
(2) Leopold Jessner, il padre, uno dei maggiori registi tedeschi
tra le due guerre, era nato a Königsberg nel 1878. Emigrò in
America nel 1933 e morì a Los Angeles nel 1945 ?N" d'T"*.
(3) La Limburger Chronik di Tileman Elhen abbraccia il periodo
dal 1336 al 1398. E" considerata un capolavoro tra le cronache
medievali tedesche ?N" d'T"*.
Anna
L'arrendevolezza delle donne verso H'era stupefacente. Erano
letteralmente comandate a bacchetta, costrette ad amarlo, e poi
lasciate al loro destino prima ancora di aver trovato un posto
nella sua vita. Si rassegnavano perché erano ancora legate a lui
dal loro interesse per la musica. Se la loro opera poteva essergli
utile, lui restava coscienziosamente imparziale. Così si salvava
sempre qualcosa della vecchia atmosfera, e nessuna perdeva la
speranza di riconquistare un giorno, all'improvviso, i suoi favori.
Nessuna era gelosa dell'altra, ciascuna si sentiva di volta in volta
la prediletta e si sforzava di custodire per sé il segreto di
quella predilezione. La possibilità di essere prescelta in questa
o in quell'occasione, il riserbo contro ogni indiscrezione erano più
importanti di un atteggiamento di gelosia e di odio nei confronti
delle altre. Con H" gli atti dettati dalla gelosia non
sarebbero approdati a nulla. H" non era influenzabile, si
sentiva un autocrate che faceva quel che voleva, e lo era
veramente.
C'era tuttavia un'eccezione: una donna che - per ragioni storiche,
si potrebbe dire - aveva il dovere di essere gelosa e faceva largo
uso di questo dovere. La signora Gustel, che nei giorni del
convegno era legata ufficialmente a H", era la sua quarta moglie,
e non da molto tempo, perché si era unita a lui solo poche
settimane prima. In verità aveva esitato parecchio a diventare la
sua quarta moglie, e non senza un buon motivo, poiché era stata
anche la sua prima moglie. Gustel gli era stata vicina negli anni
oscuri di Berlino, quando lui non era nessuno e voleva diventare
qualcuno solo col proprio lavoro. Lei era la sua ancella indiana e
ricordava una indiana fin nel colore rossiccio della pelle, che
sembrava una pelle conciata: l'abitudine al silenzio e alla
fedeltà avevano avuto questo effetto. Parlava molto raramente, ma
quando lo faceva ogni parola era aspra, quasi gliel'avessero spremuta
fuori a forza. Sembrava allora che fosse legata al palo del
supplizio, pronta a tutto pur di non cedere e capace di tacere a
oltranza. Fin dall'inizio aveva aiutato H" lavorando per lui,
scrivendo e annotando tutto quello che c'era da scrivere e da
annotare, lettere, accordi, appuntamenti, tutta la parte
organizzativa passava per le sue mani: lei non negava il suo aiuto
ovunque ci fosse qualche risultato da raggiungere. Anche quando
questi risultati cominciarono ad avvicinarsi e poi divennero
realtà, anche quando lei vide che ogni successo del marito le
scaricava addosso supplizi imprevedibili e innumerevoli,
anche allora rimase impavida al suo palo, ad attirarsi nuovi
supplizi. Lui stesso era taciturno, e non si riusciva a cavarne
più di quanto si ottenesse da Gustel. Lei taceva sulla propria
infelicità, lui sulla propria felicità. Tutt'e due avevano labbra
sottili, ermeticamente chiuse.
H'era ancora abbastanza giovane quando aveva assunto a
Francoforte, come successore di Furtwängler, la direzione dei
Saalbaukonzerte. Fu allora che conobbe Gerda Müller, la
Pentesilea della mia giovinezza, una delle attrici più
affascinanti del suo tempo. (1) Per lei abbandonò Gustel senza
tanti complimenti, e unendosi a Gerda Müller poté godersi
l'esatto contrario di Gustel: impeto e passione, ruoli violenti e
brutali, una forza che esisteva per amore di se stessa e non era al
servizio di nessuno. Con lei il palo del supplizio cessava di essere
una virtù perché era un segno di inettitudine. Forse in quel
periodo si svegliò in H" l'interesse per il teatro e il dramma.
Dovette essere un periodo turbolento anche nella sua vita privata,
se non proprio il più turbolento di tutti. Gustel si tirò in
disparte e dovette fare la prova di una vita monotona e meno
tribolata. Si trovò un amico col quale visse serenamente per sette
anni.
Credo che H" non mi abbia mai parlato di Gerda Müller, mentre mi
parlò molto della moglie successiva, che fece una breve apparizione
nella sua vita e fu l'unica ad andarsene contro la volontà di H".
Era attrice anche lei, ma mentre Gerda Müller si rifugiava
nell'alcool, Carola Neher viveva per l'avventura, anzi la eccitavano
le avventure più pazze. (2)
Qualche tempo dopo Strasburgo, uno o due anni dopo, feci un
viaggio a Winterthur, dove H" dirigeva l'orchestra del
mecenate Werner Reinhardt. Dopo averlo ascoltato in un concerto lo
accompagnai nella sua stanza e rimasi con lui fino alle ore
piccole. Avvertivo in H'un'inquietudine insolita, diversa
dall'ansia di opprimere e di dominare che gli era abituale. Lui
stesso appariva oppresso, come se qualcuno lo avesse sconfitto,
eppure il concerto era andato bene, sicuramente non peggio del
solito. Mi pregò di rimanere, sebbene fosse già molto tardi. Si
guardava intorno nella stanza in una strana maniera, come se
vedesse fantasmi. I suoi occhi vagavano inquieti qua e là, senza
fermarsi su nulla in particolare. Non mi guardava neppure, voleva
solo che lo ascoltassi. Ero un po'"spaventato da quell'ansia che in
lui non avevo mai visto, e restai in silenzio. All'improvviso la
cataratta si aprì, e H" si abbandonò con una passione che non mi
aspettavo: "E" accaduto qui, in questa stanza. E" stata
l'ultima volta che ci siamo parlati. Abbiamo parlato tutta la
notte"; e a scatti, quasi ansimando, mi fece il racconto
dell'ultima conversazione tra Carola Neher e lui.
Lei voleva andarsene, lui la scongiurava di restare. Lei non ne
poteva più, quella vita non le bastava. Voleva piantare tutto, il
teatro, la fama e lui, H", un pagliaccio, altro che direttore
d'orchestra. Lo disprezzava, era un impostore che recitava
davanti al pubblico dei concerti. Per chi credeva di dirigere,
per chi versava ogni sera quel fiume di sudore? E che razza di
sudore era quello? Sudore falso, sudore che non contava niente. Per
lei contava uno studente che aveva conosciuto, un ragazzo della
Bessarabia che era pronto a giocarsi la vita e non aveva paura di
niente, né della prigione né di una condanna a morte. H" sentì
che Carola faceva sul serio, ma era sicuro di poterla trattenere.
Finora aveva avuto ragione di tutto, anche di ogni donna, e se
c'era qualcuno che se ne andava poteva essere solo lui. Se ne
andava, lui, solo quando gli faceva comodo. Usò tutti i mezzi per
indurla a rimanere. Minacciò di tenerla sotto chiave. Disse che
doveva proteggerla da se stessa, salvarla dal pericolo mortale in
cui si stava cacciando. Quello studente non era nessuno, era un
ragazzino senza la minima esperienza della vita. Lo coprì di
insulti e restituì a lei tutto ciò che lei aveva appena detto
contro di lui e contro la sua arte di direttore. Sembrò che
gli attacchi contro lo studente come persona incrinassero la
sicurezza di Carola. Lei rispose affermando che era la causa di
quel giovane che le stava a cuore, non tanto lui quanto la sua causa:
anche un altro avrebbe potuto farle la stessa impressione se
avesse avuto quelle idee e se avesse dimostrato lo stesso
attaccamento per lei. Lo scontro durò tutta la notte. Lui voleva
stancarla per costringerla alla resa, lei opponeva una tenacia
irriducibile e rispondeva all'aggressione fisica con grida e
imprecazioni. Alla fine, era già mattina, lui credette di averla
domata. Lei si assopì, e lui la guardò soddisfatto prima di
addormentarsi a sua volta. Quando si svegliò, lei era scomparsa, e
non si fece più vedere.
Per giorni e settimane H" ne attese il ritorno. Aspettò una
notizia, non venne una parola. Non sapeva dove fosse finita. Nessuno
ne sapeva niente. H" fece fare delle ricerche, e risultò che anche
lo studente era scomparso. Dunque era fuggita con lui, come aveva
minacciato. Da tutte le piazze teatrali in cui la conoscevano,
veniva la stessa risposta. Era scomparsa senza lasciare traccia
e senza scrivere una parola a nessuno. Lui
era ancora quello che ne sapeva di più, dopo la battaglia di
quella notte, e si sentiva ferito, come se gliel'avessero
strappata dalla carne. Non si rassegnava e non poteva più lavorare.
Ebbe un tracollo e si considerò un uomo finito.
Era in una condizione di spirito così disperata che pregò
Gustel di ritornare. Aveva bisogno di lei, era pronto a giurare
che non l'avrebbe lasciata mai più. Avrebbe accettato tutte le
condizioni. No, non l'avrebbe ingannata mai più. Ma doveva
ritornare, subito, perché ne andava della sua vita. Gustel ruppe
l'amicizia settennale con un uomo che le aveva fatto solo del bene,
e ritornò da H", dal quale aveva ricevuto i torti peggiori.
Mise delle condizioni molto severe, e lui le accettò, promettendo di
dirle sempre la verità e di non nasconderle nulla.
Durante le settimane di Strasburgo l'attenzione con cui osservavo
il comportamento di H'era acuita da una serie di circostanze
delle quali né io né lui potevamo misurare tutta l'importanza. A
Vienna mi aveva usato come portalettere, e così avevo fatto la
conoscenza di Anna. Ignoravo il contenuto della lettera, ma H"
mi aveva incaricato di consegnarla a lei e a nessun altro. Era
un ordine perentorio, anche se H" non aveva speso molte parole.
Io avevo telefonato ad Anna ed ero stato convocato nel suo atelier
di Hietzing.
La vidi prima che lei mi vedesse. Più esattamente, vidi le sue
dita, occupate a modellare nell'argilla una figura di grandezza
superiore al naturale. Il viso restava nascosto. Anna mi voltava
ancora la schiena e apparentemente non udì lo scricchiolio
della ghiaia che mi entrava negli orecchi a ogni passo. Forse
non voleva udirlo, assorta com'era in quella figura dalle forme
appena accennate. Forse la visita, benché preannunciata,
cadeva per lei in un momento poco opportuno. Io pensavo solo alla
lettera che dovevo consegnare. Avevo appena messo piede nella
serra che serviva da atelier quando Anna si voltò con uno scatto
improvviso e mi guardò in faccia. Ormai ero a pochi passi da lei e
mi sentii scosso dal suo sguardo. Da quel momento i suoi occhi non
mi lasciarono più. Non ero del tutto impreparato, perché avevo
avuto il tempo di avvicinarmi, ma fu lo stesso una sorpresa:
un'immensità senza fondo che non mi aspettavo. Anna era fatta
solo di occhi, tutto il resto che si vedeva di lei era illusione.
Era una sensazione folgorante, ma nessuno avrebbe avuto la forza e
l'acume per confessarla a se stesso. E" impossibile ammettere
qualcosa di così mostruoso: occhi più vasti della persona cui
appartengono. Nella loro profondità trova posto tutto quello che
puoi aver pensato, e adesso che c'è spazio per accoglierlo
dovresti trovare le parole per esprimerlo.
Vi sono occhi che fanno paura perché mirano solo a sbranare.
Servono a rintracciare la preda che, una volta scoperta, è
condannata a essere preda: anche se riesce a sottrarsi resta
bollata come tale. E" tremenda la fissità di uno sguardo
inesorabile. Non cambia mai, è prefigurata per sempre, non c'è
vittima che possa modificarla. Chi entra nel suo campo visivo è
già vittima, non può opporre alcuna difesa, potrebbe salvarsi
solo attraverso una metamorfosi totale. Poiché nella realtà la
metamorfosi non è possibile, miti e uomini sono sorti per causa sua.
E" un mito anche l'occhio che non cerca vittime da sbranare
e tuttavia non abbandona più ciò che ha visto una volta. Questo mito
è diventato realtà, e chi ne ha fatto l'esperienza non può non
ripensare con terrore ed emozione all'occhio che l'ha costretto ad
annegare nella sua vastità e profondità. L'offerta è irresistibile:
vieni a gettarti in me con tutto quello che puoi pensare e dire,
vieni, dillo, e annega!
La profondità di questi occhi non ha limiti. Ciò che vi precipita
non tocca mai il fondo, e nulla ritorna più a galla. Il mare di
quest'occhio non ha memoria, è un mare che esige e riceve. Tutto
quello che hai gli viene dato, tutto ciò che conta, ciò che forma
la tua natura più intima. Non è possibile rifiutargli nulla.
Non è un atto di violenza, non è un furto. Quello che dài lo dài
con gioia, come se questa fosse la sua naturale destinazione,
come se non ci fosse altra destinazione possibile.
Cessai di essere un portalettere nel momento in cui consegnai
la lettera ad Anna. Lei non la prese, ma con un cenno del capo mi
indicò un tavolo, nell'angolo dello studio, che prima non avevo
notato. Mi avvicinai al tavolo facendo tre passi di lato e deposi
la lettera, forse a malincuore, perché adesso avevo una mano libera
per lei e non volevo dargliela. Gliela porsi solo a metà, lei guardò
la sua mano destra, imbrattata di argilla, e disse: "Come vede, non
posso darle la mano".
Non so che cosa ci dicemmo subito dopo. Mi sono sforzato di
ritrovare le prime parole, le sue come le mie. Si sono
perdute. Anna era tutta nei suoi occhi, e per il resto quasi
muta: la sua voce, profonda com'era, non ha mai avuto un
significato per me. Forse lei non parlava volentieri, rinunciava
alla voce tutte le volte che poteva, prendeva sempre in prestito la
voce di altri, sia nella musica sia nei rapporti con le
persone. Per lei era più importante agire che parlare, e poiché, a
differenza di suo padre, non era portata all'azione, cercava
almeno di plasmare con le dita. Io ho conservato il ricordo del
primo incontro con lei liberandolo da tutte le parole: dalle sue,
perché forse non ce n'era nessuna da conservare, dalle mie,
perché lo stupore provato alla vista di Anna non aveva ancora
trovato parole abbastanza articolate.
Eppure so che qualcosa era stato già detto prima che ci sedessimo
al tavolo che mi aveva indicato. Anna voleva leggere qualche mio
lavoro e io le spiegai, senza vergognarmi, che non avevo
pubblicato neanche un libro e che avevo soltanto il
manoscritto di un lungo romanzo. Se voleva, la prossima volta
potevo portarglielo. Disse che le piacevano i romanzi lunghi, non i
racconti di poche pagine. Fece il nome di Fritz Wotruba, dal quale
prendeva lezioni di scultura. Io ne
avevo sentito parlare, lo ammiravano per il suo spirito
indipendente e lo temevano per la sua irruenza. Anna aggiunse che
al momento Wotruba non era a Vienna. Raccontò che prima si
era dedicata alla pittura e aveva studiato con De Chirico a Roma.
Della lettera di H" non si curava affatto. L'aveva lasciata
sul tavolo, ancora chiusa, e non poteva non vederla. Mi ricordai
del mio incarico, come se da H'avessi ricevuto una consegna, e
dissi esitando: "Non vuole leggere la lettera?". Lei la prese in mano
con aria annoiata, la scorse rapidamente, come se tutto si
riducesse a due o tre righe, mentre era una lettera piuttosto
lunga. Sapevo che la scrittura di H'era anche difficile da
decifrare, e tuttavia sembrò che Anna avesse afferrato tutto al
primo sguardo. Depose la lettera con un gesto di ripulsa che la fece
finire più vicino a me, e disse: "Non c'è niente di interessante".
La guardai stupito. Avevo creduto che tra lei e H" ci fosse
quasi un'amicizia e che lui volesse comunicarle qualcosa di
importante, tanto importante che si era rivolto a me per evitare di
servirsi della posta. "Può leggerla" disse Anna. "Ma non ne vale la
pena". Io non la lessi.
Come potevo pensare ancora a un messaggio importante se lei se
ne sbarazzava così bruscamente? Non sapevo spiegarmi la sovrana
indifferenza di Anna, il disprezzo che dimostrava per H". Ma ormai
non ero più un portalettere. Non ero più tenuto a rispettare i
limiti del mio incarico perché Anna me ne aveva esonerato. Si era
comunicata anche a me la leggerezza con cui lei aveva messo da parte
la lettera, senza il minimo segno di collera o di disappunto. Non
pensai di domandarle ancora se voleva consegnarmi una risposta
per H'o se gli avrebbe scritto direttamente, senza servirsi di
me.
Quando mi congedai, avevo un nuovo incarico: dovevo ritornare
presto per portarle il mio manoscritto. Mi feci vivo tre giorni
dopo, e l'attesa mi era sembrata molto lunga. Anna lesse subito
il romanzo, credo che nessun altro l'abbia letto così rapidamente.
Da allora diventai per lei una persona vera, e cominciò a trattarmi
come se fossi provvisto di tutto, anche di occhi. Diceva che a
quel libro dovevano seguirne molti altri della stessa qualità, e
ne parlò anche in giro. Insisteva per vedermi e mandava lettere e
telegrammi. Che un amore potesse cominciare con i telegrammi era
per me un'esperienza del tutto nuova: ne ero sbigottito, all'inizio
mi sembrava impossibile che una frase di Anna mi arrivasse tanto in
fretta.
Mi invitò a scriverle e mi diede un recapito dal quale le mie
lettere le sarebbero state inoltrate. Bisognava metterle in una
busta, chiudere la busta con ogni cura e infilarla in una seconda
busta da indirizzare alla signorina Hedy Lehner nella
Porzellangasse. Era questo il nome di una giovane modella che
andava da Anna ogni giorno, una bella ragazza con i capelli rossi e
un viso volpino. A volte, arrivando all'atelier, la vedevo di
sfuggita: aveva un sorriso quasi impercettibile, taceva e
scompariva. In certi casi aveva appena consegnato una mia
lettera, e allora Anna non aveva avuto il tempo di leggerla e
nemmeno di aprirla. Anna era molto guardinga, perché qualcuno
poteva sempre arrivare inaspettatamente. Mi confessò che le
costava fatica parlare con me prima di aver letto la lettera, e
anzi avrebbe preferito non vedermi così presto. E" vero che io le
raccontavo una quantità di cose, e lei ascoltava tutto
avidamente, ma più ancora le piacevano le lettere in cui la
glorificavo.
"Tamburi e trombe" era l'espressione con cui Anna
descriveva le mie frasi trasferendole in una terminologia che le era
più familiare. Lettere simili non gliele aveva mai scritte
nessuno, e ne arrivavano molte, anche tre in un giorno, tante che la
signorina Hedy Lehner non riusciva sempre a consegnarle subito,
una dopo l'altra. La ragazza avrebbe dato nell'occhio se si fosse
fatta vedere più volte al giorno, e poiché Anna era sotto stretta
sorveglianza (un regime che lei del resto aveva accettato), ogni
imprudenza poteva costarle la perdita della modella che le era
stata concessa. Alla mia esuberanza verbale Anna rispondeva con
altrettanti messaggi, spesso con telegrammi (che Hedy portava
all'ufficio postale dopo aver lasciato l'atelier). I
telegrammi si addicevano a una persona di poche parole come Anna,
ma lei era orgogliosa e voleva ringraziare anche per lettera
chi le rivolgeva così copiose e fantasiose testimonianze di
glorificazione.
Anna mi sembrava molto misteriosa, e in realtà era piena di
misteri. Io non sapevo quali e quanti segreti dovesse
custodire, non pensavo che il silenzio su quei segreti fosse
diventato un modo di vivere, una questione vitale. E" vero che
Anna, per sua fortuna, dimenticava molto facilmente, ma c'erano
altri che potevano risvegliare in lei il ricordo del passato. Le
figure che modellava, applicandosi con tanto impegno, sembravano
l'essenza stessa della segretezza. Per lei lavorare sodo era un
punto d'onore, e se già aveva ereditato questo atteggiamento dal
padre, un severo richiamo al lavoro le veniva adesso da Wotruba, il
suo giovane maestro, che era abituato a scolpire le pietre più dure.
Certo, Anna modellava anche, soprattutto delle teste, e quello
non era un lavoro duro, bensì qualcosa di totalmente diverso:
era per lei l'unico mezzo per avere contatti con altre persone,
l'unica via che non le fosse preclusa dalle abitudini vessatorie e
amatorie di sua madre.
Nelle sue lettere Anna non si scopriva, ma almeno tentava
di reagire, e questi tentativi, finché duravano, riuscivano
ad appagarla. Quando non poteva più reagire, nei periodi di
delusione - ed erano frequenti, poiché Anna restava cieca davanti
alle persone che non posavano per lei e soprattutto davanti a quelle
che aveva deciso di amare -, in quei periodi di delusione si
abbandonava interamente alla musica. Suonava molti strumenti, ma
il pianoforte era il suo rifugio. Credo di non averla mai sentita
suonare, evitavo tutte le occasioni, e perciò non so dire - per
me è rimasto un enigma - che cosa significassero realmente
per Anna quegli sfoghi solitari. Io diffidavo di una musica che
concedeva tanto spazio alla scultura.
L'aureola di gloria che cingeva il capo di Anna era così
splendente che non avrei dato credito alla minima insinuazione. Se
qualcuno fosse venuto a dirmi le cose più orribili, se mi avesse
dato tutte le prove, scritte di pugno da lei, per dimostrarmi
che quelle cose Anna le aveva pensate, fatte e confessate, io
non avrei creduto né a lui né alla stessa scrittura di Anna.
Per me Anna era intangibile, e mi riuscì tanto più facile
conservare questa immagine quando di lì a poco ebbi davanti agli
occhi la sua immagine in negativo, l'immagine di sua madre, sulla
quale potevo rovesciare tutto ciò che di penoso si notava in
quell'ambiente. Erano lì tutt'e due: da
una parte la luce muta che si nutriva solo di colpi di scalpello
e di pura glorificazione, dall'altra la vecchia insaziabile, sempre
brilla. La stretta parentela che le univa non poteva trarmi in
inganno: io vedevo nella figlia una vittima, e vedevo giusto,
almeno nel senso che si è vittime dell'atmosfera che si respira in
tenera
età e poi si continua a respirare.
Il fatto che H" mi avesse scelto come portalettere poteva
essere la riprova di quanto egli mi riteneva innocuo. Prendeva
se stesso talmente sul serio che il peso di una sua lettera
autografa superava di gran lunga il peso di qualsiasi
intermediario. Ma può anche darsi che mi giudicasse
particolarmente innocuo perché aveva
ascoltato la mia lettura di Nozze. L'autore di un dramma così
glaciale doveva essere un nemico giurato di ogni piacere.
Forse gli sembrò perfino spiritoso adoperare un essere simile
come latore di una lettera d'amore. Ma H" non ebbe nessuna
risposta, neanche un diniego. Quando andai a trovarlo tra una
prova e l'altra subito dopo il mio arrivo a Strasburgo, pronunciò
solo tre frasi, nella solita maniera sforzata. Cominciò domandando
se avevo consegnato le sue due lettere ad "Anni", come lui la
chiamava. "Naturalmente" dissi io, e aggiunsi molto stupito:
"Perché, non le ha risposto?". Da queste parole H" dedusse che avevo
visto Anna più di una volta e che forse eravamo addirittura
diventati amici. Era un sospetto, per il momento, e come molti
uomini di potere H'era portato a sospettare sempre. Le mie parole
"Perché, non le ha risposto?", significavano per lui che dovevo
conoscere Anna abbastanza bene per sapere che aveva l'abitudine di
rispondere. H'aveva il diritto di pensarlo. Ma il suo disprezzo
per un giovane oscuro e trascurabile era d'altra parte così grande,
così naturale in lui, che si affrettò a soffocare quel sospetto. E,
con ogni mezzo, fece di tutto per scoprire che non c'era nulla da
scoprire.
Durante i primi giorni H" cercò di provocarmi con battute
sarcastiche sul conto di Anna. Aveva i capelli biondi ossigenati,
diceva, ma una volta erano di un grigio topo; e calcava sul
"grigio" come se Anna fosse invecchiata precocemente e avesse
avuto i capelli grigi fin dal giorno in cui l'aveva conosciuta,
quando lei aveva vent'anni, ed era la moglie di Ernst Krenek. E il
suo modo di camminare? Ci avevo fatto caso? Quella non poteva essere
una donna, nessuna donna cammina così. Ognuna delle sue
osservazioni mi faceva salire il sangue alla testa. Difesi Anna con
tanta passione e tanto furore che H" non tardò a capire tutto. "Lei
è innamorato mica male," disse "da lei non me lo sarei mai
aspettato". Non ammisi niente, non tanto per discrezione quanto
perché odiavo H" per le sue osservazioni. Ma parlai di Anna nei
toni più elevati, e H" sarebbe stato un imbecille a non
accorgersi che la amavo. Fu uno strano momento quello in cui H"
mi obbligò ad erigermi a paladino di Anna, perché pochi giorni
dopo il mio arrivo a Strasburgo avevo ricevuto un telegramma
e una lettera con cui lei mi dava freddamente il benservito.
Dopo due mesi, poco più, finiva per lei un rapporto che doveva
perseguitarmi ancora per anni. Non mi faceva rimproveri, non dava
spiegazioni. La lettera fatale cominciava con questa frase:
"Credo, M", di non amarti". Anna mi aveva dato un nome irlandese
che ora suonava irreale come le lettere in cui prima aveva
protestato il suo amore. E adesso veniva H", ignaro della
disgrazia che mi aveva colpito e che lui stesso aveva provocato - io
ritenevo infatti che fosse stato il mio viaggio a Strasburgo a
disilludere Anna sul mio conto -,
adesso veniva H'e faceva del suo meglio per distruggere con ogni
frase l'immagine di lei. Era evidente il piacere che provava in
quella perfida impresa. Ogni volta lui diceva di Anna cose
peggiori, e più di una volta io pensai che aspettasse solo di
dirne altre e ancora più cattive.
Ci vedevamo brevemente tra le prove e i concerti, mentre H"
trangugiava caviale e crostini al Broglie, oppure più a lungo nel
suo albergo, a tarda notte, quando la cerchia più ristretta era
radunata a scambiarsi malignità. Ma H" preferiva sparlare di Anna
quando era solo con me. Alla fine, ma non era passato molto tempo,
venne una sua diffida vera e propria: "Non metta le mani in questa
faccenda, non fa per lei, lei è troppo ingenuo e inesperto".
Ogni frase era un'offesa, e io fremevo, ma ancora di più mi feriva
ogni offesa rivolta ad Anna. H" se ne accorse, e quando tornò
alla carica sulla strana andatura di Anna, tirò fuori una storia
così abominevole che ancora oggi non so decidermi a riferirla.
Io lo fissai inorridito, ma anche con aria interrogativa, come se
non avessi afferrato. Lui non volle rinunciare al piacere di
ripetere la frase. "Ma perché, perché?" domandai, ed ero talmente
sbigottito che non mi scagliai subito contro di lui. Con le sue
affermazioni mostruose H" colpiva non tanto Anna quanto se stesso.
Capì di avere esagerato, di essersi spinto troppo oltre. "Adesso,
per favore, non si agiti tanto per così poco. Ci sono più cose tra il
cielo e la terra di quante lei ne possa immaginare".
Non domandai come fosse venuto a conoscenza di tutto ciò.
Sapevo che mentiva, e sapevo anche perché. Mi ricordai del gesto con
cui Anna aveva spinto via quella lettera, dicendo: "Non c'è niente di
interessante". H" le era indifferente. Lei lo aveva sempre spinto
via, come aveva fatto con la lettera in mia presenza. Anna non
provava alcun interesse per lui, neanche per il musicista,
figuriamoci per l'uomo. C'erano direttori d'orchestra che la
interessavano, con i quali aveva rapporti, e come figlia di suo
padre aveva qualche titolo per giudicare se un direttore era bravo.
Per lei H" poteva dirigere una banda militare o poco più, il
suo aspetto e i suoi atteggiamenti gli giocavano un brutto scherzo.
Proprio lui, che si dava tanto da fare per scoprire musica nuova
e difficile, veniva retrocesso all'ultimo posto, dietro coloro
che si sarebbero ben guardati anche solo dal toccare un brano di
musica moderna, inconsueta. Il rifiuto di Anna lo feriva in modo
particolare. H" tentava di prendere piede a Vienna, ma non
contava nulla agli occhi della madre, che era un personaggio molto
influente. Per lui, quindi, sarebbe stato tanto più importante
contare qualcosa agli occhi della figlia. E poiché lei, la figlia
di Mahler, non voleva saperne, H" non poteva fare a meno di
coprirla dei peggiori insulti.
Mi trovavo improvvisamente in una situazione tesa fino al punto
di rottura. Se non mi fossi tanto appassionato alla vita di
Strasburgo, alla storia letteraria della città e anche alla nutrita
schiera di eccentriche figure di musicisti che avevo conosciuto
tutte insieme in pochi giorni, se non fosse stato per questo, non
so se avrei trovato la forza di rimanere. Era la caduta da un
cielo luminoso in cui ero stato innalzato. Una donna che ammiravo e
veneravo, che trovavo bella e nella quale vedevo perpetuarsi la
forza creativa di un grande uomo, mi aveva accolto nel suo mondo,
aveva letto il mio romanzo e l'aveva giudicato degno della sua
affettuosa attenzione. Il romanzo non era neppure stato pubblicato e
solo pochi ne conoscevano l'esistenza. Pochi sapevano anche del
dramma che avevo letto al direttore d'orchestra e che mi aveva
fruttato un suo invito al convegno dei musicisti nuovi. Dovevo
quell'invito al mio dramma e dovevo l'amore di Anna al
romanzo. Subito dopo il mio arrivo a Strasburgo ero salito
sulla piattaforma dove Goethe aveva atteso la venuta di Lenz. Ero
stato lassù davanti alla lastra sulla quale avevano iscritto i loro
nomi. Nella città vecchia, ai piedi della cattedrale, ero stato
accolto in una delle case più belle, ammesso nella stanza in cui, a
quel che si diceva, Goethe aveva fatto visita a Herder malato.
Forse il fatto che il mio senso di felicità si fosse
stranamente impregnato della profonda devozione verso quei grandi
spiriti vissuti a Strasburgo avrebbe portato a una hybris
pericolosa. Forse, esaltato dall'atmosfera della stanza, del
tempio, in cui dovevo dormire, avrei concepito propositi nuovi e
smisurati, avrei abbandonato il compito vero e difficile che mi ero
assegnato. Ma la fortuna volle che fossi preso di mira dalla
sfortuna proprio al momento giusto. Tre giorni dopo il mio arrivo
trovai alla segreteria del Conservatorio la lettera e il
telegramma di Anna. In mezzo al tumulto infernale delle prove, tra
cento occhi, lessi quelle parole fredde come il ghiaccio. Anna
non mi rimproverava niente, ma non sentiva più niente per me e
dichiarava senza ritegno e senza riguardo che le erano piaciute
soltanto le mie lettere, non chi le scriveva. Adesso non parlava con
nessuno, era ritornata al suo pianoforte e suonava solo per sé. E
benché nella lettera non vi fosse nessuna sfumatura emotiva,
tuttavia si avvertiva una tristezza - molto contenuta - per la
delusione sofferta. Anna si augurava di ricevere le mie lettere
anche in futuro, ma senza promettere che avrebbero avuto una
risposta. Io non contavo più, ero stato deposto sulla terra, ma mi
restava la facoltà di raggiungere il cielo di Anna con le lettere,
soltanto con le lettere. C'era un che di sovrano nel modo in cui
Anna trattava il suo prossimo, come se
esercitasse un diritto naturale, il diritto di innalzare e di
destituire, senza spiegazioni e senza cautele, come se la persona
colpita più duramente dovesse ancora esserle grata perché il colpo
veniva da lei.
Il senso di annientamento che si diffuse in me fu tuttavia
bilanciato dal duello cavalleresco che negli stessi giorni dovevo
sostenere per Anna. Di tanto in tanto H" cercava di buttarla ancora
più in basso, di scalzarla dal suo piedistallo, e ciò che riusciva
più insopportabile era il fatto che quelle contumelie erano
intrise di una strana specie di libidine che doveva eccitare la
mia gelosia. Lui stesso agiva per gelosia e commetteva l'errore di
attribuire a me una fortuna che non avevo più, perché io ero stato
buttato a terra. Respingevo tutti i suoi attacchi, gli ricacciavo
in gola a una a una le sue volgarità, ero caparbio come lui, anche
se del mio veleno ero assai meno sicuro che lui del suo.
All'inizio ero ancora prudente per non esporre Anna e me, noi due
- come se esistesse ancora un "noi due" - al ludibrio di H". Ma
poi, con l'aggravarsi della tensione, quando le offese di H" non
ebbero più limiti, lasciai cadere ogni ritegno e parlai di Anna
come nelle lettere che le avevo scritto e che ora non dovevo più
scriverle. Nella lotta contro la perfidia di H" tutto ciò che vi
era stato tra Anna e me - o avevo creduto che vi fosse - rimase
intatto e ben saldo. Io non potevo lamentarmi, non potevo dirgli
la nuova verità, ma proclamavo la vecchia verità con tale veemenza
e convinzione che alla fine lui restava interdetto e ammutoliva,
pieno di rabbia, davanti alla mia incrollabile fede.
Poiché H" parlava solamente in pubblico o in funzione del
pubblico, le molte persone che lo attorniavano e formavano la sua
corte non potevano non meravigliarsi se qualche volta lui voleva
appartarsi con me, sia pure per poco. Ogni volta H'annunciava
expressis verbis quei nostri incontri a quattr'occhi. "Devo parlare
con C"" diceva. Il tono faceva pensare a una questione
importante, ma quei pochi minuti strappati alla sua frenetica
attività erano poi dedicati esclusivamente alle discussioni su
Anna. Senza dubbio H" si godeva i miei impetuosi contrattacchi,
perché non prendevano mai di mira la sua persona ma erano vere e
proprie apologie di Anna e contrastavano a tal segno con le sue
oscene calunnie che lui stesso, H", ne aveva bisogno. Non poteva
farne a meno, aveva bisogno di quelle calunnie e delle mie
apologie, e forse anch'io - ma solo adesso me ne rendo conto avevo bisogno delle une e delle altre per uscire dalla pena e
dall'umiliazione che provavo a causa di Anna.
Gli altri, non avendo la minima idea del vero tema dei nostri
colloqui, avevano l'impressione che H" si consultasse con me su
certe questioni, come se tra me e lui esistesse un rapporto di
fiducia, un rapporto indispensabile per l'intensa attività che H"
doveva svolgere durante quelle settimane musicali.
Era della stessa opinione anche Gustel, che a modo suo doveva
sorvegliare il marito. H" l'aveva richiamata spergiurando che non
poteva vivere senza di lei, e per convincerla della sua importanza,
per invogliarla ad assumere la sua nuova funzione, le aveva promesso
la più assoluta sincerità. Gustel aveva il dovere di vigilare perché
lui non fosse attirato in nuove complicazioni. Era ancora fresca la
crisi seguita alla fuga di Carola Neher, che lo aveva piantato nel
modo più ignominioso e senza nessuna "circostanza attenuante".
Era la prima volta che una storia di donne - o per meglio dire: una
sconfitta di fronte a una donna - lo privava della capacità di
lavorare, e lui, l'imperturbabile H", era rimasto talmente turbato
da cercare rifugio in Gustel, la prima moglie, la moglie degli anni
oscuri. Era sincero e non la ingannava nell'affidarle il nuovo
incarico di vigilare su di lui affinché nessuna donna potesse
nuocergli.
Gustel aveva dunque il diritto di scoprire, anche per fare una
prova, quali fossero gli argomenti delle conversazioni
confidenziali tra H'e me. Cominciò quindi a farsi sotto, e per
guadagnarsi la mia amicizia, e forse anche il mio aiuto, arrivò
perfino a parlarmi di sé, lei che era così ruvida e chiusa. La
condotta di H" le causava indicibili sofferenze ogni volta che una
donna collaborava con lui, e al convegno partecipavano anche molte
musiciste: alcune cantanti, tra le quali una oltremodo seducente,
disinvolta e pronta a tutto, ma anche una meravigliosa violinista che
H" conosceva già da Vienna, una creatura infantile che incantava
tutti con l'originalità delle sue espressioni, con una naturalezza
che era però spiritualizzata e non priva di pretese. Questa
violinista veniva da una famiglia di grande cultura musicale che
le aveva dato anche, tra gli altri, il nome di Amadea in onore di
Mozart. Del resto era degna di quel nome, perché in lei tutto era
musica, ogni fibra e ogni respiro. In lei era natura ciò che un uomo
come H" si era dovuto conquistare a prezzo di fatiche
sovrumane. I tempi che doveva seguire rientravano in una
forma di obbedienza: le partiture erano prescrizioni nel pieno
senso della parola. Direttore d'orchestra e partitura erano per lei
una cosa sola e inscindibile, e ogni ordine del direttore,
qualunque ordine, era
una continuazione, un'estensione della partitura. Avrebbe dato
la vita per
una partitura, e naturalmente anche per colui che ne era padrone
e signore. Amadea - la chiamo col secondo dei suoi nomi, quello
mozartiano, che in verità veniva usato solo in forma abbreviata - non
faceva alcuna differenza tra i signori della musica di allora,
mentre faceva molta differenza tra le opere in sé e aveva in
proposito idee e convinzioni ben radicate. Le sue capacità non erano
solo di natura tecnica, s'intendeva di Bach, che forse era il Giove
del suo Olimpo, s'intendeva di Mozart, ma anche di novità
assolute, davanti alle quali il colto pubblico viennese inorridiva
come davanti al demonio. Fu tra i primi a suonare musiche di
Alban Berg e Anton von Webern, e fu chiamata perfino a Londra per
la loro esecuzione. Era però docilissima alle istruzioni dei
veri usufruttuari di tutte le opere, i direttori d'orchestra: non
si piegava alle loro persone, perché di queste non sapeva niente,
bensì ai loro consapevoli ordini di potenti della musica. A
Vienna aveva già collaborato con H", e a Strasburgo accettava
che lui la convocasse per le prove alle sei del mattino; ed
essendo
una creatura assolutamente limpida e
aperta, non sapeva nascondere la sudditanza che la legava a lui
fino a farne il vero oggetto della gelosa sorveglianza di Gustel.
Io non m'intendevo molto di musica. Non me n'ero mai occupato
dal punto di vista teorico. Ero un ascoltatore volonteroso,
ma non avevo nessun metro per giudicare. Mi lasciavo impressionare
dalle cose più disparate, da Satie e da Strawinsky, da Bartòk e da
Alban Berg, ma senza una reale conoscenza, in un modo che non mi
sarei mai permesso nelle cose letterarie.
Tanto più importante era per me osservare attentamente le
persone nella molteplicità delle reazioni che si manifestano tra
loro in simili circostanze. Ne ricavai esperienze
incancellabili. Per la maggior parte si trattava di persone che non
ho più visto, e tuttavia le ho ancora davanti agli occhi, chiare
e nette, a cinquant'anni di distanza: mi piacerebbe poter dire oggi
a ciascuna di esse l'impressione che mi diede allora. Ma l'oggetto
principale delle mie osservazioni nei giorni del convegno era
colui che l'aveva indetto, l'uomo che ne era l'artefice e il
cuore. Fu uno studio meticoloso e spietato, proprio come era lui.
Non mi lasciavo sfuggire una parola, non un gesto, non un silenzio.
Finalmente avevo davanti a me, allo stato puro e a portata di mano,
ciò che volevo capire e rappresentare: un uomo di potere. (3)
Dopo il felice esito del convegno, come ultimo atto e come
ultima occasione per ritrovarsi tutti insieme, fu annunciata una
festa che doveva aver luogo a Schirmeck nei Vosgi. Più d'uno avrebbe
preferito partire prima, ma si voleva anche dare un attestato
di gratitudine a H" per il suo straordinario impegno, e così quasi
tutti rimasero per festeggiarlo.
La festa si tenne in un albergo, ma all'aperto. Seduti a lunghi
tavoli,
ascoltammo parecchi discorsi. H" mi pregò esplicitamente di
dire qualche parola sulle mie impressioni: sarebbe stato
interessante, secondo lui, conoscere il parere di un profano, di
un letterato. Mi trovai nella scabrosa situazione di dover dire
qualche frase che corrispondesse alla verità senza lasciar trapelare
nulla delle cose più recondite che avevo scoperto in H'e che
del resto non erano ancora mature nemmeno in me stesso. Mi limitai
quindi a descrivere l'abilità con cui H" riusciva a riunire tante
persone, e l'arte irresistibile con cui le costringeva a
un'impresa comune. Le mie parole dovettero sembrargli troppo
generiche, troppo neutre, lui si aspettava piuttosto un
panegirico come quelli che aveva ascoltato da quasi tutti gli oratori
della serata. Verso la fine della festa, quando la parte ufficiale
si era conclusa e H'era ormai in vena di lasciarsi andare, arrivò
il momento di vendicarsi.
Era stato festeggiato come maestro della bacchetta, e in verità
nelle poche settimane del convegno aveva saputo fare miracoli
con i suoi allievi. Ma adesso, dopo aver bevuto la sua parte,
voleva divertirsi. H" si attribuiva un altro magistero del quale
nessuno dei presenti aveva mai sentito parlare, e
all'improvviso venne fuori con l'idea di leggere la mano a tutti, non
a uno, non ad alcuni, ma a tutti. Disse che gli bastava vedere
la mano di una persona per conoscerne il destino, e raccomandò
di non far ressa intorno a lui, di presentarsi uno alla volta,
magari mettendosi in fila. Così avvenne. Dapprima ci fu qualche
esitazione, ma non appena H'ebbe cominciato a leggere una mano,
circa la metà dei presenti si alzò dai lunghi tavoli per mettersi
docilmente in fila. H" si concentrò su ogni singolo, dando la
precedenza a quelli che aveva più vicini a tavola. Era molto
rapido, come in tutto quello che faceva, non tratteneva la mano a
lungo, una breve occhiata gli bastava; e col piglio risoluto
che gli era abituale pronunciava il verdetto. Si limitava a
indicare quanti anni sarebbe vissuto il soggetto, non s'interessava
del resto, delle sue qualità, delle sue prospettive per il futuro:
a ciascuno dettava una determinata età e non spiegava come fosse
arrivato a quella cifra. Non parlava più forte del solito, solo
chi gli stava vicino poteva udire le sue parole.
Dopo la lettura della mano si vedevano visi soddisfatti ma anche
visi preoccupati. Poi tutti tornavano ai loro posti e si sedevano in
silenzio. Nessuno discuteva, nessuno domandava al vicino di
ritorno: "Che cosa ha detto?". Ma ci fu un sorprendente cambiamento
d'umore. La voglia di scherzare era passata. I fortunati ai
quali si annunciava una lunga vita tenevano per sé la loro
fortuna. Ma anche gli altri, quelli che secondo H'avevano poco
da vivere, si astenevano dal protestare o dal lamentarsi.
Quanto a H", benché sembrasse assorto nell'esame delle mani,
era ben attento a osservare chi si faceva avanti e chi no. Le mani
appartenevano per lo più a persone che gli erano indifferenti, e lui
le leggeva solo pro forma. Ma c'erano altri che aspettava al varco,
e poiché io cercavo di tenermi indietro, cominciai a sentirlo in
agguato. Ero seduto abbastanza vicino a lui, di fronte, ma
spostato un po'"lateralmente, e non accennavo ad alzarmi per
mettermi in coda. Tra una mano e l'altra H" mi lanciava rapide
occhiate. Poi disse all'improvviso, con una voce acuta e così forte
che fu udito da tutta la tavolata: "Che cosa le succede, C"? Ha
paura?". Io non volevo lasciar credere che temevo il suo
verdetto. Mi alzai e feci qualche passo per mettermi in fondo
alla fila. "Ma no, venga qua subito," disse lui "altrimenti mi
scappa un'altra volta!". Mi avvicinai a malincuore, e fu
l'unica volta che H'interruppe l'ordine della fila. Afferrò
avidamente la mia mano e dopo avervi gettato a malapena
un'occhiata decretò: "Lei non arriva a trenta". Aggiunse anche una
spiegazione, cosa che non aveva fatto con nessun altro: "La linea
della vita si spezza, qui!". Lasciò cadere la mia mano come un
oggetto inutile, mi guardò con un'espressione raggiante e sibilò:
"Io arrivo a ottantaquattro. Sono appena a metà della vita, io.
Ho solo quarantadue anni". "E io ne ho ventotto". "Lei non arriva a
trenta, non ci arriva!". Ripeté la sentenza e si strinse nelle
spalle: "Niente da fare. A che cosa servirebbe?". Con
una vita tale non si poteva intraprendere più nulla. A che
potevano servire i due anni che H" mi assegnava? Due anni erano
meno che niente.
Mi ritirai, per H'ero sistemato, ma il gioco non era finito.
Tutti dovevano presentarsi al giudice, di ognuno lui doveva
decidere il destino. Quasi con tutti l'operazione andava
avanti meccanicamente, solo perché erano lì. Se fossero stati
delle mosche non sarebbe cambiato niente. Alcuni tuttavia erano
oggetto di un'attenzione speciale. Non sempre capivo perché.
Tornai al mio posto, quasi di fronte a H", e mi sedetti ad
ascoltare. Qualcuno si sottraeva fingendosi ubriaco, e non c'era
richiamo che potesse smuoverlo. I più si presentavano e si
sentivano assegnare questo o quel destino. Per quelli che non
erano mai incorsi nell'ira di H" contrariandolo in qualche modo,
decideva il suo capriccio, ed essi avevano il permesso di
arrivare più o meno all'età matura. Nessuno arrivava a
ottantaquattro anni. Un gruppo di individui innocui e malleabili si
sentì promettere sessanta e più anni. Ma non erano i suoi
favoriti, perché costoro venivano presi di mira in modo
particolare. Era chiaro che H" voleva disporre di tutti a suo
piacimento. C'erano anche alcune donne, ma non se la cavarono
meglio degli uomini. Morivano tutte prima degli uomini ai quali
erano legate. Per H" le vedove avevano poca importanza, le donne
cessavano di essere desiderabili se non c'era un uomo a cui
rubarle. Tranne me, nessuno doveva morire a trent'anni.
NOTE:
(1) Si veda Il frutto del fuoco, cit", p" 58. Gerda Müller
(1894-1951) era famosa come interprete di personaggi tragici,
da Clitennestra alla Pentesilea di Kleist ?N" d'T"*.
(2) Carola Neher (1905-1942) si segnalò sulle scene tedesche come
interprete di Shaw e di Brecht, oltre che di Klabund, il suo
primo marito. Alla fine del 1931 ottenne a Berlino uno degli
ultimi grandi successi con la prima rappresentazione di Storie del
bosco viennese di Ödön von Horvàth, che interpretò insieme con
Peter Lorre, Hans Moser e Paul Hörbiger. Nel 1933 riparò a Mosca,
ma fu arrestata nel 1939 e fucilata tre anni dopo nel campo
d'internamento russo di Orenburg ?N" d'T"*.
(3) "Non c'è alcuna espressione del potere più evidente
dell'attività del direttore d'orchestra": così cominciano le
pagine che Canetti dedica alla figura del direttore d'orchestra in
Massa e potere (trad" di Furio Jesi, Adelphi, Milano, 1981, pp"
478-81) ?N" d'T"*.
Parte seconda - Il dottor Sonne
Un gemello in dono
In quell'anno 1933, sotto l'impressione degli avvenimenti in
Germania, è nata la Commedia della vanità. Alla fine di gennaio
Hitler era andato al potere. Da quel momento in poi ogni
avvenimento sembrò sinistro e carico di oscuri significati. Tutto ti
toccava da vicino, di tutto ti sentivi partecipe come se fossi
presente a ogni scena di cui venivi a conoscenza. Nulla era stato
previsto, ogni spiegazione e riflessione, ogni più ardita
profezia sembravano acqua fresca a misurarle con la realtà. Ciò che
accadeva era inaspettato e nuovo in ogni particolare. La
modestia dell'apparato concettuale che serviva da motore
contrastava in maniera incredibile con la vastità degli effetti. E
benché tutto riuscisse incredibile, su una cosa non c'erano dubbi:
che quegli avvenimenti potevano sfociare solo in una guerra, e
non già in una guerra riluttante e malsicura di sé, bensì animata
da mire superbe e ingorde, come le guerre bibliche degli Assiri.
Su questo non c'erano dubbi, e tuttavia ci si cullava nella
speranza che si potesse ancora evitare. Ma come evitarlo prima di
aver capito?
Dal 1925 mi ero imposto il compito di scoprire che cos'è la
massa, e dal 1931 anche quello di stabilire come il potere sorge
dalla massa. Già durante quegli anni era difficile che passasse
un giorno senza che i miei pensieri si volgessero al fenomeno
della massa. Non volevo prendere scorciatoie, non volevo semplificare
le cose, mi sembrava assurdo isolare uno o due aspetti e
trascurare così tutto il resto. Nessuna meraviglia, quindi, se
ancora non avevo fatto molti progressi. Ero sulla traccia di
alcune connessioni: quella tra massa e fuoco, per esempio, o la
tendenza della massa a crescere - una proprietà che essa ha in comune
col fuoco -; ma quanto più me ne occupavo tanto più appariva chiaro
che mi ero accinto a un'impresa che potevo portare a termine solo
impegnandovi la parte migliore della mia vita.
Ero pronto ad armarmi della pazienza necessaria, ma gli
avvenimenti non erano così pazienti. Quando nel 1933 calò sul
mondo la grande accelerazione che doveva trascinare tutto con sé, io
non avevo ancora nulla da contrapporle sul piano teorico e sentivo
il grande bisogno interiore di raffigurare ciò che non capivo.
Già un anno o due prima, e in origine senza alcuna relazione
con gli avvenimenti del tempo, mi ero messo a lavorare intorno
all'idea di un divieto contro gli specchi. Quando andavo dal
parrucchiere a farmi tagliare i capelli, era imbarazzante dover
guardare sempre la propria immagine davanti a sé; quell'uomo
dirimpetto, sempre uguale, mi dava un senso di costrizione,
di oppressione. Così i miei sguardi vagavano a destra e a
sinistra, dove sedevano persone che erano affascinate da se stesse.
Si guardavano a fondo, si studiavano, facevano smorfie per
arrivare a una migliore conoscenza dei propri lineamenti, non
si stancavano, non sembravano mai sazie di sé; e ciò che mi stupiva
soprattutto era che non si curavano affatto di chi, come me, le
osservava per tutto il tempo, tanto erano impegnate a occuparsi
esclusivamente di se stesse. Erano tutti uomini, giovani e vecchi,
rispettabili e meno rispettabili, così diversi l'uno dall'altro che
si stentava a crederci, e tuttavia così simili nel loro
comportamento: ognuno era in adorazione di se stesso, prostrato
davanti alla propria immagine.
Ciò che mi colpiva in modo particolare era
l'insaziabilità della contemplazione di sé; e una volta,
nell'osservare due esemplari grotteschi, mi domandai che cosa
sarebbe avvenuto se improvvisamente un divieto avesse privato la
gente di un momento così prezioso, il più prezioso di tutti. Era
possibile imporre un divieto capace di distogliere l'uomo dalla
propria immagine? E quali altre vie poteva prendere la vanità se si
cercava di tagliarle le gambe con la forza? Era un gioco
divertente immaginare le conseguenze di un simile divieto, e per il
momento non era impegnativo. Ma quando si arrivò ai roghi dei libri
in Germania, quando si vide che razza di divieti venivano emanati
e applicati all'improvviso, con quale imperturbabile pervicacia
si poteva impiegarli per la produzione di masse entusiaste,
allora fu come se il fulmine mi avesse colpito, e il divieto contro
gli specchi cessò di essere un gioco e diventò una cosa seria.
Dimenticai ciò che avevo letto sulla massa, dimenticai quel poco
che avevo scoperto, mi buttai tutto dietro le spalle e cominciai da
capo, come se per la prima volta mi trovassi di fronte a un
avvenimento di carattere così generale; e concepii la prima parte
della Commedia della vanità, la grande seduzione. Una trentina di
personaggi, tutti viennesi fino alla minima inflessione dei
loro diversissimi modi di parlare, popolano una zona che ha
l'aspetto familiare del Wurstelprater. Ma è un Prater come nessuno
l'ha ancora mai visto, dominato da un fuoco che continua a
crescere durante il susseguirsi delle scene, attizzato e alimentato
dai personaggi dell'azione. Come accompagnamento acustico si ode
il tintinnare degli specchi che in baracconi appositamente
allestiti sono bersagliati da una pioggia di palle e ridotti in
frantumi. La gente porta con le proprie mani i suoi specchi e
ritratti, gli uni perché siano fracassati, gli altri perché
finiscano in cenere. A questo divertimento popolare un banditore
fornisce le parole d'ordine, e il vocabolo che ricorre più frequente
e più imperioso nel suo discorso è "Noi!". Le scene sono disposte
come a spirale: dapprima scene piuttosto lunghe, in cui personaggi ed
eventi si chiariscono a vicenda, poi sempre più brevi. Tutto si
riferisce sempre più al fuoco: prima da lontano, poi sempre più da
vicino, finché un personaggio diventa il fuoco lui stesso
precipitandosi tra le fiamme.
L'ossessione di quelle settimane me la sento ancora nelle
ossa. C'era un calore dentro di me come se fossi io stesso il
personaggio che diventa fuoco. Ma nonostante la frenesia che mi
incalzava dovevo astenermi da ogni parola imprecisa e soffrivo per
il morso che mi stringeva la bocca. Davanti ai miei occhi, dentro
le mie orecchie sorgeva la massa di cui ero ancora lontano dal
possedere una chiara visione. Come il vecchio facchino Franzi Nada
crollavo sotto il peso degli specchi. Come Franzi, sua sorella,
venivo arrestato e chiuso in prigione a causa del fratello
perduto. Nelle vesti del banditore Wondrak aizzavo la massa, in
quelle di Emilie Fant strillavo crudelmente e ipocritamente
invocando il mio figlio crudele. Mi trasformavo nei personaggi più
abominevoli e cercavo la mia giustificazione in quelli calpestati,
che amavo.
Per me nessuno di quei personaggi è andato perduto. Per me ognuno
è rimasto vivo, più delle persone che conoscevo a quel tempo. Tutti
i fuochi che mi avevano colpito da quando ero bambino sono
confluiti nel fuoco del rogo dei ritratti.
La febbre che avevo in me nello scrivere non mi aveva
abbandonato quando partii per Strasburgo. Mi misi in viaggio
mentre stavo ancora lavorando alla prima parte, e lo
straordinario è che le frenetiche settimane del convegno non mi
distrassero minimamente dalla commedia. Il progetto era così ben
definito dentro di me come nessuno degli altri cui mi sono
dedicato. Dopo il convegno trascorsi il mese di settembre a
Parigi e ripresi il lavoro esattamente al punto in cui l'avevo
interrotto a Vienna. Terminai la prima parte e ne ero come
inebriato. Credevo di essere riuscito a fare qualcosa di nuovo, a
rappresentare una massa in forma drammatica, il suo aggregarsi, il
suo ingrossarsi, il suo
esplodere. Sempre a Parigi scrissi anche molte scene della
seconda parte. Vedevo benissimo tutto il seguito, perfino la terza
parte mi stava sempre chiara davanti agli occhi.
Non ero uno sconfitto quando feci ritorno a Vienna. Il freddo
diniego di Anna mi aveva colpito, ma non mi tormentava come forse
sarebbe avvenuto in un altro momento. Mi sentivo così sicuro sotto
l'ala della commedia che telefonai ad Anna come se non fosse
successo niente, e le annunciai una visita all'atelier. Presi - al
telefono - un tono freddo e distaccato, e questo le piacque. Lei
era davvero fredda e distaccata. Non sfiorai neanche con una parola
ciò che era accaduto tra noi, e fu un sollievo per lei, poiché
detestava tutte le scene penose, i rimproveri, i rancori, le
recriminazioni. Era soddisfatta di aver seguito il suo impulso più
forte, quello che la spingeva alla libertà; ma io accennai alla
commedia, della quale le avevo parlato prima della mia partenza, e
sebbene per lei i lavori teatrali contassero poco o niente riuscì
a
esprimere qualche interesse (sapevo di non dovermi aspettare
niente di più). Da quando ci conoscevamo, Anna voleva presentarmi
il suo giovane maestro, Fritz Wotruba, che però si era
assentato da Vienna prima che io partissi per Strasburgo.
Adesso era ritornato, e lei lo avrebbe pregato di farsi trovare
all'atelier il giorno della mia visita. Così avremmo pranzato
insieme.
Aveva avuto una buona idea. Era la prima volta che la rivedevo
dopo la rottura. Il sentiero in mezzo al giardino, lo scricchiolio
della ghiaia, che mi parve molto più forte di quanto lo ricordassi,
la serra che le serviva da studio, Anna nello stesso camiciotto
azzurro, ma un po'"spostata rispetto alla statua, che era al
centro. Questa volta Anna non aveva le dita nell'argilla, teneva le
braccia abbassate e gli occhi rivolti a un giovane uomo che era
inginocchiato davanti alla statua e vi armeggiava intorno con le
dita. L'uomo mi volgeva le spalle, e non si alzò quando io
entrai nell'atelier e Anna disse il mio nome. Non tolse le mani
dall'argilla e continuò a impastarla, girò la testa verso di me
restando inginocchiato e disse con voce profonda e sonante: "Anche
lei sta in ginocchio davanti al suo lavoro?". Era una battuta
scherzosa con cui voleva scusarsi per non essere balzato in piedi e
non aver potuto darmi la mano. Ma anche una battuta aveva in lui
peso e significato. Il suo "anche" era una forma di benvenuto. Così
il suo e il mio lavoro erano messi sullo stesso piano, lo
"stare in ginocchio" voleva esprimere una speranza, e cioè che
anch'io, come lui, prendessi sul serio il mio lavoro.
Fu un buon inizio. Di quella prima conversazione mi è rimasta
nella memoria soltanto la frase con cui cominciò. Ma vedo ancora
Wotruba davanti a me, me lo vedo seduto di fronte, occupato
con la sua costoletta. Anna aveva fatto servire il pranzo per
noi ma non vi prendeva parte, restava in piedi, ogni tanto andava
in giro per lo studio e poi si avvicinava di nuovo al tavolo per
seguire la conversazione. Se ne interessava solo a metà, il cibo per
lei non significava niente, poteva lavorare per giorni interi senza
pensarci. Ma adesso la sua era anche una forma di riguardo, voleva
offrirmi qualcosa ma nello stesso tempo pensava anche a Wotruba, che
teneva in grande considerazione per l'energia che metteva nel
lavorare la pietra più dura, per la sua inflessibile fermezza;
perciò si era prodigata per lui ed era diventata la sua prima
allieva. Era convinta che quell'incontro avrebbe avuto un seguito
e ci lasciava soli a conversare insieme per la prima volta,
senza immischiarsi e senza attirare l'attenzione su di sé. In
quella occasione dimostrò molto tatto, perché se si fosse allontanata
troppo avremmo avuto la sensazione di essere come domestici, ai
quali si prepara il pasto a un tavolo appartato, nell'angolo.
Si dava da fare qua e là nell'atelier, ma poi ritornava
sempre da noi e seguiva la conversazione in piedi, come se fosse
lì per servirci; tuttavia non si tratteneva a lungo, per non
disturbare con la sua presenza. Ancora pochi mesi prima non
si sarebbe lasciata sfuggire una sola parola di una simile
conversazione, fosse la prima o anche una successiva. Allora
aveva deciso di non trattarmi come una persona indifferente e
si comportava di conseguenza. Adesso che aveva preso la decisione
opposta, poteva dar prova di tatto e lasciare che la conversazione
avvenisse in piena libertà.
Ma da quando avevamo cominciato a mangiare la
conversazione ne soffriva. Mi colpirono subito le mani di
Wotruba, lunghe, nervose, piene di forza ma straordinariamente
sensibili, quasi creature a sé, con un proprio linguaggio che io
cominciai a seguire più delle parole: non avevo mai visto mani
così belle. La sua voce, che mi era piaciuta in quella prima
frase, non la udivo più, per il momento era come se non dicesse
niente, tanto era forte la prima impressione di quelle mani.
Forse per questo ho dimenticato la conversazione. Wotruba era
occupato a ritagliare pezzi di carne dai contorni netti, di forma
regolare, quasi quadrata, e li portava alla bocca con un gesto
veloce e deciso. Dava un'impressione di energia più che di
ingordigia, il tagliare sembrava ancora più importante
dell'ingoiare, e tuttavia
era impensabile che la forchetta si fermasse a metà strada, che
Wotruba facesse una domanda o non aprisse la bocca solo perché
l'altro stava parlando. Il boccone scompariva subito,
inesorabilmente, e gli altri lo seguivano in rapida cadenza.
Le costolette erano filacciose, io mi sforzavo di togliere
le parti che mi sembravano immangiabili, continuavo a trovarne,
continuavo a tagliare, e ciò che avevo scartato rimaneva nel
piatto. Tutto quel girare, rivoltare, dubitare, quel lavorare di
punta e di taglio, quella manifesta riluttanza a mettere sotto i
denti ciò che avevo nel piatto, contrastava in maniera così
stridente col comportamento di Wotruba che a un certo punto lui
se ne accorse, nonostante tutta l'attenzione dedicata alla sua
costoletta. Rallentò un poco i gesti, notò lo scempio nel mio
piatto: era come se ci avessero servito cibi totalmente diversi o
come se lui e io appartenessimo a due specie differenti. La
conversazione, che già era stata interrotta dalle compunte operazioni
del mio commensale, prese un altro andamento: Wotruba guardava
stupefatto.
Non poteva credere che l'individuo seduto davanti a lui trattasse
la carne in maniera così indegna. Alla fine mi domandò se avevo
intenzione di avanzare tutta quella roba. Io borbottai qualche
parola sulla carne filacciosa, ma lui non ci badò granché,
lui mangiava anche le filacce, tutto quello che faceva parte di un
boccone ben squadrato. Davanti a una forma così netta e precisa non
c'era niente da ridire. Tutto il mio lavorio gli riusciva
disgustoso. Da quel primo incontro Wotruba si fece l'idea di
avere a che fare con un pasticcione; e, come seppi poi, la sua
impressione la riassunse subito dopo davanti alla moglie, a casa sua.
Al tempo in cui Fritz Wotruba diventò mio grande amico - non
tardammo molto a considerarci fratelli gemelli - la mia
consapevolezza di scrittore toccò uno dei punti più alti. Dopo
avere sperimentato e ammirato l'aggressività di Karl Kraus,
scoprivo quella dello scultore, il cui lavoro consisteva
nell'aggredire quotidianamente la pietra più dura. Wotruba è
stato l'essere più selvaggio che io abbia conosciuto, qualunque
cosa discutessimo o facessimo insieme aveva sempre un carattere
drammatico. Grande era il disprezzo per gli altri, per quelli che se
la prendevano comoda, che non rifuggivano dai compromessi o forse
non sapevano neppure che cosa volessero. Come due creature uniche
nel loro genere, ci precipitavamo per le strade di Vienna, e
l'andatura di Wotruba
era veramente un precipitarsi: arrivava rapido e impetuoso,
chiedeva o si prendeva quel che voleva, e già si era precipitato
via, prima ancora che si sapesse se era soddisfatto o no. A me
piaceva quel suo modo di muoversi, che più d'uno temeva e tutti ormai
conoscevano.
Il luogo in cui sentivo più forte la mia affinità con Wotruba
era il suo atelier. Il municipio di Vienna gli aveva assegnato
due arcate sotto il viadotto della ferrovia urbana. Sotto
un'arcata - o davanti a essa, se il tempo era buono - Wotruba
si scagliava contro la sua pietra. Quando vi andai la prima
volta, stava lavorando a una figura femminile distesa. Colpiva
duro e faceva capire quanto fosse importante per lui la durezza
della pietra; saltava improvvisamente da un punto della figura a
un altro, ben distante dal primo, e vi applicava lo scalpello
con rinnovato furore. Era chiaro quanto fosse essenziale nel
suo lavoro la parte delle mani, in che misura l'esito dipendesse
dalle mani, e tuttavia si aveva l'impressione che egli addentasse
la pietra. Una pantera nera, questo fu l'effetto che mi fece,
una pantera che si nutrisse di pietra. Wotruba lacerava la pietra e
vi affondava i denti. Non si sapeva mai in che punto avrebbe
lanciato il suo prossimo assalto. Erano soprattutto quei balzi a
far pensare a un felino, ma non avvenivano da una distanza
qualsiasi, bensì da un punto all'altro della statua. Su ogni punto
Wotruba si avventava con un'energia concentrata, e la forza con
cui aggrediva si sprigionava in un certo senso là dove il balzo
finiva.
Il giorno della mia prima visita al suo studio - Wotruba lavorava
alla statua sepolcrale per la cantante Selma Kurz - i suoi balzi
venivano dall'alto, e forse per questo mi venne fatto di pensare a
una pantera che da un albero piomba sulla vittima. Era come se
Wotruba dilaniasse la vittima - ma che senso può avere un
"dilaniare" quando l'azione si esercita sul granito? Nonostante la
cupa concentrazione di Wotruba, era impossibile dimenticare anche
solo per un istante la materia con cui si batteva. Mi trattenni
a lungo a osservarlo. Non sorrise una sola volta. Sapeva di essere
osservato, ma non diede alcun segno di compiacenza. Era
un'operazione mortalmente seria, quella che si compiva nella
pietra. Compresi che Wotruba si presentava quale realmente era.
La sua natura era così forte che aveva voluto scegliersi l'impegno
più difficile. Per lui durezza e difficoltà coincidevano. Quando
si ritraeva con un balzo improvviso, sembrava che lo facesse
per sottrarsi ai colpi con cui la pietra avrebbe risposto. Era un
omicidio, quello che interpretava davanti a te. Mi ci volle del
tempo per capire che lui doveva uccidere. E non era un omicidio
nascosto, un omicidio che lasciasse dietro di sé tracce
pressoché invisibili: Wotruba lo consumava a poco a poco,
insistendo fino a che l'omicidio rimanesse come monumento. Di
solito lavorava in solitudine, ma sentiva anche il bisogno di
avere ogni tanto degli spettatori, senza per questo cambiare,
rimanendo se stesso in tutto e per tutto, non attore, ma autore.
Voleva qualcuno che comprendesse quanto faceva sul serio. Se l'arte
è stata definita innumerevoli volte come un gioco, la sua non lo
era affatto. Con le sue imprese avrebbe popolato la città e
il mondo. Ero andato all'atelier pensando anch'io secondo
l'opinione corrente, che a lui stesse a cuore la durata della
pietra, l'integrità e la sopravvivenza delle sue creature. Ma
quando potei assistere a come procedeva, a quell'inspiegabile
combattimento, compresi che ciò che contava era la durezza della
pietra e nient'altro. Quello era l'avversario con cui doveva
battersi. Aveva bisogno di una pietra come altri di un tozzo di
pane. Ma doveva essere il boccone più duro, e lui era lì ad
attestare la durezza.
Lo presi sul serio a prima vista. Wotruba era quasi sempre
serio. Per lui le parole avevano sempre un valore, parlava quando
voleva qualcosa, e allora le sue parole esigevano, oppure mi
parlava di qualcosa che l'angustiava, e allora non c'erano parole
ambigue - com'è raro incontrare una persona le cui parole valgono!
Sarà stato il mio odio contro ogni forma di mercantilismo
a spingermi alla ricerca di tali parole. Il tira e molla delle
parole, l'abitudine di buttarle fuori per poi riprendersele
subito dopo, i loro labili contorni, il loro trascolorare, il
loro dissolversi mentre tuttavia sono ancora lì, la loro frattura
prismatica, la loro iridescenza, il loro correre via all'avventura
prima che esse stesse lo vogliano, la viltà alla quale vengono
piegate, il loro contegno servile - com'ero stufo di questa
mortificazione delle parole, io che le prendevo tanto sul serio da
rifiutarmi perfino di deformarle per gioco: io le volevo intatte e le
volevo in tutta la loro forza. Mi rendevo conto che ognuno le
adoperava a modo suo. La deformazione che non era dovuta a mala
fede, che non era fatta per gioco, che conferiva alla parola
proprio l'aspetto falso che corrispondeva a quello del parlante,
la deformazione che lo metteva a nudo e diventava il parlante
stesso - una simile deformazione io la rispettavo e la lasciavo
intatta com'era, non avrei osato toccarla, e soprattutto mi
ripugnava addirittura l'idea di spiegarla. Ero soggiogato dalla
terribile serietà delle parole, che valeva in ogni lingua e
aveva il potere di rendere intangibile ogni lingua.
In Wotruba c'era questa terribile serietà delle parole. Il
nostro incontro avvenne dopo che per quasi un anno e mezzo avevo
sperimentato l'esatto contrario in F", un altro amico. Per F" le
parole non avevano un senso intangibile, ma venivano voltate e
rivoltate e servivano alla seduzione. Con lui il senso era uno e poi
un altro, poteva cambiare nel giro di ore, e magari si trattava di
cose apparentemente radicate, di convinzioni. Vedevo come F"
assimilava quello che io dicevo, come le mie parole diventavano
sue, talmente sue che io stesso non ne avrei riconosciuto la
provenienza. Con lui poteva succedere che usasse le mie parole per
polemizzare ad alta voce con me o anche, il che era ancor più
singolare, con se stesso. E mi rivolgeva un sorrisetto estasiato
quando poteva sorprendermi con una frase che aveva udito da me il
giorno prima, e pretendeva il mio plauso, credendo forse che ciò
fosse davvero sorprendente. Ma poiché non sapeva essere preciso,
c'era sempre qualcosa di cambiato, così che il mio stesso
pensiero, in quella versione, mi irritava. Allora insorgevo, e F"
sembrava convinto che tra noi ci fosse una polemica, opinione contro
opinione, mentre in realtà un'opinione si ribellava alla propria
deformazione, e lui si era fatto bello semplicemente usando con
disinvoltura la deformazione.
Wotruba invece sapeva ciò che aveva detto, e non lo
dimenticava. Non dimenticava neanche ciò che aveva detto il suo
interlocutore. Era come in uno scontro fisico: i due corpi erano
sempre lì, non scomparivano, restavano impenetrabili. Potrà
sembrare incomprensibile se dico che solo conversando
appassionatamente con Wotruba compresi che cos'è la pietra. Non mi
aspettavo di trovare in lui compassione per gli altri, in lui la
bontà sarebbe apparsa ridicola. Per lui contavano due cose,
soltanto queste due cose: il potere della pietra e il potere
delle parole. In ogni caso si trattava dunque del potere, ma in una
combinazione dei suoi elementi talmente inconsueta che si
accettava il tutto come una forza della natura e si cercava di non
esporvisi troppo, come se fosse un uragano.
Il "Nero in piedi"
Nei primi mesi della nostra amicizia non avevo mai visto Marian
senza Fritz Wotruba. Insieme ti piombavano addosso e insieme ti
stavano sotto il naso. Poiché ogni volta il discorso cadeva subito
su un'impresa che bisognava portare a termine, su un nemico
cocciuto che intralciava una certa commissione, un individuo
della Vienna ufficiale contro il quale occorreva far scendere in
campo un altro individuo ben disposto, poiché Marian era l'ariete
che a testa bassa si lanciava contro qualsiasi muraglia, poiché
doveva riferire per filo e per segno i particolari della sua
battaglia e non tralasciava la più piccola inezia, Wotruba la
lasciava parlare a volontà e si limitava ad accompagnarla ogni
tanto con qualche brontolio di approvazione. Ma anche quel poco
che Wotruba tirava fuori in tali occasioni aveva un accento
viennese fino all'ultima virgola, mentre il precipitoso eloquio
di Marian, che nessuno e nulla poteva interrompere, veniva
giù a cascata nel tedesco delle persone istruite. Non si
avvertiva l'accento renano: benché Marian fosse di Düsseldorf, a
giudicare dalla lingua poteva venire da una qualunque parte della
Germania, tranne il Sud. Parlava con monotona insistenza,
senza alzare o abbassare la voce, senza alcuna interpunzione o
articolazione del discorso, soprattutto senza pause. Era una
parlantina inesorabile, quando arrivava lei e attaccava era
impossibile scapolarsela se prima non aveva detto tutto, e ogni
volta era un resoconto minuziosissimo, uno breve non l'ha mai
sentito nessuno dalla sua bocca. Non c'era scampo, davanti a lei
tutti restavano sbigottiti, era come se una pietra ti fosse finita
sopra o tu stesso fossi diventato pietra. E non c'era verso di
distogliere l'orecchio. Di fronte a quelle raffiche verbali eri
costretto a sorbirti ogni frase; anzi - è un particolare che mi
riesce chiaro solo adesso - era una regolare successione di colpi di
scalpello che dovevi lasciarti infliggere con rassegnazione. Eppure
io non ero mai la persona da cui Marian voleva ottenere qualcosa a
forza, ma semplicemente l'amico al quale faceva la sua
relazione. Non oso pensare come doveva sentirsi chi era veramente
oggetto degli attacchi di Marian. Per liberarsi aveva solo una via:
concedere ciò che Marian chiedeva per Fritz. Se per caso veniva
interrotta, o perché un ufficio chiudeva a una certa ora o perché
la vittima era chiamata da un superiore o doveva rispondere al
telefono, lei ritornava alla carica una volta ancora, e poi
ancora e ancora. Nessuna meraviglia se alla fine la spuntava.
Marian, arrivata a Vienna giovanissima, era diventata allieva
di Anton Hanak e così aveva conosciuto il giovane apprendista
Fritz Wotruba, anche lui allievo di Hanak. Da allora era rimasta
a Vienna, senza però assimilare nulla di quell'accento.
Bisogna pensare che ogni giorno, per decenni, ebbe nell'orecchio la
parlata di Wotruba, il più autentico dialetto viennese. Lui era
fedele, con un fanatismo di cui non avevo mai visto l'uguale, alla
lingua che aveva imparato da bambino sul selciato di Vienna.
Un'altra lingua non la imparò mai. In seguito, quando tentava
di pronunciare qualche parola inglese o francese, l'effetto era
comico: sembrava di sentire un postulante affetto da balbuzie o un
accattone mutilato. Come ogni viennese, sapeva tirar fuori
all'occorrenza un corretto tedesco di sapore ufficioso, e poiché
era intelligente e scriveva un buon tedesco, allora non c'era
niente di comico. Ma si arrendeva così malvolentieri a questa
necessità, doveva compiere un tale sforzo che ne soffrivi con lui
e respiravi di sollievo quando poteva ritornare se stesso e
riprendere le sue inflessioni naturali. Marian non aveva mai preso
neanche il più lieve accento: eppure aveva dedicato la sua vita a
Fritz e alla sua causa, aveva rinunciato molto presto alla
scultura per amore di Fritz, non ebbe mai un figlio e parlava
in sua vece, parlava e parlava incessantemente. Tutto ciò che
sentiva dire da lui, si traduceva subito in azione. Quando partiva
per le sue missioni, non udiva più nulla, aveva in mente soltanto
ciò che voleva ottenere per Fritz. Parlava e parlava, tutto il
resto le scivolava addosso senza toccarla. Se lui era presente,
tutte quelle parole non riuscivano - almeno allora - a disturbarlo
minimamente. Quando ero solo con lui, Fritz finiva col dirmi,
credo, tutto quello che gli passava per la testa o lo angustiava.
Ma nemmeno una volta l'ho sentito lamentarsi della loquacità di
Marian. Ogni tanto fuggiva, scomparendo per qualche giorno, e
allora Marian era molto in ansia per lui e andava a cercarlo
dappertutto, a volte in mia compagnia. Ma non credo che Fritz
cercasse scampo alla parlantina di Marian. La causa era piuttosto
la fama che aveva conquistato così presto, il mestiere di artista di
cui si sentiva prigioniero, forse addirittura qualcosa di più
profondo, la pietra con cui si batteva e che per lui era una
sorta di prigione. Non c'era nulla che temesse più della prigione,
e mai provava una pietà così profonda come per i felini chiusi
dietro le sbarre della gabbia.
Mi invitarono a pranzo nella loro casa della
Florianigasse, al numero 31, dove Fritz aveva sempre abitato,
ultimo di una grande famiglia che contava altri sette tra
fratelli e sorelle. Adesso vi abitavano ancora, con lui e Marian,
soltanto la vecchia signora Wotruba e la più giovane delle
sorelle. La madre avrebbe pensato alla cucina in modo che noi tre
potessimo starcene in pace a mangiare. Le avevano già parlato di me.
Era una donna molto curiosa e aveva un temperamento
irascibile. Se qualcosa non le andava a genio faceva volare i
piatti, e chi passava lì vicino doveva abbassare fulmineamente la
testa per non farsi beccare. Si arrivava alla camera di Fritz e
Marian solo attraversando la cucina. Ma era una bella camera, a
sentire la loro descrizione, tutta arredata secondo il gusto di
Marian, ci si poteva star comodi a conversare. Fritz sarebbe
venuto a prendermi per non lasciarmi solo nella traversata della
cucina, altrimenti poteva arrivarmi un piatto sulla testa.
Domandai se per caso la mia presenza era sgradita a sua madre.
Tutt'altro, disse Fritz, ne è felicissima, per questo prepara lei
stessa le costolette, ed è anche una brava cuoca. Sì, ma allora
perché tira i piatti in testa alla gente? Non si può mai sapere,
disse lui, succede senza una ragione, è un ghiribizzo, un accesso
d'ira. Per esempio, se lui ritarda per il pranzo. Quando è al
lavoro, là sotto il viadotto, non pensa ad altro e può
succedergli di rincasare due ore più tardi del previsto. Allora
volano i piatti, ma lui non si è lasciato mai beccare. Lui ci ha
fatto l'abitudine, sua madre ha un gran temperamento, è una
ungherese, viene dalla campagna, è arrivata a Vienna facendo
tutta la strada a piedi, allora era una ragazzina, poi è stata a
servizio in ottime case. Con i suoi padroni ha dovuto frenarsi,
tutto il suo temperamento l'ha messo da parte per gli otto figli. Con
loro non ha mai avuto la vita facile, con loro ha dovuto
sfogarsi. "E se arriviamo tardi ci darà una strigliata, non è che
tiri sempre i piatti".
Dunque, eravamo d'accordo. Fritz insistette per farmi da scorta e
si dilungò più del solito. Lui, così imperturbabile, così pronto a
far mostra della sua forza, appariva preoccupato e sprecava un
mucchio di parole. Aveva molto rispetto per sua madre e la stimava
proprio per le ragioni che lo inducevano a mettermi in guardia. Ebbi
la sensazione che volesse far colpo su di me col ritratto che
tracciava di sua madre. A guardarla sembra una donna deperita,
diceva Fritz, ma l'apparenza inganna, è un fascio di nervi, una
pelle dura, capace di tener testa a chiunque. Chi ha preso un
ceffone da quelle mani non se lo dimentica. Il fazzoletto in
testa lo porta sempre, come le contadine in Ungheria. Non è
mai cambiata, dopo tanti anni che abita a Vienna è rimasta la stessa.
Non è orgogliosa del suo Fritz? Non si può mai dire, non lo
lascia mica vedere, davanti a un ospite soprattutto. Uno
scrittore in visita, questo fa già colpo su di lei. Sì, perché
legge volentieri, i libri le piacciono; ma sarà meglio stare attenti.
Fritz venne a prendermi in ritardo, quasi un'ora dopo. Io ero
inquieto, dopo tutto quello che mi aveva detto. Sembrava che si
fosse dimenticato del pericolo di uno scontro con sua madre.
"Oggi si mette male," disse quando finalmente spuntò "dobbiamo
correre". Non si scusava mai per un ritardo, ma quella volta almeno
avrebbe potuto darne una spiegazione. Io ero stizzito e mi
sentivo volare il piatto sulla testa già molto prima che
svoltassimo nella Florianigasse. Quando entrammo nella cucina,
Fritz alzò ancora una volta il dito in segno di
avvertimento. Sua madre era in piedi davanti al focolare: vidi
prima il fazzoletto che le copriva la testa, poi la figura
piccola e un po'"curva. Rimase zitta, non si girò nemmeno. Il
figlio storse la bocca con aria preoccupata e mi bisbigliò: "Ehi,
attenzione!". Dovevamo attraversare la cucina per arrivare
all'ingresso della stanza. Fritz si chinò e con uno spintone mi
costrinse ad abbassarmi. Eravamo sulla soglia della stanza quando
arrivò il piatto, ben mirato alla testa di Fritz ma troppo alto. Poi
la donna si asciugò le mani nel grembiule e venne verso di noi.
"Con quello non ci parlo" disse a voce alta, con accento
ungherese, e mi diede il benvenuto nella maniera più cordiale. "Lo
fa apposta," aggiunse "si diverte a fare arrabbiare sua madre".
Sapeva che Fritz sarebbe arrivato anche più tardi del solito
perché lei facesse il suo numero; e lei, proprio per questo,
aveva tardato a preparare le costolette: non erano ancora ben
asciutte, tanto peggio per noi.
Nella stanza splendevano la lastra di cristallo del tavolo e
i tubi d'acciaio delle sedie, una modernità un po'"programmatica
che corrispondeva alle idee di Marian più che alla sua persona.
Alle pareti bianche erano appesi quadri di Merkel e di Dobrowsky,
doni dei due artisti al giovane scultore che incarnava
l'avanguardia della Sezession e ne era il membro più giovane e più
contestato. L'assenza di oggetti superflui faceva risaltare ancora
di più i quadri, e io fui attirato in particolare dai
paesaggi arcadici di Merkel, che già in passato mi avevano colpito.
Tra la stanza e la cucina non c'era una porta di comunicazione ma
solo il vano aperto. La madre di Fritz, senza entrare nella
stanza, udiva ogni parola dalla cucina e partecipava
intensamente, se non altro con gli orecchi, alla conversazione. I
piatti venivano fatti passare da una finestrella che serviva appunto
per i pasti. Marian andava a prenderli e li posava sulla lastra di
cristallo. Ed ecco arrivare le gigantesche costolette che formavano
tutto il nostro pranzo. Wotruba assicurò che la carne non era
filacciosa, tutt'altro: perciò avrei fatto meglio a non lavorare
troppo di coltello, come quella volta da Anna, se non volevo che
sua madre si offendesse. Poi si curvò sulla costoletta e
cominciò a mangiare i suoi grossi bocconi quadrati, senza dire una
parola. Non tolse gli occhi dal piatto neanche una volta, e
finché non l'ebbe vuotato non partecipò minimamente alla
conversazione: né una sillaba né un gesto.
Marian sosteneva la conversazione da sola. Prima si dilungò
sulla colpa di cui mi ero macchiato nell'atelier di Anna, quando
avevo tagliuzzato la carne e poi l'avevo lasciata lì e il piatto
era tutto pieno di scarti, uno spettacolo che Fritz non aveva mai
visto in vita sua. "Dalla Mahler c'era un cane nervoso" le aveva
detto appena ritornato a casa; e poi le aveva spiegato che cosa
avevo combinato con la carne. Da allora si era continuato a
parlarne a tavola ogni giorno, Fritz le aveva messo addosso una
grande curiosità; erano arrivati alla conclusione che io non ero
soltanto un nemico della carne filacciosa ma della carne in
generale; e adesso si vedrà se è proprio vero. Ma lei aveva
notato subito che non era vero, lì da loro, e non appena ebbi
finito la mia costoletta me ne trovai nel piatto una seconda,
altrettanto gigantesca, senza che nessuno mi avesse chiesto
niente. Marian si scusò spiegando che non c'era quasi altro,
specialmente col dessert le cose andavano male, Fritz non tocca il
formaggio, non mangia più formaggio da quando era bambino, e
neanche la frutta conservata, perché non può soffrire che si faccia a
pezzetti la frutta. Nel sentire queste notizie io guardai Fritz con
aria dubitosa, e lui emise un grugnito a mò di conferma, non c'era
verso di cavarne una parola fintanto che aveva un po'"di carne
nel piatto. A me interessava ormai tutto ciò che lo riguardava,
perfino i particolari della sua vita fisica. In altre
circostanze sarei scappato per non ascoltare discorsi simili, e
invece ero tutto orecchi, come se si parlasse della sua scultura.
Dalla cucina arrivò la voce della madre: "Ma lui mangia o siamo
daccapo con le sue porcherie?". Anche lei era informata di quello
che era avvenuto al nostro primo incontro. Marian portò via il mio
piatto vuoto per testimoniare di persona che avevo mangiato tutto,
e subito mi fu servita una terza costoletta, che però rifiutai
profondendomi in parole di lode per le prime due.
Quando ebbe finito, Fritz ritrovò la voce, e allora venni a
sapere cose interessanti. Gli domandai se aveva cominciato
subito con le pietre: le sue mani non erano minimamente
segnate. Ho già detto quanto erano cariche di sensibilità. Il
loro contatto, quando ci salutavamo, non mi riusciva mai
indifferente. In tutti i decenni della nostra amicizia ho
sempre avuto la sensazione che fossero ogni volta mani nuove, ma
all'inizio destarono in me il ricordo di due mani diverse che si
trovavano insieme, molto vicine, in uno stesso dipinto, ciascuna
così eloquente che nessuna aveva il sopravvento sull'altra. Pensavo
al dito di Dio nella scena della creazione di Adamo, nella Cappella
Sistina, e non saprei spiegare questo accostamento, perché da un
solo dito la vita fluisce nella mano di Adamo, mentre nel mio caso
mi veniva offerta una mano intera; ma dev'essere che io sentivo la
forza della vita che da quel dito si trasmette nell'uomo futuro.
Pensavo anche ad Adamo, alla sua mano intera.
Le pietre, disse Fritz, erano arrivate abbastanza presto,
ma non aveva cominciato con le pietre. Era ancora molto piccolo,
neanche sei anni, quando aveva grattato via lo stucco di una finestra
per modellarlo. I vetri si
erano allentati, uno era caduto finendo in pezzi. L'avevano
picchiato per questo. Lui lo aveva fatto un'altra volta, c'era
soltanto lo stucco, doveva pur modellare qualcosa. Era più difficile
mettere le mani su un pezzo di pane, erano otto figli, lo stucco
delle finestre si plasmava meglio del pane, e lui fu picchiato
un'altra volta, ma dalla madre, una cosa da niente in confronto
alle botte del padre.
Il padre agguantava i fratelli maggiori e li picchiava così
forte che alla fine erano diventati dei delinquenti. Ma questo
venni a saperlo solo in seguito. Fritz parlava raramente del padre,
che era odiato da tutti i fratelli, e quella volta, con la madre
che poteva ascoltare dalla cucina, non si accennò mai a lui.
Il padre, di origine ceca, lavorante di sartoria, era morto già
da un pezzo. Il fratello maggiore era stato condannato per un
omicidio a scopo di rapina e aveva fatto una pietosa fine a Stein an
der Donau. (1) Fritz mi confidò questa storia solo dopo che
eravamo diventati come gemelli. Si portava addosso il marchio della
violenza, ne soffriva, e il suo modo inquietante di battersi con la
pietra cominciai a capirlo quando seppi del destino toccato a
quel fratello. La polizia teneva sempre d'occhio i ragazzi
Wotruba. Fritz, il più giovane, molto più giovane dei fratelli
ribelli, non poteva affacciarsi nella Florianigasse senza
finire tra le braccia di un poliziotto. Ancora piccolissimo,
aveva assistito alle punizioni inflitte dal padre ai fratelli.
Erano vere e proprie esecuzioni, con la cinghia di cuoio e
grida terribili. La spietata severità del padre gli aveva fatto
più impressione di tutte le colpe che i suoi fratelli potevano aver
commesso. Era convinto che il padre avesse avviato i figli alla
delinquenza proprio con quelle punizioni. Ma poiché gli restava
davanti agli occhi la brutalità del padre, aveva anche il sospetto
che tutto questo si fosse trasmesso dal padre ai figli per via
ereditaria.
La paura di quella eredità non doveva più lasciarlo, fino a
diventare un terrore panico del carcere e a condizionare i suoi
rapporti quotidiani con la pietra. La pietra, la più dura e la più
spessa delle materie, lo teneva prigioniero, e Fritz la addentava,
le si scagliava contro penetrandovi sempre più a fondo. Ogni
giorno, per molte ore, si batteva con la pietra, e la pietra era
diventata così importante per lui che non poteva più farne a meno,
così importante - non come il pane, bensì come la carne. E" quasi
da non credere, ma l'opera di Fritz Wotruba deve molto alla lotta
tra il padre e i fratelli, al destino dei fratelli. Nulla di
tutto questo traspare dalla sua scultura, è un legame profondo, così
profondo che è entrato nell'essenza della sua materia. Bisogna
conoscere la storia di Wotruba, anche le fughe che non sono
mai mancate nella sua vita, l'amore appassionato per i
felini prigionieri - nessun essere
umano poteva fargli pietà come una tigre in gabbia -, la sua paura
di avere figli, perché la follia omicida si potrebbe ereditare: al
posto di un figlio si teneva un gatto. Bisognerebbe sapere tutto
questo (e molte altre cose, a voler essere precisi) per
comprendere perché Wotruba dovesse staccarsi e allontanarsi
sempre più dalla carnalità della pietra, una carnalità che
all'inizio era presente anche nella sua scultura, per esempio nel
famoso Torso dei primi anni.
A vederlo in quella stanza arredata secondo i canoni del Bauhaus,
ma con i quadri arcadici di Georg Merkel e gli eleganti dipinti di
Dobrowsky alle pareti, mentre il resto della casa, specialmente la
cucina, era rimasto come ai tempi del padre violento, con la
differenza che il potere era passato alla madre - ma che cos'era il
fragoroso lancio dei piatti rispetto alle percosse brutali e
interminabili del padre! -, dopo avere assistito al rabbioso
assalto della vecchia contro il ritardatario, alle manovre
per schivare i piatti, dopo tutto questo non potevo immaginare
che si trattasse già di un progresso, di un incivilimento. Il
padre era ormai scomparso, il fratello forse era già morto in
prigione, e adesso, invece, c'era il gioco con la madre, il centro di
tutto era la madre, che aveva resistito a tante prove e grazie al
figlio più giovane poteva vivere una vita diversa, degna di lei,
senza nessuna rinuncia all'antico ambiente: ancora la stessa casa,
la stessa cucina, ancora il selciato della Florianigasse.
Sotto il viadotto della ferrovia urbana, durante la mia prima
visita all'atelier, avevo visto la grande figura eretta di un uomo
scolpito nel basalto nero. Nessuna opera di scultori viventi mi
aveva mai fatto tanta impressione. Stavo lì davanti e udivo il
fragore della ferrovia che passava sopra il viadotto. Vi rimasi così
a lungo che sentii passare più di un treno. Nel ricordo non
riesco a separare la statua da quel rumore. Era nata lì, tra quei
rumori, frutto di un lavoro lungo e molto duro. C'erano da vedere
altre statue, un buon numero, ma non troppe. L'atelier non
sembrava proprio stipato. Era costituito da due grandi archi del
viadotto ferroviario, e in uno stavano le statue che
avrebbero disturbato Wotruba mentre lavorava nell'altro. Se il
tempo non era troppo cattivo, lui preferiva lavorare
all'aperto. All'inizio mi ero sentito respinto dall'ambiente
spoglio e dal frastuono dei treni, ma poiché non si vedeva niente di
superfluo e ogni cosa aveva un interesse e un'importanza, ci si
sentiva presto a proprio agio e si scopriva che quello era il posto
giusto, che non poteva essercene uno più appropriato.
Ma non mi guardai troppo intorno, sebbene mi premesse
dimostrare all'artista la mia attenzione, perché il "Nero in
piedi", come lo chiamammo da allora, non allentava la sua presa su
di me. Era come se fossi andato all'atelier solo per lui. Tentai
di scrollarmelo di dosso, mi aveva reso muto, e io dovevo pur dire
qualcosa. Dovunque mi appostassi, dovunque cercassi di posare gli
occhi, era sempre il "Nero in piedi" a richiamare il mio sguardo,
e così lo osservai da tutti gli angoli immaginabili e gli resi
l'omaggio più grande attraverso il silenzio con cui mi aveva
contagiato.
Questa statua è scomparsa. Fu sotterrata durante la guerra,
come mi raccontò Wotruba, e non fu più ritrovata. Aveva suscitato
aspre critiche, ed è possibile che lui non volesse più saperne.
Quando fummo costretti a emigrare e a separarci - lui visse in
Svizzera, io in Inghilterra -, Fritz era forse turbato dal ricordo
della passione che avevo concepito per il "Nero in piedi"; e poiché
durante l'esilio aveva preso altre strade, molto diverse, al suo
ritorno a Vienna non voleva più riallacciarsi a un'opera che aveva
fatto a venticinque anni. E" vero, quella statua, con tutto ciò
che io ne dicevo parlando con Fritz, gli precludeva la strada a
cose nuove. Ero ostinato come lui, e con quei discorsi gli
riuscivo importuno. Quando venne a trovarmi a Londra la prima volta
dopo la guerra, io mi rifacevo ancora al "Nero in piedi" come
termine di paragone per le sue opere più recenti, e non gli
nascosi la mia delusione. Il suo periodo veramente nuovo, col
quale si riallacciava anche agli esordi - io solo potevo rendermene
conto - arrivando però a risultati di gran lunga superiori, non
cominciò prima del 1950. E" dunque scomparsa l'opera che mi aveva
legato a Wotruba, l'opera che dall'autunno 1933, quando la vidi
per la prima volta, servì a definire l'idea che avevo di Wotruba
fino al momento in cui, ventun anni dopo, alla fine del 1954,
scrissi su di lui il saggio di cui non vorrei mai più cambiare una
parola.
Oggi so benissimo che cosa ci sarebbe da criticare nel "Nero in
piedi". Perciò posso parlare soltanto dell'esperienza di quel primo
giorno.
La figura che ti stava di fronte, tutta nera e in grandezza
più che naturale, teneva una mano, la sinistra, nascosta
dietro la schiena. La parte superiore del braccio si staccava dal
corpo in maniera molto decisa e formava un angolo retto con la
parte inferiore. Così il gomito spiccava netto e potente dal corpo,
quasi si tenesse pronto a ricacciare chiunque si avvicinasse troppo.
Il triangolo vuoto tra il torace e le due parti del braccio,
l'unico spazio vistosamente vuoto che si notasse in tutta la
figura, aveva qualcosa di minaccioso: faceva subito pensare alla
mano invisibile, alla mano di cui avresti voluto scoprire la
sorte. Sentivi che era solo nascosta, non amputata. Ma non osavi
cercarla, cedevi a una sorta di magia che ti proibiva di abbandonare
il tuo punto di osservazione. Prima di cominciare la ricerca, che
presto o tardi era inevitabile, ti persuadevi della visibilità
dell'altra mano. Nella parte destra della statua regnava la pace.
Il braccio destro era tutto steso lungo il corpo, la mano aperta
scendeva fin quasi all'altezza del ginocchio, sembrava tranquilla e
priva di ogni carica ostile. Era così tranquilla che ad essa non
pensavi affatto, colpito dal modo in cui l'altra mano si sottraeva
alla vista.
L'uovo della testa era posato su un collo robusto che si
assottigliava un poco verso l'alto (altrimenti sarebbe risultato più
largo della testa). Il viso era stretto, appiattito in avanti,
più viso che maschera nonostante la semplificazione dei tratti,
scabro e muto, la fessura della bocca ben chiusa, a negare con
energia e con sofferenza ogni confessione. Il torace e il ventre
articolati in zone ben definite, piatti come il viso, dominati da
robuste spalle cilindriche; la regione dei ginocchi accentuata fino
a trasformarli quasi in emisferi; i grandi piedi puntati nettamente
in avanti, uno vicino all'altro, ingranditi, come esigeva il peso
di quel basalto; il sesso non nascosto e non invadente, quasi
sottratto a una sua precisa raffigurazione.
Ma veniva il momento in cui ti liberavi per andare alla ricerca
della mano che si nascondeva. La trovavi
- inaspettatamente - sopra la parte inferiore della
schiena: allungata di traverso, enorme, i polpastrelli
sporgenti, sproporzionata anche rispetto alla grande figura; e
devo ammettere che rimasi spaventato dalla violenza di quella
mano. Non c'era nulla che ne denotasse la cattiveria, ma era capace
di tutto. Ancora oggi sono convinto che la statua era nata in
funzione di quella mano e che l'uomo che l'aveva ricavata dal
basalto doveva nasconderla a tutti i costi, perché era una mano
strapotente; e che la bocca che non voleva parlare custodiva il
segreto della mano, e che il gomito che sporgeva minacciosamente in
fuori ne difendeva l'accesso.
Andai al viadotto innumerevoli volte. La mia passione per la
statua di basalto divenne il nocciolo della nostra amicizia.
Guardavo la mano di Wotruba, la seguivo nel lavoro e stavo lì per
ore, in una tensione non inferiore alla sua. Ma per quanto fossero
eccitanti le cose nuove alle quali stava lavorando, io non
mi volgevo mai verso di lui senza prima dimostrare la mia
reverenza per il "Nero in piedi". A volte trovavo la statua già
all'aperto, perché in previsione della mia visita era stata spinta
fuori dall'arcata per farmi piacere. A volte era messa dietro la
porta aperta di una delle arcate, in modo che restasse isolata,
senza altre statue che potevano disturbare l'effetto. Della
mano non parlavo mai - di quante altre cose, del resto, non
abbiamo mai parlato -, ma Wotruba era troppo intelligente per non
notare che io avevo afferrato qualcosa che lui doveva dire col
basalto, qualcosa che lui, nel suo orgoglio, non voleva dire
con le parole. Uno dei suoi fratelli era Caino, l'omicida, e per
tutta la vita Fritz si portò addosso la paura di dover uccidere a sua
volta. Se non lo ha mai fatto, poteva ringraziare la pietra; e
attraverso quella statua, il "Nero in piedi", ha lasciato intendere,
almeno ai miei occhi, quale pericolo lo minacciasse.
In quella figura trovava forse espressione ciò che in Wotruba
vi era di più immutabile. Il linguaggio era un'altra delle cose
che in lui non potevano mutare. Le sue parole erano cariche
dell'energia con cui le tratteneva. Non era un uomo taciturno e
diceva la sua opinione su molti argomenti, ma sapeva quel che
diceva, da lui non ho mai sentito chiacchiere inutili. Anche
quando si parlava di qualcosa che non gli stava
particolarmente a cuore, le sue frasi avevano sempre
una direzione. Se voleva conquistarsi le simpatie di qualcuno,
poteva dire cose in cui era abbastanza evidente un calcolo
grossolano; ma allora esagerava smaccatamente, in modo che tutto
prendesse il tono di uno scherzo, sebbene in realtà le sue
intenzioni fossero molto concrete. Tuttavia era anche capace di
sbarazzarsi di ogni mira e di parlare con una chiarezza e insieme
con una forza tali che chi lo ascoltava non sapeva resistergli e
diventava come lui, limpido e forte. Non prendeva mai in prestito
un linguaggio diverso, usava sempre le parole del quartiere di
Vienna in cui aveva giocato da bambino con le pietre del selciato; e
si notava, stupefatti, come con quelle parole si potesse dire
tutto, letteralmente tutto. Non era la lingua di Nestroy, grazie
alla quale mi ero convinto già da un pezzo che esisteva un
idioma viennese pieno di incredibili possibilità, un idioma
che stimolava le trovate più fulminee e incantevoli, tanto comico
quanto profondo, inesauribile, cangiante, di un'acutezza sublime
alla quale un figlio di questo secolo disgraziato non potrà mai
avvicinarsi veramente -, la lingua di Wotruba aveva forse solo un
punto in comune con Nestroy: la crudezza, ossia proprio il
contrario di quella cosiddetta dolcezza viennese che è tanto
amata e screditata in ogni parte del mondo.
Parlo di Wotruba com'era allora, a ventisei anni, quando io lo
conobbi, ossessionato dalla pietra e da propositi che non si
potevano scindere dalla pietra, privo di ogni potere, pervaso da
un'ambizione sul cui senso non aveva mai un attimo di dubbio, sicuro
della sua causa come io lo ero della mia, così sicuro che lui e io
ci sentimmo subito fratelli, senza alcun ritegno, senza esitazioni,
senza vergogna, senza arroganza. Potevamo dirci cose che nessun
altro avrebbe capito, perché ciò che dovevamo ancora tenere segreto
agli occhi del mondo diventava tra noi la più naturale delle
confessioni. A me ripugnava la sua crudeltà come a lui ripugnava la
mia "morale", ma eravamo entrambi così magnanimi da superare questi
ostacoli. Io mi spiegavo la sua crudeltà con la durezza del lavoro
in cui era impegnato. Lui vedeva nella mia "morale" la purezza di
un ideale artistico su cui vegliavo gelosamente, l'equivalente
della sua ambizione, per la quale nulla era abbastanza elevato.
Quando proclamava il suo odio contro il Kitsch, eravamo un cuore
e un'anima sola. Per me era come se parlasse della venalità. Per me
era Kitsch tutto ciò che si faceva solo per denaro; per lui, tutto
ciò che era molle e troppo facile da plasmare. Io ero cresciuto
sotto la minaccia del denaro, lui con l'incubo della prigione in
cui era finito suo fratello.
Gli diedi da leggere il manoscritto di "Kant prende fuoco".
Ne fu conquistato come io lo ero stato dal "Nero in piedi". Si
affezionò al personaggio di Fischerle. Conosceva il mondo in cui
viveva Fischerle e conosceva ancor meglio la forza ossessiva di
quell'ambizione. Non aveva nulla da
obiettare alla mancanza di scrupoli del nano scacchista, lui
stesso sarebbe stato pronto a tutto pur di procurarsi una certa
pietra. Non trovava "esagerato" il personaggio di Therese perché
aveva fatto esperienze più dure. Gli piacevano i contorni
netti dei personaggi, e naturalmente era di suo gusto Benedikt
Pfaff, il poliziotto in pensione, ma anche il sinologo asessuato, e
questo mi stupì molto, mentre non poteva sopportarne il fratello,
lo psichiatra. Mi domandò se in questo caso non avevo commesso un
errore, lasciandomi guidare dall'affetto per il minore dei miei
fratelli, del quale gli avevo parlato. Nessun uomo, secondo lui,
poteva avere tante pelli: forse avevo costruito una figura
ideale, e ciò che uno scrittore fa nei suoi libri, Georges Kien lo
faceva nella vita. Gli piaceva il "gorilla", e per contrasto il
medico lo riempiva di orrore. In fondo Wotruba vedeva il
"gorilla" con gli stessi occhi con cui lo vedeva
Georges Kien, ma a quest'ultimo non perdonava la facilità
con cui si era convertito. A quel tempo Wotruba era pieno di
diffidenza verso ogni tipo di conversioni, e spiegava che perfino
il fabbro Jean, quel vecchio stupido, gli era più simpatico dello
psichiatra arrivato. Apprezzava molto, come un mio merito, il fatto
che alla fine del libro lo psichiatra faccia fiasco e provochi
con un discorso sbagliato la morte del sinologo tra le fiamme.
Quel miserevole fiasco, mi disse una volta Wotruba, lo
riconciliava alla fine col personaggio.
NOTE:
(1) Il nome di questa cittadina dell'Austria inferiore, sede di
un penitenziario, significa "Pietra sul Danubio" ?N" d'T"*.
Silenzio al Café Museum
Al Café Museum, dove andavo ogni giorno da quando abitavo di nuovo
in città, c'era un uomo che mi colpiva perché stava sempre solo e
non parlava con nessuno. Il fatto in sé non aveva nulla di
eccezionale, c'erano altri che andavano al caffè per stare soli in
mezzo a molta gente, ma l'uomo in questione si ostinava a
nascondersi dietro i suoi giornali. Solo raramente, molto
raramente, alzava gli occhi da dietro i giornali, e allora mi
domandavo stupito se quella non era la faccia ben nota di Karl
Kraus. Sapevo che non poteva essere: in quel locale frequentato da
pittori, musicisti e letterati Karl Kraus non avrebbe trovato un
attimo di pace, e in ogni caso sarebbe stato in compagnia di altra
gente. Non era Karl Kraus, dunque, e tuttavia sembrava che l'uomo
pensasse solo a nascondersi. Il viso era molto serio e stava
immobile, mentre non avevo mai visto nulla di simile in Karl
Kraus. A volte mi sembrava di cogliere un'espressione quasi
impercettibile di dolore di cui attribuivo l'origine alla lettura dei
giornali. Mi sorprendevo ad aspettare quasi con ansia i rari istanti
in cui quel viso si mostrava. Spesso interrompevo la lettura
del mio giornale per accertarmi che lui fosse ancora immerso nel
suo. Quando entravo al Café Museum cercavo per prima cosa lo
sconosciuto e non tardavo a individuarlo, benché la faccia
restasse invisibile, dalla rigidità con cui il braccio teneva il
giornale - un oggetto pericoloso al quale l'uomo si aggrappava,
qualcosa che avrebbe buttato via volentieri e cui dedicava
tuttavia la massima attenzione. Cercavo di sedermi in modo da
tenerlo sempre d'occhio, possibilmente di fronte a lui, un po'"di
sbieco. Ero in soggezione davanti a quel silenzio, che presto era
diventato importante per me, e non mi sarei mai seduto a un
tavolino libero accanto a lui. Anch'io ero quasi sempre solo,
ancora non conoscevo nessuno tra gli habitués del locale e tenevo
alla mia tranquillità come lui alla sua. Stavo seduto un'ora o
più di fronte a lui, di sbieco, sempre aspettando i momenti in
cui gli vedevo la faccia. Le distanze tra noi erano mantenute, io
avevo molto rispetto per lui senza sapere chi fosse, davanti
alla sua concentrazione sentivo quasi di trovarmi davvero alla
presenza di Karl Kraus, ma di un Karl Kraus come non l'avevo mai
conosciuto: con la bocca chiusa.
Era lì tutti i giorni. In genere lo trovavo già seduto quando
arrivavo, e non osavo pensare che mi aspettasse. Se però mi
accadeva di non trovarlo, avvertivo un senso di impazienza, come
se fossi io ad aspettarlo. Allora fingevo di sprofondarmi nel
giornale, sicuramente non avrei saputo dire che cosa leggevo, e
continuavo a guardare nella direzione della porta d'ingresso. Lui,
poi, arrivava immancabilmente, alto e magro, rigido e schivo,
quasi superbo, come se volesse evitare
ogni contatto e tenere alla larga le creature troppo loquaci.
Ricordo ancora il mio stupore la prima volta che lo vidi camminare:
era un po'"come se cavalcasse verso di me, neanche a cavallo sarebbe
potuto stare più diritto di così. Mi ero aspettato un uomo più
piccolo, con la schiena curva, ma era la testa ad avere quella
sbalorditiva somiglianza. Non appena si sedeva al suo posto,
ritornava a essere Karl Kraus, nascosto dietro i giornali ai quali
dava la caccia.
Poiché non sapevo niente di lui, non avevo niente da dire su
di lui.
Per un anno e mezzo lo vidi così, e diventò un pezzo muto
della mia vita. Non parlai di lui con nessuno, non feci mai domande
sul suo conto. Se non si fosse fatto vedere, avrei sicuramente
finito col chiedere informazioni al cameriere.
Sentivo già allora, prima che avvenisse del tutto, che in me si
preparava una svolta nei confronti di Karl Kraus. Non lo vedevo
molto volentieri e non andavo più a tutte le sue serate, ma
continuavo a rispettarlo e certamente non avrei osato
contraddirlo. In lui non sopportavo la minima incoerenza, e anche
quando l'incoerenza non era proprio evidente avrei preferito che
stesse zitto. Così il suo ritratto, quello che vedevo ogni giorno al
Café Museum, diventò per me una necessità, qualcosa a cui non potevo
più rinunciare. Era un ritratto, non un sosia, perché quando
stava in piedi o camminava non aveva niente in comune con Karl
Kraus, mentre gli somigliava come una goccia d'acqua quando stava
seduto e leggeva il giornale. Non scriveva mai, non prendeva
appunti. Leggeva e si nascondeva. Non leggeva mai un libro, e
sebbene desse la sensazione di aver letto molto, leggeva soltanto il
giornale.
Io avevo l'abitudine di buttare giù qualche nota al caffè, e
il pensiero che lui potesse vedermi in quell'atto non mi divertiva
affatto. Mi sembrava sconveniente scrivere in sua presenza.
Quando alzava gii occhi fuggevolmente, io lasciavo cadere adagio
la matita. Ero sempre sul chi vive, la mia vera attenzione, la
massima attenzione, era rivolta a quel viso che appariva e
subito scompariva di nuovo. Ostentavo un'aria innocente che
forse lo traeva in inganno. Non credo che mi abbia sorpreso una sola
volta nell'atto di scrivere. E tuttavia tendevo a pensare che vedesse
tutto quanto, non solo me, che condannasse ciò che vedeva e che
perciò si ritraesse così in fretta. Gli attribuivo un'eccezionale
capacità di penetrazione, forse perché sapevo che in questo Karl
Kraus era un maestro. Gli bastavano pochi attimi, non si
soffermava, e forse - così speravo - quel che vedeva non era per
lui così importante: erano le cose essenziali a tenerlo
occupato, lo si poteva intuire dal disgusto che il giornale gli
procurava. Gli errori di stampa gli erano diventati indifferenti.
Non cantava arie di Offenbach, (1) non cantava per niente, aveva
capito che la sua voce non si prestava al canto. Leggeva anche
giornali stranieri, non solo quelli viennesi, non solo quelli
tedeschi. Nel fascio di giornali che il cameriere gli portava ce
n'era sempre uno inglese a sovrastare tutti gli altri.
Era meglio che non avesse un nome. Non appena lo avesse avuto,
per me non sarebbe più stato Karl Kraus, e sarebbe finito quel
processo di metamorfosi del grand'uomo che mi auguravo così
ardentemente. Solo più tardi mi resi conto che nel corso di
quella silenziosa relazione qualcosa si scindeva dentro di me. Le
forze della venerazione si staccavano a poco a poco da Karl Kraus e
si volgevano verso il suo muto ritratto. Era una profonda
trasformazione del mio assetto spirituale, in cui la venerazione ha
sempre avuto una parte centrale; e il fatto che il cambiamento
avvenisse nel silenzio non faceva che aumentarne la portata.
NOTE:
(1) Karl Kraus dava la caccia agli errori di stampa, in cui
trovava motivi per la sua vena satirica e aforistica, e adorava le
operette di Offenbach, che interpretava con l'accompagnamento di un
pianista. Si veda il saggio su Kraus in: E" Canetti, La coscienza
delle parole, cit", pp" 61 sgg" ?N" d'T"*.
Commedia a Hietzing
Tre mesi dopo il ritorno da Strasburgo e Parigi ero occupato a
terminare la Commedia della vanità. La sicurezza con cui
procedevo nella stesura della seconda e della terza parte aveva per
me qualcosa di esaltante. Era un lavoro che non mi causava
sofferenza. Non scrivevo contro me stesso, non mi sentivo
imputato in un processo, non c'era autodenigrazione. La vanità, che
era il tema dominante, non mi aveva mai dato molte
preoccupazioni, potevo guardare il mondo liberamente, senza farmi
scrupoli. Nella seconda parte della commedia, nel modo di
elaborare l'idea di fondo, quella del divieto contro gli specchi e
contro i ritratti, avevo ceduto all'influsso di un uomo che io
consideravo il più ricco e il più stimolante di tutti i
commediografi, e che senza dubbio lo era: Aristofane. E il fatto che
ammettessi francamente questo influsso, che non lo
nascondessi, nonostante l'enorme distanza che separava me e
chiunque altro da Aristofane, era forse il vero elemento
liberatorio che mi aiutava nella stesura.
Perché non basta l'ammirazione per il passato, il
riconoscimento della sua inarrivabile grandezza. Occorre anche
osare qualche salto nella sua direzione e accettare il rischio che
questi salti falliscano e ci coprano di ridicolo. Bisogna solo
guardarsi dall'adoperare quell'inarrivabile grandezza come se
ancora andasse del tutto bene per i nostri fini, ma dobbiamo farcene
stimolare e infiammare.
Può anche dipendere da questo modello se io speravo in
un'immediata efficacia della commedia. L'urgenza era grande, gli
avvenimenti in Germania incalzavano sempre più veloci, ma io non
pensavo ancora a una situazione irreversibile. Ciò che era tenuto in
movimento dalle parole poteva essere trattenuto dalle parole. Vedevo
nella mia commedia, non appena l'avessi finita, una legittima
risposta al rogo dei libri. Occorreva dunque metterla in scena,
dappertutto, in fretta, ma io non avevo relazioni nel mondo
teatrale. Ero ancora paralizzato dal giudizio di condanna con cui
Karl Kraus mi aveva fatto disprezzare e trascurare il teatro
contemporaneo. In verità, nell'autunno del 1932 avevo mandato
Nozze all'editore S" Fischer di Berlino, che aveva accolto il
dramma nel suo repertorio teatrale, ma era arrivato troppo tardi e
non si poteva più rappresentarlo. Il lettore della casa editrice,
che a suo tempo si era pronunciato per l'accettazione del
dramma, aveva dovuto lasciare Berlino e aveva assunto la direzione
della sezione teatrale della casa editrice Zsolnay a Vienna.
Per afferrare il significato della commedia bisognava
ascoltarla, perché era tutta costruita su quelle che io chiamavo
maschere acustiche: ogni personaggio prendeva un netto risalto
rispetto a tutti gli altri attraverso la scelta delle parole,
l'accento, il ritmo, ma nelle opere drammatiche non c'era uno
spartito in cui tutto questo potesse essere fissato. Le mie
intenzioni potevo chiarirle solo con una lettura completa del
testo. Così Anna Mahler mi propose di tenere una prima lettura
della commedia in casa Zsolnay, davanti a un piccolo pubblico di
persone competenti ed esperte anche nelle cose pratiche del
teatro. Sarebbe stato presente anche quel lettore che conosceva già
Nozze e che a Berlino, senza sapere niente di me, si era
espresso spontaneamente a favore della mia forma di dramma. La
proposta di Anna mi persuadeva, la mia sola preoccupazione era la
lunghezza.
"Dura quattro ore," dicevo io "e non voglio lasciar fuori
neanche una scena. Non taglio una sola battuta. Chi ce la fa a
resistere?".
"Bisogna dividere la lettura in due parti di due ore
ciascuna," suggerì Anna "e completarla in due giorni successivi o,
se non è possibile, con un intervallo di una settimana tra la prima e
la seconda parte".
Anna non conosceva la commedia, ma dopo la lettura del romanzo,
per il quale si era battuta dappertutto con molta convinzione,
era sicura che un testo come quello che le avevo illustrato con
tanti particolari meritava di essere sostenuto. A lei, in realtà,
i drammi non interessavano, e credo che avesse un'antipatia innata
per quella forma letteraria. Ma in questo caso aveva fatto la
conoscenza del testo attraverso il mio racconto, ed era appunto
il mio modo di raccontare l'unica cosa che le piacesse in me.
La madre di Paul Zsolnay, quella che Anna chiamava "zia Andy",
era il personaggio principale della famiglia e aveva un grande
ascendente sul figlio. La casa editrice era nata soprattutto
per suo desiderio, espressamente per pubblicare le opere di Franz
Werfel, e si era poi assicurata tutta una serie di autori allora
molto considerati, ma anche alcuni veramente buoni, come Heinrich
Mann. Anna aveva dato da leggere alla suocera il manoscritto di
"Kant prende fuoco", e "zia Andy", avendo fatto qualche cattiva
esperienza con le donne, ne aveva avuto un'impressione molto
favorevole. Era lei la vera padrona di casa, il palazzo della Maxingstrasse era
la sua residenza, anche se gli inviti per la lettura
furono diramati ufficialmente da Anna. Io avevo insistito con Anna
perché sua madre, Alma, non venisse. Anna mi aveva assicurato che
non c'era alcun pericolo: per Alma Mahler io ero un perfetto
sconosciuto, e in questi casi il pensiero di farsi vedere non la
sfiorava nemmeno. Ma al suo posto sarebbe venuto certamente Werfel.
Lui, Werfel, era molto curioso e in passato, quando ancora lavorava
per l'editore Kurt Wolff, si era dedicato alla scoperta di giovani
talenti. "Non credo che adesso abbia ancora voglia di scoprire
qualcuno" dissi io, senza immaginare che le mie parole contenevano
solo una parte, e quanto piccola, della verità. Per conto mio
aspettavo con curiosità la comparsa di Werfel. Non avevo paura di
lui, sebbene i suoi libri non mi piacessero affatto e il nostro
primo incontro al concerto non mi avesse lasciato un ricordo
gradevole.
Come ospite di riguardo era invitato Hermann Broch. Da più di un
anno lo consideravo un mio amico. Mi sembrava di capire che avesse
fiducia soprattutto nelle mie qualità di autore teatrale. Dopo
il mio ritorno da Parigi alla fine dell'autunno, l'avevo presentato
ad Anna accompagnandolo all'atelier. Eravamo andati insieme anche
da Alma Mahler alla Hohe Warte. "Ehi, Annerl, il nostro Broch ha
una calamità negli occhi" aveva detto Alma in presenza di Broch:
voleva dire "calamita", e noi tre, Anna, Broch e io, eravamo
rimasti molto imbarazzati per la forma in cui aveva espresso il suo
sovrano compiacimento. In ogni modo sapevo che Broch aveva un
sincero interesse a conoscere la commedia della quale gli
avevo parlato tante volte. Dopo l'impressione che gli aveva
fatto Nozze, non dubitavo che la commedia gli avrebbe "detto"
qualche cosa. Riponevo in lui grandi speranze. In un ambiente in
cui non contavo nulla e che forse vedeva in me addirittura un
perturbatore della quiete, Broch era - escludendo Anna - il mio
unico alleato da prendere sul serio. Per il resto, infatti, era
soprattutto la casa editrice ad essere rappresentata: Paul Zsolnay,
che io non stimavo granché, il suo direttore Costa, un bonvivant
dall'eterno sorriso, e poi quel direttore della sezione teatrale a
cui ho già accennato.
La lettura ebbe luogo un pomeriggio, davanti a un pubblico
molto ridotto, non credo che ci fosse più di una dozzina di persone.
Ero già stato qualche volta in visita in quella casa, accolto
benevolmente dalla vecchia signora Zsolnay, che aveva in simpatia
gli uomini di lettere ma aveva dovuto pazientare a lungo fino a che,
grazie alla fondazione della casa editrice, intestata al figlio,
avesse la possibilità di fare qualcosa di concreto per loro. Quel
pomeriggio, prima della lettura, avvertivo l'incongruenza di
quel salotto elegante: la prima parte della commedia si svolgeva
in una specie di parco di divertimenti, tra personaggi grossolani
che non avevano peli sulla lingua e dicevano in faccia tutto
quello che avevano da dire. Temevo che l'atmosfera del salotto mi
spingesse a usare mio malgrado un tono più sommesso e guardingo di
quello adatto ai miei personaggi. Era un pericolo che dovevo evitare
a ogni costo, e perciò, prima di cominciare, dissi alla vecchia
padrona di casa: "E" una specie di commedia popolare, il linguaggio
non è troppo raffinato". "Zia Andy" accolse le mie parole con
buona grazia ma lasciando trasparire qualche dubbio. La persona
competente per le "commedie popolari" era un altro beniamino della
casa, Carl Zuckmayer, (1) che però non era presente; e poiché il concetto
stesso di "commedia popolare" faceva inevitabilmente pensare a
lui, non avrei potuto parlare più a sproposito.
In quell'ambiente mi sentivo un estraneo. Ero troppo inesperto
per capire perché mai fossero venuti ad ascoltarmi. Se l'avessi
saputo, mi sarei ben guardato dal presentarmi a quel pubblico. Mi
affidavo alle due persone che ritenevo amiche e dal cui aiuto
dipendeva tutto: Broch e Anna. Stimavo lui, amavo lei, e anche se
Anna aveva tagliato corto dandomi il benservito, questo non
aveva potuto cambiare nulla nei miei sentimenti per lei. Erano
seduti a una certa distanza l'uno dall'altra, ma in modo da potersi
vedere bene. Il loro consenso mi stava talmente a cuore che li
tenevo sempre d'occhio. Proprio davanti a me era seduto Werfel, in
tutta la sua mole, così che non mi sfuggiva la più lieve espressione
della sua faccia. Tra me e lui c'era la stessa distanza che lo
divideva dalla porta da cui era entrato nel salotto. Come si
conveniva al personaggio principale di quella cerchia, era
arrivato per ultimo. Stupiva l'attenzione quasi ansiosa con cui
tutti gli altri, e soprattutto le persone della casa editrice,
osservavano le reazioni di Werfel. Era entrato nel salotto con
un "Salve!" buttato là in tono di familiarità, come se fosse
ancora un bambino, franco, ingenuo, incapace di pensieri cattivi,
in confidenza con Dio come con gli uomini, un'anima pia che trovava
un posticino nel suo cuore per tutte le creature. Sebbene non avessi
nessunissima simpatia per i suoi libri e piuttosto poca per lui,
io fui tanto candido da prestar fede al suo "Salve!" e da pensare
che proprio lì, per quella lettura, non dovevo aspettarmi nessuna
ostilità da parte sua.
Cominciai con la battuta del banditore: "E noi, e noi, e noi,
signori miei!". Fu una partenza a tutta forza, e fin dal principio
la scena del parco dei divertimenti prese un ritmo così impetuoso
che mi dimenticai completamente del salotto di "zia Andy" e di
tutta la casa editrice Zsolnay, che in verità non potevo
sopportare. Leggevo per Anna e per Broch. Immaginavo di leggere
per Fritz Wotruba, che non era presente ma avrebbe apprezzato i
miei personaggi. Pensando a lui, prestai un po'"del suo accento al
banditore: non era proprio la cosa giusta, ma forse mi dava quella
protezione particolare di cui avevo bisogno in un ambiente simile.
Dapprima non badai per nulla a Werfel, ma poi lui stesso si fece
notare abbandonandosi a gesti che non potevano più sfuggirmi.
Ero già molto avanti nella prima parte della commedia, al punto in
cui prende la parola il predicatore Brosam. La violenza della
predica, il suo tono barocco, che come molte ringhiose invettive
della letteratura tedesca si richiama ad Abraham a Sancta
Clara, dovette particolarmente spazientire e stuzzicare Werfel: si
batté la mano aperta sulla guancia carnosa, paf!, come per prendersi
a schiaffi, tenne la mano premuta contro la guancia e si guardò
intorno a sollecitare aiuti. Io, nell'udire quel "paf!", avevo
puntato gli occhi su di lui. Era lì davanti a me, l'aria afflitta,
la mano incollata alla faccia distorta in una smorfia,
fermamente deciso a insistere in quell'espressione di
sofferenza. Non mi lasciai distrarre e proseguii la lettura,
nonostante la forte irritazione che mi procurava la prossimità di
quella faccia carica di grasso e di sofferenza.
Volsi altrove lo sguardo e cercai Anna, nella speranza di
trovare in lei consenso e aiuto. Ma Anna non mi guardava, non badava
a me, i suoi occhi si erano immersi negli occhi di Broch e quelli di
lui negli occhi di lei. Conoscevo quello sguardo: così, in altri
tempi, gli occhi di Anna mi avevano guardato e, mi sembrava, mi
avevano dato nuova vita. Ma io non avevo occhi con cui ricambiare, e
ciò che vedevo adesso mi riusciva nuovo: perché Broch aveva occhi,
e dal modo in cui lui e Anna erano assorti l'uno nell'altro capii
che non mi ascoltavano, che all'infuori di loro non c'era
nient'altro, che per essi non esisteva la corsa in folle del mondo
che i miei personaggi sonori raffiguravano per loro: non era
necessario denunciare quella corsa a vuoto, loro non se ne
sentivano turbati, loro erano fuori posto in quel salotto come
lo ero io con i miei personaggi, dei quali non
avrebbero afferrato il senso neppure in seguito; loro erano
sciolti da tutto, assorti l'uno nell'altro.
Il gioco degli occhi di Anna era così eloquente che non badai più
a Werfel. Continuai la lettura e mi dimenticai di lui. Quando lessi
le cose terribili con cui si conclude la prima parte della commedia
- una donna si getta nel fuoco ed è salvata all'ultimo momento
-, il gioco degli occhi di Anna, dal quale non mi ero ancora
liberato, si risvegliò in me. Io le offrivo l'occasione di
indirizzarlo verso un altro, e quest'altro era uno scrittore che
veneravo e del quale cercavo, con una sorta di fervore e con
sforzi che spesso mi sembravano inutili, di meritarmi la
simpatia. Anna aveva l'arma migliore per conquistarselo. Io
stesso le avevo presentato Broch e adesso ero testimone di ciò che
doveva accadere. A tutto questo, al vero avvenimento del futuro
immediato, faceva da accompagnamento musicale la commedia in cui
avevo riposto tante speranze.
Dopo la prima parte feci una pausa. Werfel si alzò e con aria
contegnosa, ma come se avesse dimenticato la sofferenza di poco
prima, riprese la voce bonaria del suo "Salve!" per dirmi: "Lei
legge molto bene!". Non mi sfuggì che metteva l'accento sulla
parola legge e che passava sotto silenzio la cosa essenziale.
Forse intuiva che proprio gli ascoltatori che meno m'interessavano
erano stati colpiti dal crescendo delle scene, che si facevano
sempre più brevi a mano a mano che si avvicinava lo scoppio
dell'incendio; e proprio per questo riservava a più tardi un
giudizio vero e proprio. Anna taceva, non aveva udito neanche una
parola, aveva altro a cui pensare. I toni volgari della commedia
l'avrebbero disgustata in ogni caso, ma in quelle particolari
circostanze, con Broch davanti agli occhi, non aveva tempo da
perdere in riflessioni. Anche Broch taceva, e io capii che non
era un silenzio che celasse interesse, e neppure un silenzio
benevolo. Mi spaventai: dopo ciò che avevo notato, non potevo
aspettarmi nulla da lui, non mi avrebbe aiutato, e tuttavia
l'evidente paralisi in cui era caduto fu per me un duro colpo. In
quella pausa mi sarei certamente dato per vinto se gli altri
spettatori, quelli che non
erano miei amici, non avessero insistito perché continuassi la
lettura. Una voce disse: "Ma lasciate che riprenda fiato.
Dev'essere sfinito. Non è mica uno scherzo leggere in quel modo".
Era "zia Andy", che non temeva di mostrare un po'"di compassione
per il lettore. E pensare che proprio da lei mi ero aspettato la
resistenza più forte, anzi una spiccata antipatia per quei
"personaggi popolari", come io stesso li avevo chiamati. Ma le grida
del bambino alla vista del fuoco le avevano strappato una sonora
risata, alla quale si era associato suo figlio, che traeva solo
da lei quel poco di vita che aveva in sé e doveva aver ricevuto il
segnale della risata come attraverso un cordone ombelicale. Forse
era questa anche la ragione del temporaneo riserbo di Werfel, che con
i gesti di poco prima aveva preannunciato un atteggiamento beffardo.
Cominciai a leggere la seconda parte e sentii subito che
l'atmosfera era molto cambiata. Non appena arrivai alla scena in cui
le tre carissime amiche, la vedova Weihrauch, sorella Luise e la
signorina Mai, si ritrovano nell'appartamento dell'imballatore
Barloch, si creò un contrasto intollerabile tra la situazione che
volevo rappresentare e il salotto del palazzo della Maxingstrasse in
cui eravamo tutti riuniti, il lettore e gli ascoltatori. La scena
descriveva una situazione non solo miserabile, ma odiosa e per di
più immorale, di un'immoralità sconcertante per i viennesi:
una moglie e una quasi moglie nella stessa casa, se pure si
poteva chiamarla casa, e inoltre si parlava di due ragazze che
vi convivevano, anche se non apparivano in scena. Le amiche erano
appunto in visita dalla vedova Weihrauch, e il dialogo si soffermava sulle incre
dibili condizioni
di vita in quel tugurio, denunciate a gran voce dalla vedova; poi
arrivava il venditore ambulante con i frammenti di specchi, e il suo
gergo caratteristico, proprio per essere esatto e ben noto ai
viennesi, non poteva non fare scandalo.
Werfel aveva iniziato subito la sua offensiva. Non si prendeva
più a schiaffi, ma si passava sul viso ora
una mano ora l'altra, si nascondeva gli occhi dietro le dita,
come se non sopportasse più la vista del lettore, ma poi alzava di
nuovo lo sguardo e cercava gli occhi degli altri, soprattutto dei
suoi compari della casa editrice, come se volesse comunicare
il proprio disappunto, scuoteva gravemente la testa a ogni
improperio e si agitava sulla sedia con tutta la sua mole. Poi,
improvvisamente, nel mezzo del discorso del venditore ambulante,
gridò: "Sa che cos'è lei? Uno che imita i versi degli animali!". Si
rivolgeva a me, e con un insulto che non sarebbe potuto essere più
pesante, più brutale, più disastroso. Werfel voleva mettermi
nell'impossibilità di continuare, ma ottenne l'effetto opposto,
perché lo scopo che mi ero prefisso era proprio quello: far
risaltare ogni personaggio come un animale diverso e rendere
riconoscibili tutti i personaggi attraverso le loro voci. Avevo
trasferito la diversità degli animali nel mondo delle voci, e di
fronte all'insulto di Werfel mi colpì come un fulmine il pensiero che
egli aveva visto giusto, senza tuttavia immaginare
minimamente il perché di quella "imitazione dei versi degli
animali".
Continuai a leggere imperterrito, ormai sfidando l'aperta
ostilità con cui Werfel cercava di contagiare gli altri. La scena
arrivò alla fine, tra le urla dell'imballatore Barloch che metteva
in fuga il venditore ambulante. Werfel disse: "Sembra di sentire
Breitner (2) con quella sua idiota imposta sugli articoli di
lusso". Ma rimase ancora seduto, perché aveva in mente qualcosa
di più clamoroso. Nella scena successiva era di turno il vecchio
facchino Franzi Nada, appostato a un angolo della strada a
guadagnarsi il pane facendo l'adulatore di professione.
L'atmosfera della sala cambiò di nuovo, e io sentii salire verso di
me qualcosa che somigliava a un certo calore. Prima che la scena
finisse, Werfel saltò in piedi e gridò: "Basta, non se ne può
più", mi voltò la schiena e si avviò per uscire. Smisi di leggere,
e lui, già nel vano della porta, si girò verso di me gridando:
"E lasci perdere queste cose!". Quell'ultima offesa mirava ad
annientare me insieme alla commedia, ma ebbe il risultato di
commuovere la vecchia signora Zsolnay, che disse a voce alta
all'indirizzo di Werfel: "Faresti bene a leggere il romanzo,
Franzi!". Lui alzò le spalle, disse: "Sì, sì", e se ne andò.
Con questo, il destino della commedia era segnato. Forse Werfel
era venuto col proposito di liquidarla. Ma forse alla sua
indignazione aveva contribuito il fatto che durante la lettura
aveva scoperto in me un allievo di Karl Kraus, dal quale lo
divideva un odio mortale. Sapevo benissimo di essere spacciato, ma
non volevo arrendermi pubblicamente e tirai avanti. Non badavo più a
nessuno, ero tutto assorto nella commedia. Non so se Anna si fosse
distratta per il comportamento di Werfel e se avesse rinviato a
un'altra occasione il gioco degli occhi. Sarei propenso a
credere che non badò molto a quel colpo di scena per pensare solo
alla cosa che al momento le stava più a cuore. Io interruppi la
lettura a metà del testo, come era previsto, dopo la scena nella
bottega di Therese Kreiss che terminava col grido ossessivo della
donna: "Il diavolo! Il diavolo!".
Quando smisi di leggere, Broch si fece sentire per la prima
volta. Anche lui, come la vecchia signora Zsolnay, aveva provato
pietà per il lettore e perciò disse alcune parole con cui giustificò
le mie ambizioni: "C'è da domandarsi se questo non sia il teatro
del futuro". Non prendeva posizione, poneva semplicemente
il quesito e tuttavia mi concedeva il merito di
aver tentato una strada nuova. Le parole di Broch sembrarono
eccessive alla vecchia signora Zsolnay, che disse: "Bè, non sarà
proprio il teatro del futuro. Ma questa, secondo lei, sarebbe una
commedia popolare?". Qualunque cosa si potesse ancora dire, ormai non
aveva più valore. In realtà chi aveva voce in capitolo in quella
casa era Franz Werfel, e lui non avrebbe potuto dire la sua
opinione in maniera più esplicita. Ma le leggi della
cortesia, nonostante tutto, furono rispettate. A distanza di una
settimana, in un altro pomeriggio, avrei portato a termine la
lettura.
Fatta eccezione per il più importante, gli ascoltatori furono
gli stessi. Terminai la lettura per amore dei miei personaggi,
che raramente avevo sentito fino allora parlare ad alta voce. Di
speranze non ne avevo, la commedia non aveva nessun avvenire. Ma
quella lettura, benché priva di ogni speranza e di ogni scopo,
riuscì ugualmente - e non saprei spiegarne la ragione - a rafforzare
in maniera straordinaria la mia fede nel testo. Sono le sconfitte
di così catastrofiche proporzioni a tenere in vita i poeti.
NOTE:
(1) L'autore della celebre commedia Il capitano di Köpenick
(1931)
era emigrato dalla Germania in Austria nel 1933 ?N" d'T"*.
(2) Hugo Breitner, assessore alle finanze nell'amministrazione
socialdemocratica di Vienna col sindaco Karl Seitz (1923-1934).
L'opposizione lo accusava di "sadismo fiscale" ?N" d'T"*.
Alla ricerca dell'uomo buono
C'erano a Vienna alcune persone con le quali avevo rapporti
frequenti, che vedevo spesso e alle quali non mi rifiutavo. Si
dividevano in due gruppi contrapposti. Le une, forse sei o sette,
avevano la mia ammirazione per la loro attività e per l'impegno che
vi profondevano. Erano uomini che seguivano una propria strada
e non se ne lasciavano distogliere da nessuno, che aborrivano
da ogni concessione e rifuggivano dal successo nel senso volgare
della parola, che avevano le loro radici a Vienna - anche se non
sempre erano le radici più remote -, che non si potevano
immaginare in una cornice diversa e tuttavia non si lasciavano
corrompere dalla città. Io li ammiravo e imparavo da loro come si
possa portare a compimento un impresa senza deviare di un
centimetro, anche se il mondo non vuol saperne. Certo, speravano
tutti di essere compresi e apprezzati ancora in vita, ma erano
abbastanza intelligenti per sapere quanto scarse fossero le
probabilità, ed erano risoluti a tener fede ai loro intenti, anche a
costo di dover sopportare sino alla fine dei loro giorni l'irrisione
che li circondava. Questo modo di descrivere il loro atteggiamento
avrà forse un tono eroico, ed essi erano tutti troppo seri e
saggi per vedersi in una luce simile, ma non mancavano certo di
coraggio e avevano una pazienza che a volte rasentava il sovrumano.
E poi c'erano gli altri, quelli che erano proprio
l'opposto, pronti a qualunque compromesso in nome del denaro,
della fama o del potere. Anche loro mi affascinavano, sia pure in
tutt'altro modo. Volevo capirli a fondo, volevo sapere qual era il
loro paesaggio interiore, scandagliarli in ogni fibra: era come
se la salvezza dell'anima mia dipendesse dalla possibilità di
comprenderli e di interpretarli come personaggi a tutto tondo. Li
incontravo non meno spesso degli altri, e forse la curiosità che mi
ispiravano era perfino maggiore, poiché ciò che vedevo di loro mi
lasciava incredulo e quindi avevo bisogno di continue conferme.
Non che io abdicassi a qualcosa quando ero in loro compagnia:
non mi adattavo ad essi, né cercavo di rendermi simpatico; ma
non sempre capivano subito ciò che pensavo veramente di
loro. Anche a questo gruppo appartenevano sei o sette personaggi
principali, e il più cospicuo tra loro era Alma Mahler.
Mi riusciva molto difficile sopportare le relazioni che legavano
il primo gruppo al secondo. Ero affezionato ad Alban Berg, ma
lui era grande amico di Alma Mahler, entrava e usciva dalla sua
casa, se c'era un ricevimento alla Hohe Warte non mancava mai
una volta, lo vedevo sempre in un angolo con sua moglie Helene e
trovavo sollievo nella sua compagnia. E" vero che Berg se ne
stava in disparte e non partecipava al frenetico affaccendarsi di
Alma, quando lei esibiva ospiti nuovi o "speciali"; è
vero che
egli dedicava a certi invitati osservazioni taglienti che
sembravano uscite dalla "Fackel" e che erano un refrigerio per il mio
cuore non meno che per il suo; ma era lì, non mancava mai, e dalla
sua bocca non ho mai udito una parola contro la padrona di casa.
Anche Broch incontrava tutte le persone possibili, e sebbene
poi, quando eravamo soli, dicesse apertamente quel che ne pensava,
non gli sarebbe mai passato per la mente di evitarle. Lo stesso
accadeva per gli altri che meritavano di essere stimati e presi sul
serio. Avevano tutti anche un secondo mondo, un mondo volgare in
cui si muovevano senza insudiciarsi; anzi sembrava spesso che
questo secondo mondo fosse necessario per tenere pulito il
primo. Chi si isolava da tutti più di ogni altro era certamente
Musil. Si sceglieva con ogni scrupolo le persone da incontrare, e
se gli succedeva inaspettatamente, al caffè o altrove, di
trovarsi in mezzo a gente che disapprovava, ammutoliva e per
nulla al mondo si lasciava indurre a dire una parola.
Nelle mie conversazioni con Broch venne a galla un problema
che potrebbe anche sembrare stravagante: esisteva un uomo buono?
E se esisteva, come doveva essere? Gli mancavano certe qualità che
servivano da molla agli altri? Era qualcuno che se ne stava in
disparte oppure poteva muoversi liberamente in mezzo agli altri,
reagire alle loro sfide ed essere ugualmente "buono"? Il problema
interessava a Broch come a me. Evitammo di eluderlo avventurandoci
in una ricerca di definizioni. Tutt'e due dubitavamo che una persona
buona fosse mai possibile nel mondo che vedevamo - ognuno con i
propri occhi - intorno a noi. Non dubitavamo che doveva essere
fatta in un certo modo, se esisteva. A poterla incontrare,
l'avremmo riconosciuta a prima vista. Tutt'e due, nel discutere
un problema che ai nostri occhi assumeva una curiosa urgenza,
eravamo convinti di sapere esattamente che cosa intendevamo.
Non ci furono estenuanti e sterili discussioni per stabilire che
cos'è buono. Già questo era abbastanza sorprendente, perché Broch
e io dissentivamo su moltissime cose e ci mettevamo una pietra
sopra. Ma in lui come in me l'uomo buono sussisteva come un'immagine
intangibile. Era soltanto un'immagine? Esisteva davvero? Dov'era?
A poco a poco passammo in rivista tutte le persone che
conoscevamo. In un primo tempo ci eravamo occupati di persone di cui
avevamo qualche notizia senza conoscerle, ma poi ci rendemmo conto
che sapevamo troppo poco sul loro conto. Che senso aveva prendere
per buoni i giudizi favorevoli o contrari se non potevamo
verificarli con una opinione personale? Decidemmo dunque di
limitarci alle persone che conoscevamo, a quelle che
conoscevamo bene. Queste persone affiorarono l'una dopo l'altra,
davanti a Broch come davanti a me, e ciascuna fu sottoposta a un
esame.
Tutto ciò potrà sembrare pedantesco, ma in pratica
significava semplicemente che Broch e io raccontavamo situazioni di
cui eravamo stati testimoni e per le quali, per così dire,
potevamo garantire. Era chiaro che noi non eravamo alla ricerca di
un ingenuo: il buono che avevamo in mente doveva sapere quel che
faceva. Doveva essere provvisto di una grande vitalità che gli
potesse consentire delle scelte. Non era un individuo
elementare o limitato, non era ignaro delle cose del mondo, aveva la
capacità di vedere nell'animo altrui. Non si lasciava
ingannare o addormentare dagli altri, era sveglio e attento,
sensibile, vivo, agile; e solo se era in grado di soddisfare
tutte queste condizioni, si poteva porre il quesito: nonostante
ciò, era un uomo buono? Né a Broch né a me mancavano gli esempi da
citare, di personaggi che conoscevamo o avevamo conosciuto in
passato. Ma cadevano l'uno dopo l'altro, come birilli, e presto
tutta la nostra ricerca prese il perfido sapore di un gioco al
massacro: chi erano infatti coloro che si arrogavano il diritto di
giudicare? Davanti a Broch mi vergognavo un po'"di non far valere
abbastanza i meriti di un "candidato"; e forse anche lui, pur
essendo per natura meno impetuoso, provava una certa vergogna davanti
a me. Poi, improvvisamente, disse: "Ne conosco uno! Lo conosco!
Il mio amico Sonne! Ecco l'uomo buono! E" lui!". Era un nome che
non avevo mai sentito. Domandai: "Si chiama proprio Sonne?". (1)
"Sì. Può anche dire il dottor Sonne, se vuol togliergli un
po' di aureola. E" esattamente quello che cerchiamo. In
tutto e per tutto. Sarà per questo che non ci ho pensato subito".
Venni a sapere che il dottor Sonne viveva appartato, che
incontrava alcuni amici, pochi, e che qualche volta - raramente andava perfino a trovarli. "Ma sì," disse Broch "poco fa lei ha
accennato a Georg Merkel, il pittore". Merkel era stato uno dei
nostri "candidati". "Qualche volta il dottor Sonne va a
trovarlo, fuori città, a Penzing. Può incontrarlo da lui. E"
la cosa più semplice del mondo. E" bell'e fatta".
Di Georg Merkel conoscevo i quadri, che alle mostre mi avevano
già attirato più di una volta. Aveva all'incirca l'età di Broch e
si faceva vedere al Café Museum, dove però andava più raramente di
altri pittori. Al caffè mi aveva colpito per un profondo foro
nella fronte, proprio sopra l'occhio sinistro. Nella stanza di
Wotruba avevo ammirato certi suoi quadri dall'aria molto
francese, che avevano risentito presto dell'influsso dei
neoclassicisti e che si distinguevano per una tavolozza molto
personale, inconsueta per Vienna. Allora avevo chiesto sue notizie
e mi ero fatto raccontare la sua storia. In seguito, tramite
Wotruba, lo avevo conosciuto al Café Museum, come quasi tutti i
pittori importanti di quel tempo. Di Merkel mi aveva subito
affascinato il linguaggio, un tedesco molto scelto, con accento
polacco, lento e solenne. Ogni frase era sostenuta da una profonda
convinzione e serietà. Parlava come nella Bibbia, come se
chiedesse la mano di Rachele. Erano cose di tutt'altro genere, che
con la Bibbia non avevano niente a che vedere, ma l'enfasi che
Merkel metteva nel salutare, nell'ossequiare, nell'onorare
faceva sì che l'interlocutore non potesse non sentirsi
innalzato e considerato. Non era però difficile avvertire
quanto il pittore prendesse sul serio anche se stesso, pur senza
apparire presuntuoso. Se appena pronunciava un nome, quel nome
restava nell'orecchio con quella pronuncia e quel tono, e a volte
si era tentati di ripeterlo alla stessa maniera, ma sarebbe stato
ridicolo perché quella che in Merkel era dignità naturale
diventava in chiunque altro qualcosa di manierato. Le sue
convinzioni erano cariche di sentimento fino all'orlo, a nessuno
poteva venire in mente di discutere con lui. Mettere in dubbio una
sola frase di Merkel sarebbe stato come mettere in dubbio tutta la
sua persona. Di un atto volgare, di
una parola volgare non sarebbe mai stato capace, anche se
questo può apparire incredibile in un uomo così enfatico, così
appassionato. Ma bisognava poi vedere come parava le offese,
con quanta fermezza ed energia, senza venir meno in nulla alla
propria dignità, e come si guardava intorno, in quei momenti, per
essere ben sicuro che anche tutti gli altri avessero udito, in un
modo tale che la profonda ferita alla fronte diventava quasi un
terzo occhio, l'occhio di un ciclope. Si era tentati di provocare
la sua collera, tanto era meraviglioso ciò che la collera gli faceva
dire, ma il rispetto e l'affetto per lui erano troppo grandi
perché qualcuno cedesse alla tentazione.
Io vedevo in Georg Merkel l'incarnazione più eloquente di
quella cultura slava di cui Vienna era così ricca. Aveva
studiato a Cracovia, con Wyspianski, e questo può spiegare il
persistere del suo legame linguistico col polacco. L'accento
polacco non lo perse mai: dopo esser vissuto per decine d'anni a
Vienna e in Francia - è morto in tardissima età - conservò sempre
inflessioni polacche nel suo francese come nel suo tedesco. Di
certe vocali non riuscì mai a impadronirsi, dalle sue labbra non ho
sentito uscire una sola "ö". Due parole come "schön" e
"österreich", che pure per lui erano tra le più importanti, non ha
mai saputo pronunciarle nel modo giusto. Diceva: "Esterreich" e
diceva: "Schèn". Quest'ultima parola suonava anche più strana
quando Merkel, rapito dalla bellezza di una donna, non sapeva
trattenersi dall'esclamare: "Ist sie nicht schèn! Schèn ist
sie!". (2) Fu quello che Veza si sentì dire da lui, e con
un'enfasi tale che ne fummo contagiati. Sia che Merkel venisse a
trovarci, sia che andassimo noi da lui, sia che ci incontrassimo al
Café Museum, non c'era verso: alla vista di Veza non poteva fare a
meno di dire: "Schèn ist sie!", e l'esclamazione riusciva tanto più
sorprendente perché Merkel si esprimeva per tutto il resto in un
tedesco scelto e ben costruito.
Avevo conosciuto Georg Merkel poco prima di quella
discussione con Broch, e venne naturale parlare di lui durante la
nostra ricerca dell'uomo "buono". C'erano molti punti a suo
favore, e tuttavia non votammo per lui: perché era essenziale, per
lui, la coscienza che aveva del proprio valore di artista. Con
ciò Merkel si poneva per natura, per così dire, contro il resto
dell'umanità, che non voleva saperne dell'arte, e rendeva giustizia
da solo a se stesso e ai suoi meriti. L'uomo "buono", come noi lo
intendevamo, doveva essere più discreto.
Merkel era andato a Parigi qualche anno prima dello scoppio
della grande guerra e vi aveva trascorso tanta parte della
giovinezza da non perdere più l'impronta di quegli anni parigini.
Forse non è mai esistito un sodalizio di pittori più assortito e
più numeroso. Venivano da ogni parte ed erano pieni di speranze.
Non cercavano di rendersi facile la vita, di prendere vie
traverse per farsi apprezzare e diventare famosi. Per loro la
pittura in sé era così importante che non pensavano ad altro. Gli
stimoli non mancavano, la città era piena di pittori, si
facevano sentire influssi orientali e africani, ma anche le
tradizioni locali, medievali o classiche, conservavano per
contrasto il loro valore. Non si era mai visto niente di simile,
tanti erano i giovani pittori che tentavano strade nuove e personali.
Ci voleva forza per tirare avanti nella miseria, ma forse un'altra
forza
era ancor più necessaria: quella per non cedere troppo
facilmente alle suggestioni più diverse, per accettare soltanto
ciò che corrispondeva al proprio temperamento, per infischiarsi di
tutto il resto e lasciarlo agli altri. Sorse allora a Parigi una
nuova nazione, quella dei pittori. Se oggi si passano in rivista i
nomi di coloro la cui opera segna quel tempo per noi, e certamente
lo segnerà per sempre, si resta stupiti davanti alla varietà delle
loro origini: ogni Paese aveva i suoi giovani a Parigi, come se
la città, la città stessa quale autorità suprema, li avesse
arruolati al servizio della pittura. Ma essi non avevano obbedito a
un ordine, accorrevano volontari, e le privazioni alle quali si
assoggettavano senza paura erano compensate dall'idea di potersi
trovare a Parigi con i loro simili, che vivevano in condizioni
non meno difficili ma erano tutti, anche loro, animati dalla
stessa fervida speranza di conquistare la gloria, lì, nella
capitale mondiale dei pittori.
Lo scoppio della grande guerra aveva sorpreso Merkel a Parigi,
dove viveva con la moglie Luise, pittrice anche lei. Viveva a
Parigi con entusiasmo e passione, non avrebbe potuto trovare
un'atmosfera più congeniale. Merkel ha sempre ripreso la strada di
Parigi, e nell'insieme vi ha trascorso un buon terzo della sua
vita. Ma allora, alla fine del luglio 1914, ebbe un solo
pensiero: quello di ritornare in Austria a ogni costo, con sua
moglie, per servire nell'esercito. Fu un viaggio avventuroso che
durò più di qualche giorno, ma alla fine Merkel arrivò a casa,
si presentò e andò al fronte. Tra gli ebrei colti della Galizia
era diffuso allora un sentimento che si può chiamare patriottismo
austriaco. La gente aveva davanti agli occhi i pogrom russi.
Gli ebrei vedevano nell'Imperatore Francesco Giuseppe un
protettore. Questi sentimenti erano profondamente radicati in un
uomo come Merkel. Non gli sarebbe bastato servire l'Austria in
qualche ufficio stampa dell'esercito, star lì al sicuro e riempire
gli altri di entusiasmo per la guerra. Per lui fare il soldato era
una cosa naturale. La fuga da Parigi gli era riuscita, sia pure con
stratagemmi e difficoltà, e Merkel andò a fare il soldato.
Pagò il suo amore per l'Austria con una grave ferita alla
testa. Una scheggia di granata lo colpì alla fronte, poco sopra
l'occhio, e lo privò della vista. Rimase cieco per alcuni mesi,
non so esattamente quanti. Per lui, pittore, fu il periodo più
terribile della sua vita. A me non ne ha mai parlato, e credo neanche
ad altri. Gli rimase la profonda cicatrice, e non si poteva mai
guardarlo in faccia senza pensare ai mesi della cecità.
Ricuperò la vista, e tutto ciò che ha dipinto da allora portava il
segno di quel miracolo. Poter vedere era il suo paradiso, ciò
che aveva perduto l'aveva ritrovato, e ormai non poteva più
vederlo in maniera diversa. Non gli si può dar torto se dipingeva
"il bello": i suoi quadri divennero un perenne ringraziamento per
la luce degli occhi.
Si diede il caso che fossi invitato per la prima volta in casa
di Georg Merkel, a Penzing, poco dopo la discussione con Broch,
quel gioco in cui avevamo messo tanto impegno. Merkel aveva casa
e studio a Penzing, dove non di rado faceva venire gli amici la
domenica pomeriggio per mostrare i suoi quadri. Lo conoscevo
ancora poco, ma la sua storia mi era ormai familiare, soprattutto
quella della ferita e del tremendo buco nella fronte. Mi sentivo
attirato dal suo linguaggio melodioso, e sebbene i quadri che
conoscevo di lui, nonostante l'incanto della sua tavolozza,
fossero ben lontani da ciò che di solito mi affascinava
nella pittura moderna, ero curioso di vedere altre opere nel suo
studio. Mi aveva sempre interessato il modo in cui i pittori
mostrano i loro quadri in privato. E" un gesto in cui si mescolano
orgoglio, liberalità e suscettibilità, e il rapporto tra questi tre
ingredienti era diverso in ogni pittore.
Arrivai un po'"in ritardo, tutti erano ancora seduti a prendere
il tè. Avevo già incontrato di persona alcuni degli invitati, di
altri conoscevo il nome o le opere. Appartato da tutti, nella
penombra, timido, quasi nascosto, era seduto un uomo di cui conoscevo
il viso, da un anno e mezzo. Ogni pomeriggio era al Café Museum,
barricato dietro i giornali. Somigliava a Karl Kraus (l'ho già
raccontato), sapevo che non poteva essere lui, ma l'idea di vedere
un Karl Kraus silenzioso, lontano da accuse e demolizioni, mi
piaceva talmente che cercavo di immaginare che fosse lui.
L'incontro quotidiano col suo viso, quell'incontro senza parole,
lo usavo per liberarmi dal potere schiacciante che quella testa
esercitava quando parlava.
Adesso la testa era lì, e io mi spaventai e ammutolii. Merkel
intuì che qualcosa era accaduto, mi prese delicatamente per il
braccio, mi condusse davanti a quel viso e disse: "E questo è
il mio caro amico dottor Sonne". Nel presentare le persone il
pittore metteva molto sentimento, non voleva che fosse un'arida
formalità, e quando faceva incontrare due persone doveva essere per
la vita. Non poteva sapere che da un anno e mezzo io osservavo con
la più scrupolosa attenzione ogni movimento di quell'uomo. Né
sapeva che una settimana prima Broch aveva pronunciato per la
prima volta quel nome in mia presenza. L'ostinata ricerca
dell'uomo buono, il gioco che Broch e io avevamo preso tanto sul
serio, diventava realtà; e non era senza significato che quel
nome e quel viso, che in me vivevano separati, diventassero
tutt'uno nella casa di quel pittore dalla voce melodiosa.
NOTE:
(1) In tedesco Sonne vuol dire "sole" ?N" d'T"*.
(2) "Bella! Accidenti se è bella!" ?N" d'T"*.
Sonne
Che cosa mi ha tanto affascinato nel dottor Sonne? Perché volevo
vederlo ogni giorno, lo cercavo ogni giorno? Perché era diventato
l'oggetto della passione più ardente che un intellettuale
mi avesse mai ispirato?
In primo luogo c'era l'assenza di
ogni riferimento personale. Sonne non parlava mai di sé. Non
diceva mai niente in prima persona. Ma anche nel rivolgerti la
parola non usava la forma diretta. Tutto era detto in terza
persona e così collocato a una certa distanza. Bisogna cercare di
immaginare che cos'era quella città e la vita dei suoi caffè, quel
diluvio di discorsi in prima persona, tra asseverazioni,
confessioni e autoaffermazioni. Ognuno straripava di compassione
per se stesso ed era gonfio della propria importanza. Ognuno si
lamentava, ognuno ululava e suonava la propria tromba. Ma tutti
vivevano anche pubblicamente in piccoli gruppi, perché avevano
bisogno l'uno dell'altro per i loro discorsi e li sopportavano.
Si discuteva di tutto, e i giornali dispensavano la materia prima di
uso comune. Era un tempo in cui accadevano già abbastanza cose, ma
più ancora era un tempo in cui si sentiva quante cose stavano per
accadere. Si era infelici per la piega degli avvenimenti
nell'Austria di allora, ma si sapeva benissimo quanto maggiore
fosse il peso degli avvenimenti nel vicino Paese che parlava la
medesima lingua. Una catastrofe era nell'aria. Contro ogni attesa
l'esplosione era rinviata di anno in anno. Nel nostro stesso
Paese le cose andavano male, e se ne poteva avere la misura dal
numero dei disoccupati. A ogni nevicata si diceva: "Farà piacere ai
disoccupati". Alla spalatura il municipio di Vienna adibiva i
disoccupati, che per breve tempo avevano qualcosa da guadagnare. La
gente guardava gli spalatori al lavoro e si augurava, per il loro
bene, che cadesse altra neve.
Per me quel periodo era sopportabile solo se vedevo il dottor
Sonne. Era un'autorità alla quale avevo accesso ogni giorno.
Mentre si era con lui, la conversazione toccava innumerevoli
cose: cose che accadevano, da tutte le parti, e, ancor più, che
minacciavano di accadere. Ci si sarebbe vergognati a parlarne in
termini personali. Nessuno, al cospetto delle cose che si
annunciavano, aveva il diritto di ritenersi avvantaggiato: non era
un pericolo suo, il pericolo era di tutti. Rendersene conto e
parlarne non era un merito, bastava un po'"di lucidità,
nient'altro, ma appunto questa era la cosa più difficile da
conquistare. Non si preparavano mai in anticipo gli argomenti su cui
consultare il dottor Sonne. Non si faceva mai un programma. I temi
venivano fuori spontaneamente, come le sue spiegazioni. Tutto
ciò che Sonne diceva
aveva sempre la sua fonte nel pensiero: a me sembrava
che non fosse mai alterato dal sentimento, e tuttavia non era
qualcosa di freddo o di arido. Non c'era mai traccia di parzialità,
non veniva fatto di sospettare: adesso parla a favore di questi o di
quelli. Occorre dire che già allora l'aria era appestata da parole
d'ordine e che riusciva difficile trovare un angolo che ne fosse
libero, in cui non ci si sentisse soffocare. Il dottor Sonne sapeva
essere preciso senza essere troppo conciso, ed era questa la sua
massima virtù. Diceva quello che c'era da dire, in forma chiara e
con contorni ben definiti, ma senza passar sopra a niente. Non
tralasciava niente, era circostanziato. Se i suoi discorsi non
fossero stati così affascinanti, si sarebbe potuto dire che su
ogni argomento rilasciava una perizia. Ma in verità era assai più
che
una perizia, perché conteneva, senza che lui li indicasse per filo
e per segno, i germi di ogni possibile miglioramento.
Non c'era tema di cui non si parlasse. Io accennavo a qualcosa
che mi
aveva colpito, e lui magari voleva saperne di più, ma il suo
desiderio di ragguagli non dava mai la sensazione di una richiesta.
Era il suo modo di avvicinarsi a una certa materia, ma
l'interlocutore non veniva minimamente coinvolto. Forse poteva
sembrare che la personalità di chi stava di fronte a Sonne non
contasse affatto e che contassero solo le cose che a lui
interessavano intellettualmente; ma era un errore, poiché se per
caso era presente una terza persona il modo in cui si
rivolgeva a questa era di nuovo un altro. Sonne faceva dunque
delle differenze, ma per l'interessato non erano mai
percettibili. Era inimmaginabile che in presenza di Sonne
qualcuno si sentisse messo in sott'ordine. L'imbecillità lo
faceva soffrire, ed evitava gli imbecilli, ma una volta in sua
compagnia - per circostanze estranee alla volontà del dottor
Sonne - nessuno avrebbe avuto la sensazione e la misura della
propria imbecillità.
Dopo i preliminari di assaggio veniva sempre il momento in cui
Sonne s'impadroniva di una materia e cominciava a parlarne in
maniera appropriata ed esauriente. Allora non mi sarei mai sognato
di interromperlo, neppure con le domande che facevo volentieri
agli altri. Mettevo da parte ogni reazione esteriore, come un
costume da maschera che non si attagliasse alla mia persona, e
ascoltavo con la più profonda attenzione. Non ho mai ascoltato
nessun altro a quel modo. Dimenticavo che era un essere umano a
parlare, non mi preoccupavo di cogliere le peculiarità del suo
modo di esprimersi. Per me Sonne non prese mai le sembianze di
un personaggio, era il contrario di un personaggio. Se qualcuno mi
avesse invitato a imitarlo, mi sarei rifiutato, e non solo per
rispetto ma perché sarei stato veramente incapace di impersonarlo;
anzi, l'idea stessa mi sembra ancora oggi non soltanto una
meschina profanazione, ma un proposito destinato a un fiasco
completo.
Ciò che Sonne aveva da dire su un certo tema era dunque
circostanziato ed esauriente, ma si sapeva pure che non lo aveva mai
detto prima. Era sempre qualcosa di nuovo, scaturito proprio allora.
Non era un giudizio sulle cose, era la legge delle cose. Ma
l'aspetto più straordinario era che non si trattava di una materia
ben definita, nella quale egli fosse particolarmente ferrato.
Non era uno specialista o, per meglio dire, non era lo specialista
di una determinata disciplina: era invece lo specialista di
tutte le cose delle quali di volta in volta l'ho sentito parlare.
Grazie a lui scoprii che è possibile occuparsi delle materie più
disparate senza diventare un perditempo o un chiacchierone. So che
è un'affermazione molto impegnativa, e non la renderò più credibile
se aggiungo che proprio per questo non posso riportare le cose di
cui Sonne parlava, perché ognuno dei suoi discorsi equivarrebbe a un
saggio, meditato ed estremamente vivo, così completo che non ne
ricordo uno solo nella sua forma integrale. Citare qualche
frammento sarebbe una meschina falsificazione. Sonne non era
un aforista, e nonostante il rispetto che ho per questa parola
sarebbe quasi una frivolezza riferirla a un uomo come lui. Era
troppo "completo" per essere un aforista, gli mancava
l'unilateralità e anche il gusto di sorprendere gli altri.
Quando aveva esaurito un argomento, ci si sentiva illuminati e
appagati, era una pagina chiusa, qualcosa su cui non si ritornava
più perché non ci sarebbe stato nient'altro da dire.
Ma anche se non vorrei arrischiarmi a riferire le cose di cui
parlava, c'è tuttavia un fenomeno letterario che può offrire un
termine di paragone. In quegli anni leggevo Musil e non mi stancavo
mai dell'Uomo senza qualità, di cui allora erano usciti i primi due
volumi, circa mille pagine. Mi sembrava che in tutta la
letteratura non ci fosse niente che si potesse paragonare
all'opera di Musil. Ma mi stupiva anche il senso di familiarità che
provavo ogni volta nell'aprire a caso uno dei due volumi. Era un
linguaggio che conoscevo, un ritmo di pensiero che non mi era
estraneo, e tuttavia - di questo ero certo - non esistevano
libri come quelli. Passò un po'"di tempo prima che afferrassi il
nesso: il dottor Sonne parlava come Musil scriveva. Ma non si deve
credere che Sonne annotasse in privato cose che per qualche motivo
non poteva pubblicare, e che poi attingesse, per le sue
conversazioni, a quello che aveva già pensato e messo a punto. Non
scriveva per sé in privato, e ciò che diceva nasceva lì per lì,
mentre parlava. Ma nasceva con quella perfetta trasparenza che
Musil raggiungeva solo nell'atto di scrivere. Ciò che io, da vero
privilegiato, potevo udire giorno per giorno, erano i capitoli di
un secondo Uomo senza qualità di cui nessuno è venuto a conoscenza.
Infatti, anche se il dottor Sonne parlava con altre persone - non
ogni giorno, ma di tanto in tanto -, quelli erano già altri
capitoli.
A un'informe smania di sapere, di scorrazzare in questa e in
quella direzione per poi lasciar perdere ciò che è stato solo
sfiorato e non ancora afferrato, a questa curiosità che
certamente è più che curiosità perché non ha alcun fine pratico e
finisce in niente, a questo convulso agitarsi da tutte le parti, si
può trovare solo un rimedio: la frequentazione di un uomo che abbia
il dono di muoversi all'interno di tutto il conoscibile senza
lasciarne perdere una briciola prima di averla valutata, e senza
disgregarne l'unità. Le parole di Sonne non abolivano, non
liquidavano nulla; anzi il tema era più interessante di prima, era
riordinato e illuminato. Egli apriva in te interi territori là dove
prima c'erano soltanto punti oscuri, che erano pur sempre punti di
domanda. Sapeva descriverti con la stessa precisione un uomo
importante nella vita pubblica come un certo campo del sapere.
Evitava di parlare di gente che tutt'e due conoscevamo di persona, e
quindi era escluso dalla sua analisi ciò che può trasformare una
conversazione in un pettegolezzo. Ma per il resto usava gli stessi
metodi per cose e persone. Forse era questo soprattutto a
ricordarmi Musil: il suo modo di concepire gli uomini, di volta
in volta, come peculiari campi del sapere. Per Sonne non poteva
esservi una teoria unica da applicare a tutti gli uomini, e questo
concetto gli era talmente estraneo che non vi accennava neppure.
Ogni uomo era qualcosa di particolare, non solo un individuo a sé.
Detestava tutto ciò che gli uomini facevano contro gli uomini:
non è mai esistito uno spirito meno barbaro di lui. Perfino quando
doveva enunciare le cose che odiava, nelle sue parole non c'era
mai odio: erano assurdità che metteva a nudo, nient'altro.
E" enormemente difficile cercare di spiegare fino a che punto
evitasse ogni riferimento personale. Potevi aver passato con lui
due ore nelle quali avevi imparato un'infinità di cose, ma il modo
in cui ciò avveniva era tale che ogni volta ne restavi stupefatto.
Di fronte a quella superiorità intangibile, come avresti potuto
mettere te stesso sopra gli altri? Umiltà non era certamente una
parola che Sonne avrebbe usato, ma ti congedavi da lui in una
condizione di spirito che non si potrebbe definire diversamente;
era però un'umiltà vigile, non quella di una pecora.
Io ero abituato ad ascoltare le persone, anche perfetti
sconosciuti con i quali non avevo mai scambiato una parola. Con
rabbia autentica ascoltavo coloro che non m'interessavano
minimamente, e se non altro conservavo nell'orecchio l'accento di una
persona non appena era chiaro che non l'avrei più rivista. Non
esitavo a stuzzicarla, a farla parlare, o con le mie domande o
addirittura recitando una parte. Non mi ero mai chiesto se avevo
il diritto di carpire dalla viva voce di un uomo tutto ciò che
c'era da sapere sul suo conto. L'ingenuità con cui mi arrogavo
un tale diritto mi appare oggi inconcepibile. Senza dubbio vi
sono qualità ultime che restano inesplicabili, e ogni tentativo di
spiegarle è necessariamente ozioso. Alla categoria delle qualità
ultime appartiene appunto questa, la mia passione per le persone.
Si può descriverla, si può rappresentarla - la sua origine deve
restare oscura per sempre. Posso parlare di fortuna se per lo
meno, grazie ai quattro anni di noviziato trascorsi col dottor
Sonne, scoprii ciò che vi era di equivoco in quella passione.
Mi resi conto che Sonne aveva riguardo verso tutto ciò che gli
fosse vicino, senza però che qualcosa gli sfuggisse. Se non
sprecava mai una parola sulle persone che di giorno in giorno stavano
intorno a noi, era una forma di tatto: non "toccava" nessuno, e
ciò valeva anche quando l'interessato non se ne sarebbe mai
accorto. Il suo rispetto per i limiti altrui era assoluto. Era
il suo "Ahimsa", come io lo chiamavo usando la parola indiana che
indica il rispetto per ogni forma di vita. Ma oggi capisco che
nell'atteggiamento di Sonne c'era piuttosto qualcosa di inglese.
Aveva trascorso in Inghilterra un anno importante della sua
vita, ed era questo uno dei pochi fatti privati, due o tre, che
potei desumere dalle sue parole. Perché in sostanza io non sapevo
niente di lui, e anche a parlarne con altri che lo conoscevano non
veniva fuori niente di concreto. Forse era riluttanza a parlare di
lui come di una qualunque altra persona, essendo molto difficile
esprimere le cose che lo distinguevano e formavano la sua
essenza; e poiché anche quelli che non avevano alcun senso della
misura ammiravano il suo senso della misura, quando il discorso
cadeva su Sonne ci si asteneva per una sorta di scrupolo da
ogni deformazione della sua fisionomia.
A lui non facevi domande, come lui non ne faceva a te. Avanzavi
la tua proposta, cioè accennavi a un argomento come se già da un
pezzo ti girasse per la testa, senza insistere, quasi
esitando. Anche lui esitava ad accettare l'invito. Mentre
continuava a parlare d'altro soppesava ancora un poco la tua
proposta. Poi, con un colpo netto, come se maneggiasse un
bisturi, incideva l'argomento ed esponeva con una chiarezza
cristallina e una completezza sbalorditiva quello che c'era da
dire in proposito. Non è sviante definire glaciale quella
chiarezza. E" la chiarezza di chi, dovendo molare vetri
trasparenti, non è contento finché non scompare ogni macchia
opaca. Il dottor Sonne analizzava un argomento scomponendolo ma
senza fargli perdere la sua unità. Non lo sezionava, lo
illuminava a fondo. Sceglieva le singole parti da esporre alla
luce, le prelevava con cautela e, dopo aver portato a termine
l'operazione, con la stessa cautela le rimetteva al loro posto nel
tutto. Per me era nuovo, inaudito, il fatto che uno spirito capace
di tanta forza di penetrazione non disdegnasse nessun
particolare. Ma ogni particolare diventava importante proprio
perché doveva essere rispettato.
Sonne non era un collezionista: sapeva tutto, ma non teneva
niente per sé come proprietà personale. Aveva letto tutto, ma non
l'ho mai visto con un libro in mano. Era lui stesso la biblioteca
che non possedeva. Dava l'impressione di aver già letto da tempo
tutto ciò di cui si parlava. Non tentava mai di nascondere che se
l'era annotato mentalmente. Non se ne faceva un vanto, non tirava
fuori nulla a sproposito. Ma quando veniva l'occasione, tutto era
lì, infallibilmente, ed era incredibile come non mancasse mai
nulla. Vi erano persone che irritava con la sua precisione. Anche
in presenza di donne non cambiava il suo modo di parlare, non era
mai leggero: la sua spiritualità non si lasciava rinnegare, né la sua
serietà. Non faceva mai il galante, non chiudeva gli occhi davanti
alla bellezza, anzi la ammirava apertamente, ma non avrebbe mai
cambiato se stesso per renderle omaggio: anche di fronte ad essa
rimaneva immutabilmente lo stesso. Davanti alla bellezza, che
scioglieva la lingua agli altri, accadeva che lui perdesse la
parola, per ritrovarla solo quando la bellezza si era allontanata.
Era il supremo omaggio di cui egli fosse capace, eppure era difficile
trovare una donna che se ne rendesse conto. Forse era sbagliato
il modo in cui si parlava di lui alle donne prima che lo
incontrassero. Tu cominciavi
esaltando l'incommensurabile superiorità che lo poneva al di
sopra di te stesso, e bastava questo a disturbare una donna, il
cui amore per te conteneva già un elemento di venerazione e
che in questo elemento viveva come in una propria atmosfera. Come
avrebbe potuto accettare da te la testimonianza di un'altra
venerazione, che per di più pretendeva di essere quella meglio
riposta, l'unica giusta? Come avrebbe potuto rassegnarsi a veder
manomesso il suo patrimonio di convinzioni?
Era così anche con Veza, che si rifiutava tenacemente di
riconoscere il valore di Sonne. Mentre era molto affezionata a
Broch, di Sonne non voleva saperne. Quando lo vide la prima
volta, nella casa del pittore Georg Merkel, mi disse: "A Karl
Kraus non somiglia. Come puoi dire una cosa simile? Se mai,
somiglia alla mummia di Karl Kraus!". Alludeva al viso emaciato e
ascetico di Sonne, alludeva anche al suo silenzio. In società, in
mezzo a molte persone, Sonne non diceva una parola. Intuii che era
colpito dalla bellezza di Veza, ma lei non avrebbe mai potuto
desumerlo dalla fissità di quei lineamenti. Veza non modificò la sua
opinione neanche quando le furono riferite da altri, e
naturalmente anche da me, le espressioni inattese che la sua
bellezza aveva strappato al dottor Sonne.
Dopo un magnifico colloquio con lui al Cafè Museum tornavo a
casa e trovavo un'accoglienza ostile da parte di Veza: "Sei stato
col settimino, ti si legge in faccia. Non voglio sapere niente.
Ma mi piange il cuore all'idea che ti perdi dietro a una mummia". Con
quel "settimino" Veza intendeva dire che Sonne non era pienamente
formato, che gli mancava qualcosa per essere una persona completa e
normale. Io ero abituato alle reazioni estreme di Veza, ci
accaloravamo a discutere di questa o quella persona, lei aveva sempre
qualche intuizione giusta e poi calcava la mano con l'appassionata
intransigenza che le era propria. Poiché io reagivo più o meno
allo stesso modo, si arrivava agli scontri più accaniti, scontri
che del resto piacevano a tutt'e due perché erano una perenne
dimostrazione della piena sincerità che esisteva tra noi, il
midollo della nostra relazione. Solo quando si trattava del dottor
Sonne avvertivo in lei un rancore profondo, un rancore verso di me
che non mi ero mai assoggettato a nessuno. Perfino con Karl Kraus - e
Veza lo riconosceva - avevo salvaguardato interi territori di me
stesso, mentre ora mi assoggettavo senza esitare, sempre,
incondizionatamente. Veza non mi aveva mai sentito esprimere un
dubbio su una frase di Sonne.
Di lui non sapevo niente, tutta la sua vita era nelle sue
parole, ed egli vi era racchiuso a tal segno che sarebbe sembrato
un atto temerario scoprire su di lui qualcosa al di là delle sue
parole. Tutti gli altri davano qualche segno della loro vita fisica,
e lui niente: neppure una malattia, neppure un lamento. Sonne
era pensiero, solo pensiero, al punto che non c'era nient'altro
che si potesse notare in lui. Con Sonne non si prendeva un
appuntamento da un giorno all'altro, e se per caso succedeva che
non si facesse vedere, lui non si sentiva in obbligo di spiegare
la sua assenza. Allora pensavo naturalmente a una malattia, perché
aveva una faccia smorta e un aspetto poco sano, ma per più di un
anno ignorai perfino dove abitava. Avrei potuto chiedere il suo
indirizzo a Broch o a Merkel. Non lo feci, mi sembrava più logico che
non avesse un indirizzo.
Non mi stupii eccessivamente quando un pettegolo che avevo
sempre evitato venne un giorno a sedersi al mio tavolino e mi
domandò a bruciapelo se conoscevo il dottor Sonne. Dissi in fretta
di no, ma quello non si rassegnò a star zitto, tanto era assillato
da qualcosa che non gli dava pace e che non riusciva a spiegarsi:
la storia di un'eredità finita in beneficenza. Quel dottor Sonne,
mi disse, era nipote di un riccone di Przemy` sì e
aveva dato via per scopi benefici tutto il patrimonio ereditato
dal nonno. Era un mentecatto, ma non era l'unico. C'era anche
quel Ludwig Wittgenstein, un filosofo, il fratello di Paul
Wittgenstein, il pianista che continuava a suonare con un braccio
solo: anche lui aveva fatto la stessa cosa, solo che aveva
ereditato i soldi dal padre, non dal nonno. E conosceva anche
altri casi, quel pettegolo, e li enumerò uno per uno, con nome,
cognome e altri dati precisi del testatore. Era un collezionista di
eredità rifiutate o buttate via. Ho dimenticato i nomi che non mi
dicevano niente, e può anche darsi che degli altri non volessi
sapere, perché ero tutto preso dalla notizia riguardante il
dottor Sonne. La accettai senza approfondire, mi piaceva talmente che
le prestai subito fede, tanto più che anche la storia su
Wittgenstein rispondeva a verità. Da molte conversazioni avevo
dedotto che Sonne sapeva che cos'era la guerra, e molto da
vicino, pur senza aver fatto il soldato. Sapeva che cos'erano i
profughi, esattamente come se fosse passato per quell'esperienza, e
più ancora, come se si fosse preso cura dei profughi, come se ne
avesse raccolto e diretto interi convogli per trapiantarli in luoghi
in cui la loro vita non fosse più in pericolo. Dal racconto
di quel pettegolo conclusi che Sonne aveva impiegato per i profughi
il patrimonio ricevuto in eredità.
Sonne era ebreo, e questo era l'unico dato esterno che mi fosse
noto fin dall'inizio, sebbene sia alquanto improprio definirlo un
dato esterno. Nei nostri incontri si parlava spesso di religioni,
di quelle indiane, di quelle cinesi, di quelle che si fondano sulla
Bibbia. Di qualunque fede parlassimo, Sonne dimostrava nel suo
modo conciso una sovrana conoscenza, ma ciò che soprattutto mi
faceva impressione era la sua padronanza della Bibbia ebraica:
sapeva citarne all'istante e testualmente ogni passo da qualunque
libro e lo traduceva così, senza la minima esitazione, in un
tedesco di straordinaria bellezza che a me sembrava il tedesco di
un poeta. A queste conversazioni aveva dato lo spunto un esame
della Bibbia nella traduzione che Martin Buber stava pubblicando a
quel tempo e sulla quale Sonne faceva delle riserve. Io portavo
volentieri il discorso su questo argomento, per me era
un'occasione per conoscere il testo nella lingua originale. Fino
allora avevo evitato di occuparmene, sarebbe stato imbarazzante
approfondire un tema che mi era così vicino a causa della mia
origine, mentre mi ero applicato a tutte le altre religioni con uno
zelo che non è mai venuto meno.
Erano la chiarezza e l'energia della dizione di Sonne a
ricordarmi il modo di scrivere di Musil. Una volta presa una
strada, era esclusa qualsiasi deviazione se prima non si arrivava al
punto dal quale Sonne poteva imboccare con la massima
naturalezza altre strade. Ogni salto arbitrario era evitato.
Nelle due ore circa che passavamo insieme ogni giorno si parlava di
molte cose, e un elenco degli argomenti che si susseguivano
potrebbe apparire - in contrasto con quello che ho appena detto caotico e stravagante. Ma sarebbe un'illusione ottica, poiché se si
potesse consultarne i testi, se esistesse un solo verbale di quelle
conversazioni, risulterebbe che ogni argomento in
discussione veniva
esaurito prima che si passasse a un altro. Ma non è possibile
riprodurre l'andamento dei nostri colloqui, a meno che si trovasse
il coraggio - sarebbe un'impresa assurda! - di scrivere L'uomo senza
qualità di Sonne. Ne verrebbe un testo che dovrebbe avere la
precisione e la trasparenza proprie di Musil stesso, che
assorbirebbe l'attenzione dalla prima all'ultima parola, che
sarebbe ugualmente lontano dal sonno come dalla penombra, e si
potrebbe aprire a caso, in un punto qualsiasi, senza riuscire
meno avvincente. Musil non sarebbe mai potuto arrivare alla fine,
chi si è votato all'affinamento di un tale processo di analisi vi
resta impigliato per sempre: se gli fosse concesso di vivere in
eterno, dovrebbe anche continuare a scrivere in eterno. Questa è la
vera, l'intrinseca eternità di un'opera simile, ed è nella sua
natura che questa eternità si rifletta sul lettore, il quale non
arriva mai a un punto fermo e continua a leggere, ancora e sempre,
ciò che altrove avrebbe avuto una fine.
Questa è dunque l'esperienza che io ho doppiamente vissuto
a quel tempo, nelle mille pagine di Musil e in cento colloqui con
Sonne. Il fatto che tra quelle e questi vi fosse una rispondenza è
stata una fortuna, quale non è capitata a nessun altro. Se per
il contenuto intellettuale e l'eccellenza della lingua un paragone
non era impossibile, si era invece agli opposti per le
intenzioni più profonde. Musil era tutto immerso nella sua
impresa, e benché gli fosse concessa la più ampia libertà di
pensiero si sentiva subordinato a uno scopo; qualunque cosa gli
accadesse, non rinunciava mai a quello scopo; aveva un corpo di
cui riconosceva l'importanza e attraverso quel corpo rimaneva
legato al mondo. Osservava il gioco degli altri che avevano la
pretesa di scrivere, benché ci fosse lui a scrivere, e ne intuiva la
nullità e la condannava. Apprezzava la disciplina, quella della
scienza in particolare, ma non si privava di altre sue forme.
L'opera che aveva intrapreso aveva anche il significato di
una conquista; Musil ricuperava un impero tramontato, non la
sua gloria, la sua protezione, la sua antica storia, ma piuttosto
quel che ricuperava erano tutte le diramazioni, sul piano
spirituale, delle strade grandi e piccole che lo percorrevano: dagli
uomini ricavava una carta geografica. Il fascino dell'opera di Musil
si può ben paragonare a quello di una carta geografica.
Sonne invece non voleva niente. Che fosse così alto e si tenesse
ben dritto era solo apparenza. Il tempo in cui pensava alla
riconquista di un territorio era ormai lontano. Ignorai a lungo
che aveva intrapreso in compenso la riconquista di una lingua.
Non sembrava legato a nessuna fede, sebbene nessuna fede avesse
segreti per lui. Era libero da ogni scopo e non si misurava
con nessuno. Ma prendeva parte agli scopi degli altri, li valutava
e li analizzava; e anche se usava per le sue perizie i criteri più
rigorosi e spesso, forse quasi sempre, non si sentiva
consenziente, il suo giudizio non riguardava l'impresa in sé, ma il
risultato finale.
Dava l'impressione di essere il più oggettivo di tutti gli
uomini, ma non perché gli oggetti e le cose avessero qualche
importanza per lui, bensì perché non voleva niente per sé. Molti
sanno che cos'è il disinteresse personale, e non pochi,
disgustati dall'interesse egoistico che vedono intorno a sé,
cercano di liberarsene. Ma in quegli anni di Vienna ho conosciuto
solo una persona che fosse totalmente immune dall'egoismo,
appunto il dottor Sonne. Neanche in seguito ho mai incontrato un
uomo come lui. Al tempo in cui le varie forme di saggezza
orientale trovavano innumerevoli adepti e la rinuncia agli scopi
terreni diventava un fenomeno di massa, c'era sempre al fondo
anche un'ostilità contro lo spirito, così come si era sviluppato
nelle culture europee. Tutto veniva demolito, in particolare era
messa al bando l'acutezza dello spirito, si rinunciava a
partecipare alle cose del mondo circostante e così ci si
sottraeva anche alla responsabilità verso il mondo. Nessuno
poteva sentirsi colpevole di ciò con cui non voleva aver niente a che
fare. "Vi sta bene" era il motto che esprimeva un
atteggiamento largamente diffuso. Sonne aveva abbandonato ogni sua
attività nel mondo, e io non sapevo il perché di una simile
rinuncia. Restava però nel mondo, legato con i pensieri a ognuno dei
suoi fenomeni. Lasciava cadere le mani, ma non voltava le spalle
al mondo: anche nell'equilibrio e nell'imparzialità delle sue
parole si poteva avvertire la sua passione per questo mondo, e io ero
portato a credere che non facesse niente solo perché non voleva far
torto a nessuno.
Attraverso Sonne capii per la prima volta che cosa fa
l'integrità di una persona: è la capacità di non farsi toccare da
nulla, neanche dalle domande, e di disporre di sé senza venir
meno ai propri motivi e alla propria storia. Mai una volta mi
feci domande sulla sua persona, per me Sonne rimaneva
intangibile, anche nei pensieri. Parlava di molte cose e non era
avaro di giudizi se qualcuna non gli piaceva. Ma io non cercavo mai
i motivi delle sue parole, che si reggevano di per sé, chiare e
nette, staccate da tutto, anche dalla loro fonte. A quel tempo era
ormai un caso raro, anche prescindendo dalla qualità di quelle
parole. L'infezione psicoanalitica aveva fatto progressi, e proprio
allora l'esempio di Broch me ne dava la misura. In Broch ciò mi
irritava meno che in altri esseri più comuni, perché la sua
personalità, come ho già detto, aveva una sua struttura così
particolare che anche le spiegazioni più banali, quelle appunto
che avevano corso allora, non avrebbero intaccato la sua peculiare
natura. Ma in generale accadeva che a quel tempo non si potesse dire
una frase in una conversazione senza che fosse immiserita con
le motivazioni che erano subito lì a portata di mano. Il fatto che
si trovassero sempre le stesse motivazioni per ogni cosa, la noia
indicibile che ne scaturiva, la sterilità che ne risultava, tutto
questo sembrava dar fastidio a ben pochi. Nel mondo succedevano le
cose più stupefacenti, ma tutte venivano collocate sullo stesso
squallido sfondo: di questo sfondo si parlava e si credeva di
avere spiegato quelle cose, che perciò cessavano di essere
stupefacenti. Là dove doveva intervenire il pensiero, gracidava un
coro saccente di ranocchi.
Nella sua opera Musil era totalmente immune da quel contagio,
e il dottor Sonne ne era immune nelle sue
conversazioni. Non mi faceva mai domande che sfiorassero il
privato. Io non raccontavo niente di me e mi guardavo dalle
confessioni. Avevo davanti agli occhi l'esempio della sua dignità e
mi comportavo come lui: per quanto appassionate fossero le
discussioni, tutto ciò che riguardava solo lui personalmente ne
restava escluso. Gli atti d'accusa non mancavano, ma non
trovavano in lui il minimo compiacimento. Prevedeva le cose
peggiori, le enunciava con estrema esattezza, ma non se ne
rallegrava quando poi avvenivano. Per lui il male restava il male
anche se i fatti gli davano ragione. Nessuno aveva una visione
così chiara del corso degli avvenimenti. Non oserei dire a parole
tutto ciò che di terribile lui sapeva già allora. Si sforzava di non
lasciar trasparire quanto lo tormentassero le cose che
prevedeva. Si guardava dal farle balenare all'interlocutore come una
minaccia o un castigo. La sua circospezione era commisurata al
grado di sensibilità di cui sapeva capace l'ascoltatore. Non offriva
ricette, sebbene ne conoscesse molte. Era così risoluto come se
dovesse pronunciare una sentenza, ma sapeva anche, con un semplice
gesto della mano, esonerare da quella sentenza colui che gli stava
di fronte. La sua era più che circospezione, si dovrebbe
parlare anche della sua delicatezza; e ancora oggi mi domando come
quella delicatezza si conciliasse con un rigore implacabile.
Solo oggi so che non sarei mai riuscito a staccarmi da Karl
Kraus senza il sodalizio quotidiano con Sonne. Era lo stesso volto:
come vorrei poter dare un'idea visiva dell'identità di quelle
facce mostrando delle fotografie (che però non ci sono)! Eppure - e
non so come rendere plausibile questa affermazione - era al tempo
stesso una faccia diversa, la faccia che tre anni dopo vidi nella
maschera mortuaria di Karl Kraus, la faccia di Pascal. Qui la
collera si era trasformata in sofferenza, e dalla sofferenza che si
infligge a se stessi si resta segnati. Il fondersi di quei due
volti: il volto del polemista profetico e il volto dell'uomo
paziente che ha la forza di abbracciare tutto quello che è
possibile a uno spirito senza per questo diventare presuntuoso - il
loro fondersi mi liberò dalla tirannia del polemista
intransigente, senza togliermi ciò che da lui avevo ricevuto, e
mi riempì di rispetto per ciò che mi restava irraggiungibile:
in Pascal lo avevo intuito, in Sonne lo avevo davanti a me.
Come ho già detto, tra le molte cose che Sonne conosceva a
memoria, dal principio alla fine, c'era la Bibbia. Sapeva citare
qualunque passo in ebraico, senza esitare e senza dover
riflettere. Tuttavia non faceva sfoggio di queste gesta
mnemotecniche, che non avevano mai nulla di teatrale. Era passato più
di un anno dall'inizio dei nostri rapporti prima che io
esprimessi qualche riserva sulla veste che Martin Buber aveva
dato alla Bibbia nella sua traduzione tedesca; e Sonne non solo
approvò le mie riserve, ma si addentrò nel testo originale
ebraico con una lunga serie di esempi. Il modo in cui citava e
commentava molti brevi capitoli mi fece cadere di colpo una benda
dagli occhi: mi resi conto che Sonne doveva essere un poeta, e
proprio in quella lingua ebraica che
usava davanti a me.
Non osai fargli una domanda diretta, perché quando lui stesso
si asteneva dal fornire ragguagli si evitava di toccare
l'argomento. In quel caso, tuttavia, la discrezione non mi impedì di
chiedere notizie ad altri che lo avevano conosciuto già anni prima.
Seppi così - e se ne parlava come se la cosa fosse diventata
un segreto ormai da qualche tempo - che Sonne era uno dei fondatori
della nuova poesia ebraica.
Giovanissimo, all'età di quindici anni, sotto il nome di Abraham
ben Yitzchak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che
avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un
paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una
dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l'autore
era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a
nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun'altra
poesia era venuta alla luce. Si pensava che si fosse imposto il
divieto di scrivere poesie. Non ne parlava mai, dicevano i miei
informatori: anche su questo argomento, come su tanti altri,
manteneva un silenzio inviolabile.
Io mi sentii in colpa per avere scoperto tutto questo contro
la sua volontà, e per un'intera settimana non misi piede al Café
Museum. Per me Sonne era diventato una guida, quale non avevo mai
conosciuta, e ciò che avevo saputo sulle sue poesie giovanili, per
quanto tornasse a suo onore,
era in un certo senso una limitazione. Sonne diventava più
piccolo perché aveva fatto qualche cosa. Eppure aveva fatto molto di
più, e anche di questo venni a sapere per caso e a poco a poco. Si
era allontanato da tutto, e per quanto facesse magistralmente
ogni cosa che lo toccava, questo non era bastato ancora a
soffocare i suoi scrupoli, e severi motivi di coscienza
l'avevano indotto a rinunciare. Tuttavia, per parlare solo della
prima cosa che venni a sapere, indubbiamente egli era rimasto un
poeta. Non era poesia il fascino della sua parola, la precisione e
la grazia con cui trovava la sua strada tra i temi più ardui,
attento a non trascurare nulla che fosse degno di considerazione
(tranne la sua persona) e a inquadrare l'oggetto con la massima
esattezza, senza abbassarsi al suo livello? E poi la sua capacità
di dominare l'orrore che pure provava, il suo dono nascosto di
intuire ogni sentimento dell'interlocutore, la delicatezza dei suoi
riguardi? Ma adesso sapevo che aveva avuto un nome anche come poeta
e che lo aveva ripudiato, mentre io miravo a conquistarmi quel nome
che ancora non avevo. Mi vergognavo di non potervi rinunciare e mi
vergognavo di essermi procurato quelle notizie: di sapere che in
altri tempi Sonne era stato qualcosa di grande, qualcosa a cui non
teneva più. Come potevo presentarmi a lui senza chiedergli il motivo
di quel disprezzo? Forse mi disapprovava perché davo tanta importanza
allo scrivere? Non aveva letto nulla di mio, non avevo pubblicato
neanche un libro, e Sonne poteva conoscermi solo dai nostri
colloqui, nei quali lui contestava quasi tutto e io quasi niente.
Mi riusciva quasi insopportabile non poterlo vedere, perché
sapevo che a quella data ora lui era seduto al Café Museum e forse
guardava verso la porta girevole per vedere se arrivavo. Di giorno in
giorno avevo sempre più forte la sensazione che non avrei resistito
senza di lui. Dovevo trovare il coraggio di presentarmi a
Sonne tacendo quello che adesso sapevo, di riprendere la
conversazione al punto in cui mi ero congedato da lui l'ultima
volta, e di rinunciare a conoscere la sua opinione sullo scopo
della mia vita fino al giorno in cui ci fosse stato il libro, che
volevo sottoporre al suo giudizio, e al suo giudizio soltanto.
Conoscevo l'intensità delle ossessioni, la forza incisiva
delle parole continuamente ripetute, gli atti sempre uguali che
dopo mille volte non perdevano mai la loro efficacia: era così che
Karl Kraus agiva sul prossimo. E adesso io mi trovavo in
compagnia di un uomo che aveva la stessa faccia e un rigore non
inferiore, ma
era un uomo tranquillo, perché in lui non c'era fanatismo e non
c'era la volontà di sopraffarti. Era uno spirito che non
respingeva niente, che si rivolgeva a ogni tipo di esperienza con
la stessa energia accumulata. Anche per lui il mondo era diviso tra
il male e il bene, non era possibile alcun dubbio su ciò che era
bene e ciò che
era male, ma lasciava a te la libertà di decidere e soprattutto di
reagire a modo tuo. Nulla era attenuato o abbellito, tutto era
presentato con una chiarezza che accoglievi come un dono, restandone
stupito e anche un po', vergognoso, come un dono per il quale non ti
si chiedeva niente in cambio, se non un orecchio aperto.
L'accusa ti era risparmiata. Bisogna pensare con quale violenza
avevano agito su di te le accuse incessanti di Karl Kraus, come
penetravano e prendevano possesso di te per non lasciarti mai
più (ancora oggi scopro le ferite che mi avevano causato, e non
tutte si sono cicatrizzate): quelle accuse avevano tutta la forza di
comandi, e poiché le approvavi in anticipo e non cercavi mai di
eluderle, forse sarebbe stato meglio per te se avessero avuto anche
l'urgenza propria dei comandi, perché allora sarebbe stato
possibile dar loro un seguito e ti sarebbero rimaste addosso
soltanto le spine (neanche questo sarebbe stato lieve). Ma le
frasi di Karl Kraus, compatte come mattoni nelle mura di una
fortezza, continuavano a pesare su di te come un tutto unico,
grevi e massicce, un carico paralizzante che dovevi portarti in
giro; e sebbene poi me ne fossi sbarazzato in gran parte durante
quell'anno di lavoro forzato intorno al romanzo e poi con la febbre
del dramma, restava pur sempre il pericolo che le mie lotte di
liberazione fallissero e si concludessero in una dura schiavitù
spirituale.
La liberazione arrivò con quel viso che somigliava tanto a quello
dell'oppressore ma diceva ogni cosa in maniera diversa, più
complessa, più ricca, più articolata. Invece di Shakespeare e di
Nestroy mi veniva data la Bibbia, ma non era una costrizione,
era un argomento tra innumerevoli altri, e anch'essa intatta, in
tutta l'esattezza del suo testo originale. Se per una ragione
qualunque il discorso cadeva sulla Bibbia, mi avveniva di
ascoltare una citazione abbastanza ampia di cui non comprendevo
il significato, e subito dopo, frase per frase, una traduzione
illuminante ma ben fondata in ogni particolare, la traduzione di un
poeta, per la quale tutto il mondo mi avrebbe invidiato. Ero il
solo a ricevere quel dono, senza doverlo chiedere, e lo
ricevevo così come scaturiva dalla fonte. Naturalmente mi
avveniva di ascoltare anche altre citazioni, ma molte di queste le
conoscevo, e allora non avevo la sensazione che
rappresentassero l'essenza vera di chi le pronunciava, l'essenza
della sua infanzia e della sua saggezza. Solo allora cominciai a
sentire vicini i profeti della Bibbia con la loro voce autentica. Li
avevo scoperti quindici anni prima negli affreschi di
Michelangelo, e l'impressione di quelle figure era stata così
enorme da tenermi a distanza dalle loro parole. Ora conoscevo i
profeti dalla bocca di un solo uomo, come se lui fosse tutti loro
insieme. Somigliava ai profeti, ma nello stesso tempo ne era
dissimile: non aveva il loro furore esaltato, ma come loro era un
uomo pervaso dall'angoscia per il futuro, di cui mi parlava
apparentemente senza emozione, un uomo al quale mancava in
ogni caso l'unica, la più terribile emozione dei profeti, che
vogliono aver ragione anche quando annunciano il peggio. Sonne
avrebbe dato tutto, fino all'ultimo dei suoi respiri, per non
aver ragione. Vedeva la guerra, che
esecrava, ne vedeva il decorso. Sapeva come si potesse ancora
evitarla, e avrebbe fatto qualunque cosa pur di vanificare il suo
tremendo vaticinio. Quando ci separammo dopo quattro anni di
amicizia - io andai in Inghilterra, lui a Gerusalemme, e
non ci scrivemmo mai una lettera -, accadde punto per punto, in
ogni particolare, ciò che mi aveva predetto. Io fui doppiamente
colpito dagli avvenimenti, perché vedevo compiersi quello che avevo
già appreso dalla sua bocca. Per tanto tempo l'avevo tenuto dentro
di me, ed ecco che, inesorabilmente, si avverava.
La ragione del portamento di Sonne, più che eretto, un po',
rigido, venni a saperla molto tempo dopo la sua morte. Da giovane,
mentre andava a cavallo (avvenne a Gerusalemme, credo), era caduto
di sella procurandosi una lesione alla colonna vertebrale. Non
saprei dire come poi guarì e se anche in seguito fosse sempre
costretto a portare qualche apparecchio per sostenere la
schiena. Ma questa era la causa del suo portamento, della sua
"regalità", come qualcuno la chiamava con poetica esagerazione.
Quando mi traduceva i salmi o i detti sapienziali, a me appariva
un poeta regale. Che un uomo simile, profeta e poeta insieme,
potesse scomparire così completamente da non farsi notare
dietro il suo schermo di giornali, e tuttavia fosse ben consapevole
di tutto ciò che avveniva intorno a lui, quella sua mancanza di
colore, come si potrebbe chiamarla, e quella sua vita modesta e
discreta, erano ciò che stupiva di più in lui.
Ho dato rilievo a un solo argomento delle nostre
conversazioni al Café Museum, quello biblico. Poiché non enumero qui
tutti gli altri, potrebbe sorgere l'impressione che Sonne fosse
uno di quelli che mettono in mostra il loro ebraismo. Era vero
proprio il contrario. Sonne non ha mai usato la parola "ebreo",
né per sé né per me. La lasciava da parte. Era una parola
indegna di lui, sia come titolo di merito sia come bersaglio
di turbe ostili. Era impregnato della tradizione, senza mai
compiacersene. Delle cose meravigliose che conosceva come nessun
altro, non si faceva un merito. A me dava l'impressione di non
essere credente. Il rispetto che aveva per ogni persona gli impediva
di escludere chicchessia, fosse anche l'ultimo degli uomini,
dalla piena cittadinanza nel consorzio umano.
In molte cose era un modello, e da quando l'ho
conosciuto nessuno sarebbe più potuto diventare un modello per me.
Egli lo era con le qualità che i modelli devono avere per essere
efficaci. Allora, cinquant'anni fa, mi sembrava
irraggiungibile, e irraggiungibile è rimasto per me.
Nell'Operngasse
Anna Mahler riceveva molte visite al numero 4
dell'Operngasse, nel suo atelier al pianterreno. Era nel centro
della città, perché in fondo il vero centro di Vienna era
l'Opera, e sembrava giusto che la figlia di Mahler, dopo essersi
liberata definitivamente dai vincoli del suo matrimonio, abitasse
proprio là dove il padre, il sommo, l'imperatore della musica a
Vienna, aveva esercitato la sua signoria. Chi conosceva la madre di
Anna ed era ricevuto nella villa sulla Hohe Warte, chi vi andava
senza chiedere niente per sé, chi era già abbastanza celebre per
non doversi preoccupare della carriera, approfittava volentieri
delle pause del lavoro per passare da Anna.
Ma c'era anche un altro motivo di richiamo, ed erano i ritratti
che Anna faceva ai visitatori. Gli uomini illustri che Alma si
compiaceva di legare alla propria persona, quelli che formavano la
sua "collezione", e tra i quali pescava di tanto in tanto, vuoi
per un matrimonio, vuoi per il proprio piacere, venivano ridotti
o, meglio, innalzati da Anna a una galleria di ritratti. Chi era
abbastanza noto veniva pregato di offrire la propria testa, ed
erano pochi quelli che non fossero disposti a dargliela. Così
accadeva spesso di trovare persone che stavano lì in animata
conversazione mentre Anna modellava la loro testa. In questi casi
la mia visita non riusciva indesiderata perché io coinvolgevo la
gente nella conversazione e questo aiutava Anna nel suo lavoro.
Lei teneva le orecchie ben aperte e intanto modellava. Più d'uno
sosteneva che il suo vero talento si manifestava in questo
campo.
Voglio ricordare alcune delle persone che andavano da lei e
che ora compongono qualcosa di molto simile a una vera galleria.
Non poche le avevo già incontrate, nella Maxingstrasse o alla Hohe
Warte. A questo gruppo apparteneva Carl Zuckmayer, e anche a lui
Anna fece la testa. Zuckmayer era appena stato in Francia e
raccontava le sue impressioni di viaggio. Raccontava con vivacità,
con teatrale esuberanza. In Francia, dunque, non si poteva andare
da nessuna parte senza imbattersi in Monsieur Laval. Era ad ogni
angolo, la faccia universale. Entravi in un ristorante, non avevi
ancora varcato la soglia, e chi ti veniva incontro? Monsieur Laval!
Entravi in un caffè pieno come un uovo, cercavi un posto per
sederti, e chi si alzava in quel momento lasciandoti libera una
sedia? Monsieur Laval! All'albergo i portieri si davano il
cambio: sempre Monsieur Laval! Accompagnavi tua moglie a fare un
acquisto nella Rue de la Paix: chi si faceva avanti per servirla?
Monsieur Laval! Gli incontri con Monsieur Laval davano lo
spunto a un'infinità di storie. Era il personaggio pubblico,
era l'immagine dei francesi. Oggi, dopo tutto quello che è
successo, può suonare molto più sinistro, ma allora aveva qualcosa
di farsesco, e ciò che era irresistibile non era tanto l'elemento
teatrale del racconto quanto la vigorosa impudenza del narratore.
Il clou stava nella ripetizione continua, in cento forme:
andavi sempre a cozzare nello stesso individuo, tutti erano lui e
lui era tutti; ma ogni volta chi ti stava di fronte non
era mai un vero Monsieur Laval, bensì Zuckmayer, come se sulla
scena gli avessero assegnato la parte di un Laval. Zuckmayer parlava
per conto suo, senza curarsi di chi lo ascoltava. Quel giorno c'ero
soltanto io, oltre ad Anna, e avevo la sensazione di essere
molti ascoltatori: se Zuckmayer interpretava i molti Laval, io
interpretavo i molti ascoltatori. Io ero anche loro, e tutti loro,
riuniti in me, erano sbalorditi dall'aria di innocenza quasi
incredibile che irradiava da Zuckmayer, un'atmosfera
carnevalesca in cui non accadeva niente di male perché la comicità
aveva trasfigurato tutto il male. Se oggi ripenso a quella
vivacissima storia di Monsieur Laval, mi colpisce soprattutto la
misura in cui ciò che vi era di sinistro in quel personaggio si
trasformava per Zuckmayer in comico di situazione.
Da Anna incontrai anche figure che soggiogavano per la bellezza,
addirittura per una bellezza purissima, come quella che per me
prendeva forma nelle maschere mortuarie. Ero colpito dall'aspetto
di Victor De Sabata, il direttore d'orchestra. Dirigeva alla
Staatsoper e veniva tra una prova e l'altra. Bastava
attraversare la strada, l'Operngasse: l'atelier di Anna era come
una dépendance del teatro. Questa era la sensazione che De Sabata
doveva provare venendo dal podio che era stato di Mahler. In
pochi passi era dalla figlia di Mahler, e il fatto che fosse lei a
ritrarlo, a giustificare l'aspirazione del suo viso all'immortalità,
non solo aveva un senso, ma sembrava a me il coronamento della
vita stessa di De Sabata. A volte ero presente quando lui faceva la
sua apparizione, rapido e sicuro,
una figura slanciata che nonostante la fretta aveva un che di
sonnambolico, il viso molto pallido, della bellezza di un morto, ma
un viso che non somigliava a nessuno pur nella regolarità dei
lineamenti. Era come se De Sabata camminasse a occhi chiusi, e
tuttavia quegli occhi guardavano e vi era in essi, quando si
posavano su Anna, qualcosa di allegro. - Non fu un caso, per me,
se De Sabata diventò una delle più belle teste di Anna.
Anche la testa di Werfel fu modellata allora
nell'Operngasse. Senza dubbio gli sorrideva l'idea di essere
effigiato in un luogo così vicino al grande tempio del canto. Ci
stava volentieri: era un atelier molto semplice, lontano dalla
sfarzosa villa della Hohe Warte e lontano anche dal palazzo del suo
editore nella Maxingstrasse. Io evitavo di andarci quando sapevo
che c'era Werfel. Ma a volte capitavo lì anch'io senza
annunciarmi. Lo facevo molto volentieri, e allora mi imbattevo in
Werfel, seduto nel piccolo cortile dal tetto di vetro. Rispondeva al
mio saluto come se non fosse successo niente, e non lasciava
trasparire rancore per quello che mi
aveva fatto. Era addirittura così generoso da domandarmi come
stavo, e poi portava subito il discorso su Veza, di cui ammirava la
bellezza. Una volta, durante un ricevimento alla Hohe Warte, si era
inginocchiato davanti a lei, le aveva cantato un'aria d'amore,
impegnandosi con tutta la sua mole, sempre piegato su un ginocchio,
sino alla fine, e si era alzato solo dopo
aver dichiarato a se stesso che l'esecuzione gli era riuscita
perfettamente, come a un tenore professionista; e in effetti aveva
una bella voce. Werfel paragonava Veza a Rowena, la celebre
attrice della Habimah che anche a Vienna aveva sostenuto la parte
dell'ossessa nel Dybuk trascinando tutti all'entusiasmo. Veza
non avrebbe potuto ricevere un omaggio migliore, perché alla fine
si era stancata di sentirsi paragonare alle donne andaluse. E Werfel
diceva sul serio, il suo non era un complimento, probabilmente era
sincero in tutto ciò che diceva, e forse era proprio questo uno
dei motivi per cui suscitava un'impressione di ambiguità in
chi aveva una natura un po'"critica. Quelli che cercavano
di difenderlo nonostante l'antipatia che ispirava, lo
chiamavano "un meraviglioso strumento".
Quando era seduto, semplicemente seduto, e non faceva niente
di particolare, Werfel offriva un curioso spettacolo. Tutti erano
abituati a sentirlo declamare o cantare, due cose che in lui si
avvicendavano facilmente. Alla conversazione, in cui aveva sempre
la parte del leone, provvedeva stando in piedi. Le idee, le trovate
non gli mancavano, ma poi le rovinava subito con un eccesso di
parole. Chi lo ascoltava avrebbe voluto poter riflettere su
qualche punto e si augurava una pausa, un attimo di tregua, uno
solo, non di più, ma arrivava quel diluvio di parole e spazzava via
tutto. Per Werfel ogni parola che gli usciva di bocca era
importante, la cosa più stupida aveva lo stesso timbro perentorio di
quella insolita o sorprendente. Non era capace di parlare senza
appassionarsi, era qualcosa che corrispondeva alla sua natura ma
che scaturiva anche dalla sua convinzione più profonda. Si
distingueva da un predicatore perché parlava quasi cantando, ma al
pari di un predicatore si sentiva più a suo agio stando in piedi.
Scriveva i suoi libri in piedi, davanti a un leggio. Considerava
le sue parole di elogio un atto di filantropia. Il sapere
gli faceva orrore, come la riflessione. Per non dover riflettere,
apriva subito il fuoco con tutte le sue batterie. Aveva assimilato
dagli altri molte cose importanti, e spesso tuonava come se fosse
lui stesso la fonte di grandi concetti. Traboccava di
sentimento: in lui, pur così grasso, era un continuo gorgogliar di
amore e di sentimento, ci si aspettava di trovare per terra, lì
intorno, laghetti di commozione e si restava quasi delusi scoprendo
che intorno a lui tutto era ancora asciutto come intorno agli altri.
Non si rassegnava facilmente a sedersi, salvo quando ascoltava
musica: allora stava lì teso e bramoso, perché in quegli attimi
solenni si caricava di sentimento fino all'orlo. Mi sono
domandato spesso che cosa gli sarebbe successo se per tre anni
buoni non ci fosse stata in tutto il mondo una sola opera da
ascoltare. Credo che sarebbe dimagrito e deperito, che sarebbe
addirittura morto di fame, non senza esplodere in epicedi prima che
si compisse la tragedia. Altri si nutrono del sapere, dopo
essercisi arrovellati intorno abbastanza a lungo; lui si nutriva di
suoni che si guadagnava con tanto sentimento.
Werfel aveva una brutta testa, ma Anna ne cavò il meglio.
Lei, che rifuggiva da tutto ciò che era grottesco se non prendeva i
colori della fiaba, esagerò il volume di quella testa, composta
essenzialmente di grasso, e le diede - la scultura era in grandezza
superiore al naturale - una forza che non aveva. Tra le teste di
grandi uomini che stavano sparse e si moltiplicavano rapidamente
nell'atelier di Anna, quella di Werfel non sfigurava neanche tanto.
Non poteva essere come la testa di De Sabata - che era bella come
la maschera funebre di Baudelaire. Ma poteva reggere il confronto
con quella di Zuckmayer.
Tra gli ospiti di Anna non mancavano - per me - le grandi
sorprese. Se molti venivano dalla Staatsoper, dove avevano i loro
impegni, ed erano attratti all'atelier da un richiamo
comprensibile e legittimo, altri venivano dai negozi della
Kärntnerstrasse, dove facevano i loro acquisti. Un giorno, quando già
mi ero seduto e avevo cominciato a raccontare qualcosa ad Anna,
Frank Thiess entrò come un colpo di vento in compagnia della
moglie: una coppia elegante, entrambi avvolti in morbidi cappotti
di lana chiara, con pacchetti che pendevano da tutte le dita,
pacchetti di fogge diverse, niente di pesante, niente di
voluminoso, quasi contenessero leggeri assaggi di cose ricercate.
Quando lui e lei diedero la mano, sembrò che offrissero regali da
scegliere liberamente, ma si affrettarono a chiedere scusa perché
dovevano andar via subito, e neppure deposero i regali. Thiess
parlava molto in fretta, in un tedesco con sfumature nordiche, a
voce piuttosto alta. Non avevano proprio tempo, disse, ma
passavano di lì e non potevano non affacciarsi a salutare
l'artista: le sculture le avrebbero guardate con comodo un'altra
volta. Poi, nonostante la fretta, venne giù un diluvio di piccole
avventure nei negozi della Kärntnerstrasse, e poiché non ero mai
stato in uno di quei posti, a me sembrava di ascoltare il
resoconto di una spedizione in terre esotiche. Più che un
resoconto era un fiume in piena; e stavano sempre in piedi,
perché non c'era il tempo per deporre pacchetti e cappotti.
Intanto però Thiess imprimeva una lieve oscillazione ai pacchetti in
modo che testimoniassero di volta in volta che lui stava
parlando del negozio da cui provenivano. Ben presto tutti i
pacchetti cominciarono a dondolare come marionette appese alle
dita di Thiess. L'aria era tutta profumata, e il camerino attiguo
all'atelier in cui Anna usava accompagnare i suoi ospiti si
riempì in pochi minuti degli aromi più raffinati, che non
emanavano nemmeno dai pacchetti ma dalle avventure di quel giro di
acquisti. Non si parlò d'altro, e soltanto la madre di Anna riuscì
a interloquire con qualche frase di cortesia a denti stretti;
e quando i Thiess se ne furono andati - al momento del congedo
evitarono, per prudenza, di allungare la mano con i pacchetti ci domandammo se era passato di lì qualcuno. Anna, che preferiva
astenersi da commenti negativi, si mise a scalpellare la sua
statua. A lei non era estraneo, come a me, il mondo dei negozi
eleganti che era appena affluito nel suo atelier e subito ne era
defluito. Lei lo conosceva attraverso sua madre, che aveva spesso
accompagnato nella Kärnt
-nerstrasse e nel Graben; ma era un mondo che odiava: nel separarsi
dal marito che la madre le aveva imposto per ragioni di
politica familiare, aveva abbandonato anche quel mondo.
Ormai Anna si era liberata di tutti gli obblighi mondani della
Maxingstrasse. Non doveva più preoccuparsi dei ricevimenti. Non perdeva
il suo tempo, non era più sottoposta a controlli. Quando qualcosa
la irritava, afferrava lo scalpello. Si buttava nel lavoro e voleva
che fosse il più duro possibile. Benché nel profondo non avesse
niente in comune con Wotruba, c'era una cosa che aveva imparato da
lui: un anelito al monumentale, perché richiedeva il lavoro più
pesante. Nella parte inferiore del viso di Anna si leggeva una
tensione della volontà che la faceva somigliare molto a suo padre.
Quella di Frank Thiess era stata più o meno una visita di
convenienza. Forse nemmeno lui si rendeva conto di non avere niente
da dire ad Anna. I suoi rapidi gorgheggi, che però si tenevano
piuttosto sulle note alte, era capace di eseguirli con tutti. Ma
Paul Zsolnay, il marito che Anna aveva piantato da poco, era
l'editore di Thiess. Quella fuggevole visita di omaggio, nel
bel mezzo delle seduzioni della Kärntnerstrasse, voleva essere un
atto di fedeltà e insieme una sorta di dichiarazione di
neutralità. Thiess era soddisfatto della propria apparizione e forse
sapeva addirittura che dalle sue dita pendeva tutto ciò che Anna
aveva perso abbandonando Zsolnay.
Solo gli scrittori realmente "liberi", quelli abbastanza
conosciuti e molto letti, quelli che perciò non dovevano
dipendere dalla casa editrice perché ogni altro editore era
pronto ad accoglierli, solo quelli che passavano per celebrità tra
i lettori di allora potevano permettersi di andare da Anna per una
visita di omaggio. La gente andava e veniva, e in giro si diceva chi
era stato da lei. Quelli che erano considerati lacchè della casa
editrice preferivano non farsi vedere. Molti che prima l'avevano
incensata e avrebbero dato qualunque cosa per essere invitati ai
suoi ricevimenti, adesso la evitavano e si tenevano alla larga
dall'Operngasse. C'erano anche quelli che di colpo si mettevano a
parlar male di lei. Sua madre, che aveva un grande ascendente
sulla vita musicale di Vienna, era invece lasciata in pace, benché
da ogni poro le sprizzassero calcolo e politica di potere familiare.
Anna si esponeva ai pettegolezzi,
era coraggiosa (continuò sempre a esserlo) e si costruiva nel
piccolo atelier dell'Operngasse quella specie di museo di teste
celebri. Era un'impresa legittima, purché una testa riuscisse bene,
e non era poi un caso troppo raro. Lei non immaginava fino a che
punto quel museo fosse anche un riflesso della vita di sua madre.
Alla madre interessava il potere, in ogni forma: la celebrità
in primo luogo, il denaro e il prestigio che procura piaceri. Per
Anna, invece, al centro di tutto c'era qualcosa di più importante,
l'enorme ambizione di suo padre. Voleva lavorare, e senza
risparmiarsi, rendendosi la vita quanto più dura fosse possibile.
L'incontro con Wotruba, il suo maestro, le
aveva fatto conoscere appunto quel lavoro duro, lungo e
difficile di cui aveva bisogno. Non si concedeva attenuanti per il
fatto di essere donna, era risoluta a faticare come l'uomo giovane
e forte che era il suo maestro. Non le sarebbe mai venuto in mente
che il modo di lavorare di Wotruba poteva dipendere anche da un
destino diverso. Per Anna le differenze di origine non
contavano, e mentre sua madre pronunciava la parola "proletario" col
disprezzo che provava per gli schiavi, come se si trattasse di
qualcosa fuori delle categorie umane, di una mercanzia in
vendita, necessaria, da usare tutt'al più anche per l'amore nel caso
di un uomo eccezionalmente bello, mentre sua madre innalzava
volentieri quelli che già stavano in alto, Anna non faceva
distinzione tra gli esseri umani. Per lei l'origine e la classe
sociale non avevano alcun peso, a lei importavano solo le persone
in sé; ma poi si vide che questo atteggiamento bello e nobile
non è sufficiente: per sapere che cosa valgono gli uomini occorre
non solo fare
esperienze, ma anche tenersele a mente.
In lei il senso della libertà era molto importante, era il motivo
principale della rapidità con cui si scioglieva da ogni legame; ed
era così forte da far supporre che ogni sua nuova relazione fosse
poco seria, concepita fin dall'inizio come un capriccio di breve
durata. Per contro, Anna scriveva lettere "assolute" e
soprattutto si aspettava dichiarazioni "assolute". Per Anna,
forse, le lettere composte per lei come se fossero poesia erano
più importanti dell'amore stesso; e ciò che la incantava di più
erano le storie che le venivano raccontate.
Andavo spesso da lei, specialmente da quando aveva l'atelier
nell'Operngasse, e le riferivo tutto ciò che attirava il mio
interesse. Sciorinavo davanti a lei quello che succedeva nel mondo
e quello che mi passava per la testa. Nel periodo del mio
entusiasmo per Sonne poteva accadere che riferissi ad Anna cose
molto serie, e lei stava sempre ad ascoltare e ne sembrava
affascinata. Quando poi mi decisi a un passo che meditavo già da un
pezzo, quando accompagnai Sonne nell'atelier - a lui
interessava conoscere la figlia di Gustav Mahler -, quando le
presentai il meglio che ci fosse per me al mondo, il più delicato di
tutti gli esseri umani, e lo feci col rispetto che dovevo a lui e
che non nascosi nemmeno davanti a lei, allora Anna reagì con la
generosità che era la sua dote più bella, lo accolse per quello che
era, lo ammirò - nonostante l'aspetto ascetico di Sonne -, lo
ascoltò con la stessa attenzione con cui ascoltava me, ma con quel
tanto di solennità che io mi aspettavo per lui, e lo pregò di
ritornare. La volta successiva, quando la rividi a tu per tu,
Anna mi fece l'elogio di Sonne, lo giudicò uno degli uomini più
interessanti che avesse mai visto, e poi mi domandò più volte
quando sarebbe ritornato.
Da parte sua Sonne mi aveva detto cose molto
intelligenti sulle teste di Anna, e io le riferii a lei. Anche
nelle grandi statue Sonne riconosceva una nostalgia romantica
ancora incontaminata. Riteneva che il senso del tragico fosse
ancora negato ad Anna, la quale, secondo Sonne, non aveva proprio
niente in comune con Wotruba, perché la sensibilità musicale,
così forte in lei, era del tutto assente in lui. In verità quelle
statue si ricollegavano alla musica di Gustav Mahler, a molte sue composizioni,
ma erano frutto della volontà di
Anna più che della sua ispirazione. Non si poteva dire che cosa ne
sarebbe venuto fuori in avvenire, ma una qualche rottura nella sua
vita avrebbe forse avuto conseguenze molto benefiche. Sonne
diceva tutto questo con simpatia: sapeva quel che lei significava
per me, e per nulla al mondo avrebbe voluto ferirmi, ma dal modo
in cui rinviava al futuro le fortune artistiche di Anna intuii che
per il momento non trovava una grande originalità nel suo lavoro. Per
le teste, invece, il giudizio era positivo. Gli piaceva
soprattutto quella di Alban Berg, mentre quella di Werfel gli
sembrava "gonfiata", come i suoi romanzi sentimentali, che Sonne
detestava. Anna
era stata contagiata da Werfel, disse Sonne, e in quella scultura
aveva accentuato tutto ciò che vi era di vacuo ed enfatico in lui,
a tal segno che molti, pur conoscendo quella bruttissima testa al
naturale, avrebbero ritenuto Werfel un uomo importante vedendone il
ritratto.
Anna ascoltò Sonne proprio come lo ascoltavo io. Non lo
interruppe mai, non fece domande, e non si stancava di
ascoltarlo. Poiché era solo in visita, Sonne non si trattenne più di
un'ora. Fu molto gentile, e trovandosi lì in mezzo alle pietre,
alla polvere e agli scalpelli, ne dedusse che Anna volesse
riprendere il lavoro. Non c'era bisogno per lui di guardare le
statue per capire la determinazione che lei metteva nella scultura:
bastavano gli attrezzi dell'atelier; e lo
aveva molto colpito la parte inferiore del viso di Anna, la
parte volitiva, che trovò somigliante a quella di Gustav Mahler.
Era l'unico tratto in comune tra la figlia e il padre, poiché per il
resto, occhi, fronte e naso, non esisteva la minima somiglianza.
Anna non era mai così bella come quando ascoltava, alla sua
maniera, immobile, gli occhi spalancati, talmente commossa e
assorta che nulla poteva distrarla: una bambina, per la quale
diventavano favole anche i discorsi seri, a volte aridi, purché
fossero completi. Era così anche quando io le raccontavo
qualcosa; e adesso era lui a parlare, l'uomo le cui parole
contavano per me come quelle della Bibbia che mi recitava e mi
commentava. Ora ascoltavo le cose totalmente diverse che Sonne
diceva per lei, e potevo osservare Anna senza imbarazzo, tutta
intenta a quelle parole. Avevo la sensazione che lì, in quel
momento, Anna non fosse più nel mondo di sua madre, ma al di là di
ogni considerazione di successo e di tornaconto. Io sapevo che Anna,
nella sua essenza, era più delicata e più nobile della madre, né
avida né ipocrita, ma che i giochi di potere di quella granitica
vecchia la gettavano continuamente in situazioni che con lei non
avevano nulla a che fare, che non le interessavano minimamente e in
cui doveva agire secondo le istruzioni, come una marionetta appesa a
fili perversi.
Solo nell'atelier Anna era libera da tutto ciò, e forse era
tanto attaccata al lavoro perché quella era l'ultima cosa a cui sua
madre l'avrebbe spinta, dal momento che il profitto, commisurato
alla fatica, era zero. A me sembrava però che Anna non si
sentisse del tutto libera quando andavo a trovarla, e infatti,
sebbene desiderasse le mie visite, tutto dipendeva poi da uno
sforzo incessante, dalla mia inventiva; e io ne ero talmente
consapevole che non mi sarei arrogato il diritto di rimanere da
lei se non mi fosse venuta qualche idea appropriata. Anna mi parve
veramente libera, come non l'avevo mai vista, il giorno in cui
accompagnai da lei il dottor Sonne. Allora, senza esitazioni né
pose, si abbandonò a una lezione di cui sentiva tutta la profondità
e la purezza, una lezione che non le fruttava nulla, che non poteva
utilizzare, che anche alla corte di sua madre non avrebbe fatto
impressione a nessuno, dal momento che il nome di Sonne là non
significava nulla; anzi, poiché Sonne non voleva avere un nome e
perciò non lo
aveva, non vi sarebbe stato nemmeno invitato.
Dopo un'ora, quando Sonne si alzò per andarsene, io rimasi.
Sicuramente egli pensò che volessi restare ancora. Ma era solo il
pudore a trattenermi. Mi sembrava indelicato uscire in sua
compagnia. L'avevo condotto all'atelier quasi facendo da scorta,
da guida all'essere eccezionale che egli era. Adesso conosceva
la strada e desiderava ritirarsi. Nessuno doveva disturbarlo.
Anche quando se ne andava, restava immerso nei suoi pensieri e
continuava, solo con se stesso, la conversazione che aveva
iniziato. Lo avrei accompagnato se ne avesse espresso il desiderio,
ma lui, a sua volta, era troppo riguardoso per esprimerlo.
Riteneva che godessi del suo favore perché andavo molto spesso da
lei. Ma questo era tutto ciò che sapeva. Non avrei mai pensato
di dirgli di più su una faccenda così privata. Forse immaginava
quanto io fossi stato ferito; ma non credo, perché non tentò mai
di consolarmi nella sua maniera inimitabile, ossia descrivendo una
situazione in apparenza diversissima che sarebbe stata soltanto una
trasposizione della mia. Rimasi dunque con Anna, e quando il
giorno dopo rividi Sonne al Café Museum egli non accennò in nessun
modo a quella visita. Del resto non mi ero trattenuto a lungo
all'atelier, ma solo il tempo necessario perché Sonne si
allontanasse abbastanza, e
avevo poi trovato un pretesto per congedarmi da Anna. Tra lei e me
non ci fu nessuna discussione su Sonne. Egli rimase intangibile.
Parte terza - Il caso
Musil
Musil - senza che la cosa desse molto nell'occhio - era sempre
in armi, pronto alla difesa e all'attacco. Il suo
atteggiamento era la sua sicurezza. Si sarebbe potuto pensare a una
corazza, ma era piuttosto un guscio. Ciò che frapponeva tra sé e
il mondo come una netta separazione non se l'era messo addosso,
era cresciuto con lui. Non si permetteva interiezioni. Evitava le
parole sentimentali, ogni frase di cortesia gli riusciva
sospetta. Fra tutte le cose tracciava confini, come intorno a
se stesso. Diffidava delle mescolanze e delle fratellanze,
delle effusioni e delle esagerazioni. Era un uomo allo stato
solido e si teneva alla larga dai liquidi e dai gas. Aveva grande
familiarità con la fisica, non solo l'aveva studiata a fondo, gli
era penetrata nello spirito fino a diventare sangue del suo sangue.
Probabilmente non c'è mai stato uno scrittore che fosse in tale
misura un fisico, rimanendolo anche nel corso dell'opera di
tutta la sua vita. Alle conversazioni approssimative non
prendeva parte, e se si trovava in mezzo ai soliti chiacchieroni,
ai quali a Vienna era impossibile sfuggire, si ritraeva nel suo
guscio e restava muto. Tra gli scienziati si sentiva nel proprio
elemento e ritrovava la naturalezza. Presupponeva allora che si
partisse da qualcosa di preciso e si procedesse verso qualcosa di
preciso. Per le vie tortuose provava disprezzo e odio. Ma non
mirava assolutamente al semplice: un istinto infallibile gli
rivelava l'inadeguatezza del semplice, ed era capace di demolirlo
facendone un minuzioso ritratto. Il suo spirito era attrezzato
troppo riccamente, era troppo attivo e acuto per appagarsi del
semplice.
Non si sentiva mai inferiore, in nessun ambiente; e per quanto di
rado, in mezzo alla gente, si prefiggesse di farsi avanti e di
scendere in battaglia, coglieva ogni buona occasione come se fosse
venuto il momento di una sfida. La battaglia venne più tardi, anni
più tardi, quando si trovò solo. Non dimenticava niente. Qualsiasi
confronto sostenuto se lo teneva impresso nella memoria, in ognuno
dei suoi dettagli, e poiché un intimo impulso della sua natura lo
obbligava a volerli vincere tutti, già per questo era impossibile
il compimento di un'opera che tutti doveva comprenderli.
Si sottraeva ai contatti indesiderati. Voleva rimanere padrone
del proprio corpo. Credo che non desse volentieri la mano. Per
lui sarebbe andato benissimo l'uso inglese di evitare la stretta di
mano. Teneva agile e vigoroso il proprio corpo e ne disponeva in
ogni particolare. Ne faceva anche oggetto di riflessioni,
assai più di quanto usassero gli intellettuali del suo tempo.
Sport e igiene erano per lui una cosa sola, i loro precetti
scandivano la sua giornata, regolavano la sua vita. In ognuno dei
personaggi che ideava immetteva un uomo sano, se stesso. Per
lui le più grandi stravaganze prendevano risalto sullo sfondo di
qualcosa che era cosciente della propria salute fisica e della
propria vitalità. Aveva un'intelligenza prodigiosa, poiché
vedeva esattamente e sapeva pensare ancor più esattamente: perciò
non si smarriva mai in un personaggio. Conosceva la strada
per uscirne, ma non lo faceva subito, preferiva rinviare, perché
si sentiva così sicuro di sé.
Non si sminuisce il suo valore mettendo in rilievo
l'elemento agonistico che era in lui. Di fronte agli uomini
assumeva una posizione di combattimento. In guerra non si sentì
fuori posto, nella guerra vedeva un modo di mettersi alla prova. Fu
ufficiale e si sforzò di rimediare con la sollecitudine per i suoi
uomini a ciò che lo opprimeva come una brutale degradazione della
vita. Verso la sopravvivenza aveva un atteggiamento naturale o
diciamo tradizionale, e non se ne vergognava. Al posto della guerra,
quando la guerra finì, subentrò la competizione: in questo era come
un greco antico.
Un uomo che gli aveva messo il braccio intorno alla vita,
come faceva con tutti quelli che così voleva ammansire o farsi
amici, diventò il più durevole dei suoi personaggi. Questo non lo
salvò dal morire assassinato. L'indesiderato contatto del braccio lo
tenne in vita per altri vent'anni. (1)
Ascoltare i discorsi di Musil era un'esperienza tutta
particolare. Non aveva nulla di manierato. Era troppo se stesso per
far pensare a un attore. Non ho mai saputo di nessuno che l'abbia
sorpreso a recitare una parte. Parlava piuttosto in fretta, ma
senza mai essere precipitoso. Dai suoi discorsi non si notava che
molti pensieri gli si affollavano alla mente insieme: prima di
esporli li scomponeva a uno a uno. In tutto ciò che diceva
regnava un ordine che incantava. Non nascondeva il suo disprezzo
per l'ebbrezza dell'ispirazione, di cui si riempivano la bocca
soprattutto gli espressionisti. Per lui l'ispirazione era troppo
preziosa per farne uno strumento di esibizione. Niente gli ripugnava
quanto la werfeliana bava alla bocca. Musil era pieno di pudore e
non metteva in mostra l'ispirazione. Le faceva posto all'improvviso,
in immagini inattese, stupefacenti, ma poi tornava subito a
circoscriverla con la linearità delle sue frasi. Era nemico delle
alluvioni verbali, e quando si
esponeva alla prolissità di un altro
- il che era già motivo di stupore - lo faceva per gettarsi
risolutamente a nuoto in quella fiumana, per attraversarla e
dimostrare a se stesso che dall'altra parte, anche con le acque
più torbide, c'era sempre una sponda. Si sentiva a suo agio
quando c'era qualche ostacolo da superare, ma non lasciava mai
trapelare nulla della sua decisione di impegnare combattimento. Di
colpo era, con sicurezza, in mezzo alla materia, e non ci si
accorgeva che ci fosse un combattimento, si era affascinati dalla
cosa in sé, e benché il vincitore fosse lì davanti, agile ma
irremovibile, non si pensava più al suo trionfo perché la cosa in sé
era diventata troppo importante.
Ma questo era solo un aspetto del comportamento pubblico di Musil.
Quella sicurezza andava infatti di pari passo con una sensibilità
di cui non ho mai conosciuto l'uguale. Per
uscire da se stesso doveva trovarsi in un gruppo di persone in cui
la sua statura fosse riconosciuta. Musil non "funzionava"
dappertutto, aveva bisogno di determinati elementi rituali. C'erano
persone dalle quali poteva proteggersi solo tacendo. Colpiva
subito il fatto che aveva in sé qualcosa di una tartaruga, e
molti conoscevano di lui soltanto il guscio. Se un certo ambiente
non gli andava a genio, non diceva una parola. Poteva entrare in un
locale e uscirne più tardi senza essersi fatto riconoscere con una
sola frase. Non credo che questo gli riuscisse agevole, e sebbene
il viso non lasciasse trasparire la minima reazione, per tutta la
durata di quel silenzio si sentiva offeso. Aveva ragione di non
riconoscere la superiorità di nessuno: tra quelli che passavano
per scrittori, a Vienna non c'era nessuno che gli stesse alla
pari, e forse neppure in tutta l'area di lingua tedesca.
Conosceva il proprio valore, e almeno su questo punto decisivo
non fu mai sfiorato da dubbi, né allora né poi. I pochi che ne erano
convinti, per lui non ne erano abbastanza convinti: costoro
infatti, per sostenere più efficacemente la causa di Musil,
usavano affiancare al suo il nome di questo o quello scrittore.
Durante gli ultimi quattro o cinque anni
dell'indipendenza austriaca, quando Musil era ritornato da
Berlino a Vienna, si sentiva parlare di una triade di nomi che
venivano portati sugli scudi dall'avanguardia: Musil, Joyce e
Broch, oppure Joyce, Musil e Broch; e se oggi, dopo
cinquant'anni, si riflette un poco su quello che così veniva
messo insieme, appare molto comprensibile che a Musil non
piacesse quella singolare trinità. All'Ulisse, pubblicato allora in
tedesco, egli opponeva un rifiuto categorico. Gli ripugnava
profondamente l'atomizzazione del linguaggio, e se mai si
pronunciava in proposito, cosa che faceva con riluttanza, la
definiva "antiquata", poiché secondo lui si rifaceva a una
psicologia associazionistica ormai superata. Negli anni di
Berlino aveva frequentato i fondatori della psicologia della
forma, una scuola che apprezzava molto e alla quale probabilmente si
riallacciava con la sua opera principale. Il nome di Joyce lo
infastidiva, quello che Joyce aveva intrapreso non aveva niente a che
fare con lui. Quando io gli parlai del mio "incontro" con Joyce,
avvenuto a Zurigo all'inizio del 1935, diede segni di
insofferenza. "E lei ne ha una buona opinione?" domandò; e potei
dirmi fortunato se sviò il discorso da Joyce e non mi piantò in
asso.
Ma quello che proprio gli riusciva insopportabile, in
letteratura, era il nome di Broch. Musil lo conosceva già da
molti anni: come industriale, come mecenate, come maturo studente di
matematica. Come scrittore non riusciva a prenderlo sul serio. Nella
trilogia di Broch vedeva una copia della propria opera, di
un'impresa che lo teneva occupato ormai da decenni; e il fatto che
Broch l'avesse portata a termine così presto, subito dopo averla
cominciata, gli ispirava la diffidenza più profonda. Su questo
punto non faceva complimenti, e da Musil non mi è mai accaduto di
udire una parola buona sul conto di Broch. Non posso ricordare i
commenti che Musil fece di volta in volta su Broch, forse perché mi
trovavo nella difficile situazione di stimarli moltissimo tutt'e
due. Una tensione tra loro o addirittura una battaglia mi
sarebbe riuscita intollerabile. Appartenevano entrambi, su
questo per me non c'era dubbio, a un minuscolo gruppo di persone
che s'impegnavano a fondo nella letteratura, che non scrivevano
per la popolarità e per il successo nel senso più volgare. Per
me, allora, questo
era forse anche più importante della loro stessa opera.
Doveva essere ben strano ciò che Musil provava quando sentiva
parlare di quella trinità letteraria. Come poteva credere che
qualcuno avesse capito il significato della sua opera se nello
stesso istante pronunciava il nome di Joyce, che per lui incarnava
tutto il contrario dei suoi intendimenti? Così, se Musil non
esisteva per i lettori della letteratura corrente di quegli anni,
da Zweig a Werfel, anche quelli che lo portavano sugli scudi lo
mettevano in una compagnia che lui non poteva accettare. Quando
gli amici gli raccontavano di qualcuno che apprezzava
incondizionatamente L'uomo senza qualità e sarebbe stato felice
di conoscerne l'autore, la sua prima domanda era: "Chi altri
apprezza?".
Spesso la sua ipersensibilità è stata ritorta contro di lui. Io
vorrei difenderla, per intima convinzione, benché ne sia stato
vittima io stesso. Musil si trovava nel bel mezzo della grande
impresa che voleva portare a termine. Non poteva immaginare
che essa era destinata a non aver fine, in un doppio senso: il
suo destino infatti era non solo l'immortalità, ma anche
l'incompletabilità. Nella letteratura tedesca non c'era un'impresa
paragonabile. La rifondazione dell'Austria attraverso un romanzo,
chi avrebbe osato tentarla? La conoscenza di quell'impero, non
attraverso i suoi popoli ma partendo dal suo centro, chi avrebbe
potuto attribuirsela? E quante altre cose ancora contiene
quest'opera, tante che non vorrei neppure cominciare a
parlarne. Ma la consapevolezza che lui, Musil, era quell'impero
tramontato, lui come nessun altro, lui solo, gli conferiva un
diritto tutto particolare a quella sua ipersensibilità, un
diritto sul quale evidentemente nessuno ha ancora riflettuto.
Quella materia incomparabile che lui era, doveva forse lasciarsi
tirare impunemente di qua e di là? Bisognava lasciare che le
versassero dentro qualunque cosa e permettere così che
s'intorbidasse e si contaminasse? La suscettibilità per la
propria persona, che appare ridicola quando si tratta di Malvolio,
non è affatto ridicola quando riguarda un mondo peculiare,
estremamente complesso, altamente evoluto e ricco, un mondo che
un uomo porta in sé e può salvaguardare solo con la ipersensibilità
prima di riuscire a manifestarlo.
Quella di Musil non era altro che una salvaguardia contro
l'intorbidamento e l'inquinamento. La chiarezza e la trasparenza
della scrittura non è
una qualità automatica che, una volta acquisita, rimane e resiste:
dev'essere acquisita sempre di nuovo e senza sosta. Bisogna avere la
forza di dire a se stessi: io voglio così, solo così; e perché sia
così, io devo essere proprio colui che non lascia penetrare in sé
nulla che possa nuocere al suo intento. La tensione tra l'enorme
ricchezza di un mondo già concepito e tutto ciò che ancora potrebbe
investirlo ma dev'essere respinto, è mostruosa. La decisione su
ciò che dev'essere respinto può prenderla soltanto colui che porta
in sé quel mondo; e i giudizi che su questo atteggiamento possono
poi dare gli altri, e specialmente coloro che non portano in sé alcun
mondo, sono giudizi presuntuosi e meschini.
C'è una sensibilità agli alimenti sbagliati, ma va detto che
anche un nome deve continuamente alimentarsi per poter
governare a dovere l'impresa di colui che lo porta. Un nome che è
nella fase della crescita ha una sua propria alimentazione che lui
solo può conoscere, che lui stesso decide. Fintanto che
un'opera di una tale ricchezza è in via di sviluppo, il nome
ipersensibile è il migliore.
In seguito, quando è morto colui che si è difeso con la propria
suscettibilità e ha compiuto la propria opera, quando il nome è
finito sui banchi di tutti i mercati, brutto e gonfio come un pesce
che puzza, allora possono farsi avanti gli annusatori e sputare su
tutto le loro sentenze, inventando a posteriori le regole di un
corretto comportamento e irridendo quella suscettibilità come
un'ipertrofica vanità - l'opera è lì, essi non possono più
annullarla, e saranno loro a squagliarsi al sole insieme alla loro
impudenza, saranno loro a colar via senza lasciare traccia.
Non erano pochi quelli che ridevano di lui per la sua
sprovvedutezza nelle cose materiali. Broch, un uomo che conosceva
benissimo il valore di Musil, che non era incline alla malignità e
certamente era pieno di compassione per gli esseri umani, mi disse,
quando per la prima volta portai il discorso su Musil: "E" un re
nell'impero della carta". Voleva dire che Musil regnava su uomini e
cose solo al suo scrittoio, in mezzo alla carta, mentre poi, nella
vita, era irrimediabilmente alla mercé delle circostanze e
delle cose, inerme e inetto, obbligato a dipendere dall'aiuto degli
altri. Era noto che Musil non sapeva maneggiare il denaro, anzi
cercava di non prenderlo nemmeno in mano, tanta
era la sua avversione. Preferiva non andare solo da nessuna
parte, c'era quasi sempre sua moglie, che provvedeva per lui a
prendere i biglietti del tram e a pagare il conto al caffè. Non
portava denaro addosso, io non gli ho mai visto in mano una
moneta o una banconota. Si sarebbe potuto credere che il denaro
fosse incompatibile con la sua concezione dell'igiene. Si
rifiutava di pensare al denaro, che lo annoiava e lo infastidiva. Era
dunque perfettamente naturale che sua moglie gli scacciasse di
torno il denaro come si fa con le mosche. Quando l'inflazione gli
fece perdere tutto quello che possedeva, si trovò in una
situazione molto critica. La durata dell'impresa a cui si era
votato era in stridente contrasto con la scarsezza dei mezzi che
dovevano sostenerla.
Quando era ritornato a Vienna, i suoi amici avevano fondato
una "Società Musil" i cui membri si impegnavano a versare un
contributo mensile per consentirgli di lavorare all'Uomo senza
qualità. Musil conosceva la lista dei soci e si faceva
ragguagliare sulla puntualità dei loro versamenti. Non credo che si
sentisse mortificato dall'esistenza di quella società. Pensava
giustamente che i soci si rendessero conto del valore
dell'impresa. Per loro era un onore poter contribuire a
quell'opera. Sarebbe stato ancora meglio se un numero maggiore di
sottoscrittori si fosse fatto avanti. Io avevo sempre il sospetto che
ai suoi occhi quella "Società Musil" fosse una sorta di ordine
cavalleresco. Esservi ammessi era un privilegio, e mi domandavo
se lui ne avrebbe escluso gli individui immeritevoli. Occorreva un
supremo disprezzo del denaro per continuare a lavorare, in
simili condizioni, a un'opera come L'uomo senza qualità. Quando
l'Austria fu occupata da Hitler, tutto finì, poiché i membri della
società erano in maggioranza ebrei.
Nei suoi ultimi anni, quando viveva in Svizzera nella più
assoluta indigenza, Musil ha scontato in modo terribile il suo
disprezzo per il denaro. Per quanto sia penoso pensare al grado
di umiliazione in cui era ridotto, tuttavia non vorrei
immaginarmi Musil in condizioni diverse. Il suo sovrano disprezzo per
il denaro, che non era affatto legato a qualche inclinazione per
una vita ascetica, la mancanza di qualunque vocazione al profitto
- si
esita a chiamarla "vocazione", tanto è diffusa e comune - sono
tratti che appartengono all'essenza intima del suo spirito. Musil
non ne faceva uno scandalo, non protestava assumendo pose da
ribelle, non ne parlava: il suo imperturbabile orgoglio lo induceva
a non dar conto a se stesso della propria situazione, benché la
conoscesse esattamente e non trascurasse ciò che essa significava
per gli altri.
Broch era membro della "Società Musil" e versava
regolarmente il suo contributo mensile. Non lo diceva, io ne ebbi
notizia da altri. Come scrittore doveva soffrire per l'aspro
giudizio negativo di Musil, che in una lettera lo accusava
espressamente di
aver copiato nella trilogia dei Sonnambuli lo schema dell'Uomo
senza qualità. Se poi, parlando con me, definì Musil "un re
nell'impero della carta", credo che si possa perdonarlo. Per
me questa ironica definizione non ha valore. Anche a tanti anni
di distanza dalla morte di Musil e di Broch, io vorrei respingerla.
Broch, che già aveva dovuto soffrire non poco sotto il peso
dell'eredità mercantile di suo padre, è morto in esilio, in
condizioni di miseria paragonabili a quelle di Musil. Non voleva
essere un re, e non lo fu in nessun regno. Musil fu un re nell'Uomo
senza qualità.
NOTE:
(1) Nell'Uomo senza qualità il personaggio di Paul Arnheim, cui è
affidata la direzione dell'Azione Parallela, riprende molti
tratti di Walther Rathenau, che Musil aveva conosciuto a Berlino nel
gennaio 1914 e che fu assassinato nel giugno 1922, quando era
ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar. Rathenau restò in
vita "per altri vent'anni" perché Musil continuò a lavorare al suo
romanzo fino alla morte, nel 1942 ?N" d'T"*.
Joyce senza specchio
L'anno 1935 cominciò per me tra ghiaccio e granito. A
Comologno, lassù nella meravigliosa cornice della Val Onsernone
coperta di ghiaccio, feci per alcune settimane il tentativo di
collaborare con Wladimir Vogel a una nuova opera lirica. Forse era
stato assurdo intraprendere un simile tentativo, perché proprio
non mi andava l'idea di sottostare a un compositore, di adattarmi
alle sue esigenze. Mi ero immaginato che si trattasse, come diceva
Vogel, di un'opera di nuovo genere, nella quale compositore e
poeta avessero uguali diritti. Ma si vide che quella parità non
era assolutamente possibile: io leggevo a Vogel ciò che avevo
scritto, lui ascoltava con tranquillo distacco, ma poi mi sentivo
umiliato dal sussiego con cui esprimeva la sua approvazione,
annuendo col capo e pronunciando una sola parola: "Bene", con
annesso incoraggiamento: "Vada avanti così!". Se avessimo
litigato, per me sarebbe stato tutto più facile. La sua approvazione
e più ancora il suo incoraggiamento mi fecero passare la
voglia di continuare.
Ho conservato alcuni abbozzi di quel lavoro: non poteva venirne
fuori niente di buono. Al momento di lasciare Comologno mi sentii
ripetere un'ultima volta un "Vada avanti così!" e mi resi conto
che Vogel non avrebbe più avuto mie notizie. Mi vergognavo di
dirglielo: se la voglia mi era passata, quale motivo avrei
potuto addurre? Era una di quelle inesplicabili situazioni che ho
conosciuto più e più volte nella mia vita: mi sentivo ferito nel
mio orgoglio senza che il "colpevole" potesse immaginare che
cos'era successo, perché lui non aveva fatto niente, proprio
niente. Forse - quasi inavvertitamente - mi aveva fatto sentire che
si metteva al di sopra di me. E io potevo sottostare soltanto
per mia libera scelta. Dovevo essere io a decidere chi mettevo
sopra di me. I miei dèi me li trovavo io, io decidevo chi erano; e
se qualcuno, di testa sua, riteneva di poter essere uno di
quegli dèi, magari con pieno diritto, io dovevo scomparire dalla
sua vita, io sentivo in lui una minaccia.
Le settimane di Comologno non rimasero tuttavia senza
conseguenze. Una domenica d'inverno, all'aperto, lessi ai miei
padroni di casa e a Vogel la Commedia della vanità, e trovai
ascoltatori più attenti di quelli che
avevo avuto dagli Zsolnay. Il padrone di casa e sua moglie presero
da allora a ben volermi e mi proposero di tenere una lettura a
Zurigo, nella loro casa della Stadelhoferstrasse, durante il
viaggio di ritorno da Comologno. Avevano una bella sala in cui
usavano invitare alle loro serate il mondo intellettuale zurighese.
Così, ancora in gennaio, ebbe luogo la prima lettura importante
di una parte della Commedia della vanità, davanti ad ascoltatori
veramente illustri. C'era anche James Joyce, di cui feci la
conoscenza in quell'occasione. Lessi la prima parte della
commedia, in purissimo dialetto viennese, senza un'introduzione
esplicativa, in una sala affollata, e non pensai che la maggior
parte dei presenti non poteva capire il dialetto viennese, da me
adottato con tanta convinzione e con tutte le logiche variazioni. Ero
così soddisfatto del rigore e della coerenza dei miei
personaggi viennesi che proprio non avvertii l'umore del pubblico,
che era piuttosto sfavorevole.
Nell'intervallo fui presentato a Joyce, il quale si espresse
in termini molto bruschi e molto personali: "Io mi faccio la
barba col rasoio, senza specchio!". Lo disse mettendo l'accento
sulle parole "senza specchio"; ed era certo un'impresa temeraria se
si considera che aveva la vista debolissima, anzi era ormai quasi
cieco. Rimasi costernato da una reazione così ostile, quasi che io
lo avessi attaccato personalmente. Pensai che l'idea del divieto
contro gli specchi, l'idea centrale della commedia, lo avesse
irritato perché i suoi occhi erano così mal ridotti. Per un'ora
aveva dovuto sorbirsi quel dialetto viennese che lui, nonostante il
suo virtuosismo linguistico, non poteva capire. Solo una scena era
scritta in tedesco corrente, e Joyce vi aveva colto la battuta sulla
rasatura davanti agli specchi. Ad essa si riferiva col suo penoso
commento.
L'irritazione per non essere stato in grado di seguire la
lingua della commedia - lui, l'uomo di cui si diceva che
padroneggiasse innumerevoli lingue! - si era appuntata sul
fenomeno di guardarsi allo specchio, messo sotto accusa proprio
nell'unica scena di cui aveva afferrato il senso. Quell'accusa, che
in apparenza aveva una giustificazione morale, Joyce l'aveva
riferita a se stesso. Perciò aveva reagito dichiarando che lui, pur
facendosi la barba col rasoio, non aveva bisogno di specchi: non
c'era pericolo che si tagliasse il collo. Questa
dichiarazione, tipica della vanità maschile, sembrava tolta di
peso dalla mia commedia. Ero imbarazzato per la sventatezza con cui
avevo fatto subire quel testo a Joyce. Era il testo che io volevo
leggere, ma invece di mettere sull'avviso i padroni di casa, mi
ero molto compiaciuto che Joyce avesse accettato l'invito; e
troppo tardi mi accorgevo del guaio che avevo combinato con i
miei specchi. Col suo motto "senza specchio" Joyce era sceso in
campo per difendersi, e adesso, con mia profonda costernazione,
mi vergognavo anche per lui, per quanto vi era di incontrollato
nella sua sensibilità che lo diminuiva ai miei occhi. Lasciò la sala
quasi subito, forse credendo che la storia degli specchi dovesse
continuare anche dopo l'intervallo; e tuttavia il fatto che egli
fosse venuto ad ascoltarmi fu considerato un punto a mio favore,
un privilegio. Quanto a quel commento tagliente, c'era da
aspettarselo da un uomo come lui.
Fui presentato ad altri nomi illustri, ma l'intervallo non era
lungo e io non avevo la nozione del tempo. Mi sembrava che gli
ascoltatori fossero incuriositi, forse lo erano davvero, io
avvertivo la loro perplessità e facevo assegnamento sulla seconda
parte della lettura. Avevo scelto "Il buon padre", un capitolo
del romanzo che di lì a poco si sarebbe intitolato Die Blendung. A
Vienna l'avevo già letto spesso, in privato e in pubblico, e
ormai lo consideravo un cavallo di battaglia, quasi fosse la
parte essenziale di un libro molto letto e universalmente
noto. Ma per il pubblico quel libro non esisteva ancora, e se a
Vienna era almeno diventato un tema di conversazione, a
Zurigo gli ascoltatori se lo sentivano arrivare addosso come qualcosa
di totalmente sconosciuto.
Non avevo ancora finito di pronunciare l'ultima frase quando
Max Pulver, (1) l'unico che si fosse presentato in smoking,
saltò in piedi, dritto come un fuso, e gridò allegramente
a tutta la sala: "Sadismo di sera, bel tempo si spera!". Il
maleficio era rotto, e tutti poterono dare libero sfogo al loro
dissenso. La serata si protrasse ancora per un bel po', io feci
più o meno la conoscenza di tutti i presenti, e ciascuno mi disse
a modo suo la propria irritazione, specialmente per la seconda parte
della lettura. I più cortesi mi trattarono con l'indulgenza dovuta
a un giovane scrittore non privo di talento che ha solo bisogno
di essere guidato sulla retta via.
Fu questo, per esempio, l'atteggiamento di Wolfgang Pauli, (2)
il fisico, per il quale avevo il massimo rispetto. Con benevolenza
egli mi tenne una piccola lezione, prima dicendo che avevo idee
aberranti e poi raccomandandomi con una certa insistenza di
dargli ascolto, visto che lui mi aveva ascoltato per tutta la sera.
In verità io non lo ascoltavo, e quindi non saprei neanche adesso
riferire le sue parole, ma i miei orecchi si erano chiusi per un
motivo che lui non avrebbe mai indovinato: il suo aspetto mi
ricordava Franz Werfel, solo il suo aspetto naturalmente, e
questo particolare non poteva non preoccuparmi dopo le esperienze
fatte con Werfel esattamente un anno prima. Pauli aveva però un
modo di parlare del tutto diverso, non era ostile, anzi mi
dimostrava simpatia: credo - ma qui potrei anche sbagliare - che la
retta via sulla quale voleva guidarmi fosse quella junghiana.
Dopo la sua ammonizione riuscii a dominarmi così bene che stetti
ad ascoltarlo - con apparente attenzione - fino in fondo. Lo
ringraziai addirittura per le sue interessanti considerazioni, e ci
lasciammo in perfetta armonia.
Bernard von Brentano, (4) e Hitler era al potere da due anni.
L'ingenuità della mia domanda era pari all'orgoglio puerile con
cui Pulver dava quelle notizie. Mi rispose senza cambiare tono,
più con gentilezza che con iattanza, quasi alla maniera viennese
(era vissuto a Vienna per un certo periodo), e con l'aria di
chiedere scusa:
"Molto interessanti, davvero. Glielo direi volentieri, ma sono
tenuto al riserbo più rigoroso. E" come il segreto
professionale dei medici".
Intorno a Max Pulver, intanto, tutti avevano drizzato le orecchie
nell'udire quei nomi pericolosi. La padrona di casa, che era già
informata, si avvicinò e disse severamente, indicando Pulver:
"Pur di parlare è capace di giocarsi la testa".
Ma Pulver fece osservare che era capacissimo di tacere,
altrimenti non gli avrebbero mandato quei campioni:
"Da me nessuno saprà niente".
Oggi sarei disposto a pagare anche più di allora pur di sapere
qualcosa sul contenuto delle sue analisi.
Nella lista degli invitati figuravano anche C" G" Jung e Thomas
Mann, che non si erano fatti vedere. Mi domandai se Pulver si fosse
vantato anche con Thomas Mann dei saggi di scrittura che la Gestapo
gli aveva affidato. Sembrava che la presenza di esuli dalla
Germania non lo turbasse. E ce n'erano molti nella sala: uno era
Bernard von Brentano, un altro Kurt Hirschfeld dello Schauspielhaus. Avevo addir
ittura l'impressione che la loro presenza
stuzzicasse Pulver a fare le sue "rivelazioni", e mi sentivo
tentato di restituirgli l'accusa di sadismo, ma ero troppo
timido per farlo, e anche troppo poco conosciuto.
Ma la vera regina della serata fu proprio la padrona di casa. Si
sapeva della sua amicizia con Joyce e con Jung. Non c'era
celebrità, scrittore, pittore o compositore, che non
frequentasse la sua casa. Era una donna intelligente, con lei si
poteva parlare, aveva la mente aperta a ciò che quei personaggi le
dicevano, sapeva discutere con loro senza arroganza.
S'intendeva di sogni, e questo la legava a Jung, ma si diceva che
perfino Joyce le raccontasse i propri sogni. Nella casa che si era
fatta sopra Comologno offriva rifugio a non pochi artisti che
potevano andarvi a lavorare. Da vera signora si occupava di cose che
non andavano solo a sua gloria. La paragonavo tra me a quel
personaggio di Vienna che faceva il bello e il cattivo tempo
nella maniera più ottusa e dominava la scena senza alcun
discernimento, con le sue pretese, con l'avidità e con l'alcool. La
signora di Vienna la conoscevo meglio, da più anni, ed è
incredibile quello che viene fuori da una più lunga conoscenza
delle persone, ma credo che il confronto si risolva molto
giustamente a favore della signora di Zurigo; e vorrei, se fosse
ancora viva, che sapesse della mia buona opinione.
Fu nella sua casa che ritrovai la fiducia in me, tra gli invitati
di quella sera, tra le persone che mi ascoltarono e mi
condannarono, e forse mi condannarono perché mi avevano capito
solo a metà. Appena pochi giorni prima mi ero vergognato per il mio
tentativo di rendermi utile a un compositore come suo
subalterno, e anche se si trattava di un compositore che stimavo,
avevo motivo di dubitare che mi considerasse un suo pari. Nella
casa di quella signora a Comologno mi era sembrato di subire
un'umiliazione, senza che nessuno ne fosse veramente colpevole.
Adesso la stessa signora, nella sua casa di Zurigo, mi dava
l'occasione di mettere alla prova la mia ultima opera, alla quale ero
legato con tutte le mie fibre, davanti a un pubblico in cui non
mancavano persone che ammiravo; e mi dava l'occasione di subire
quella sconfitta che era soltanto mia e alla quale potevo
contrapporre, intatte, la mia forza e la mia convinzione.
NOTE:
(1) Max Pulver (1889-1952), scrittore svizzero, è ricordato
specialmente per un trattato di grafologia, pubblicato nel 1931, in
cui seguiva i metodi del tedesco Ludwig Klages ma interpretava la
scrittura nei suoi significati simbolici, applicando la teoria
psicoanalitica ?N" d'T"*.
(2) Nato a Vienna nel 1900, ebbe la cattedra di fisica teorica a
Zurigo nel 1928 e a Princeton nel 1940. Nel #"de ottenne il Nobel
per la scoperta del principio di esclusione o "principio di
Pauli". Morì a Zurigo nel 1958 ?N" d'T"*.
(4) L'eccidio del 30 giugno 1934, noto anche come "la notte dei
lunghi coltelli": Hitler eliminò Ernst Röhm e i suoi
collaboratori delle SturmAbteilungen prendendo a pretesto la
minaccia di un Putsch contro il regime ?N" d'T"*.
Il benefattore
Jean Hoepffner era il direttore delle "Strassburger Neueste Nachrichten", il gi
ornale più letto dell'Alsazia, che usciva ogni
giorno in due lingue, tedesco e francese, e si distingueva per il suo
senso dell'equilibrio e della misura. Il giornale pubblicava con
scrupolo le informazioni che servivano all'Alsazia e non si spingeva
molto oltre gli interessi regionali se non era proprio necessario
per i temi economici di carattere più generale. A Strasburgo non
conoscevo nessuno che non comprasse il giornale di Hoepffner, la sua
tiratura era di gran lunga la più alta, lo si vedeva
esposto dappertutto. Non era un giornale che eccitasse gli animi,
la parte culturale non aveva nulla che la distinguesse
particolarmente, chi s'interessava a cose del genere si rivolgeva
alla grande stampa parigina.
La tipografia e gli uffici del giornale si trovavano in un
sobrio edificio della Blauwolkenstrasse, o Rue de la Nuée Bleue,
verso il cortile, ma anche in ogni stanza del palazzo si udiva il
rumore delle macchine tipografiche. Jean Hoepffner non abitava
nello stabile, ma al secondo piano aveva un
appartamentino di due stanze che metteva a disposizione degli
amici venuti da fuori. L'appartamento era stipato di vecchi
mobili che lui stesso aveva scovato dai rigattieri nel corso
degli anni. La sua più grande passione era quella di frugare
nelle botteghe dei rigattieri, ed era felice quando credeva di
avere scoperto qualche pezzo che poi finiva tra le altre
anticaglie della piccola foresteria. Era come se Hoepffner avesse
sistemato lassù, in quelle due stanze, una sua personale bottega di
rigattiere in cui non si vendeva niente e che, secondo lui, riuniva
i pezzi migliori. L'onore di vedere quella bottega toccava
soltanto agli amici ammessi ad abitarvi, e quando gli occhi di
Hoepff
-ner, due occhi chiarissimi, si spalancavano su un pezzo che egli
esaltava con candido entusiasmo, non trovavi il coraggio di
dirgli la verità, e cioè che quel pezzo non ti piaceva per
niente. Stavi zitto, sorridevi, ti congratulavi con lui, e appena
era possibile parlavi d'altro.
Era questo il modo in cui cercavi
ogni giorno di toglierti dall'imbarazzo quando, come accadde a
me, occupavi l'appartamentino per qualche settimana. Nelle
due stanze, infatti, non c'era soltanto tutto quello che avevi
trovato all'inizio, ma continuavano ad arrivare novità perché quasi
ogni giorno Hoepffner si presentava con un nuovo oggetto, per lo
più di piccole dimensioni, come se si sentisse in dovere di
contribuire al benessere dell'ospite arricchendo le due stanze di
cose sempre nuove e sorprendenti. La foresteria era piena, non era
facile trovare posto per gli ultimi arrivi, ma Hoepffner ci
riusciva ugualmente. Credo di non aver mai abitato in un posto più
contrario ai miei gusti, tutto sembrava polveroso e
inutilizzato, e sebbene qualcuno provvedesse ogni giorno alle
pulizie non ti saresti stupito di trovare muffa dappertutto. Ma
sarebbe stata soltanto una muffa simbolica, perché a guardar bene
tutto era scrupolosamente pulito e quell'impressione di muffa
derivava piuttosto dal carattere degli oggetti e dal fatto che
nessuno si accordava con l'altro.
Quelle due stanze, nelle quali mi trattenevo solo per dormire e
per la colazione del mattino, quando mi veniva portato su il caffè,
furono teatro delle più amabili conversazioni. La mattina, prima
di recarsi nel suo ufficio al primo piano, il signor Hoepff
-ner veniva a trovarmi e mi faceva compagnia mentre prendevo il
caffè. Aveva i suoi scrittori preferiti, li rileggeva continuamente,
non riusciva a saziarsene, e voleva parlarne con me. Al primo
posto cera Adalbert Stifter, del quale conosceva quasi tutto, e
certe sue cose gli erano così care che, mi diceva, le aveva lette
più di cento volte. La sera, quando rincasava dall'ufficio, si
godeva il suo Stifter. Era scapolo e viveva solo col suo cane
barbone, mentre alla cucina e all'andamento della casa provvedeva
una governante che era al suo servizio da anni. Il signor Hoepffner non perdeva
tempo in cose superflue, sapeva apprezzare i
piatti preparati per lui da quella vecchia e brava alsaziana, ci
beveva sopra il suo vino e poi, dopo aver giocato un po'"col
barbone, si disponeva a leggere Der Hagestolz, (1) di cui non si
stancava di tessermi le lodi. Per Stifter trovava toni più seri di
quelli riservati alle anticaglie con le quali lo vedevo spesso
arrivare. Ma
era evidente che tra le sue antichità e Stifter esisteva un
rapporto, e lui non si sarebbe mai sognato di negarlo.
Gli domandai una volta perché continuasse a leggere le stesse
cose. Rimase stupito, ma non se la prese. C'era forse qualche
altro libro da leggere? Le cose moderne non poteva sopportarle,
era tutta roba cupa e disperata, non c'era verso di trovarvi una
sola persona buona; e questo era contrario alla verità. Lui
aveva una certa esperienza della vita, nella sua professione
aveva conosciuto molta gente, ma non si era mai imbattuto in
una sola persona malvagia. La gente bisognava vederla così
com'è, e non attribuirle intenzioni che non aveva. Stifter,
appunto, era lo scrittore che più di ogni altro aveva questo dono,
e da quando lui se n'era reso conto, tutti gli altri lo annoiavano o
gli facevano venire il mal di testa.
All'inizio ebbi l'impressione che Hoepffner non avesse mai letto
altro, ma mi accorsi poi di essere in errore, perché lui stesso
ammise di avere molto caro un altro libro che aveva letto non meno
spesso. Forse il titolo mi
avrebbe stupito. Sembrava che Hoepffner volesse scusarsi ancora
un poco prima di rivelarlo. Bisognava pur sapere, mi disse, come
sarebbe il mondo se esistessero persone malvagie. Era anche questa
un'esperienza necessaria, benché fosse pura illusione. Lui l'aveva
fatta, e pur sapendo quanto fosse lontano dalla realtà il quadro
tracciato in quel libro, esso era scritto così stupendamente che
bisognava leggerlo; e lui se lo rileggeva di continuo. Come c'era
gente che leggeva romanzi polizieschi per poi cercare sollievo nel
mondo reale, così lui leggeva il suo Stendhal, La Certosa di Parma.
Gli confessai che Stendhal era il mio preferito tra gli scrittori
francesi, che ne avevo fatto il mio maestro e che mi ero sforzato di
imparare da lui. (2) "Imparare da lui?" domandò il signor
Hoepffner. "Ma l'unica cosa da imparare è che il mondo, per
fortuna, non è così".
Era convinto che La Certosa di Parma fosse sì un
capolavoro, ma in quanto deterrente, e la sua convinzione era
così pura che mi vergognavo davanti a lui. Dovevo dirgli tutta la
verità su di me e finii col confessare quel che avevo scritto. Gli
esposi il mio "Kant prende fuoco", e lui ascoltò con
interesse. "Come deterrente," disse "mi sembra che il suo libro sia
anche meglio della Certosa di Parma. Io non lo leggerò mai, ma
sarebbe bene che la gente lo leggesse. Avrebbe un buon
effetto. La gente, dopo averlo letto, si sveglierebbe come da un
incubo e apprezzerebbe la realtà vedendo quanto è diversa da quel
sogno". Era comprensibile, disse, che nessun editore avesse
ancora osato pubblicare il libro, neanche quelli che avevano
avuto parole di stima per il manoscritto: ci voleva coraggio, ed
erano ben pochi ad averne.
Credo che volesse aiutarmi e mascherasse questo desiderio
nella maniera più delicata. Non aveva nessuna voglia di leggere una
cosa simile, la descrizione che gli avevo fatto era già abbastanza
repulsiva. Ma aveva saputo dalla nostra comune amica, Madame
Hatt, che non avevo ancora pubblicato niente, e questa non
sembrava la migliore raccomandazione per uno scrittore di quasi
trent'anni. Poiché non poteva essere realmente favorevole a
un libro simile, aveva escogitato un intento pedagogico per
giustificarne l'esistenza: era un deterrente. Senza perdere tempo
e senza esitare, nel corso di quella stessa conversazione, disse che
dovevo guardarmi in giro alla ricerca di un buon editore, uno che
credesse nel libro anche se non era disposto a rischiare tanto.
Lui, Jean Hoepffner, avrebbe poi garantito l'editore da ogni
perdita. "Ma è anche possibile" osservai "che nessuno voglia
leggere il libro".
"E allora la perdita me l'assumo io" disse Hoepffner. "A me le
cose vanno fin troppo bene, e non ho una famiglia da mantenere".
Sembrava la soluzione più naturale del mondo. Non tardò a
convincermi che lo faceva con entusiasmo, che non c'era niente di
più semplice; e intanto mi dimostrava che il mondo era fatto anche
di persone buone ed era ben diverso da quello del mio libro; che il
libro bisognava leggerlo soltanto per ritornare con rinnovata fiducia
al mondo reale, che era fatto di buona gente.
Quando ritornai a Vienna, le cose da raccontare non
mancavano. Il viaggio mi aveva portato a Comologno e a Zurigo, a
Parigi e a Strasburgo, c'erano stati avvenimenti imprevisti,
avevo incontrato persone ragguardevoli. Ne riferii a Hermann
Broch, e lui disse senza mezzi termini, con una rapidità che non gli
era abituale, che mi invidiava per una cosa: l'incontro con James
Joyce. In verità io non
avevo nessun motivo per sentirmene onorato. Quel commento così
tagliente e mascolino, "Io mi faccio la barba col rasoio, senza
specchio!", mi era sembrato una beffa e un segno di incomprensione
totale. Broch non era dello stesso parere: secondo lui, stava a
indicare che c'era qualcosa che aveva colpito Joyce. Con quella
risposta Joyce si era scoperto. Non era uomo capace di dire
sciocchezze. Avrei forse preferito qualche parolina sgusciante,
non impegnativa? Broch voltò la frase da tutte le parti, tentando
diverse interpretazioni. Si compiaceva della loro
contraddittorietà, e quando gli feci osservare che trattava
quella frase banale e del tutto insignificante come il
responso di un oracolo, lui annuì senza esitare, perché lo era
veramente, sì, era la frase di un oracolo; e si avventurò in altre
interpretazioni.
Secondo Broch, il fatto che Joyce avesse perso la calma era un
punto a favore della commedia. E naturalmente Joyce aveva afferrato
ogni battuta: o forse credevo che un uomo simile, dopo tanti anni
trascorsi a Trieste, non
avesse una perfetta padronanza dell'accento austriaco? Per Broch
l'argomento non era ancora esaurito, e quando interruppe il
mio tentativo di riprendere il racconto del viaggio e ritornò
ancora su Joyce, perché gli era venuta in mente
un'altra possibile interpretazione, mi resi conto che per lui
Joyce era diventato un modello,
una figura che si cerca di emulare e da cui è impossibile
liberarsi veramente. Broch era un uomo quanto mai cortese, alieno
da ogni forma di arroganza, ma non ci fu verso di dissuaderlo,
qualunque cosa dicessi sulla crudele alterigia di Joyce. Quella
apparente crudeltà, se pure era lecito chiamarla così, era solo la
conseguenza delle molte operazioni agli occhi, e non significava
niente. Ciò che interessava a Broch era la fermezza con cui Joyce
affrontava la celebrità, e la sua era una celebrità nobile, eletta,
come nessun'altra. Compresi che per Broch era quello, solo
quello, il genere di celebrità che contava. Non c'era nulla,
sicuramente, che gli stesse tanto a cuore quanto la stima di Joyce,
e la speranza di arrivare a un risultato "parallelo", per così
dire, ha poi avuto una parte decisiva nella nascita della sua
Morte di Virgilio.
Ma Broch fu poi sinceramente felice quando gli raccontai di Jean
Hoepffner e della sua offerta, che destò in lui una meraviglia
non inferiore alla mia. Un uomo che leggeva quasi soltanto
Stifter, che rifiutava in blocco la letteratura moderna, che già
dopo le prime pagine avrebbe respinto con orrore il mio "Kant
prende fuoco", si diceva disposto a provvedere perché il
manoscritto vedesse la luce. "A questo punto," disse Broch "il
libro farà la sua strada. E" un libro troppo intenso e forse
anche troppo inquietante per essere dimenticato. Non oso dire se
lei, con questo libro, farà del bene ai lettori. Ma intanto il suo
amico, senza dubbio, fa del bene. Agisce senza tener conto dei
propri pregiudizi. Non riuscirebbe mai a capire il romanzo. Ma non
lo leggerà nemmeno. E neanche medita di assicurarsi così un titolo
di merito presso i posteri. Ha intuito che lei è uno scrittore
vero e, per dir così, vuole fare del bene alla letteratura
nel suo insieme, perché per lui la letteratura è Stifter, verso
il quale ha tanta riconoscenza. Quello che mi piace di più in
questo Hoepffner è il suo modo di travestirsi nella vita. Il
direttore di una tipografia e di un giornale! Più in là di così il
travestimento non potrebbe andare. Adesso le sarà facile trovare
un editore".
I fatti gli diedero ragione, e proprio Broch contribuì in parte
alla riuscita dell'impresa, sia pure involontariamente. Alcuni
giorni dopo incontrò Stefan Zweig, che si trovava a Vienna per due
motivi: doveva sottoporsi a una radicale cura dentistica e doveva
fondare una nuova casa editrice per i suoi libri, dal momento che
l'InselVerlag, in Germania, non poteva più pubblicarglieli.
Credo che gli avessero estratto tutti i denti, o quasi. Un suo
amico, Herbert Reichner, pubblicava "Philobiblon", una rivista molto buona. Zwei
g
decise di affidargli i suoi libri e di aggiungervi come contorno
qualche altra opera di cui non ci fosse da vergognarsi.
Per caso, poco dopo il mio ritorno a Vienna, incontrai Zweig al
Café Imperial. Era seduto tutto solo in
una delle sale posteriori e si teneva la mano davanti al viso per
nascondere la bocca sdentata. Sebbene non gli piacesse farsi vedere
in quello stato, mi fece segno di avvicinarmi e mi invitò a
prender posto al suo tavolino. "Da Broch ho saputo tutto" disse.
"Lei ha conosciuto James Joyce. Se ha qualcuno che garantisce per
il suo romanzo, posso raccomandare al mio amico Reichner di
pubblicarlo. Ma lei deve farsi scrivere una prefazione da Joyce. Così
il libro non passerà inosservato".
Dissi subito che era un'idea da scartare senz'altro. Non avrei
mai potuto chiedere a Joyce una cosa simile. Joyce non aveva la
più pallida idea del manoscritto. Era quasi cieco. Come si poteva
imporgli una lettura del genere? E poi, anche se avesse avuto i
migliori occhi del mondo, non gli avrei mai fatto quella richiesta.
Anzi, una prefazione non l'avrei chiesta a nessuno. Il libro doveva
essere letto per quello che era, non aveva bisogno di stampelle.
Usai un tono così brusco che io stesso ne rimasi un po''
spaventato. "Volevo soltanto aiutarla" disse Zweig, e si rimise
rapidamente la mano davanti alla bocca. "Ma se lei non
vuole...". La conversazione era finita, me ne andai per la mia
strada e non mi pentii minimamente di avere respinto con tanta
energia quella proposta. Avevo salvato il mio amor proprio. D'altra
parte non avevo perduto niente. Anche se la cosa fosse stata
possibile - ma per me era del tutto escluso -, mi riusciva
insopportabile l'idea di presentare il libro con una introduzione
di Joyce, buona o cattiva che fosse. Disprezzai Zweig per la sua
proposta. Ma forse fu una fortuna che non lo disprezzassi troppo,
perché poco dopo ricevetti una lettera della casa editrice
Herbert Reichner, nella quale si parlava della garanzia, sì, ma non si
accennava affatto a una prefazione. Poiché la lettera mi invitava
anche a mandare con urgenza il manoscritto, andai a consultarmi con
Broch, il quale mi persuase ad accettare; e io inviai il
manoscritto.
NOTE:
(1) "Il vecchio scapolo", un racconto del 1844 in cui Stifter
descrive la solitudine di un uomo che ha dovuto rinunciare alla
felicità ?N" d'T"*.
(2) "...leggevo e rileggevo continuamente Il rosso e il nero di
Stendhal" (La coscienza delle parole, cit", p" 340); "...mi
affidai a un altro modello, per il quale nutrivo un'ammirazione non
minore: Il rosso e il nero di Stendhal. Ogni giorno, prima di
cominciare a scrivere, leggevo qualche pagina, ripetendo quel che
aveva fatto Stendhal stesso con un altro modello, il famoso nuovo
Codice civile della sua epoca" (Il frutto del fuoco, cit", p" 374)
?N" d'T"*.
Gli ascoltatori
Il mio orgoglio si era risollevato, e la prima conseguenza si vide
il 17 aprile 1935, quando andai a tenere una lettura alla
Schwarzwaldschule.
Dalla dottoressa Schwarzwald ero stato in visita un paio di volte,
non di più. Mi ci aveva accompagnato Maria Lazar, alla quale dovevo
anche la mia conoscenza con Broch. Molto più della leggendaria e
loquacissima pedagoga che fin dal primo incontro ti stringeva
contro la sua pancia e ti accoglieva così affettuosamente
come se fossi stato suo allievo prima ancora di mettere i denti,
come se tra lei e te non ci fossero segreti, come se fossi andato
infinite volte da lei a rovesciare la piena del tuo cuore - molto
più di lei, nonostante quella sua filantropica intimità,
mi piaceva il taciturno dottor Schwarzwald, un ometto un po''
storpio che camminava appoggiandosi a un bastone e poi andava a
sedersi con la faccia truce in un angolo, dal quale si
sorbiva rassegnato l'interminabile discorrere dei visitatori e
quello anche più interminabile della signora dottoressa. La cosa
migliore che si possa dire della testa del dottor Schwarzwald,
divenuta famosa attraverso la pittura di Kokoschka, (1) è che
somigliava a una radice - secondo una definizione coniata da Broch.
I visitatori venivano ricevuti in
una stanza piuttosto piccola che era ancor più leggendaria
della dottoressa Schwarzwald. Chi non vi aveva messo piede,
infatti? Vi andavano i grandi di Vienna, quelli veri, e molto
prima di diventare personaggi pubblici, universalmente noti. Vi
era stato Adolf Loos, che aveva portato con sé il giovane
Kokoschka, vi erano stati Schönberg, Karl Kraus, Musil.
Bisognerebbe citare molti altri, ma è degno di nota il fatto che di
lì siano passati tutti coloro la cui opera ha poi resistito al tempo.
E non era che uno solo di quei visitatori trovasse particolarmente
interessante la conversazione della dottoressa Schwarzwald. Costei era ritenuta
una pedagoga appassionata, con
tendenze moderne e libere, era adorata dai suoi allievi, dava a
molti un vero aiuto ed era di manica larga, ma poiché tutto in lei
confluiva e si mescolava confusamente, gli intellettuali di quel
calibro la trovavano non solo priva d'interesse, ma piuttosto
fastidiosa. Passava per una chiacchierona animata dalle migliori
intenzioni, mentre i visitatori che si potevano incontrare in casa
sua non lo erano, e per di più non ci andavano a gruppi, ma pochi per
volta, così che di ciascuno restavano impresse distintamente le
parole e la faccia: si aveva la sensazione che fossero venuti a
posare per un ritratto, e che forse si usurpava un poco la parte
del grande ritrattista che li aveva conosciuti lì e poi ne
aveva anche dipinto davvero le sembianze.
Chiunque fosse presente, la persona che rimaneva
indimenticabile era il taciturno dottor Schwarzwald, che con la sua
muta austerità spazzava via istantaneamente il fiume di parole
che usciva dalla bocca della signora dottoressa. Ma c'era anche una
persona in cui tutti riconoscevano il vero cuore di quel ménage,
ed era la meravigliosa Mariedl Stiasny, l'amica del dottor
Schwarzwald, quella che aveva cura di lui, ma non solo di lui,
quella che presiedeva all'amministrazione e faceva
letteralmente tutto ciò che c'era da fare per la scuola, per le
allieve e per l'andamento della casa, una donna bella, sveglia,
intelligente, né loquace né taciturna, una creatura luminosa il cui
sorriso dava respiro e vita a tutti coloro che vivevano lì o
erano solo di passaggio. Chi arrivava in visita non la incontrava
subito, perché lei era sempre indaffarata, ma poi si affacciava una
volta o due per dare una rapida occhiata alla situazione; e
chiunque fosse presente, anche se avevi appena conosciuto questo o
quel principe dello spirito, ti sorprendevi ad aspettare con
impazienza l'apparizione di Mariedl Stiasny. Quando si apriva la
porta, il primo desiderio di tutti era che fosse lei a comparire; e
perfino la visita di Domineddio, temo, avrebbe causato un po'"di
delusione, perché non era lei. In quel dibattito, forse
vagamente comico, che c'era stato tra Broch e me a proposito
dell""uomo buono", non avevamo preso in considerazione - oggi la
cosa appare inconcepibile - neanche una donna: altrimenti,
sarebbe bastato nominare quella persona perché tutto si decidesse di
colpo e la disputa avesse termine.
Tra i più giovani visitatori ammessi alla
Schwarzwaldschule c'era stato - come poteva essere diversamente? anche Fritz Wotruba. Era un ospite incostante e non si
tratteneva mai a lungo, ma ciò che lo spingeva ad andarsene non era
tanto la loquacità della signora dottoressa - lui era
abituato a quella della moglie, Marian - quanto la sua stessa
natura irrequieta e impetuosa, il richiamo che aveva su di lui il
selciato di un quartiere così vicino alla Florianigasse, quel
selciato che era la sua vera patria. In quel posto Wotruba si
sentiva meglio fuori che dentro, e una volta fatto il suo
doveroso atto di presenza, non si lasciava persuadere facilmente a
tornare. Quando gli avevo raccontato, non senza orgoglio,
dell'unanime bocciatura decretata dagli illustrissimi ascoltatori di
Zurigo, Wotruba aveva replicato: "Quelli là non capiscono la lingua
di Vienna. Devi farla qui una grande serata, adesso!". Ciò che gli
piaceva di più nella Commedia della vanità era appunto l'impiego
delle voci viennesi, e considerava una questione d'onore
presentarla a un autentico pubblico viennese.
Può darsi dunque che sia stata Marian Wotruba, col suo senso
pratico, a pensare alla grande sala della
Schwarzwaldschule. La scuola non doveva figurare come promotrice
della serata, ma provvide a mettere a disposizione la sala. Di
tutto il resto si occupò Marian, e io vidi con i miei occhi di che
cosa era capace quando prendeva a cuore una causa. La sala
era piena zeppa. Se non proprio tutti, c'erano quasi tutti i
membri della Sezession e dello Hagenbund, pittori e scultori, gli
architetti del Neuer Werkbund (alcuni li conoscevo anch'io).
Marian doveva averli assordati con le sue parole, affrontandoli uno
per uno e tutti insieme. Ma c'erano là anche persone che non
appartenevano al suo giro, per esempio scrittori e altri che per me
contavano moltissimo.
Devo nominare i due che ponevo più in alto di tutti. Venne
l'arcangelo Gabriele, come io usavo chiamare tra me il dottor
Sonne, e se può suonare misterioso questo nome che gli avevo dato
e che uso qui pubblicamente per la prima e unica volta, la sua
presenza fu anch'essa misteriosa. Riuscì infatti a non farsi vedere
da nessuno, e ciò nonostante io mi sentii al sicuro sotto il suo
usbergo. Ma venne anche Robert Musil con sua moglie, in compagnia di
Franz e Valerie Zeis, che erano due buoni amici comuni e che da tempo
avevano preparato quell'incontro con tatto e abilità. C'era Musil,
e per me questo valeva più della presenza di Joyce alla serata
di due mesi prima nella Stadelhoferstrasse di Zurigo. Anche se
Joyce era all'apice della fama, anche se sapevo benissimo quanto
fosse meritata quella fama, Robert Musil - io avevo cominciato a
leggerlo seriamente solo da un anno - mi sembrava degno della
stessa celebrità; ed era anche più vicino alle mie idee.
Lessi ancora i testi che avevo letto a Zurigo, ma in ordine
inverso: prima il capitolo "Il buon padre" dal romanzo e poi la
prima parte della Commedia della vanità. Forse era questo l'ordine
migliore, ma non credo che bastasse a determinare
un'accoglienza così diversa. Aveva ragione Wotruba quando diceva che
nulla era più Vienna, l'autentica Vienna, dei testi scelti per
quella serata. Anche l'attesa era del tutto diversa. A Zurigo non
c'era nessuno, tranne i padroni di casa, che avesse mai sentito
parlare di me, ero per tutti una pagina bianca; e poi, di colpo,
senza una sola parola di spiegazione, quella baraonda di voci e di
personaggi! Adesso, invece, molti sapevano già con chi avevano a
che fare, e quelli che ancora non lo sapevano erano stati
catechizzati a dovere da Marian Wotruba. A Zurigo io ero come
ubriaco, inebriato dai personaggi della commedia, e il loro rapido
alternarsi, la loro
eterogeneità, che però era presentata come simultaneità, non
lasciava al pubblico il tempo di accettarli. Allora non badavo
alle facce che mi stavano davanti, come di solito accade sempre
durante una lettura, non mi ancoravo a qualcuno per avere un
riferimento; e quindi ebbi solo più tardi, quando tutto era
ormai finito, il senso della totale incomprensione.
Questa volta, fin dall'inizio, sentii intorno a me attesa e
stupore, e ne fui spronato come se ne andasse della mia vita. Il
terribile "Buon padre" suscitò orrore, ma i viennesi conoscevano
benissimo il potere dei loro portinai, e non credo che qualcuno
avrebbe osato contestare la verità di quel personaggio mentre
tutti quanti, lì nella sala, erano alla sua mercé. La commedia,
subito dopo, prometteva quasi una liberazione, ma poi
anch'essa salì di tono a poco a poco e manifestò la sua
particolare terribilità. Se alla fine molti erano spaventati,
ciò dipendeva dalla natura delle cose che vi erano raffigurate, e
non da colui che le raffigurava. Una reazione astiosa la
avvertii solo in alcune persone appartenenti alla cerchia degli
intimi di casa Schwarzwald. Una vera lavata di capo, come quelle che
avevo subito a Zurigo, la buscai soltanto da Karin Michaelis, una
scrittrice danese, che mi rimproverò con sdegno la mia mancanza di
umanità e riuscì a far ammutolire, per la prima e unica volta,
perfino la signora dottoressa Schwarzwald. Costei non disse
una parola, non mi elargì neppure le affabili chiacchiere alle quali
mi ero preparato; e contribuì così, col suo silenzio, alla riuscita
della serata.
Io, infatti, ero quasi in estasi per la presenza delle due
persone che ho già citato prima. Musil lo vedevo davanti a me,
nella seconda fila, e temevo vagamente che dopo il primo brano,
"Il buon padre", al quale feci seguire un breve intervallo,
potesse alzarsi e andarsene come aveva fatto Joyce a Zurigo dopo la
Commedia. Invece Musil non si alzò e non uscì: al contrario, mi
sembrava assorto e conquistato. Il torace rigido era piegato un po''
in avanti, verso di me, e la testa faceva l'effetto di un
proiettile puntato sulla mia persona che però non veniva sparato
grazie a un eccezionale autocontrollo. Questa impressione, che si
è scolpita in me per sempre, non era frutto di un'illusione, e ben
presto ne ebbi la conferma, anche se in termini che non potevano non
sorprendermi.
Il dottor Sonne, che solo questa volta nomino al secondo posto,
era invisibile. Sapevo che non l'avrei trovato, perciò non lo cercai
nemmeno. Ma quello, per me, fu un momento decisivo nei nostri
rapporti. Dopo tutte le conversazioni di cui mi onorava da più di un
anno, era la prima volta che veniva a conoscenza di qualcosa di
mio. Non gli avevo mai mostrato un manoscritto, e lui sapeva, per
quanto non se ne fosse mai parlato, che mi vergognavo di non avere
ancora pubblicato un libro, così come sapeva che la mia vergogna
scompariva davanti a lui, ma solo davanti a un uomo come lui, che
rinunciava a qualsiasi pubblica manifestazione di sé. Sonne non mi
fece mai domande al riguardo, non disse mai: "Non vuole portarmi il
romanzo di cui mi ha parlato Broch?". Non disse niente perché
sapeva che il libro, non appena ci fosse stato un libro, non
appena la stampa lo avesse reso definitivo, io glielo avrei portato.
Sonne sapeva pure che dovevo proteggere il mio
manoscritto dal suo giudizio, perché lui era l'uomo, lui solo, che
avrebbe potuto distruggerlo con una parola. A questo
pericolo, di cui mi rendevo conto perfettamente, non volevo
esporre né il romanzo né i due drammi, e non mi sembrava che la mia
fosse viltà, perché tutto ciò che possedevo erano quelle tre opere,
delle quali nemmeno una era ancora arrivata alla
pubblicazione. Mi sentivo capace di proteggerle da chiunque
altro, ma davanti a lui sarebbero state inermi, poiché
istintivamente, ma anche deliberatamente, avevo eletto Sonne a mia
autorità suprema. A quell'autorità ero pronto a inchinarmi, perché
essa mi era tanto necessaria quanto la consapevolezza
dell'esistenza delle tre opere. Ma adesso Sonne era venuto ad
ascoltarmi, e dopo tutto quello che ho detto sembrerà strano che la
sua presenza non m'incutesse il minimo timore.
Broch non era a Vienna e Anna era in ansia per la grave malattia
di sua sorella Manon. Di coloro che l'anno prima mi avevano
riservato solo umiliazione, non c'era nessuno. Il grido di Werfel,
"E lasci perdere queste cose!", non mi tornò mai alla mente, sebbene
restasse ancora conficcato in me come l'aculeo dell'odio. Doveva
essere una maledizione contro ogni altro tentativo letterario
da parte mia, e sebbene io non ne tenessi alcun conto, la
maledizione restava, perché si era incuneata nella commedia in cui
credevo con ogni mia fibra. Il mondo di casa Zsolnay, che non
avevo mai preso sul serio, era lontano: adesso
avevo di fronte quello che per me era il vero, l'autentico mondo di
Vienna, quello per cui parteggiavo e che - ne ero certo - era il
mondo dell'avvenire.
All'esito esterno della serata contribuì in maniera decisiva
anche il comportamento dei pittori, una coorte molto risoluta,
capitanata da Wotruba, che non lesinò gli applausi. Fu essa forse,
quella sera, a destare l'impressione che la commedia avesse
finalmente trovato il suo pubblico. Era un errore, come poi si
vide, ma perdonabile: per una volta potevo permettermi di presumere
che la commedia fosse stata capita e potesse avere una sua efficacia
nel tempo per il quale
era stata scritta.
La lettura era appena finita quando Musil mi si avvicinò.
Credo che mi abbia parlato di getto, col cuore, senza il riserbo
che tutti gli conoscevano. Io ero confuso e inebriato, quella che
mi rivolgeva era la faccia, non la schiena, e io vedevo la sua
faccia vicina, davanti a me, e ne ero talmente dominato che non
afferrai ciò che mi diceva. Musil non ebbe neanche molto tempo,
perché subito mi sentii agguantato alla spalla, costretto
energicamente a fare dietrofront e abbracciato: era Wotruba, il cui
entusiasmo fraterno non aveva riguardi per nessuno. Mi sottrassi
alla stretta e presentai Fritz a Musil. Fu allora, in quel momento
pieno di fervore, che venne gettato il seme della loro amicizia; e
se poi questa amicizia fu così ricca di vicende che essi
dimenticarono quel momento isolato e per entrambi ancora sterile,
io non l'ho scordato e lo considero una delle occasioni luminose
della mia vita.
Dovemmo separarci perché sopraggiunse altra gente, c'erano
molti che vedevo per la prima volta, la ressa aumentò, finché fummo
invitati a trasferirci allo SteindlKeller, dove era stata riservata
una sala al primo piano. Un lungo corteo si mise in cammino alla
spicciolata, e quando arrivai e mi affacciai a guardare dentro la
sala prenotata, vidi che molti erano già seduti alla lunga tavola
a ferro di cavallo. Davanti all'ingresso della sala trovai Musil che
stava lì in piedi, indeciso, accanto a sua moglie. Franz Zeis,
l'amico di cui si fidava, cercava di persuaderlo a prender posto.
Musil esitava: gettò un'occhiata nella sala, ma non si mosse di un
passo. Quando mi avvicinai e lo invitai molto rispettosamente, mi
fece le sue scuse, disse che c'era troppa gente, che per lui la
sala era troppo affollata. In verità sembrava ancora indeciso,
ma ormai aveva declinato l'invito e non poteva tirarsi indietro.
Alla fine andò a cercarsi un tavolo lì fuori e vi si sedette con la
moglie e i due Zeis.
Forse fu meglio così: come avrei potuto sentirmi in libertà
davanti a lui? Un uomo per il quale avevo un'ammirazione così
profonda, sarebbe stato sconveniente farlo sedere pigiato in mezzo a
tanti altri, che poi erano lì a mangiare, bere e far baccano per
festeggiare la serata di un giovane scrittore. Io dovevo
invitarlo, vedendolo in piedi vicino alla porta aperta e
immaginando la sua titubanza; accettare la sua esclusione sarebbe
stata un'indelicatezza peggiore che invitarlo. In fondo, poteva
essere addirittura che si aspettasse un invito per poi ricusarlo. Gli
atti di difesa che ho visto compiere Musil, nei miei riguardi o verso
altri, mi sono tutti sembrati infallibilmente giusti. Li ricordo
volentieri, ed è un ricordo cui non vorrei rinunciare. Se di lui
avessi sperimentato solo quell'aspetto e nient'altro (per fortuna
non è stato così), avrei almeno la sensazione di aver conosciuto
Musil nel modo giusto, in un modo preciso, addirittura conforme al
linguaggio della sua opera.
Nella sala interna regnava la massima allegria. Erano presenti
certi pittori che in fatto di baldorie la sapevano lunga. Dissi
a me stesso che non c'era nessuna delle persone di cui mi sarei
vergognato. E" una fortuna che in simili occasioni si rinunci ad
accertamenti minuziosi. Tuttavia mi mancava qualcosa, e
specialmente quando c'era da brindare esitavo un poco
ogni volta, come se in realtà dovessi ancora aspettare: non
sapevo che cosa, perché avevo dimenticato quel che era più
importante. Forse, contagiato com'ero dall'allegria generale, non
osavo dire a me stesso che la cosa decisiva, essenziale, doveva
ancora venire. Aspettavo il giudizio, sì, ma non lo cercavo. Non ero
nella condizione di stabilire esattamente chi fossero tutte quelle
persone. A poco a poco
ognuno si presentava, e questo almeno era un punto fermo. Ma per
una volta, una sola volta, mi sentii addosso uno sguardo. Non
c'era nessuno che mi gridasse qualcosa. Guardai, senza cercare,
in una certa direzione. Piuttosto lontano da me, esile,
nascosto in mezzo agli altri, perfettamente tranquillo, c'era il
dottor Sonne. Non appena si accorse del mio sguardo, sollevò
leggermente il bicchiere, sorrise e bevve alla mia salute. Mi parve
che muovesse le labbra, ma non si udì una parola, mano e bicchiere
erano sospesi in un gesto vagamente irreale e rimasero alzati, come
in un quadro.
Tutto quello che aveva da dirmi lo disse così, e non aggiunse
altro nemmeno nei giorni seguenti, quando ci ritrovammo a uno dei
tavolini di marmo del Café Museum. Mi aveva parlato sollevando il
bicchiere, tenendolo sospeso, e questo valeva ben più di
qualsiasi applauso o parola ad alta voce. Sonne aveva ascoltato
soltanto delle parti, non un'opera intera, e perciò non voleva
pronunciarsi. Ma non si frapponeva sulla mia strada, non mi
segnalava i pericoli che forse lui avrebbe visto. Mi dava via
libera, con la sua solita discrezione, con tutto il riguardo che
usava verso ogni essere vivente; e io interpretai come un segno di
approvazione quello che forse era già qualcosa di più.
Tra le persone che erano venute allo SteindlKeller c'era
Ernst Bloch. Sapevo del suo Thomas Münzer, (2) ma non me n'ero
mai occupato. La sua presenza era stata notata da molti, anche da
Musil, come seppi poi. Dopo il mio vano invito a Musil, quando
entrai nella sala interna già piena di gente, Bloch si alzò dal
posto che si era appena assicurato e mi venne incontro. Mi prese in
disparte, per così dire, se pure era possibile in quella
confusione, e volle esprimermi il suo parere in forma riservata e
circostanziata. Il suo discorso cominciò con un gesto molto
efficace. "Prima impressione" disse sollevando le mani un po'"sopra
l'altezza delle spalle e tenendole a una certa distanza tra loro,
ma con le palme aperte rivolte l'una verso l'altra. Poi, scandendo
le sillabe, continuò: "E" una cosa - eminente". Il lungo intervallo
tra le due parti della frase mi colpì come il gesto delle mani
alzate. La frase era cominciata in un tono indefinito e si
concludeva in modo sorprendente e quanto mai perentorio. Guardai
confuso quella testa lunga e nodosa le cui linee erano come
sottolineate dalla posizione "eminente" delle mani. Bloch disse
poi altre cose che dimostravano come avesse subito afferrato il
senso della commedia, e riuscì perfino a indovinare lo sviluppo
dell'azione nella seconda parte. Fu un commento molto ampio,
perfettamente articolato, e io non mi sarei potuto augurare niente
di meglio. Ma
era come ascoltare un discorso in una lingua straniera. "E"
una cosa - eminente" è tutto ciò che mi è rimasto nella memoria.
Non vorrei tacere un certo strascico di quella serata, anche se
per me è piuttosto imbarazzante. Riguarda Musil e le sue effettive
reazioni durante la lettura, qualcosa che non potevo immaginare e
che sarebbe rimasto ignorato, tanto era grande la felicità per la
sua presenza e per il suo comportamento nei miei riguardi, se non
l'avessi saputo da Franz Zeis alcuni giorni dopo.
Franz Zeis era consigliere all'ufficio brevetti e conosceva
Musil da molto tempo. Era un amico fedelissimo che ne aveva capito
per tempo tutto il valore. In quegli anni, a Vienna, c'era un certo
numero di persone, forse una dozzina, alle quali era gran merito
legarsi poiché i rapporti con loro non assicuravano alcun
vantaggio ma piuttosto procuravano dispiaceri. Alcune di esse erano
riunite in piccoli sodalizi, come Schönberg e i suoi allievi, altre
erano isolate. Franz Zeis le conosceva ed era in stretti rapporti con
tutte. Un acuto istinto lo portava a capire la loro solitudine. Si
rendeva conto che era necessaria, ma sapeva anche quanto ne
soffrissero. Conosceva Musil meglio di chiunque altro ed era ormai
abituato alla sua suscettibilità e alla diffidenza di Martha, la
moglie, che vigilava con occhi d'Argo affinché nessuno gli si
avvicinasse troppo. Zeis non ignorava le sfumature della
particolare condizione di spirito necessaria all'esistenza di un
uomo di quella levatura, né le reazioni, anche quelle più
nascoste, che ci si potevano aspettare da lui; e aveva l'accortezza
di considerarle e di tenerne conto in tutte le iniziative a favore di
Musil.
Zeis sapeva quale opinione io avessi di Musil, e non appena
si era convinto della profondità e della saldezza della mia stima
ne aveva parlato con lui, il quale esaminava scrupolosamente
ogni forma di ammirazione prima di accettarla. Franz Zeis doveva
sempre sottoporsi a un'indagine rigorosa, e ogni volta che
riportava un commento, questo veniva messo sul bilancino ed era
per lo più giudicato insufficiente. Se però c'era anche il
minimo motivo per ottenere l'approvazione di Musil, Zeis non
mollava e lo metteva in evidenza. Gli intermediari si
dividono in due categorie. Gli uni fanno quello che possono per
inimicare le persone: riferiscono ogni osservazione negativa
isolandola dal contesto e ingrandendola, così da provocare reazioni
difensive - naturalmente ostili -, poi riportano anche queste e intensificano il
loro gioco
fino a gettare la discordia anche tra buoni amici. Costoro godono
del senso di potere che traggono dall'esercizio di tale gioco, e
a volte riescono addirittura a prendere il posto del vecchio amico
presso entrambe le parti. L'altra categoria, assai meno numerosa,
riferisce solo i commenti positivi, si sforza di attenuare
l'effetto delle reazioni ostili passandole sotto silenzio,
stimola la curiosità e a poco a poco anche la fiducia, finché
inevitabilmente viene il momento in cui le due persone,
avvicinate l'una all'altra con tanta pazienza, s'incontrano anche
nella realtà. Franz Zeis apparteneva a questa seconda categoria, e
credo che si preoccupasse sinceramente di mitigare un poco in Musil
il suo senso di isolamento e di procurare a me la gioia di
conoscerlo da vicino.
L'impresa era riuscita a Zeis quando aveva persuaso Musil ad
assistere alla mia lettura. Ma Zeis voleva anche darmi altri
ragguagli sulle reazioni di Musil, e la prima volta che
c'incontrammo questi ragguagli mi sorpresero non poco. Dapprima
Musil era sembrato stupito: "Ha un buon pubblico" aveva detto
accennando alla presenza di persone come Ernst Bloch e Otto
Stoessì, lo scrittore. Ne era impressionato. Ma poi, durante la
lettura del "Buon padre", aveva afferrato improvvisamente i
braccioli della poltrona e aveva detto al suo accompagnatore: "Sa
leggere meglio di me!". Non era assolutamente vero, tutti
sapevano che Musil era un lettore eccellente, ma la cosa curiosa non
era il contenuto della sua osservazione, bensì la forma in cui la
esprimeva. Era una prova di quello che in seguito mi colpì
profondamente in lui come elemento agonistico. Musil si misurava
sugli altri, anche una lettura era per lui l'equivalente
dell'agone presso i greci antichi. Tutto questo mi sembrò quasi
assurdo, non mi sarei mai sognato di volermi misurare con lui, che
collocavo tanto più in alto di me. Ma forse, dopo la severa
umiliazione dell'anno prima, per me era diventata una necessità senza che allora me ne rendessi conto - scendere in gara davanti ad
ascoltatori migliori e infine vincere la prova.
NOTE:
(1) Kokoschka fece tre ritratti, nel 1911, 1916 e 1924 al dottor
Hermann Schwarzwald, marito della pedagoga Eugenie Schwarzwald, che
aveva
aperto nel 1903 una "scuola di coeducazione" ?N" d'T"*.
(2) Thomas Münzer als Theologe der Revolution ("Thomas Münzer
teologo della rivoluzione") è il titolo del libro che il filosofo
Ernst Bloch aveva dedicato nel 1922 al pastore luterano tedesco, uno
degli ispiratori dei movimento anabattista. Münzer si mise alla
testa dei contadini in rivolta, ma fu sconfitto, catturato e
decapitato nel 1525 ?N" d'T"*.
Funerale di un angelo
Da quasi un anno la spingevano in giro sulla sedia a
rotelle, tutta agghindata, dipinta con ogni cura, una preziosa
coperta sulle ginocchia, il viso cereo animato da una fiducia
apparente, sebbene in realtà non avesse più alcuna speranza. La
voce non aveva sofferto, era rimasta quella degli anni innocenti,
quando la ragazza accorreva a passettini, come una cerbiatta, e
offriva a tutti i visitatori l'immagine in negativo di sua madre. Il
contrasto, che era sempre apparso incredibile, adesso era
diventato ancora più forte. La madre continuava la vita alla
quale era avvezza, ma le pareva di essere migliore per la
disgrazia che aveva colpito la figlia adorata. La figlia era
ancora in grado di dire "sì", e, paralizzata com'era, le
trovarono un fidanzato.
Doveva essere un fidanzamento utile. La scelta cadde sul giovane
segretario del Fronte Patriottico, un protetto del professore
di teologia morale che pilotava il cuore della principesca
primadonna della Hohe Warte. Il segretario, che non si faceva
scrupolo di fidanzarsi con una creatura cui restava poco da vivere,
si muoveva liberamente per la casa quando andava a trovare
l'inferma, e così, accanto alla sedia a rotelle, conobbe tutte
le celebrità che venivano in visita per lo stesso scopo. Si
parlava molto di lui, nonché del suo ghigno compiacente, dei
suoi vezzosi inchini, della sua voce uggiolante. Era diventato un
personaggio: il giovane di belle speranze, sconosciuto fino al
giorno prima, che sacrificava se stesso, la propria presenza, il
suo tempo sempre più prezioso per dare a quell'angelo l'illusione
di una possibile guarigione. Al tempo del fidanzamento, infatti,
c'era ancora speranza che potesse arrivare al matrimonio.
Faceva impressione la scena del giovane in smoking che baciava
la mano alla fidanzata. "Bacio la mano" è un modo di dire che
ricorre spesso a Vienna, i viennesi l'hanno sempre sulle labbra,
e per lui era diventato un modo di fare altrettanto frequente.
Quando poi si rialzava - con la felice sensazione di sapere che
tutti l'avevano visto in quell'atto, che lì non si faceva niente
per niente, che tutto veniva segnato a suo credito, e in
particolare un baciamano su quella mano -, quando si rialzava,
indugiando un poco in quell'incantevole inchino davanti alla
paralitica, allora lui si faceva garante per tutt'e due, e c'era
gente che, come la madre, credeva in un miracolo e diceva: Vedrete,
guarirà. E" così felice del suo fidanzato che la felicità la farà
guarire".
Ma c'erano anche quelli che assistevano nauseati e indignati
a quel gioco obbrobrioso e coltivavano ben altre speranze.
Essi, e io con loro, si auguravano una cosa sola: che il fulmine
si abbattesse sulla madre e sul promesso sposo e li lasciasse
entrambi paralizzati, nello stesso istante, senza ucciderli,
paralizzati, e che lo spavento facesse balzare in piedi dalla
carrozzella l'inferma, guarita. Al suo posto, da quel momento, sulla
sedia a rotelle sarebbe finita la madre, e l'avrebbero spinta
in giro, anche lei tutta agghindata, il viso dipinto con cura, la
preziosa coperta sulle ginocchia, mentre il promesso sposo, fissato
in posizione eretta su speciali rotelle, sarebbe stato trascinato con
una catena verso di lei e si sarebbe sforzato di ripetere il
baciamano e l'inchino, diventati ormai impossibili per lui e
comunque, adesso, destinati non più alla giovane ma alla vecchia.
In verità la ragazza avrebbe impegnato tutta se stessa, la sua
purezza e la sua bontà, per regalare alla madre la propria
guarigione e per sostituirsi a lei ritornando allo stato di prima,
ma un ostacolo insormontabile sarebbero stati i continui e
sempre vani tentativi del fidanzato di inchinarsi e di baciare
quella mano: così, alla fine, tutti e tre si sarebbero irrigiditi
in un gruppo di statue di cera che a volte si metteva in moto
grazie a impulsi esterni e restava a raffigurare per l'eternità
la situazione che regnava alla Hohe Warte.
Ma la realtà non conosce giustizia, e fu il segretario a recarsi
col suo smoking impeccabile nella chiesa di
Heiligenstadt, dove assistette al rito funebre stando appoggiato a
un pilastro. Fu la fine del suo fidanzamento con Manon Gropius: lei
era morta, come si prevedeva, e lui, invece di andare a nozze,
dovette accontentarsi di un servizio funebre.
La seppellirono nel cimitero di Grinzing. Anche da questa
occasione fu spremuto quanto più si poteva. Ci andò tutta Vienna,
ossia la Vienna che usava ritrovarsi ai ricevimenti della Hohe
Warte. Ma ci andarono anche persone che morivano dalla voglia
di essere invitate alla Hohe Warte e non avevano mai potuto
mettervi piede: non si poteva mica usare la forza per tenerle
lontane dal funerale. Una lunga fila di automobili salì verso il
cimitero sulla piccola strada, che in realtà non era una strada ma
solo un sentiero. In quelle condizioni, non si poteva pensare che
un'automobile superasse l'altra solo perché gli occupanti
volevano assicurarsi un posto d'onore. Le posizioni di partenza
dovettero essere rispettate quando la lunga fila si avviò
lentamente su per la collina.
Io ero con Wotruba e Marian in una di quelle automobili, un taxi.
Marian, al colmo dell'eccitazione, non si stancava di aizzare lo
chauffeur gridandogli negli orecchi: "Ma si decida a superare!
Dobbiamo portarci avanti! Non è capace di superare? Siamo troppo
indietro! Dobbiamo portarci avanti! E si decida una buona volta!".
Le sue frasi erano come frustate, ma non cadevano su un cavallo, e lo
chauffeur diventava sempre più placido quanto più lei lo incitava.
"Non si può, gentile signora, non si può". "Si deve potere," gridava
Marian "dobbiamo portarci avanti". Era così agitata che scoppiò in
singhiozzi: "Non possiamo finire tra gli ultimi! Oh, che vergogna,
che vergogna!".
Io non l'avevo mai vista in quello stato, e neanche Wotruba.
Da tempo il mio amico cercava di ottenere l'incarico per un
monumento a Gustav Mah
-ler. Gli chiedevano di sottoporre un altro bozzetto e poi un
altro e un altro ancora. Lo tenevano a bada con i pretesti più
futili. Anna, la sua allieva, si era battuta con tutte le sue
forze perché la madre si pronunciasse a favore di Wotruba. Carl
Moli, il pittore, (1) era corso a destra e a sinistra: era
stato lui a prodigarsi a suo tempo per Kokoschka e adesso
faceva altrettanto per Wotruba. Ma sempre, all'ultimo momento,
c'era qualcosa che non andava. Io avevo molti sospetti sulla vedova
onnipotente, ed era proprio lei, infatti, a sabotare la candidatura
di Wotruba per il monumento. Wotruba le piaceva, ma poiché Marian
era sempre lì tra i piedi, la vecchia Mahler aveva poche
probabilità di sedurlo. Andava a trovarlo all'atelier portando
sotto braccio delle enormi mortadelle, ma poi doveva ritirarsi
delusa e diceva alla figlia: "No, non va bene per Mahler. In fondo
è solo un proletario". Marian, intanto, andava all'assalto di tutti
gli uffici pubblici di Vienna che potevano influire anche
minimamente sulla decisione. La sua passione per il "Mahler" lei e Fritz, parlando tra loro, chiamavano così il monumento raggiunse una punta massima mentre il taxi ci portava all'inumazione
di Manon Gropius, la quale in verità, dopo le molte e complicate
relazioni coniugali di sua madre, aveva ben poco a che fare con
Mahler, e adesso, da morta, niente del tutto.
Marian Wotruba continuava a smaniare, e poiché le
automobili procedevano molto lentamente aveva il tempo di
sfogarsi: "Adesso si può! Provi adesso! Dobbiamo portarci avanti!
Insomma, faccia qualcosa! Se no arriviamo ultimi! Dobbiamo
portarci avanti!". Wotruba mi guardava come se volesse dire: "Fa
presto a parlare, questa qui", ma non osava aprir bocca per
timore che Marian lasciasse stare lo chauffeur e scaricasse la sua
rabbia su di lui. Del resto neanche lui poteva restare
indifferente. Senza dubbio avrebbe preferito trovarsi ben più
avanti, e quindi più vicino al monumento a Mahler. Per uno
scultore il nesso fra tombe e monumenti ha qualche cosa di
irresistibile. Un cimitero è certamente il primo agglomerato di
pietre di tale genere che ha mai veduto, e quando si tratta della
figliastra postuma dell'uomo da onorare con un monumento, il
nesso diventa indissolubile.
Non so più come scendemmo dal taxi. Marian deve averci spinti
avanti attraverso la fitta schiera dei fortunati dolenti, perché
alla fine, malgrado tutto, ci trovammo in prossimità della fossa
aperta, e io udii lo struggente discorso di Hollensteiner, l'uomo
che allora regnava nel cuore della madre in lutto. Costei piangeva,
e le sue lacrime mi colpirono perché avevano anch'esse dimensioni
non comuni. Non
erano troppe, ma Alma riusciva a piangere in modo che le
lacrime, scendendo, confluissero in formazioni di eccezionale
volume. Non mi era mai accaduto di vedere lacrime così grosse,
simili a enormi perle, a un prezioso ornamento; e non si poteva
guardare senza prorompere in esclamazioni di meraviglia di fronte
a tanto amore materno.
Certo, la povera ragazza aveva sopportato la terribile prova
con una sovrumana pazienza che Hollensteiner non mancò di descrivere
eloquentemente, ma quanto crudele era mai stata la prova per
quella madre, che aveva visto e sofferto tutto, per un anno intero,
davanti agli occhi del mondo, che venne sempre tenuto al
corrente; sì, molte cose erano accadute nel mondo in quei mesi,
altre madri erano state uccise, i loro figli erano morti di fame,
ma nessuna aveva sofferto quello che soffriva la povera Alma,
un'anima che rappresentava tutte le altre e soffriva per l'universo
intero, e non crollava, neanche adesso, nemmeno davanti alla
tomba. Una formosa penitente, anche se molto invecchiata,
stava lì davanti a tutti, più Maddalena che Maria, adorna non di
contrizione ma di turgide lacrime, sfarzosi esemplari, quali
nessun pittore ha ancora saputo dipingere. A ogni parola
dell'orazione funebre tenuta dal suo amico, altre lacrime si
agglomeravano e infine penzolavano come grappoli da quelle guance
carnose. Così voleva essere vista, e così la videro, e ognuno
dei presenti si sforzava di farsi vedere da lei. Per questo erano
venuti, per tributare al suo dolore il pubblico riconoscimento che
gli spettava. Era giusto, era bello essere stati al funerale,
aver partecipato a una delle ultime grandi giornate di Vienna,
prima che finisse barcollando nell'abisso e fosse dichiarata
provincia dai nuovi padroni.
Ma ci furono anche altri che si misero in vista in
quell'occasione, un po'"in disparte ma non tanto da passare
inosservati. A costoro non bastava partecipare alla gloria della
madre duramente provata, e infatti riuscirono a dare spettacolo del
proprio dolore, un dolore personale ma certamente non meno
pubblico. Su un tumulo fresco, in un punto elevato, un tantino
appartato ma nemmeno troppo, era inginocchiata e immersa in
fervida preghiera la vedova di Jakob Wassermann, lo scrittore
morto un anno prima quasi ancora al culmine della fama. Si era
scelta con cura il suo tumulo, che era ben visibile da ogni
parte. Le mani scarne, unite nella preghiera, tremavano ogni
tanto per la commozione, mentre gli occhi, austeramente chiusi, non
vedevano nulla del mondo, nonostante l'ardente desiderio di
constatare l'effetto di quel suo isolamento. Un po'"meno
d'austerità, e ci avresti creduto davvero. Il viso sottile, in
quella posa di fervida preghiera, doveva somigliare al viso di una
contadina macilenta, e il cappellino, con saggia preveggenza, aveva
una forma che ricordava un fazzoletto da testa. Tutta la scena era
un filo troppo caricata: se il tremito delle mani fosse stato meno
frequente, se gli occhi si fossero aperti di tanto in tanto, se la
tomba da poco ricoperta di terra - e non occorreva certo che fosse la
tomba del povero angelo - non si fosse trovata in un punto così
palesemente favorevole, si sarebbe anche potuto prendere per buona
tutta quella commozione. Ma non ci si poteva fidare di
un'ostentazione così insistita, e non ci si chiedeva nemmeno a chi
fossero destinate le preghiere di Martha: erano per suo marito che,
gravemente malato di cuore, si era ammazzato di lavoro; erano per
il povero angelo, al quale anche le untuose parole di
Hollensteiner e le lacrime colossali della madre non potevano più
nuocere; o magari per gli scarabocchi letterari della stessa
Martha, la quale si riteneva più brava di suo marito e, dopo essere
rimasta vedova, si era cacciata in testa di dimostrarlo al
mondo.
Per quanto fosse penoso tutto lo spettacolo inscenato nel
cimitero di Grinzing, mi rifeci con quei due personaggi: con Martha
Wassermann, che vidi benissimo nel momento in cui stava per
inginocchiarsi, ma non quando si rialzò; e con la madre, che si
dedicava con cuore inesausto alla produzione di ponderose
lacrime. Mi sforzai di non pensare alla vittima che tutti avevano
amato.
NOTE:
(1) Carl Moli (1861-1945), uno dei promotori della Sezession, era
il patrigno di Alma, avendone sposato la madre, Anna Bergen
vedova Schindler. Fu uno dei testimoni alle nozze di Alma con
Gustav Mahler. Sulla sua morte, Alma scrisse nell'autobiografia:
"Come tanti nazisti che a Vienna avevano occupato posti di primo
piano, Carl Moli, sua figlia e suo genero si giustiziarono da sé
poco prima che i russi entrassero nella città" ?N" d'T"*.
La suprema autorità
A metà di ottobre del 1935 uscì Die Blendung. Un mese prima ci
eravamo trasferiti nella Himmelstrasse, a mezza collina, tra i
vigneti di Grinzing. Era una doppia liberazione: sfuggivo alla
tetra atmosfera della Ferdinandstrasse e nello stesso tempo avevo tra
le mani il romanzo che si era nutrito degli aspetti più cupi di
Vienna. La Himmelstrasse, dove
ora abitavamo, saliva verso una località chiamata "Am Himmel", e
questo nome mi metteva addosso un tale buonumore che Veza mi fece
stampare della carta da lettere su cui come indirizzo non era
scritto Himmelstrasse 30 bensì "Am Himmel 30". (1)
Veza accolse il trasferimento e la pubblicazione come una
salvezza dal mondo del romanzo, che le aveva sempre dato un senso
di disagio. Sapeva che non l'avrei mai ripudiato, e fintanto
che il pesante manoscritto era in casa mia lo temeva come un
pericolo. Era convinta che con la pubblicazione qualcosa si fosse
allentato dentro di me e che le mie possibilità di scrittore
fossero meglio rappresentate dalla Commedia della vanità, che
lei preferiva agli altri miei scritti. Con molto tatto, credendo
che non me ne accorgessi, cercò di sapere quali erano le persone
a cui mandavo una copia del romanzo con la dedica. Quando vide
che erano poche, neanche una dozzina, ne fu contenta. Era convinta
che l'invio avrebbe irritato la gente. Non si poteva evitare che i
critici mi saltassero addosso, ma almeno non mi sarei giocato
l'amicizia di coloro, e non erano moltissimi, che mi
conoscevano bene e che avevano una certa opinione di me, come
sarebbe avvenuto se avessero letto un libro così opprimente.
Veza mi faceva lunghi discorsi sulla differenza tra le letture
pubbliche e la lettura personale. Per le mie letture pubbliche
avevo scelto, oltre al "Buon padre", che ormai era un pezzo
d'obbligo, "La passeggiata" (il primo capitolo) e alcuni brani
della seconda parte: "Il paradiso ideale" e "La gobba". Qui il
protagonista era Fischerle, la cui arroganza maniacale aveva sempre
un effetto contagioso. Ma anche "Il buon padre" riusciva a toccare
gli ascoltatori ispirando un po'"di compassione per la figlia
perseguitata. Più d'uno avrebbe forse voluto leggere il resto della
storia, ma il romanzo restava inedito e dopo qualche anno tutti
avevano capito che inedito sarebbe rimasto: così, nessuno
era costretto a sorbirsi la descrizione della lotta tra Kien e
Therese, insopportabile nella sua minuziosità. Nessuno aveva
motivo di prendersela con l'autore e la gente veniva ad ascoltare
la lettura successiva, che confermava l'opinione precedente.
Nei ristretti ambienti di Vienna che si interessavano a una
letteratura meno tradizionale aveva cominciato a diffondersi
un'ingannevole reputazione che adesso, con l'uscita del libro,
avrebbe ricevuto un colpo mortale.
Da parte mia non avevo alcun timore, come se tutte le paure se
le fosse accollate Veza. Ogni rifiuto da parte delle case
editrici aveva semplicemente rafforzato la mia fede nel romanzo.
Ci credevo con una sicurezza assoluta, anche se non per il presente.
Non so da che cosa traessi tanta sicurezza. Forse ci si difende
dall'ostilità dei contemporanei decidendo fermamente di affidare il
giudizio ai posteri. Cadono così tutti i dubbi meschini, tutti
gli scrupoli. Non cerchi più di immaginare che cosa potrebbe dire
questo o quello. Poiché niente dipende da lui, non vuoi nemmeno
immaginare la sua reazione. E non pensi neppure a ciò che i
contemporanei di allora hanno detto dei libri degli scrittori che
ami. I vecchi libri con cui vivi, li consideri in sé e per sé,
sciolti da tutte le meschinità in cui i loro autori si dibattevano
da vivi. In molti casi è addirittura come se i libri stessi
fossero diventati delle divinità. Ciò significa non solo che
esisteranno per sempre, significa anche che sono sempre esistiti.
Ma questa consolante sicurezza in
una posterità non è assoluta. Anche per essa vi sono dei
giudici, e non è facile trovarli. Qualcuno può avere la
disgrazia di non incontrare mai l'uomo da eleggere, con la
coscienza tranquilla, come giudice della posterità. Io avevo
incontrato un uomo simile, e il suo prestigio era diventato così
grande ai miei occhi, dopo un anno e mezzo di lunghi colloqui
quotidiani, che a lui avrei riconosciuto anche il diritto di
pronunciare una condanna a morte per il mio romanzo. Ho vissuto
cinque settimane aspettando il suo giudizio.
Gli mandai il libro con una dedica che lui solo poteva capire:
"Al Dr" Sonne, più ancora per me. E" C""
Nelle altre copie, quelle per Broch, per Alban Berg, per Musil,
non lesinai le espressioni di ammirazione: vi si poteva leggere
chiaro e tondo ciò che veramente provavo per loro, ben
comprensibile per ognuno dei destinatari. Col dottor Sonne era
diverso. Poiché tra me e lui non vi era mai stata una parola che
sapesse di "privato", non avevo mai osato neanche dirgli quanto io
l'ammirassi. In presenza di altre persone non pronunciavo mai il
suo nome senza farlo precedere dal "dottor", e ciò non
significava assolutamente che quel titolo avesse per me qualche
valore, dal momento che a Vienna, su due persone che incontravi, una
era "dottore": la parola non era più che una pleonastica
espressione di rispetto. Non buttavi fuori quel nome di colpo, gli
preparavi la strada con qualcosa di neutro, di incolore. Era anche
un modo di far capire che con quel nome nessuno aveva il diritto
di prendersi confidenze, quel nome restava sempre alla stessa
distanza da chiunque, intangibile e remoto; e se poi, subito
dopo il "dottor", veniva una parola sacra come Sonne, luminosa,
fiammeggiante, alata, origine e - come a quel tempo si credeva
ancora - fine di ogni forma di vita; se quel nome non diventava
moneta corrente nonostante la sua rotondità e la sua semplicità,
il merito andava a quel prenome che ristabiliva le distanze.
Nemmeno io pensavo quel nome in maniera diversa, davanti a me
come davanti a chiunque altro era sempre "dottor Sonne"; e
soltanto adesso, dopo quasi cinquant'anni, il titolo accademico mi
appare troppo esteriore e formale per questo nome; soltanto adesso,
scrivendo, mi permetto di non ripeterlo ogni volta.
A quel tempo il destinatario della dedica, lui solo, poteva
capire che per me lui contava più del sole. Era anche l'unico
davanti al quale il nome dell'autore si riduceva alle sole
iniziali, quasi scomparendo. La calligrafia, per la grandezza
delle lettere, rimaneva incorreggibilmente orgogliosa: l'autore non
era uno che volesse scomparire, anzi sfidava finalmente il
pubblico con quel libro che da anni viveva solo un'esistenza
clandestina. Ma l'autore era pronto a scomparire davanti a colui
che aveva a cuore soltanto il pensiero, e non se stesso.
In un pomeriggio di metà ottobre, al Café Museum, consegnai
al dottor Sonne il libro che egli non aveva mai visto in forma di
manoscritto, il libro del quale non gli avevo mai parlato, del
quale conosceva un unico capitolo, isolato, grazie alla lettura di
quella serata. Forse ne aveva saputo qualcosa di più da altri, da
Broch o da Merkel. L'opinione di Broch nelle questioni letterarie
avrebbe potuto avere qualche peso per lui, ma neanche quella
sarebbe stata decisiva. Il dottor Sonne si fidava solo del
proprio giudizio, ma si sarebbe ben guardato dall'esprimersi in
termini così presuntuosi. Da quel momento continuai a vederlo
ogni giorno, come sempre. Ogni pomeriggio entravo al Café Museum,
mi sedevo al suo tavolino, e lui non faceva mistero di avermi
aspettato. Continuavano tra noi le conversazioni che a trent'anni
mi avevano fatto rinascere. Niente era cambiato, ogni conversazione
era certamente nuova, ma non nuova in maniera diversa da prima.
Dalle sue frasi non trapelava nessun indizio di una lettura del
romanzo. Su questo argomento egli taceva tenacemente, e io lo
assecondavo. Ardevo dalla voglia di sapere se aveva cominciato,
almeno cominciato, ma non glielo domandai una sola volta. Mi ero
abituato a rispettare ogni ambito del suo silenzio, perché solo
quando prendeva inaspettatamente a toccare un argomento era davvero
all'altezza di se stesso. La sua autonomia, e lui sapeva
difenderla nel modo più trasparente, senza mai ricorrere alla
forza, ti insegnava a capire che cos'è l'autonomia intellettuale,
e ciò che
avevi imparato da lui era qualcosa che non potevi trascurare, meno
che mai davanti a lui.
Passarono le settimane, e io dominavo la mia impazienza. Un suo
giudizio negativo, per quanto enunciato nella maniera più
circostanziata, per quanto motivato con argomentazioni
stringenti, mi avrebbe annientato. Era l'unica persona cui
riconoscevo il diritto di pronunciare una sentenza di morte
intellettuale nei miei riguardi. Ma lui taceva, e Veza, alla
quale non potevo nascondere una cosa così importante, mi
domandava una sera dopo l'altra, quando ritornavo nella
Himmelstrasse: "Ha detto niente?". Io rispondevo: "No, credo che
ancora non abbia avuto il tempo di dare un'occhiata". "Macché
tempo e tempo! Ma se
ogni giorno se ne sta due ore con te al caffè!". Quando io
cercavo di darmi un contegno e dicevo distrattamente: "Ma non
ha importanza. Abbiamo già discusso di molte Blendungen"; (2)
quando tentavo di sviare il discorso in questo o in altri modi,
Veza andava in collera e inveiva: "Sei diventato uno schiavo!
Che tu fossi disposto ad accettare un padrone, non me lo sarei mai
immaginato. Guarda che cosa mi tocca vedere! Adesso il libro è
uscito, finalmente, e tu sei
uno schiavo!".
Sicuramente non ero schiavo di Sonne. Se avesse fatto o detto
qualcosa di spregevole, non l'avrei più seguito. Da lui non avrei
accettato qualcosa di volgare o di indegno, da lui meno che mai. Ma
ero certissimo che era incapace di una sciocchezza o di una
volgarità. Agli occhi di Veza questa fiducia, assoluta anche se
vigile, diventava schiavitù. Lei conosceva molto bene questo stato,
perché era ciò che provava per me. Si riteneva
giustificata in questo sentimento dalle opere, e adesso ce ne
erano finalmente tre di qualche valore. Ma quali erano le opere del
dottor Sonne? Se esistevano, era molto abile nel nasconderle a
tutti. Perché le nascondeva? Non gli sembravano degne delle poche
persone con cui aveva rapporti? Veza sapeva perfettamente che il
ritegno era la qualità che Broch, Merkel e altri ammiravano
più di ogni altra nel dottor Sonne. Ma che adesso spingesse
questo ritegno fino al punto di non dire una parola sul romanzo, di
tacere per settimane nonostante i nostri incontri giornalieri,
questo per Veza
era disumano. Lei non faceva complimenti e non aveva
riguardi per la mia sensibilità. Attaccava Sonne in tutti i modi
possibili. Quando parlava di lui, sembrava che andasse in fumo
l'umorismo di cui era più che provvista. Poiché lei stessa non
era molto sicura del romanzo, temeva che il silenzio di Sonne
equivalesse a una condanna, e non si faceva illusioni sull'effetto
che quella condanna avrebbe avuto su di me.
Un pomeriggio, al Café Museum, avevamo appena avuto il tempo di
salutarci e di sederci quando Sonne disse subito, senza fare alcuna
premessa, senza preamboli o parole di scusa, che aveva letto il
romanzo. Volevo sapere che cosa ne pensava? Ne parlò per due ore,
quel pomeriggio non si parlò d'altro. Esaminò il romanzo a fondo,
chiarendone il contenuto e individuando una serie di connessioni
di cui io non avevo mai sospettato la presenza. Lo trattò come un
libro che esisteva già da tempo e che avrebbe continuato a esistere.
Ne spiegò le origini e ne indicò gli sbocchi. Se si fosse
limitato a generiche frasi di apprezzamento, avrei già
potuto dirmi felice, dopo cinque settimane di dubbi, di fronte
alla serietà del suo consenso; ma Sonne fece molto di più,
soffermandosi su particolari che io avevo scritto ma non avevo
motivato, e spiegandomi perché erano giusti e non potevano essere
diversi da come erano.
Parlò come se stesse facendo un viaggio di esplorazione, e mi
portò con sé. Imparai da lui come se io fossi qualcun altro, non già
l'autore: ciò che mi mostrava era così sorprendente che quasi non
l'avrei riconosciuto come cosa mia. Era già stupefacente
la padronanza con cui dominava ogni minima sfumatura, come
se si trattasse di un vecchio testo che commentava davanti a
una scolaresca. La distanza che stabiliva così tra me e il libro
era maggiore di quella creata dai quattro anni in cui il
manoscritto era rimasto nel cassetto. Vedevo davanti a me
una struttura coerente, meditata in ogni particolare, che
aveva in sé la sua dignità non meno che la sua giustificazione. Ero
affascinato da tutte le sue considerazioni, perché ognuna mi
colpiva come qualcosa di inaspettato, e desideravo soltanto che
non smettesse più di parlare.
Solo a poco a poco mi resi conto che il suo discorso aveva
anche uno scopo: Sonne vedeva chiaramente che il libro avrebbe
avuto un destino difficile e voleva armarmi contro gli attacchi che
non sarebbero mancati.
Dopo aver detto un'infinità di cose dalle quali non affiorava
ancora il suo intendimento, si dispose finalmente a formulare gli
attacchi ai quali bisognava essere preparati. Disse tra l'altro che
qualcuno avrebbe visto nel libro l'opera di un vecchio asessuato.
Mi dimostrò il contrario, adducendo con precisione le prove.
Altri sarebbero insorti contro Fischerle, perché era ebreo, e
avrebbero accusato l'autore di aver creato un personaggio che
poteva essere sfruttato a favore delle idee venefiche che
circolavano in quegli anni. Ma il personaggio era autentico, come
erano autentici l'ottusa governante venuta dalla campagna e il
portinaio violento. Passata la catastrofe, tutte le etichette di
questo genere sarebbero cadute di dosso ai personaggi, che
sarebbero rimasti a rappresentare ciò che alla catastrofe aveva
portato. Cito fra i tanti solamente questo particolare, perché
in seguito, col procedere degli eventi, mi accadde spesso di
sentirmi a disagio per Fischerle, e allora cercavo sempre rifugio
in quella precoce giustificazione.
Ma infinitamente più importanti erano i nessi profondi che Sonne
mi svelava. Preferisco non parlarne. Nei cinquant'anni trascorsi da
allora molti di quei nessi sono stati oggetto di discussione. In
libri e saggi si sono dette cose che Sonne aveva chiarito fin da
allora. E" come se un libro nascondesse in sé un serbatoio di
segreti al quale si attinge a poco a poco finché tutti sono
scoperti e consumati. Questo momento finale mi fa paura, ma non è
ancora arrivato. Conservo ancora dentro di me, intatta, una buona
parte del tesoro che Sonne mi consegnò quel pomeriggio; e se ancora
adesso ogni reazione seria suscita in me un moto di curiosità - di
cui alcuni si stupiscono -, ciò dipende da quel tesoro, l'unico
nella mia vita che posso dominare con lo sguardo e amministro
consapevolmente.
I rimproveri che mi vengono fatti ancora oggi da lettori furibondi
non mi toccano veramente, neanche quando si tratta di persone che
amo per la loro innocenza e che proprio per questo ho cercato di
dissuadere dalla lettura. A volte, con preghiere insistenti,
riesco a tenerne lontano qualcuno. Ma anche agli occhi di certi
buoni amici che non vogliono più vedersi proibire questa lettura,
accade che dopo io non sia più lo stesso. Intuisco allora che
essi cercano in me il male di cui il libro è pervaso. So anche che
non lo trovano, perché il male che adesso ho dentro di me non è più
quello di allora, ma un altro. Io non posso aiutarli a uscire
dalle loro perplessità: infatti, come potrei spiegare loro che
Sonne mi ha tolto di dosso quel male, estraendolo, davanti ai
miei occhi, da tutte le giunture e fessure del libro, per
ricomporlo fuori di me, a una distanza che significa salvezza?
NOTE:
(1) Himmelstrasse vuol dire "via del cielo" e Am Himmel "In
cielo" ?N" d'T"*.
(2) Plurale di Blendung, "accecamento" ?N" d'T"*.
Parte quarta - Grinzing
Himmelstrasse
Nella mia ricerca di ciò che non era in vendita, mi imbattei a
Grinzing nella signorina Delug, che per tre anni sarebbe stata la
nostra padrona di casa. L'appartamento, il più bello che avessi
mai avuto, lo occupammo provvisoriamente, in attesa che si facesse
avanti qualcuno disposto a pagare un affitto per tutti i locali che
lo componevano. Noi avevamo diritto a quattro stanze, tra cui un
vasto atelier con relativa loggia a vetri, e le arredammo alla
meglio, mentre altri quattro locali rimasero vuoti. Quando
avevamo ospiti, li accompagnavamo in giro per tutto l'appartamento,
anche nelle stanze vuote, ed essi erano entusiasti della
posizione, dell'ampiezza e del numero di quei locali, della vista
che si godeva da ciascuno.
Erano pochi quelli che non ci avrebbero invidiato le stanze
vuote, che però non erano in vendita. L'onestà inflessibile
della signorina Delug era la nostra difesa. Ci aveva affittato le
quattro stanze a una condizione: se qualcuno avesse voluto
l'appartamento intero, che era piuttosto caro, noi dovevamo
sloggiare. Altrimenti restavamo gli unici inquilini, perché la
signorina Delug si rifiutava di prenderne altri da mettere con
noi. Le proposte non le mancavano, ma lei non ce le comunicava
nemmeno e noi ne venivamo a conoscenza per altre vie. Diceva "no"
senza esitare, rinunciando così a un secondo affitto dello stesso
importo del nostro. Non era nei patti, diceva lei, sicuramente non
sarebbe stato corretto nei nostri riguardi. Era una donna di
poche parole, ma una delle più frequenti era "corretto", che
lei pronunciava in modo gutturale, da tirolese qual era. Il suono
della sua voce mi ricordava la Svizzera, e bastava questo a
rendermela simpatica. Il gigantesco mazzo di chiavi si portava
appresso una persona minuta: per quante stanze ci fossero in
quell'edificio, progettato in origine per diventare un'accademia,
stanze vuote e stanze abitate, in tutte la signorina Delug
faceva la sua ronda quotidiana, salvo i casi in cui, temendo di
disturbare, si annunciava cautamente il giorno prima; ed era quello
che faceva con noi. Nell'edificio, tutto aveva grandi
proporzioni, e già l'androne e la scalinata con i comodi gradini
bassi ti davano l'impressione di entrare in un castello. Ma non
c'era un signore a comandare, bensì quella piccola signorina,
curva e canuta, che si lasciava rimorchiare dal suo mazzo di
chiavi ed emetteva ogni tanto, fin troppo raramente, quelle
poche parole gutturali che suonavano aspre ma volevano essere piene
di riguardi.
Viveva tutta sola, io non vidi mai nessuno della sua famiglia,
forse aveva ancora dei parenti nel Tirolo meridionale, ma lei non
ne parlava, non diceva una parola da cui si potesse desumere un
legame qualsiasi con altre persone. Noi la vedevamo solo dentro la
casa e nell'orto, mai nella Himmelstrasse, che scendeva a
Grinzing, mai in una bottega: sembrava che non
uscisse a fare la spesa, e portava una borsa solo quando
andava a cogliere gli ortaggi. Arrivammo alla conclusione che la
signorina Delug viveva di verdura e di frutta, mentre il latte se lo
faceva portare dall'inquilino che abitava nello scantinato, nella
parte posteriore della casa, di fronte all'orto, e che forse
provvedeva anche all'acquisto del pane. La signorina
abitava nella torre, in una grande stanza che Veza aveva occasione
di vedere solamente quando saliva a pagare l'affitto. Lì c'era
una quantità di cose vecchie, forse provenienti da una bella casa del
Tirolo, ma tutte addossate le une alle altre, in parte nascoste alla
vista, in un disordine poco accogliente, come se si fosse dovuto
accatastarle alla rinfusa perché non c'era altro posto,
sebbene poi nell'edificio ci fossero non poche stanze, molto
grandi, che restavano completamente vuote. Quello era il centro,
l'ufficio per così dire, dal quale la signorina Delug cercava di
tenere insieme il "castello", ed era un impegno ben superiore alle
sue forze. L'edificio era sorto più di vent'anni prima e già aveva
bisogno di riparazioni in ogni angolo. La signorina doveva far
fronte a quelle spese con gli affitti degli appartamenti, poiché suo
fratello, il pittore Delug, verosimilmente aveva dato fondo a tutte
le proprie sostanze per costruire l'accademia, il sogno della sua
vita. Lei non ne parlava mai. Non si lamentava mai. Si limitò ad
accennare, una volta, che c'erano tante riparazioni da fare. Come
una contadina pensa soltanto alla sua fattoria, così lei cercava di
tenere in piedi il sogno di suo fratello, ed era assolutamente sola,
ed è probabile che non avesse altro pensiero che quello.
L'imponente edificio, a mezza costa lungo la
Himmelstrasse, doveva diventare un'accademia di pittura, ma non
era mai servito al suo scopo. Delug
era morto subito dopo la fine dei lavori di costruzione, e il
compito di salvare l'accademia, di salvare almeno i muri, era caduto
sulle spalle della sorella. Erano stati ricavati sei grandi
appartamenti da dare in affitto, tre per ogni ala, ma c'erano anche
costruzioni annesse e discreti scantinati. Il giardino, che si
estendeva su tre lati, era suddiviso in diverse parti da belle
scalinate e arricchito di statue che dovevano far pensare a reperti
archeologici. Sul loro valore artistico si poteva anche non essere
d'accordo, ma tutto l'insieme, concepito a imitazione di un
giardino all'italiana, aveva una sua non comune attrattiva.
Poiché la proprietà si trovava in mezzo a terreni coltivati a
vigna, non stonava nel paesaggio, e proprio perché era
un'imitazione aveva il fascino dell'arte. Da una piccola terrazza
laterale, a cui si accedeva salendo una serie di gradini
sconnessi e coperti d'erba, si godeva la vista della pianura
del Danubio, che sembrava sconfinata, con la parte più
vicina occupata dalle case di Vienna.
Il luogo era già bello in sé, ma ciò che lo rendeva
soprattutto attraente era la sua posizione, esattamente a metà
strada tra il capolinea del tram 38 a Grinzing, in basso, e il
bosco che cominciava più avanti, in alto. Chi ne aveva voglia
poteva risalire la seconda metà della Himmelstrasse, passando
davanti a ville più modeste, fino a un punto panoramico, chiamato "Am
Himmel", che dominava Sievering e dopo il quale cominciava quasi
subito il bosco. Chi invece non sentiva il richiamo del bosco
poteva seguire la strada, non troppo larga, che descriveva un ampio
arco prima di arrivare al Kobenzi, da dove lo sguardo spaziava
ancora sul vasto panorama della pianura, mentre nelle vicinanze,
sopra i vigneti, si vedeva il superbo edificio dell'accademia,
nel quale avevo il privilegio di abitare.
Quasi di fronte all'accademia, un po'"più in basso lungo la
Himmelstrasse, abitava Ernst Benedikt, che fino a poco tempo prima
era stato proprietario e editore della "Neue Freie Presse". Era un
personaggio ricorrente nella "Fackel", e come tale lo conoscevo da
parecchio tempo, anche se non mi era familiare come suo padre,
Moritz Benedikt, che era veramente una delle bestie nere di Karl
Kraus. (1) Ci eravamo già trasferiti al nuovo indirizzo quando
venni a sapere di avere un vicino così malfamato, e sento
ancora il brivido d'orrore che provai allorché Anna Mahler, venuta
a ispezionare il mio nuovo e già celebrato atelier, mi indicò la
casa dei Benedikt. Eravamo sulla terrazza panoramica del giardino,
e io volevo farle ammirare la pianura del Danubio, poiché Anna aveva
una passione per le ampie visuali; ma lei, con mio grande stupore,
accennò in direzione di una casa assai vicina e disse: "Ma quella è
la casa dei Benedikt!". Vi era stata qualche volta, raramente,
perché non le interessava molto ciò che si faceva in quella casa.
In passato la "Neue Freie Presse" aveva esercitato un potere
notevole, ma adesso quello della madre di Anna era senza dubbio
maggiore. Probabilmente Anna sapeva che il nome dei Benedikt
aveva assunto qualcosa di demoniaco, essendo da tanti anni il
bersaglio della "Fackel", ma per lei questo non contava, poiché
nulla le era più estraneo della satira; si può anzi giurare che
non avesse letto fino in fondo non dico una pagina, ma neanche
una sola frase della "Fackel". Disse "casa dei Benedikt" come se
si trattasse di una casa qualsiasi, e si meravigliò non poco
vedendo che io, pungolato dalla sua innocente informazione e già in
preda a tutti i sintomi dell'orrore, cercavo di sapere di più
su quella pericolosa famiglia.
"Ma sono proprio loro?" domandai più di una volta. "E abitano
così vicino a noi?".
"Non avrai mica bisogno di vederli" disse Anna.
Voltai sgomento le spalle al panorama e ritornai
all'accademia. Preferivo qualunque cosa piuttosto che continuare ad
avere sotto gli occhi quella casa.
"Lui è un uomo poco interessante" disse Anna. "Ha quattro
figlie e suona il violino, neanche male, per dire la verità.
Parla troppo. Ma pochi gli danno retta. Vuol sempre far vedere
quanto è bravo, e in quanti campi, ma è piuttosto noioso".
"E pubblica la "Neue Freie Presse"?".
"L'ha venduta. Non ha più niente a che fare col
giornale".
"E adesso che cosa fa?".
"Scrive. Di storia".
Feci altre domande, ma senza uno scopo preciso. Volevo solamente
parlare per nascondere la mia agitazione, che però era troppo
grande per lasciarsi nascondere. In altri tempi doveva provare
qualcosa di simile un credente che veniva a sapere di avere per
vicino di casa un eretico, un essere col quale ogni contatto era
pericoloso - e subito dopo gli dicono che non si tratta di un
eretico, e neanche di qualcosa che comunque abbia a che fare con
la salvezza dell'anima, bensì di un personaggio innocuo che non
viene preso molto sul serio.
Ero troppo spaventato per lasciarmi portar via così presto un
personaggio che Karl Kraus aveva coltivato dentro di me per tanti
anni. Ma continuavo a fare domande perché non volevo che Anna
scoprisse la strana paura che quella specie di vicinanza abominevole
mi metteva addosso. Ma lei se ne accorse lo stesso. Non mi derise
perché in realtà non lo faceva mai con nessuno: era per lei qualcosa
di antiestetico, una forma di indiscrezione, e dopo le
esperienze fatte con sua madre ne rifuggiva
scrupolosamente. Ma doveva sembrarle poco dignitoso che io mi
soffermassi più di un attimo su quella vicinanza, e probabilmente
voleva anche calmarmi per dare un'altra piega alla conversazione,
perché di solito ci occupavamo di cose ben più interessanti e
importanti.
Per ritrovare il dominio di me stesso, ricorsi al solito
espediente. Misi al bando la casa dei Benedikt e non la vidi più. Del
resto la casa non era visibile dalla finestra della stanza in cui si
trovavano i miei libri e il tavolo al quale scrivevo. La stanza
dava sull'anticorte e la Himmelstrasse, mentre la casa dei Benedikt
sorgeva più in basso, un po'"di sbieco di fronte a noi, e aveva il
numero 55. Non si poteva vedere da nessuna finestra
dell'appartamento, neanche dalle stanze disabitate. Per poterla
notare, quella casa abominevole, bisognava scendere là dove il
giardino vero e proprio si allargava, e mettersi sulla terrazza
panoramica dove avevo accompagnato Anna. Dal giorno in cui avevo
udito la sua esclamazione, che per me era diventata una minaccia,
evitai la terrazza. In ogni modo questa si trovava un po'"in
disparte, e il giardino, che si estendeva tutt'intorno
all'edificio, era così vario e ricco di curiosità che si poteva
mostrarlo agli ospiti senza dover andare a finire su quella certa
terrazza. Quando poi scendevo per la Himmelstrasse e andavo in
paese, quasi sempre per prendere il tram, guardavo a sinistra,
senza neanche riflettere tanto, fino a quando avevo superato la
casa col numero 55.
Ci eravamo trasferiti all'accademia ai primi di
settembre, e per quattro mesi buoni, fino a inverno inoltrato,
quella precauzione fu sufficiente. Senza accorgermene, mi ero
fatto però un'idea precisa della forma della casa Benedikt.
Conoscevo la veranda aperta del primo piano, che dava sulla
strada, la posizione delle finestre, il tipo del tetto, gli
scalini che portavano all'ingresso: credo che nessun'altra casa dei
dintorni mi fosse entrata nella testa con tanta esattezza, avrei
potuto perfino disegnarla, io che sono sempre stato un pessimo
disegnatore - ma non guardavo mai in quella direzione. Guardavo
ogni volta verso sinistra, dall'altra parte; e per me resterà un
enigma il modo e l'occasione in cui mi ero fatto - prima di
mettervi piede - un'immagine così precisa della casa. Avevo bisogno
di quell'immagine per esorcizzarla.
Avevo informato Veza già durante la visita di Anna, e lei
aveva riso della mia paura. Veza subiva non meno di me il fascino
della "Fackel", ma solo fintanto che era seduta nella sala
davanti a Karl Kraus, non un attimo di più. Poi leggeva tutto
ciò che le interessava, incontrava le persone che voleva senza
lasciarsi soggiogare dagli anatemi di Kraus, e le giudicava per
quello che le apparivano, come se lui non ne avesse mai parlato.
Anche adesso, su quegli stramaledetti vicini, non aveva trovato
niente da ridire, anzi sembrava addirittura compiaciuta all'idea
che in quella casa abitassero quattro ragazze, appunto le figlie di
Ernst Benedikt, che la incuriosivano come tutte le ragazze di
quell'età. Dopo avere scherzato sulla mia paura, Veza volle sapere
se le ragazze erano carine, ma Anna non seppe dirle nulla di
preciso. Allora domandò se ce n'era una di cui potevo innamorarmi,
e Anna rispose che, secondo lei, non ce n'era nessuna, perché
erano tutte ochette con le quali non si poteva nemmeno parlare;
comunque avevano preso molto dalla madre, una donna amabile, senza
grandi pretese, e non da quello stravagante del padre. Veza mise
fine allo scherzo al momento giusto. Dopo aver fissato
chiaramente la sua linea di indipendenza anche in questa faccenda,
come in tutte, fece capire che non mi avrebbe negato il suo
sostegno; e quando poi le annunciai il mio esorcismo su
quella casa, promise di aiutarmi, evitando di complicare o
confondere le cose con la sua curiosità per le quattro ragazze.
Io stesso non mi arrovellai troppo a pensare che aspetto potevano
avere le ragazze. In ogni caso portavano in sé il contagio
maligno della "Neue Freie Presse", da cui discendevano.
Quando percorrevi la Himmelstrasse per scendere in paese,
ti accadeva spesso di incontrare le stesse persone alle stesse ore.
Tu eri in vantaggio su di loro perché camminavi più svelto, i loro
passi essendo rallentati dalla salita. Era come se si offrissero
all'osservazione mentre ti avvicinavi dall'alto e passavi in fretta
davanti a loro. C'era tuttavia un incontro che ti induceva a
rallentare, quando vedevi salire dal basso una ragazza che si
faceva avanti di gran carriera. Avvolta in un mantello aperto di
colore chiaro, con i capelli neri come la pece sempre scoperti, il
fiato grosso, gli occhi scuri puntati su una meta ignota,
giovanissima, forse diciassettenne, bella come un pesce scuro se il
respiro che sentivi non fosse stato così forte, qualcosa di
orientale nei lineamenti (ma troppo alta e robusta per una
giapponese della sua età), correva via con un tale impeto,
quasi alla cieca, che avevi un attimo di esitazione nel timore che
ti piombasse addosso, ma uno sguardo le bastava per evitare
l'urto. Ti sentivi colpito da quello sguardo, in cui leggevi
soltanto la fuga. Dalla sua persona emanava una vita tempestosa,
ma sembrava così giovane che ti trattenevi dal seguirla con gli
occhi e perciò non potevi scoprire dove corresse con tanta furia,
benché fosse chiaro che doveva abitare in qualcuna delle case
che sorgevano più avanti, nella parte superiore della
Himmelstrasse.
La vedevo passare solo verso mezzogiorno, e non so proprio
che cosa io stesso andassi a fare in paese a quell'ora. Dopo alcuni
incontri con l'eccitante fretta di quell'essere tutto nero, quasi
ogni giorno mi trovai alla stessa ora sulla Himmelstrasse, e
non sospettavo che lo facevo per lei, sebbene avessi cura di non
arrivare troppo presto al bivio con la Strassergasse, perché
lei veniva di là e io non ero diretto da quella parte. Così non
deviavo di un passo per causa sua, non le andavo incontro, perché
facevo la mia strada: se lei arrivava, era affar suo e della sua
furia; e se ormai facevo quella camminata quasi ogni giorno
per amor suo, a me stesso non lo confessavo.
Il suo nome, qualunque nome, mi avrebbe deluso, salvo che
fosse un nome orientale. A quel tempo avevo una certa
familiarità con le stampe giapponesi a colori. Si erano
impadronite di me allo stesso modo del teatro Kabuki, di cui per
tutta una settimana ero andato a vedere gli spettacoli alla
Volksoper. Le stampe di Sharaku, che raffiguravano attori del
Kabuki, mi erano tanto care anche perché avevo sperimentato su di me,
per sette serate consecutive, l'effetto di un dramma Kabuki. In
questi spettacoli le parti femminili erano interpretate da uomini,
e anche nelle stampe di Sharaku non c'era assolutamente nessuno
che somigliasse all'apparizione quotidiana nella
Himmelstrasse. Ma la veemenza, la stessa che mi affascinava nella
ragazza che saliva di furia, era comune a tutte quelle figure; e
così mi sembra adesso che proprio quell'incantevole corsa a
perdifiato mi costringesse, a una determinata ora del giorno, a
fare la strada che mi collegava al paese e alla città, la strada che
in
ogni caso dovevo fare per arrivare a Vienna. A quell'ora - verso
l'una - lo spettacolo cominciava, e io ne ero lo spettatore puntuale.
Non m'interessava guardare dietro le quinte, non volevo scoprire
niente, ma non mi lasciavo sfuggire l'entrata in scena, quella no.
Con l'acuirsi del freddo, stavamo addentrandoci
nell'inverno, crebbe la drammaticità di quelle entrate in scena,
perché la ragazza spandeva un nembo di vapore. Il mantello
sembrava ancora più aperto e lei sembrava ancora più frettolosa, le
sue violente espirazioni si disegnavano come nuvole nell'aria gelida.
Avevo la sensazione che in lei la fretta crescesse da una volta
all'altra: la temperatura si abbassava, nuvole sempre più grosse
le
uscivano dalla bocca aperta, e quando mi passava accanto,
quasi sfiorandomi, la udivo ansimare.
Non appena si avvicinava la sua ora, io interrompevo il lavoro.
Lasciavo cadere la matita, balzavo in piedi e uscivo di casa senza
che nessuno se ne accorgesse, da una porta speciale che collegava
la mia stanza col vestibolo. Scendevo l'ampia scala dai gradini
bassi, arrivavo nell'anticorte, guardavo verso le finestre del
primo piano come se io stesso fossi ancora lassù, e subito ero
sulla strada. Avevo sempre un po'"di paura, il personaggio del
Kabuki, la ragazza orientale, poteva già essere passata, ma poi
in realtà non era mai così: avevo il tempo di evitare dopo pochi
passi la casa del numero 55, guardando tenacemente a sinistra
e obbedendo all'anatema che l'aveva colpita, e ogni volta vedevo
venirmi incontro a passo di carica, tra il numero 55 e il bivio della
Strassergasse, quella creatura scatenata che emanava eccitazione
intorno a sé. Di quella visione assorbivo tutto ciò che potevo, per
avere una scorta che durasse anche più di ventiquattr'ore. Di solito
mi informavo sul conto di molte facce nuove che vedevo da quelle
parti e mi facevo raccontare ciò che ne sapevano gli altri.
Sulla ragazza che saliva di furia non feci mai domande. Rumorosa
e spavalda come appariva, dentro di me era diventata un segreto.
NOTE:
(1) All'inizio della prima guerra mondiale Karl Kraus aveva
bollato Moritz Benedikt come "il banchiere delle battaglie".
Nell'epilogo degli Ultimi giorni dell'umanità lo raffigurò come il
Signore delle iene che scorrazzano ancora sul campo di
battaglia tra i corpi dei caduti ?N" d'T"*.
L'ultima versione
Un anno e mezzo prima del trasferimento a Grinzing, quando
abitavamo ancora nella Ferdinandstrasse, Veza e io ci eravamo
sposati. Avevo tenuto nascosta la notizia a mia madre, che
abitava a Parigi, e se in seguito lei ebbe forse qualche sospetto
su ciò che si celava dietro il nuovo indirizzo di Himmelstrasse,
questo sospetto non fu mai espresso apertamente. Non avevo più
potuto tacere con Georg, mio fratello, ma anche lui, che
conosceva la mamma meglio di tutti, aveva tenuto il segreto. Poi la
mamma aveva ricevuto la notizia insieme col mio libro, che per lei
era stato una grande sorpresa. Fintanto che si parlava del libro,
e la mamma ne parlava in termini molto inconsueti, remissivi,
il matrimonio passava per lei in seconda linea, in mezzo a tutte
le altre notizie. Io mi cullavo nella speranza che tra lei e me il
peggio fosse passato, che per lei non avessero più tanta
importanza gli anni in cui (per proteggere Veza, ma anche per
risparmiare alla mamma la pena maggiore) l'avevo ingannata sul
perdurare, anzi sull'indissolubilità della relazione con Veza.
La mamma si era compiaciuta del libro senza rinunciare al suo
solito orgoglio: il libro era proprio come lei stessa l'avrebbe
scritto, sembrava opera sua, avevo fatto bene a voler scrivere,
avevo fatto bene a mettere da parte tutto il resto, a uno scrittore
la chimica non serve proprio! Lasciata la chimica, e io mi ero
battuto con energia per liberarmene, avevo tenuto testa a lei
stessa e con quel libro avevo giustificato le mie pretese. Erano
queste le cose che la mamma mi scriveva, ma poi, quando la rividi
a Parigi e cercai di schermirmi da quella "remissività" che in
lei non avevo mai conosciuto e che sopportavo a stento,
vennero fuori molte altre cose, sempre di più.
Improvvisamente la mamma si mise a parlare di mio padre, della
sua morte, che aveva avuto tanto peso su tutta la nostra vita
successiva. Non voleva più avere riguardi nei miei confronti,
adesso mi prendeva sul serio e mi diceva la verità. Per la prima
volta appresi ciò che per tutto quel tempo, ed erano passati più di
ventitré anni, la mamma mi aveva dissimulato con versioni sempre
nuove, ogni volta differenti. (1)
A Reichenhall, in Germania, dove era andata per le cure termali,
aveva incontrato quel medico che parlava la sua stessa lingua, che
dava a ogni parola i suoi contorni netti, precisi. Si era sentita
costretta a rispondere e aveva trovato in sé cose inaspettate e
ardite. Lui le diede da leggere Strindberg, e lei da allora ne
rimase soggiogata, perché Strindberg pensava delle donne tutto il
male che ne pensava lei stessa. Confessò al medico chi era il suo
"santo", Coriolano, e lui non trovò in questo nulla di
stravagante, anzi un motivo per ammirarla. Non le domandò come
una donna potesse avere scelto un modello simile: invece, preso
com'era dalla fierezza e dalla bellezza di lei, le dichiarò i propri
sentimenti. Lei non si stancava di ascoltarlo, ma non gli cedette.
Gli permise ogni parola, ma nel rispondere non ne usò mai una che
lo riguardasse personalmente. Dalle sue parole lui era escluso: lei
voleva parlare di ciò che lui le dava da leggere, e sentire lui
parlare delle persone che, come medico, conosceva bene. Si
meravigliò delle cose che lui le diceva, ma non ne accettò
nessuna; lui però la esortava a separarsi e a sposarlo. Era
affascinato dal suo tedesco, lei parlava il tedesco come nessun
altro, per lei l'inglese non avrebbe mai avuto lo stesso valore.
Per due volte lei chiese a mio padre di prolungare il soggiorno a
Reichenhall, perché la cura le faceva bene. A Reichenhall era
rifiorita, ma sapeva perfettamente che cosa le faceva tanto bene:
le parole del medico. Quando chiese una terza volta di rinviare la
partenza, mio padre oppose un rifiuto e le ingiunse di ritornare
immediatamente.
Lei ritornò con la coscienza di non aver mai pensato, nemmeno
per un istante, di cedere al medico. Non ebbe la minima esitazione
a raccontare tutto a mio padre. Era tornata da lui, aveva vinto,
la sua vittoria era un trionfo per lui. Gli portava se stessa e ciò
che le era accaduto, e lo deponeva
- usò questa frase - ai piedi di mio padre. Ripeté davanti a lui
le parole di ammirazione del medico e non riuscì a capire la
crescente agitazione di mio padre. Lui voleva sapere sempre di più tutto voleva sapere -, anche quando non c'era più niente da
sapere continuava a fare domande. Voleva una confessione, e lei
non aveva niente da confessare. Lui non poteva crederci: se non era
accaduto niente, com'era possibile che il medico le avesse fatto una
proposta di matrimonio, a lei, a una donna sposata, madre di tre
figli? Lei non ci trovava niente di strano, perché sapeva come
tutto era nato da quelle conversazioni.
Lei non si rammaricava di niente, non ritirava niente, diceva e
ripeteva che la cura le aveva fatto bene, che
adesso si sentiva perfettamente in salute, che solo per questo era
andata a Reichenhall e che era felice di essere di nuovo a casa. Ma
mio padre le faceva le domande più incredibili. "Ti ha visitata?"
le chiese.
"Ma certo, era il mio medico".
"Avete parlato in tedesco?".
"Sì. Che altra lingua dovevamo usare?".
Lui volle sapere se il medico conosceva il francese, e lei
disse che era probabile, dal momento che avevano parlato anche
di libri francesi. Allora, perché non avevano tenuto le loro
conversazioni in francese? Questa domanda era sempre rimasta
incomprensibile per la mamma. Ci aveva ripensato infinite volte.
Come poteva essergli venuta l'idea che un medico delle terme di
Reichenhall usasse con lei una lingua diversa dal tedesco, se per lei
il tedesco era la lingua più familiare?
Mi stupii che la mamma non si rendesse conto di ciò che aveva
fatto, perché la sua infedeltà consisteva appunto in questo:
nell'avere usato con un uomo innamorato di lei quella che per lei e
per mio padre era la lingua dell'intimità, il tedesco. Nei momenti
importanti della vita di mia madre, il fidanzamento, il matrimonio,
la liberazione dalla tirannia del nonno, solo il tedesco aveva
regnato. Forse per lei il ricordo non era più così vivo da quando
mio padre, a Manchester, si dava tanta pena per imparare
l'inglese. Ma lui sentiva benissimo che la mamma era ritornata al
tedesco con passione, e credeva di avere davanti agli occhi le
inevitabili conseguenze. Lui si rifiutò di parlarle prima di avere
avuto una confessione, tacque una notte intera e tacque il mattino
seguente. Morì nella convinzione che lei l'avesse ingannato.
Non ebbi il coraggio di dire alla mamma che era colpevole
nonostante la sua incolpevolezza, perché aveva consentito
l'uso di quella lingua che non avrebbe mai dovuto consentire.
Per settimane aveva continuato a parlare così, e a mio padre
aveva addirittura taciuto una cosa, come lei stessa ammetteva, una
cosa sola: Coriolano.
Lui non avrebbe capito, disse la mamma. Erano ancora così
giovani quando parlavano tra loro del Burgtheater. Negli anni
dell'adolescenza abitavano tutt'e due a Vienna, e prima ancora
di conoscersi avevano assistito spesso ai medesimi spettacoli.
Ne avevano parlato in seguito, e allora avevano la sensazione di
essere andati a teatro insieme. L'idolo di mio padre era
Sonnenthal, l'idolo di mia madre era Charlotte Wolter. A lui gli
attori interessavano più che a lei, li
imitava, ne parlava più volentieri. Lui non si soffermava molto
sui testi, lei si rileggeva tutto a casa, mentre lui si
divertiva a declamare. Come attore lui sarebbe riuscito molto
meglio di lei. Lei rifletteva troppo e tendeva a essere più seria.
A lei le commedie non piacevano come a lui. Si erano conosciuti a
fondo, lei e mio padre, attraverso gli spettacoli ai quali tutt'e
due avevano assistito. Il Coriolano lui non l'aveva mai visto, non
gli sarebbe neanche piaciuto, non poteva soffrire certe forme di
orgoglio spietato. Proprio perché i parenti di mia madre erano
così orgogliosi, aveva dovuto tribolare non poco prima di
superare la loro opposizione al matrimonio. Ci sarebbe rimasto
male se avesse scoperto che fra tutti i personaggi di Shakespeare
quello più caro a mia madre era Coriolano. Lei non si era mai
resa conto che con lui evitava di parlare di Coriolano: le venne in
mente solo quando a Reichenhall, all'improvviso, lo tirò fuori nelle
conversazioni col medico.
C'era forse qualcosa che la rendeva infelice? Mio padre l'aveva
offesa in qualche modo? Io non le feci molte domande, la mamma
andava avanti per conto suo, era impossibile distoglierla dalle
cose che in lei covavano da tempo. Ma quella domanda mi assillava,
e feci bene a non tacere. No, lui non l'aveva mai offesa,
nemmeno una volta. Era Manchester a offenderla, perché non era
Vienna. Non diceva niente quando mio padre mi portava da leggere
dei libri inglesi e ne parlava con me in inglese. Era questo il
motivo che l'aveva indotta, allora, ad allontanarsi da me. Mio
padre era entusiasta dell'Inghilterra. E sì, in fondo aveva
ragione, perché la gente era civile e beneducata. Peccato che lei
non conoscesse tanti inglesi, costretta com'era a vivere tra i
suoi parenti, con quella loro ridicola educazione. Non c'era
nessuno con cui potesse conversare veramente. Per questo si era
ammalata, non per il clima. Per questo la cura di
Reichenhall, ossia il conversare con quel medico, le aveva fatto
tanto bene. Ma era una cura, ed era bastata. Le sarebbe piaciuto
andarvi ogni anno. Ma la gelosia di mio padre distruggeva tutto.
Avrebbe dovuto non dirgli il vero?
Questa domanda mia madre la fece con la massima serietà, e voleva
che fossi io a rispondere. Me la rivolse in tono perentorio,
come se tutto fosse appena avvenuto. Sull'incontro col medico non
aveva niente da rimproverarsi. Non mi domandava: avrei dovuto non
ascoltarlo? Le sembrava di aver fatto abbastanza restando sorda alla
corte del medico. Io le diedi la risposta che non avrebbe voluto.
"Non dovevi far vedere quanto era importante per te" dissi con
qualche esitazione, ma già era implicito un rimprovero. "Non
avresti dovuto vantartene. Avresti dovuto accennarvi di
sfuggita".
"Ma era una cosa che a me aveva fatto piacere!" rispose con
impeto. "E mi fa piacere ancora oggi. Credi che altrimenti avrei
mai scoperto Strindberg? Io sarei un'altra persona, tu non avresti
scritto il tuo libro. Saresti rimasto fermo alle tue poesiole.
Nessuno si sarebbe mai accorto di te. Tuo padre è Strindberg.
Io ti ho avuto da Strindberg. Ho fatto di te un suo figlio. Se io
avessi rinnegato Reichenhall, tu non saresti approdato a nulla.
Tu scrivi in tedesco perché io ti ho portato via dall'Inghilterra. In
te c'è ancora più Vienna di quanta ce ne sia in me. Il tuo Karl
Kraus, che io non potevo soffrire, l'hai trovato a Vienna. Hai
sposato una viennese. Adesso abiti addirittura a Grinzing, dove i
veri viennesi lasciano il cuore, e sembra che il posto non ti
dispiaccia. Appena stò un po'"meglio vengo a farvi una visita.
Dillo a Veza, dille che di me non deve aver paura. Un giorno tu la
abbandonerai, come hai abbandonato me. Si avvereranno le storie che
hai inventato per nascondermi la tua relazione con lei. Tu devi
inventare, tu sei un poeta. Per questo ti ho creduto. A chi si
deve credere, se non ai poeti? Forse alla gente d'affari? Ai
politici? Io credo soltanto ai poeti. Ma devono essere diffidenti
come Strindberg e leggere fino in fondo nell'anima delle donne. Non
si penserà mai abbastanza male degli esseri umani. E tuttavia non
vorrei vivere un'ora di meno. Siano pure malvagi! Vivere è
meraviglioso! E" meraviglioso vedere tutte le malvagità fino in
fondo, e tuttavia vivere!
Da quelle parole compresi che cos'era successo a mio padre.
Aveva sentito che la mamma, pur non avendo niente da confessare,
gli aveva voltato le spalle. Forse una confessione nel senso corrente
della parola lo avrebbe colpito meno profondamente. La mamma non
aveva saputo valutare quel che avveniva in lei, altrimenti non
avrebbe potuto aggredire mio padre con la propria felicità. Non era
una donna senza pudore, non si sarebbe vantata se
avesse sospettato nel proprio comportamento qualcosa di impuro. Ma
come poteva mio padre accettare ciò che era accaduto? Per lui
le parole tedesche che scambiava con la mamma erano intangibili, e
lei aveva fatto sacrificio di quelle parole, di quella lingua. Per
lui era diventato amore tutto ciò che si era svolto sul
palcoscenico davanti a loro. Se l'erano raccontato innumerevoli
volte, e grazie a quelle parole avevano sopportato l'angustia del
loro ambiente. Quando da bambino mi rodevo d'invidia per quelle
parole straniere, avevo la misura di tutta la mia superfluità. Non
appena cominciavano a parlare in tedesco, per loro non c'era più
nessun altro lì intorno. Quel senso di esclusione mi gettava in
preda al panico, e così mi ritiravo nella stanza vicina a
ripetere tra me, disperatamente, le parole tedesche di cui non
capivo il significato.
La confessione della mamma mi riempì di amarezza. Mi sentivo
ingannato. Nel corso degli anni avevo ascoltato versioni sempre
nuove, e ogni volta sembrava che mio padre fosse morto per un motivo
differente. Ciò che la mamma spacciava per un riguardo verso la mia
giovane età, era in sostanza un sapersi colpevole, un modo sempre
diverso di valutare la propria colpa. Nelle notti successive alla
morte di mio padre, quando io dovevo impedirle di compiere gesti
inconsulti, il senso di colpa era stato così forte da toglierle la
voglia di vivere. La mamma ci
aveva portati a Vienna per essere più vicina al luogo di cui si
erano nutrite le sue prime conversazioni con mio padre. Nel viaggio
verso Vienna fece tappa a Losanna e mi forzò col suo metodo atroce
a imparare la lingua che prima ero condannato a non capire. A
Vienna, durante le serate che dedicavo con lei alla lettura e alle
quali devo la mia formazione, fece rivivere quelle
lontane conversazioni con mio padre, ma vi aggiunse il Coriolano,
col quale si era resa colpevole. A Zurigo, nella Scheuchzerstrasse,
si abbandonava sera per sera a quei volumi gialli di Strindberg che
io le regalavo uno dopo l'altro. Poi la sentivo cantare
sottovoce al pianoforte, parlare con mio padre e piangere. Gli
avrà detto il nome di colui che lei leggeva così avidamente e che lui
non conosceva? Adesso la mamma vedeva in me il figlio della sua
infedeltà. Mi diceva in faccia chi ero. E mio padre? Chi era, che
cos'era adesso mio padre?
In quei momenti la mamma faceva tutto a pezzi e mostrava il
coraggio che avrebbe avuto se avesse vissuto la sua autentica vita.
Aveva il diritto di riconoscersi nel mio libro e di dire che lei
stessa l'avrebbe scritto così, che lei era quel libro. E perciò
ritrovava anche la sua generosità e accettava Veza, sorvolando
sul fatto che io l'avevo ingannata per tanto tempo sul conto di Veza.
Ma a quella generosità univa una perfida profezia: allo stesso modo
che avevo abbandonato lei, avrei abbandonato anche Veza. Non
poteva vivere senza il pensiero di una vendetta. Nell'annunciare una
visita a Grinzing immaginava già di poter assistere in casa
nostra al compiersi della sua predizione. Precipitosa e
irruente com'era, dava per certo che la pubblicazione del
libro - un libro di cui si sentiva compenetrata - avrebbe segnato
l'inizio di un periodo trionfale. Mi vedeva circondato da donne
che mi corteggiavano per la "misoginia" del romanzo e anelavano a
farsi punire per il fatto di essere donne. Vedeva una fila di
affascinanti bellezze spuntare accanto a me a Grinzing, ma in un
rapido avvicendarsi, l'una dopo l'altra, e vedeva Veza, finalmente
scacciata e dimenticata, rifugiarsi in un piccolo appartamento
simile a quello che lei stessa occupava a Parigi. Così le bugie con
cui avevo distolto la sua attenzione da Veza sarebbero un giorno
diventate realtà; e non aveva importanza quando quel giorno
sarebbe venuto. Io avevo semplicemente anticipato gli
avvenimenti, io non avevo ingannato la mamma, e lei non si era
lasciata ingannare, perché nessuno poteva tenerle testa con le
proprie cattiverie, lei aveva il dono di leggere nell'animo, un
dono che aveva trasmesso anche a me: io ero suo figlio.
Quando partii da Parigi ero convinto che la mamma si fosse
rassegnata al nostro matrimonio e che provasse per Veza un
sentimento simile alla pietà, proprio a causa della sventura che
incombeva su di lei. La mamma credeva di conoscere il futuro di
Veza, ciò che Veza non osava ammettere neanche con se stessa, e da
tutto questo traeva un senso di soddisfazione. Io mi
immaginavo le future conversazioni tra loro e me ne sentivo
sollevato. Forse questa prospettiva mi consolava un poco delle
cose terribili che avevo appreso sulla fine di mio padre.
Ma tutto andò diversamente. Io mi ero illuso, avevo
sottovalutato l'ampiezza delle oscillazioni che avvenivano in mia
madre e che adesso diventarono spaventose. La mamma aveva
finalmente parlato con me, e io non avevo riflettuto sugli
effetti che questa circostanza doveva avere su di lei. Fino
allora mi aveva tenuto a bada: in tutti gli anni della nostra
passata convivenza, che a me era apparsa così piena di sincerità, mi
aveva fuorviato con versioni sempre nuove, riuscendo a
custodire il suo segreto. Adesso lo
aveva rivelato, mi aveva chiesto la mia opinione, e io, nella
mia sensibilità per le parole, l'avevo biasimata, non per ciò
che era avvenuto, ma perché non aveva risparmiato mio padre,
perché non voleva rendersi conto del male che gli aveva fatto
vantandosi di ciò che era successo a Reichenhall. Lo sfogo con
cui la mamma aveva accolto i miei rimproveri non mi aveva
spaventato, ma era servito a rafforzarmi nell'opinione che lei
era ancora la stessa, indistruttibile; e a farmi credere che
ora compisse un gesto sovrano per metter fine alla lunga guerra tra
noi, una guerra di cui capiva la necessità.
Ciò che non avevo previsto avvenne pochi mesi dopo. In quello
stesso anno la mamma tornò a irrigidirsi contro di me, e senza
denigrare Veza come faceva in passato, senza accusarla, annunciò
di non volermi vedere mai più.
NOTE:
(1) Si veda il primo volume dell'autobiografia di Canetti, La
lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, Milano, 1983, pp"
79-87 ?N" d'T"*.
Alban Berg
Oggi mi sono riguardato con commozione alcune immagini di Alban
Berg. Non oso ancora adesso parlare dei miei rapporti con lui.
Voglio soltanto accennare ad alcuni incontri, e lo farò, per così
dire, solo dall'esterno.
L'ultima volta l'ho visto al Café Museum poche settimane prima
della sua morte, e fu un breve incontro notturno, dopo un concerto.
Io lo ringraziai di una sua bellissima lettera, lui mi domandò se
qualcuno aveva già recensito il mio libro. Gli dissi che era
ancora troppo presto, ma lui non sembrava d'accordo ed era pieno
di sollecitudine verso di me. Senza dirlo espressamente,
voleva avvertirmi di un pericolo a cui dovevo prepararmi. Era
in pericolo lui stesso, e tuttavia voleva proteggermi. Sentivo
il calore che aveva per me fin dal nostro primo incontro. "Ma che
cosa può succedere di tanto grave," gli dissi "quando si è
ricevuta una lettera come la sua?". Si schermì, sebbene fosse
contento di quel che dicevo. "A sentire lei, sembrerebbe che la
lettera gliel'abbia scritta Schönberg," disse "ma è soltanto una
lettera mia".
Non che mancasse di amor proprio. Sapeva benissimo chi era. Ma
c'era un uomo che con fede incrollabile metteva sopra di sé: Arnold
Schönberg. Io gli volevo bene per quella generosa ammirazione di
cui era capace. Ma avevo motivo di volergli bene per molte cose.
Allora non sapevo che Berg soffriva da mesi di
foruncolosi, non sapevo che gli restavano solo poche settimane di
vita. A Natale, improvvisamente, ebbi da Anna la notizia che era
morto il giorno prima. Il 28 dicembre 1935 andai al cimitero di
Hietzing per assistere alla sepoltura. Non vi trovai tutto il
movimento che mi ero
aspettato, non c'erano persone che camminassero in una
determinata direzione. A un piccolo becchino deforme domandai dove
si teneva la cerimonia per Alban Berg. "La salma Berg è lassù a
sinistra!" strillò a gran voce. Mi spaventai, ma seguii la
direzione indicata e trovai un gruppo di forse trenta persone. C'era
Ernst Krenek, c'erano Egon Wellesz e Willi Reich. (1) Dei diversi
discorsi ricordo soltanto che Reich si rivolse al defunto come al suo
maestro, con la dimestichezza di un allievo. In verità non fu un
gran discorso, ma era pieno ancora di umiltà davanti al maestro
scomparso, e furono le sole parole che in quel momento non mi
diedero fastidio. Gli altri, quelli che parlarono in maniera più
intelligente e composta, non li ascoltai, non volevo ascoltarli
perché non mi sentivo di ammettere che eravamo lì a seppellire
Alban Berg.
Lo vedevo davanti a me, lo vedevo ondeggiare lievemente dopo un
concerto in cui lo avevano commosso alcuni poèmes di Debussy.
Alto com'era, camminava piegato in avanti, e quando poi cominciò
quell'ondeggiare pareva che il vento gli soffiasse intorno,
così che lui somigliava a un lungo stelo. Disse
"meraviglioso", ma la parola gli rimase a metà in gola, sembrava
quasi ubriaco. Era un balbettio che racchiudeva in sé un elogio, una
confessione ondeggiante.
Quando andai a trovarlo la prima volta a casa sua - gli ero
stato raccomandato da H" (2) -, mi colpì l'allegria con la quale
mi accolse. Famoso nel mondo, lebbroso a Vienna - mi ero
immaginato un uomo di spettrale ritrosia. Me lo figuravo lontano dal
suo ambiente di Hietzing e non mi domandavo perché abitasse lì.
Non lo collegavo con Vienna, se non sotto un aspetto: lui, grande
compositore, era lì per sperimentare il disprezzo della città
musicale per eccellenza. Pensavo che Berg doveva essere così, che
le opere meritevoli di attenzione potevano nascere solamente in
una simile atmosfera di ostilità; e non facevo differenza tra
compositori e scrittori, negli uni e negli altri c'era la stessa
capacità di resistenza, una qualità fondamentale nella loro natura.
Mi sembrava che quella resistenza scaturisse da un'unica fonte, che
quella forza si alimentasse alla sorgente di Karl Kraus.
Non ignoravo l'importanza che Karl Kraus aveva per Schönberg
e per i suoi allievi. All'inizio, forse, dipendeva da questo la
buona opinione che avevo di loro. Ma nel caso di Alban Berg si
aggiungeva il fatto che aveva scelto il Wozzeck come soggetto
della sua opera. Ero andato da lui con le più grandi speranze,
immaginando però una persona ben diversa: quando mai si riesce a
immaginare esattamente un uomo eccezionale? Ma Alban Berg è l'unico
che, dopo avermi ispirato tante speranze, non mi abbia deluso.
Rimasi sbalordito dalla sua naturalezza. Non pronunciava grandi
frasi. Era curioso perché di me non sapeva niente. Domandò che cosa
avevo fatto fino allora, se era possibile leggere qualcosa di
mio. Dissi che non avevo pubblicato neanche un libro, soltanto
l'edizione di Nozze per il teatro. In quel momento cominciò a
volermi bene, anche se in realtà me ne sono reso conto solo più
tardi. Ciò che provai allora fu un calore improvviso, quando mi
disse: "Dunque non c'è nessuno che si sia fidato. Potrei leggere
il dramma?". Nella domanda non c'era un'enfasi particolare, e
tuttavia non si poteva dubitare che dicesse sul serio, perché
subito aggiunse per farmi coraggio: "A me è successo
esattamente lo stesso. Vuol dire che c'è qualcosa che vale". Con
questo accostamento non sminuiva se stesso, ma con una frase simile
mi riempiva di speranza, mi faceva il dono più grande. Non era
la speranza che H" dispensava con la sua abilità organizzativa, la
speranza che ti lasciava freddo o ti deprimeva, la speranza che H"
si affrettava a trasformare in strumento di potere: era qualcosa
di personale, di semplice, senza nessuna apparente pretesa, anche
se presupponeva una richiesta. Gli promisi il testo del
dramma e non ebbi alcun dubbio sulla sincerità del suo
interessamento.
Gli raccontai in quale stato d'animo mi ero imbattuto nel
Wozzeck a ventisei anni e quante volte avessi letto e riletto quel
frammento durante una sola notte. Venne fuori che Berg aveva
ventinove anni quando aveva vissuto l'esperienza della prima
rappresentazione del Wozzeck a Vienna. L'aveva visto molte volte e
aveva subito deciso di farne un'opera. Io gli dissi anche come il
Wozzeck avesse preparato la strada a Nozze: non c'era una
connessione diretta, ma io solo sapevo quanto il mio dramma fosse
legato a quello di Büchner.
Poi, nel corso della conversazione, mi permisi alcune temerarie
osservazioni su Wagner, e lui le rintuzzò deciso, ma senza
asprezza. Del Tristano aveva un concetto che sembrava
immutabile. "Lei non è un musicista," disse "altrimenti non
parlerebbe così". Mi vergognai della mia impertinenza, ma come si
vergognerebbe uno scolaro che ha dato una risposta sbagliata, e non
ebbi la sensazione che il mio passo falso avesse intiepidito
l'interesse che Berg mi aveva dimostrato. Subito dopo, infatti, per
togliermi dall'imbarazzo, mi pregò di nuovo di fargli avere il
testo di Nozze.
Non fu quella la sola occasione in cui Berg intuì ciò che
stava accadendo in me. A differenza di molti musicisti non era
sordo alle parole. Le accoglieva in sé quasi come la musica, capiva
il linguaggio degli uomini non meno di quello degli strumenti.
Già dopo il primo incontro sapevo che Berg apparteneva a quel
piccolo gruppo di musicisti che vedono gli uomini nello stesso modo
degli scrittori. Quando ero andato a trovarlo ero per lui un
perfetto sconosciuto, e questa circostanza mi rivelò il suo amore
per gli esseri umani, un amore così forte che Berg poteva
difendersene soltanto con la sua inclinazione alla satira. Nel viso
aveva sempre un tratto di ironia, intorno alla bocca e agli occhi,
e gli sarebbe bastato poco per alzare una barriera di asprezza
davanti alla propria cordialità. Preferiva invece servirsi dei
grandi satirici, ai quali rimase fedele per tutta la vita.
Vorrei parlare di ogni mio singolo incontro con Alban Berg, e
non furono tanto rari nel corso dei pochi anni della nostra
conoscenza. Ma su tutti si è allungata l'ombra della sua morte
precoce: morì, come Gustav Mahler, prima di arrivare al
cinquantunesimo anno. Così tutti i colloqui di cui conservo il
ricordo hanno perduto colore, e io temo di alterare la serenità di
Berg con la tristezza che continuo a provare per lui. Penso a una
frase contenuta in una lettera a un suo allievo, della quale venni a
sapere solo molti anni dopo: "Uno, due mesi ho ancora da vivere ma poi? - Non penso ad altro e non mi arrovello che su questo - sono
dunque profondamente depresso". Questa frase non si riferiva alla
malattia, ma all'urgenza della minaccia che incombeva. Negli
stessi giorni Berg mi scriveva la meravigliosa lettera sul mio
romanzo, che
aveva letto in quella condizione di spirito. Soffriva atrocemente e
temeva per la vita stessa, ma non buttò via il libro, se ne
lasciò opprimere, era risoluto a rendere giustizia all'autore e
gli rese giustizia; perciò la sua lettera, la prima che io abbia
ricevuto su quel libro, mi è rimasta la più cara di tutte.
Sua moglie Helene gli è sopravvissuta per più di
quarant'anni. C'è gente che trova da ridire su questo e in
particolare contesta il fatto che Helene possa essere rimasta in
comunicazione col marito per tutti quegli anni. Anche se lei era
prigioniera di un'illusione, anche se lui le parlava solo dentro di
lei e non dall'esterno, questa è pur sempre una forma di
sopravvivenza per la quale io provo rispetto e ammirazione. Io
stesso vidi Helene trent'anni dopo la morte di Berg, al termine di
una conferenza di Adorno a Vienna. Usciva dalla sala, piccola e
rattrappita, una donna decrepita, così assente che dovetti farmi
coraggio per rivolgerle la parola. Non mi riconobbe, ma quando le
dissi il mio nome rispose: "Ah, signor C"! E" passato tanto tempo.
Alban parla sempre di lei".
Ero imbarazzato e talmente commosso che mi congedai subito.
Rinunciai a farle una visita, sebbene mi sarebbe veramente
piaciuto ritornare nella casa di Hietzing in cui lei abitava
tuttora. Non volevo disturbare l'intimità del dialogo in cui era
sempre assorta, tutto quello che era avvenuto tra loro due
continuava ad avvenire come se fosse oggi. Quando si trattava delle
opere del marito, lei gli chiedeva consiglio e lui le dava la
risposta che lei si immaginava. Qualcuno crede forse che altri
conoscessero meglio i desideri di Berg? Ci vuole moltissimo amore per
dare vita a un morto in modo che non scompaia mai più, in modo da
udirne la voce, da parlare con lui e conoscere i desideri che egli
avrà sempre, poiché gli si è data la vita.
NOTE:
(1) Ernst Krenek, nato nel 1900, è il compositore già ricordato
come secondo marito di Anna Mahler. Per Egon Wellesz (1885-1974),
compositore e musicologo, si veda più avanti a p" 327. Willi
Reich (1898-1980) pubblicò importanti studi su Berg ?N" d'T"*.
(2) Si veda il capitolo "Il direttore d'orchestra", dove già si
accennava alla parte avuta da H" (Hermann Scherchen) nel favorire
l'incontro di Canetti con Alban Berg ?N" d'T"*.
Incontro al LiliputBar
Quell'inverno H" ritornò a Vienna ancora una volta. Dovevo
incontrarlo in città a notte fatta. Nella Naglergasse, non
lontano dal Kohlmarkt, era stato aperto un nuovo bar, e Marion
Marx, una cantante che ne era anche la titolare, aveva chiesto il
sostegno dell'avanguardia viennese. Era una donna alta, piena di
calore umano, con una voce profonda, e riempiva di buonumore il suo
LiliputBar, come si chiamava il locale. I giovani scrittori li
trattava con molta disinvoltura, secondo il suo stile, e si faceva
un vanto della loro presenza. Da lei si stava bene, e quando
alla fine il cameriere portava il conto c'era scritta una cifra
fittizia: si pagava qualcosa, tanto per non sentirsi
imbarazzati davanti ai clienti della ricca borghesia, ma in
sostanza non si pagava niente, e fu con questa delicatezza che
Marion si conquistò le mie simpatie. Io non frequentavo i bar, ma nel
suo ci andavo volentieri.
Vi accompagnai H", che amava i locali notturni dopo le sue
strenue giornate di disumano lavoro. Il bar era gremito, neanche
un tavolo libero, ma Marion mi avvistò, interruppe la sua canzone
prima dell'ultima strofa, ci salutò con grande effusione e ci
condusse a un tavolo. "Sono miei buoni
amici, vi ci troverete bene. Vi presento io". Due sedie furono
infilate nel poco spazio libero, e H", che di solito era
l'alterigia in persona, si adattò. Con mia grande meraviglia
sembrava disposto a dividere il tavolo con estranei, gli piaceva
Marion e più ancora gli piaceva il tavolo. Marion disse i nostri
nomi e poi aggiunse con tutto il suo calore ungherese: "Questa è la
mia amica Irma Benedikt con la figlia e il genero".
"Ci conosciamo di vista già da un pezzo" mi disse la signora.
"Lei guarda sempre dall'altra parte, come il suo professor
Kien. Mia figlia ha solo diciannove anni, ma ha già letto il suo
libro. Poteva aspettare ancora un po', secondo me, ma non fa che
parlarne giorno e notte. Ci perseguita con i personaggi del
romanzo, continua a imitarli. Per lei, il mio nome è Therese. E
dice che non potrebbe farmi un'offesa più terribile".
La signora Benedikt sembrava una donna schietta e semplice,
quasi infantile, pur avendo forse quarantacinque anni, né decadente
né raffinata, proprio il contrario di tutto quello che nella mia
immaginazione si legava al nome dei Benedikt. Ero un po'"stupito
all'idea che i personaggi del mio romanzo si aggirassero per la
sua casa, come lei diceva. Così, io guardavo dall'altra parte per
evitare ogni contatto con gente da cui mi sarei sentito
contaminato, e intanto Kien e Therese, persone molto meno
socievoli di me, avevano già l'aria di sentirsi a casa loro sotto
il tetto dei Benedikt. Il genero, un omaccione piuttosto
goffo, non molto più giovane della signora Benedikt, non diceva
una parola. I suoi lineamenti erano belli lisci ed eleganti come
il suo vestito; se ne stava lì zitto e sembrava irritato per
qualche ragione. La ragazza di diciannove anni, quella che aveva
letto la Blendung troppo presto, era sua moglie, ma mi ci volle un
bel po'"di tempo prima che la cosa mi entrasse in testa. In ogni
modo la ragazza non era molto felice di avere quel marito, perché
gli dava le spalle e non gli rivolgeva una parola: dovevano aver
litigato e continuavano a litigare in silenzio.
La ragazza aveva un aspetto limpido, radioso, e quando tentò di
dirmi qualcosa i suoi occhi si fecero sempre più luminosi. Ci
provò un paio di volte inutilmente, senza spiccicare una sillaba, e
io insistevo a guardarla, più a lungo e forse più intensamente di
quanto fosse il caso. Così non poté sfuggirmi che aveva gli occhi
verdi. Non che ne fossi particolarmente affascinato, perché
gli occhi che a quel tempo avevano un potere su di me erano ancora
quelli di Anna.
"Di solito mia figlia ha la lingua sciolta" disse la signora
Irma, la madre, e subito l'omaccione e genero annuì con tutto il
torace. "Adesso ha paura di lei. Si chiama Friedl. Le dica
qualcosa, e finalmente l'incantesimo sarà rotto".
"Io non sono il sinologo" dissi alla ragazza. "Di me non deve
certo aver paura".
"E io non sono Therese" disse Friedl. "Mi piacerebbe prendere
lezioni da lei. Voglio imparare a scrivere".
"Non si impara così facilmente. Ha già scritto
qualcosa?".
"Non fa altro tutto il giorno" disse la madre. "A
Presburgo, ha piantato suo marito ed è ritornata da noi a
Grinzing. Non ha niente contro suo marito, ma non vuole occuparsi
della casa, vuole scrivere. Adesso lui è qui per riportarla a
casa. Ma lei non vuole saperne".
La signora Irma raccontava i fatti privati della famiglia
con la massima innocenza. A sentirla, sembrava quasi una bambina che
parlasse di una sorella maggiore. Il genero, per confermare
l'intenzione che gli veniva attribuita, posò la mano sulla spalla
di Friedl.
"Giù la mano!" lo investì la ragazza. Per la durata di quelle
tre parole si era girata verso il marito, ma subito ritornò a
me, riprese il suo aspetto radioso - così almeno mi parve - e
disse:
"Non riuscirà a tenermi sotto chiave. Da me non riuscirà a
ottenere niente. Non crede anche lei?".
Il matrimonio era finito prima ancora di cominciare, e tutto
sembrava così irrevocabile che non provavo il minimo imbarazzo.
Neanche l'omaccione mi faceva pena. Bastava vedere con quale rapidità
aveva tolto la mano dalla spalla di Friedl. Quella creatura
raggiante di speranza non faceva per lui, aveva vent'anni
buoni di meno. Ma perché l'ha sposato?
"Voleva andarsene di casa," disse la signora Irma "e adesso
se ne sta sempre rintanata da noi. Ma questo dipende dal fatto che
abbiamo vicini così illustri".
Voleva essere una battuta ironica, ma il tono era serio, così
serio che H" non resistette più. Era abituato a essere al centro
dell'attenzione, e adesso invece toccava a un altro. Infastidito
da quell'insopportabile isolamento, vi mise fine col suo piglio
brutale e andò in soccorso del povero marito.
"Ha già provato col bastone?" domandò. "La accontenti: lei non
vuole che questo".
Era troppo anche per quel marito così impacciato - quando
doveva vedersela con gli uomini poteva essere più deciso.
"E lei che cosa ne sa?" sbottò. "Lei non conosce Friedl. Non è
come le altre".
Di colpo, con questa uscita, il marito ebbe tutti dalla sua
parte, e H" vide naufragare il tentativo di richiamare
l'attenzione su di sé. Ma la signora Irma, che riceveva nella sua
casa un gran numero di artisti, e anche musicisti famosi, sapeva
come comportarsi. Si rivolse al direttore d'orchestra e gli
disse, scusandosi, che non era mai andata a uno dei suoi
concerti. La sua povera testa proprio non si raccapezzava con la
musica moderna.
"Si può imparare, gentile signora, provi un po'"a
incominciare!" la consolò H". Ma non poté impedire che Friedl,
imperterrita, lo lasciasse di nuovo nel suo brodo.
"Io vorrei imparare a scrivere. Non mi prenderebbe come
allieva?".
Era da capo con la sua prima frase. Dovetti ripetere, un po''
più diffusamente, ciò che le avevo già detto: non avevo allievi, e
poi, a mio giudizio, non era qualcosa che si potesse imparare. Non
aveva già tentato con qualcun altro, per caso?
"Con scrittori vivi, mai" disse Friedl. "Io vorrei imparare
da qualcuno che mi stia davanti in carne e ossa".
Quali erano le sue letture preferite?
Dostoevskij fu la risposta, senza un solo attimo di
esitazione. "E" stato il mio primo maestro".
"A lui, certo, non poteva mostrare le sue
esercitazioni".
"No, proprio no. E non sarebbe servito a niente".
"Perché no?".
Perché io scrivo esattamente come lui. Non si sarebbe nemmeno
accorto che non è roba sua. Avrebbe creduto di trovarsi davanti a
una copia di qualche suo testo".
"Vedo che lei non ha una cattiva opinione di se stessa" dissi io.
"Al contrario, non potrebbe essere peggiore. Sono sicura che con
lei una cosa simile non mi succederebbe. Non è possibile copiare
una riga. C'è solo lei che sappia scrivere cose tanto perfide".
"Ed è questo che le piace in quello che scrivo?"
"Sì. Therese mi piace. Tutte le donne sono come quella lì".
"Lei odia le donne? Creda pure che io non le odio
affatto!".
"Io odio le donne di casa, quelle sì".
"Si riferisce a me" disse la madre, e di nuovo il tono era così
schietto e accattivante che quasi l'avrei abbracciata, sebbene
avesse sposato un Benedikt.
"Ma che cosa dice, gentile signora!".
"Non si lasci ingannare dalle apparenze" disse Friedl. "Dovrebbe
sentirla quando parla con lo chauffeur. E" tutta un'altra
musica".
H" si alzò. Non vedeva proprio perché dovesse passare la notte al
bar
ascoltando le baruffe familiari di gente che non conosceva. In
verità la scena era piuttosto penosa, anche se mi colpiva
l'esuberanza della ragazza, l'impeto con cui si lasciava andare in
pubblico, davanti a testimoni imbarazzati. Nessuno si era mai
rivolto a me con tanto slancio, a me, l'autore di un libro in cui
tutto parlava di orrore.
Me ne andai volentieri. La signora Irma mi invitò a farle
visita, dal momento che eravamo vicini di casa. Friedl disse
qualcosa a proposito della Himmelstrasse: era costernata nel
vederci andar via così presto e riponeva le sue speranze, almeno
mi parve, nella Himmelstrasse, nel tratto che portava giù al
capolinea del tram. Quella fu infatti l'unica parola che
afferrai della sua ultima frase. L'omaccione rimase seduto, non
salutò e tenne la bocca chiusa. Aveva un buon motivo per fare il
villano, perché H", nel congedarsi, non diede la mano a nessuno.
Quando fummo fuori, H" disse: "Una bella bambina, e già così
svitata. Si è messo in un bel pasticcio, C"". Ma non aveva ancora
finito, perché prima di salutarmi aggiunse: "E sarebbero quattro
sorelle? Si tenga pronto, si faccia forte! E pensare che basta
scrivere un po'"di cattiverie per trovarsi con quattro sorelle
sulla schiena!".
Non mi era mai successo di vederlo così pieno di
compassione. La Himmelstrasse cominciava a interessargli, e H" si
annotò l'indirizzo del nostro nuovo appartamento semivuoto.
L'esorcismo
Fu incredibile la frequenza con cui da quella sera si
susseguirono i miei incontri con Friedl. Il tram 38 era vuoto, io
prendevo posto e nell'alzare gli occhi la vedevo seduta di fronte a
me. Faceva tutto il tragitto fino allo Schottentor, io andavo al
caffè che aveva lo stesso nome, e lì, quando entravo, lei mi aveva
già preceduto ed era seduta a un tavolino con amici. Salutava,
ma restava al tavolino col suo gruppo, senza importunarmi.
Quando ripartivo per Grinzing, lei era già sul tram, ma questa
volta più in disparte, in un angolo, e tuttavia abbastanza vicino
perché mi sentissi esposto ai suoi sguardi. Io ero sprofondato in
un libro e non mi curavo di lei. Ma poi, arrivato a Grinzing,
quando iniziavo la salita, me la trovavo improvvisamente al
fianco. Salutava e proseguiva di buon passo, come se avesse fretta.
Non ero mai stato molto guardato dalle donne, e meno che mai da
ragazze così giovani, e quindi non mi davo granché pensiero per la
frequenza di quegli incontri. Ma di colpo sembrava che la
Himmelstrasse, specialmente durante la discesa, fosse popolata da
Friedl e dalle sue sorelle. Una ebbe l'ardire di presentarsi e
disse: "Scusi, sono la sorella di Friedl Benedikt". "Ah" feci io,
e non la guardai finché non si fu allontanata. Di solito, però,
era proprio Friedl quella che trovavo sulla mia strada. Arrivava di
corsa, aveva sempre fretta, e presto mi divenne familiare il suono
dei suoi passi leggeri. Mai una volta succedeva che io arrivassi al
capolinea senza che lei mi avesse raggiunto e superato. Il suo
saluto non era indiscreto, ma aveva sempre qualcosa di
supplichevole, che io avvertivo anche se non lo confessavo a me
stesso. Se non fosse stata così delicata, avrei perso la
pazienza, perché ormai la cosa si ripeteva troppo spesso, forse
due o tre volte al giorno, e raramente passava un giorno senza che
lei mi superasse di corsa o mi corresse incontro o salisse sullo
stesso tram.
Io ero sempre sopra pensiero, ma Friedl non mi
disturbava quasi mai. Non mi importava che attraversasse così i
miei pensieri, perché non si fermava e non si faceva avanti con me.
Poi, una volta, telefonò. Veza se l'aspettava, e fu lei a
rispondere. Friedl domandò se poteva parlare con me. Veza, senza
neanche interpellarmi, pensò che la cosa migliore era invitarla
a prendere il tè. "Venga da me per il tè" le disse. "C" non sa mai
prima se avrà tempo. Lei venga da me, semplicemente, e forse lui il
tempo lo trova". Io ero un po'"irritato per quella sopraffazione. Ma
Veza mi persuase che era meglio così. "Non puoi mica vivere in
questa specie di stato d'assedio. Bisogna fare qualcosa. E tu non
puoi fare niente se prima non la conosciamo un po'. Forse è una
forma di esaltazione. Ma forse la ragazza vuole davvero scrivere e
crede che tu possa aiutarla".
Presero il tè nella stanzetta di Veza, tutta foderata di legno, e
dopo un po'"entrai anch'io. Avevo appena preso posto, ed ecco che
Friedl rovesciò tutto il suo tè sul tavolo e sul pavimento. La
cosa, in quella graziosa stanzetta, riuscì ancora più goffa:
sembrava che Friedl non fosse nemmeno capace di reggere a
dovere una delle tazze delicate e trasparenti del servizio di
Veza. Invece di chiedere scusa Friedl disse: "Non si è rotto
nulla. Sono così eccitata nel vederla qui". "Non ci faccia caso"
disse Veza. "Lui viene sempre a prendere il tè. Gli piace questa
stanza. Basta non dirgli niente prima". Friedl le rispose senza
alcuna soggezione, come se io nemmeno ci fossi: "Dev'essere
bello. Così lei può sempre parlargli". "Perché, a casa vostra non
parlate?". "Sì, tutto il tempo. Ma a me non interessa ciò che
dicono quelli là. I miei danno sempre ricevimenti. Solo gente
celebre. Se uno non è celebre non viene invitato. Non trova anche
lei che la gente celebre è così noiosa?".
Non ci volle molto a capire che Friedl non aveva niente in
comune con l'immagine che mi ero fatto di una ragazza della
famiglia Benedikt. Per lei suo padre era tutt'altro che un padre, lei
non era nemmeno una figlia ribelle, semplicemente non lo
ascoltava. Sembrava che lui avesse cento, mille opinioni su ogni
argomento possibile, si dilungava su troppe cose e, se afferravo
bene quello che diceva Friedl, non c'era niente che in lui
avesse peso. Saltava di palo in frasca e credeva di far colpo,
mentre dava soltanto l'impressione di essere un confusionario. Era
molto buono, i figli non gli erano indifferenti ma non riuscivano
a interessarlo. Non voleva che lo disturbassero, li lasciava in
tutto e per tutto nelle mani della madre. Ma loro facevano quel che
volevano, e perciò erano ammessi solo singolarmente e
piuttosto di rado ai grandi pranzi che avevano luogo in
continuazione. Senza dubbio il racconto di Friedl era sincero e
anche abbastanza efficace, ma il linguaggio era così primitivo che
nessuno avrebbe sospettato in lei un interesse per la
letteratura o, meno che mai, la capacità di scrivere qualcosa.
Estrasse dei fogli da una borsa e domandò se volevo leggere
un suo scritto. Era una cosa molto scadente, lo sapeva lei per
prima, e se io avessi giudicato che proprio non era il caso,
avrebbe smesso di scrivere. A suo padre non faceva vedere niente,
lui demoliva tutto sotto un fiume di parole, e dopo se ne sapeva
ancor meno di prima. A lei premeva imparare a scrivere sotto la
mia guida, ci teneva molto, moltissimo.
Era chiaro che mi stava alle costole solo per quel motivo,
non c'era nessun'altra ragione. Veza era dello stesso parere. Io
presi i fogli e promisi di leggerli. "So già che lei non vorrà
prendermi come allieva" disse Friedl alla fine, un po'"avvilita. "E"
una cosa troppo scadente per lei. Ma se non altro mi dirà se devo
smettere o se ha un senso che io continui a scrivere".
Probabilmente, senza che me ne rendessi conto del tutto, mi
piaceva in Friedl quella smania di scrivere, e anche il suo
desiderio di sapere da me la verità. Fatto sta che mi ritirai
nella mia stanza e lessi subito i suoi fogli. Non credevo ai miei
occhi: aveva copiato di sana pianta cinquanta pagine di
Dostoevskij e le presentava come opera sua! Era un testo
piuttosto avvincente ma un po'"campato in aria, io non lo
conoscevo, doveva appartenere a un abbozzo che Dostoevskij aveva
messo da parte.
Mi pesava il pensiero di rivedere Friedl e di doverle dire il
fatto suo. D'altra parte non si poteva accettare e star zitti,
anche per rispetto verso Dostoevskij. Era proprio quella mancanza
di rispetto a indignarmi più di tutto. Ma mi irritava anche la
faccia tosta di Friedl: come poteva credere che non scoprissi il
trucco? Era chiaro come il sole, chi conosceva anche un solo libro
di Dostoevskij e poi leggeva uno di quei fogli non poteva non
accorgersene, non c'era bisogno di essere scrittori o insegnanti.
Tutto questo glielo dissi due giorni dopo, quando me la vidi
davanti sulle scale. Non la invitai neanche a salire nella mia
stanza, tanto ero seccato.
"E" così scadente?" domandò lei.
"Non è scadente né buono" dissi io. "E" di Dostoevskij. Dove l'ha
pescato?".
"L'ho scritto io".
"Trascritto, vorrà dire. Da quale libro di Dostoevskij l'ha
copiato? Dopo il primo paragrafo si sa già chi è l'autore, ma non
conosco il libro da cui lei ha copiato".
"Da nessun libro. L'ho scritto io".
Teneva duro sulla sua versione, e io mi inalberai. Cercai
di fare appello alla sua coscienza, e lei stette ad ascoltarmi.
Sembrava che ne godesse. Invece di confessare continuò a
negare decisamente e mi provocò a tal punto che persi ogni ritegno
e la maltrattai. Voleva scrivere? Che cosa si era messa in testa?
Credeva davvero che bastasse rubare per cominciare a
scrivere? E il tentativo, per giunta, era così goffo che il primo
imbecille non poteva non accorgersene. E poi, anche a non
considerare il disprezzo che dimostrava per un così grande scrittore,
che senso aveva tutto ciò? A chi voleva darla a intendere?
Aveva studiato forse alla scuola del giornalismo? Era questa la
lezione che aveva succhiato come il latte materno dalla "Neue Freie
Presse"?
Friedl era raggiante, con gli occhi beati che pendevano dalle
mie labbra. Sembrava in preda all'entusiasmo quando
improvvisamente disse: "Ah, che bellezza quando lei si mette a
urlare! Le accade spesso di urlare così?". "No! Mai! E con lei non
parlo più se prima non mi dice da dove ha copiato!".
In quel momento, per fortuna, arrivò Veza. Guardò me, che
sfogavo la mia rabbia lì in piedi sullo scalino, e poi vide Friedl,
che aspettava giuliva il seguito della sfuriata. Non so come
sarebbe finita senza l'intervento di Veza. Come mi disse poi,
ebbe lì per lì la sensazione che io accusassi a torto la ragazza,
ma le sfuggiva il motivo per cui Friedl era così contenta.
Prese da parte la ragazza per accompagnarla nella stanzetta
foderata di legno. A me disse: "Chiariremo tutto. Cerca di calmarti!
Và a passeggiare per un'oretta e poi torna da me".
Mentre io passeggiavo venne a galla la verità. Le cinquanta
pagine della controversia non erano copiate, erano davvero di
Friedl. Non per niente mi erano sembrate campate in aria. Non per
niente mi era stato impossibile scoprire da quale libro venissero
fuori. Non venivano da nessun libro. Friedl aveva divorato tutto
Dostoevskij, letteralmente ingoiato, e adesso non riusciva più a
esprimersi in modo diverso. Scriveva come lui, ma non aveva niente
da dire. Che cosa poteva avere da dire, a diciannove anni?
Buttava giù una pagina dopo l'altra, furiosamente, a ruota
libera, e quelle pagine sembravano di Dostoevskij senza però
essere una parodia. Era un caso di "possessione" che faceva
pensare alle storie delle suore isteriche. Non molto tempo
prima mi ero occupato di Urbain Grandier e delle suore di Loudun.
Come queste erano possedute da Urbain Grandier, così in Friedl si
era insediato Dostoevskij, un diavolo anche lui, e non meno
complicato.
"Tu dovrai fare l'esorcista" mi disse Veza. "Devi cacciare
da lei Dostoevskij. Fortuna che non è più al mondo, altrimenti
rischierebbe di essere condannato al rogo. E meno male che non è
entrato in tutt'e quattro le sorelle, ma solo in una. Alle altre
Dostoevskij non interessa. Ma non sarà una faccenda tanto
semplice".
Veza, che era così indipendente e sapeva difendersi senza
sforzo da ogni influsso che andasse contro le sue
inclinazioni o il suo giudizio, cominciò a prendersi cura di
Friedl. La riteneva una ragazza intelligente, ma di
un'intelligenza inconsueta. Friedl riusciva a impegnarsi sul
serio solo quando sottostava a un influsso esterno. Tentava
disperatamente di essere il contrario di suo padre, non voleva
diventare un guazzabuglio di cultura né un polo di mondanità; la
toccavano e la esaltavano le cose umane, puramente umane. Si
lasciava guidare solo da qualcuno cui si fosse votata per qualche suo
estro incomprensibile. Questo qualcuno, da quando aveva letto la
Blendung, ero io; e dunque, diceva Veza, avevo forse il diritto
di infischiarmi degli effetti del mio stesso libro? "A te piace tanto
andare a passeggiare, da quando abitiamo a Grinzing. Qualche volta
prendi Friedl con te e cerca di parlarle. Ha un carattere facile e
allegro, tutto il contrario di quello che ha scritto. Le
vengono certe idee buffe. Credo che abbia un'inclinazione
per il grottesco. Devi sentirla quando racconta dei ricevimenti a
casa sua! Niente a che fare con quello che si potrebbe supporre
leggendo la "Fackel". Piuttosto, viene fatto di pensare a Gogol"".
"Impossibile" dissi io, ma Veza sapeva benissimo dov'ero
vulnerabile, e l'immagine che una creatura così limpida e
graziosa fosse cresciuta in un'atmosfera gogoliana e ora fosse
posseduta da Dostoevskij - il quale era uscito "come tutti noi dal
Cappotto" (1) - mi pareva una versione ben originale di quella
celebre parentela letteraria. Proprio in questo vedevo forse una
possibilità di liberarla dalla sua ossessione. Era un compito
piacevole quello che Veza pensava di assegnarmi, non c'era
niente che non
avrei fatto a maggior gloria di Gogol". Mi sembrava anche di
capire che Veza, con molta delicatezza, aveva fatto la pace con la
Blendung, perché anche il mio romanzo era uscito "come tutti noi
dal Cappotto". Veza - con mio sollievo - non si preoccupava più
tanto della sorte del libro. Capiva che cos'era successo alla
ragazza con quella lettura, se ne dava pensiero e mi chiamava in
aiuto.
Veza era irresistibile quando il suo istinto sicuro si alleava
al suo calore umano. Presto finì come doveva finire, e accettai di
farmi accompagnare da Friedl nelle mie passeggiate. Certo, la
ragazza non doveva pretendere di imparare a scrivere come s'impara
un'altra materia, ma potevo uscire con lei, parlarle e scoprire
che cosa si annida in un essere umano. Friedl era piuttosto
capricciosa e qualche volta partiva di corsa, mi precedeva di un
tratto e si fermava ad aspettare che la raggiungessi. "Devo
sfogarmi," diceva "sono così contenta di poter uscire con lei".
La facevo raccontare di sé, non c'era argomento di cui non
parlasse, parlava in continuazione, sempre a proposito di persone che
frequentavano la sua casa. Da un po'"di tempo aveva il permesso di
partecipare anche lei ai ricevimenti. Non aveva il minimo rispetto
per gli illustrissimi invitati e li vedeva quali erano veramente.
Spesso le sue comiche osservazioni mi lasciavano interdetto, e allora
facevo mostra di non crederci, lei esagerava, quel che diceva non era
possibile. Ma poi venivano fuori tanti particolari che io non
smettevo più di ridere, e quando cominciavo a ridere Friedl
rincarava la dose inventando sempre nuove storie, finché anch'io
cominciavo a inventare. Era quello a cui lei voleva arrivare: una
gara di invenzioni.
Le davo anche dei "compiti": la interrogavo sulle persone
che incontravamo nelle nostre passeggiate, ma solo su quelle che
lei non conosceva. Doveva raccontarmi ciò che pensava di loro, e
magari, se le veniva qualche buona idea, anche la loro storia. Così
avevo un certo riscontro, perché quelle persone le vedevo anch'io e
potevo stabilire che cosa Friedl notava in loro e che cosa le
sfuggiva. E la correggevo, non già rimproverandola per una
negligenza o una inesattezza, bensì sfoderando la mia versione a
proposito di questo o quel passante. Era una specie di gara tra
Friedl e me, e per lei diventò una vera passione, sebbene non
le interessasse tanto mettere alla prova la propria immaginazione
quanto ascoltare la mia storia. Il dialogo era molto spontaneo,
senza ritegni. Se qualcosa le dava da pensare me ne accorgevo
subito, perché allora Friedl ammutoliva e qualche volta, per
fortuna raramente, era presa da un profondo scoraggiamento:
"Non imparerò mai a scrivere. Sono troppo schlampig, mi
mancano le idee". Schlampig a Vienna stava per "pasticcione", e
lei era certamente pasticciona, ma di idee ne aveva più che a
sufficienza. Non mi dispiaceva in lei una certa inclinazione per
il fantastico, che era poi la qualità più rara nei giovani scrittori
di mia conoscenza.
A volte le facevo inventare i nomi delle persone che
incontravamo. Non
era il suo forte, e questo "compito" lo svolgeva di
malavoglia. Preferiva parlare dell'aspetto delle persone, dei
discorsi che facevano a casa loro. Poteva essere un chiacchierio
innocente che serviva soltanto a confermare quanto Friedl fosse
brava nelle imitazioni. Ma poi, all'improvviso, veniva fuori un
particolare orribile che mi sbalordiva. Friedl ne parlava senza
nessun turbamento e senza immaginare quanto fosse strano e quanto
poco s'intonasse alla sua limpidezza infantile, alla leggerezza
della sua andatura.
Tranne i pochi giorni della sua vita coniugale, Friedl aveva
sempre abitato a Grinzing. Era venuta al mondo su
un'automobile. Quando sua madre era stata presa dalle doglie, il
padre l'aveva caricata sulla vettura e si era seduto accanto a lei
per condurla in clinica. Lui aveva attaccato a parlare e aveva
continuato, secondo il suo solito, per tutto il tragitto.
Arrivarono alla clinica, la vettura si fermò, e la bambina
giaceva sul pavimento, venuta al mondo senza che nessuno dei due se
ne fosse accorto. Friedl attribuiva la sua instabilità a
quell'autoparto. Doveva sempre muoversi, non resisteva in nessun
posto; al tempo del matrimonio, quando suo marito, che era
ingegnere, andava in fabbrica, lei non poteva stare a casa ad
aspettarlo. Una mattina, una delle prime mattine, scappò fuori, se
ne andò di casa, se ne andò da Presburgo e si ritrovò a
Grinzing, nella Himmelstrasse. Lì conosceva tutti i sentieri e
correva nel bosco. I prati le piacevano ancora di più, si
accovacciava a cogliere i fiori e scompariva nell'erba. A volte,
durante le passeggiate, notavo gli sguardi bramosi che lanciava ai
prati, ma tuttavia riusciva a dominarsi perché uno di noi stava
raccontando una storia, e questo era per lei ancora più importante
della sua libertà. La attiravano soprattutto le cose piccole e
umili, ma non era insensibile neanche ai panorami, specialmente se
c'era una panchina per sedersi e magari un tavolo dove si poteva
ordinare qualcosa da bere.
Ma per lei la cosa che contava di più era ciò che si
manifestava nelle parole. Non ho mai conosciuto un bambino che
ascoltasse così avidamente. Dopo che io l'avevo provocata in
tutti i modi possibili, andava sempre a finire che toccava a me
raccontare una storia; ed è vero che l'eccitazione con cui Friedl
accoglieva ogni frase aveva su di me un effetto più profondo di
quanto fossi disposto ad ammettere.
NOTE:
(1) Secondo una frase famosa di Dostoevskij, tutta la letteratura
russa moderna è uscita dal Cappotto di Gogol" ?N" d'T"*.
La delicatezza dello spirito
In quei pochi anni di Grinzing condussi una vita molto varia,
così contraddittoria che non riesco a stabilire tutte le parti di
cui si componeva. A ogni esperienza di allora reagivo con la stessa
intensità, e sebbene non vi fosse alcun motivo per essere sereni,
non mi lasciavo neanche spaventare dalla minaccia incombente. Mi
attenevo ostinatamente al mio programma. Non mi stancavo di
leggere e di prendere appunti per il libro sulla massa, e ne
parlavo a tutti quelli con cui valeva la pena di parlarne. Non so
quanti altri si sarebbero votati a un'impresa simile con lo stesso
impegno e le stesse pretese. Ma nessuna delle teorie correnti
riusciva ad afferrare tutto ciò che accadeva - e accadeva una
mostruosa quantità di cose che si rovesciavano vorticose su una
quantità anche maggiore di altre cose.
Si viveva in una vecchia capitale che non era più capitale
ma aveva attirato su di sé gli occhi del mondo grazie ai suoi
programmi sociali, arditi e ben ponderati. Erano state fatte cose
nuove che potevano servire da modello. Erano state fatte senza
usare la violenza, si poteva esserne orgogliosi e si viveva
nell'illusione che avrebbero resistito, mentre nella vicina
Germania la grande ossessione guadagnava terreno e i suoi corifei
occupavano tutti i posti di comando nell'apparato statale. Ma
ora, nel febbraio del 1934, il potere del municipio di Vienna era
stato stroncato. Tra coloro che ne avevano sostenuto la causa
regnava lo sconforto. Era come se tutto fosse stato inutile,
quella che era stata la nuova peculiarità di Vienna era
cancellata. Rimaneva il ricordo di una Vienna precedente, non
ancora abbastanza remota per essere assolta dalla correità nella
prima guerra mondiale in cui era andata a cacciarsi. I viennesi non
avevano più dinanzi agli occhi una speranza che potesse
contrapporsi alla miseria e alla disoccupazione. Molti, incapaci di
vivere in un simile vuoto, furono colpiti dal contagio
germanico e sperarono di arrivare a una vita migliore lasciandosi
ingoiare dalla massa più grande. I più non volevano ammettere
neanche con se stessi che tutto ciò poteva solo condurre a una
nuova guerra, e quando se lo sentivano dire dai pochi che avevano
coscienza del pericolo preferivano chiudere gli occhi alla
verità.
In quei giorni, come ho già detto, la mia vita personale era
assai varia e ricca di contraddizioni. Trovavo una
giustificazione a me stesso nel mio ambizioso progetto. Ad esso
restavo fedele, ma non facevo niente per affrettarne
l'attuazione. Tutto quello che accadeva nel mondo confluiva nel mio
progetto come esperienza. Non era un'esperienza superficiale, perché
non si fermava alla lettura dei giornali. Ogni avvenimento era
discusso con Sonne nel giorno stesso in cui se ne era avuta notizia,
e lui l'analizzava a più riprese, cambiando spesso il punto di
vista per penetrare più a fondo e offrendo alla fine una sintesi
delle possibili prospettive, nella quale i pesi erano distribuiti
con la più scrupolosa equità. Quelle ore del giorno erano le più
importanti, una incancellabile e feconda iniziazione agli eventi
della scena mondiale, alle loro complicazioni, alle loro tensioni e
alle loro sorprese. Nulla però riusciva a farmi desistere dai
miei studi personali. Intorno a quel periodo mi rivolsi, con
maggiore attenzione che per il passato, agli studi etnologici, e
sebbene poi, per una specie di discrezione nei confronti di
Sonne, mi inducessi solo raramente a esporgli qualche idea che
mi sembrava nuova e importante, era inevitabile che le nostre
conversazioni finissero pur sempre nella storia delle religioni,
un campo nel quale egli aveva una cultura immensa, mentre io
avevo acquistato a poco a poco una preparazione che mi
permetteva di afferrare tutti i suoi discorsi e di controbattere ciò
che non mi pareva convincente.
Quando gli accennavo alle ricerche sulla massa e alla mia
intenzione di approfondirle, Sonne non dava segni di
insofferenza. Ascoltava le mie spiegazioni, rifletteva e taceva. Non
disse mai una parola che potesse scalfire ciò che andava
preparandosi dentro di me. Per lui sarebbe stato un gioco rendere
ridicolo il mio concetto di massa, un concetto che stava
prendendo una consistenza sempre maggiore e sfuggiva a ogni
definizione. Nel giro di un'ora Sonne avrebbe potuto distruggere
quello che era diventato il compito della mia vita. Con me non
discusse mai il problema, ma neanche mi scoraggiò; né cercò (come
aveva fatto Broch) di distogliermi dall'impresa. Si astenne
dall'aiutarmi, e in tutto ciò che riguardava la massa non lo ebbi mai
come maestro. Una volta, nonostante tutto, mi avvenne di toccare
l'argomento e lo feci con riluttanza, proprio
malvolentieri, perché sapevo che ogni obiezione di Sonne poteva
essere molto pericolosa per me. Lui mi ascoltò attentamente, con
calma, rimase zitto più a lungo di quanto accadesse di solito
durante una discussione, e poi disse, quasi con delicatezza: "Lei ha
aperto una porta. Adesso deve entrare. Non cerchi l'aiuto di
nessuno. Sono cose che bisogna fare da soli".
Raramente si esprimeva in questi termini, e si guardò bene
dall'aggiungere altro. Non intendeva dire che mi negava il suo
aiuto. Se gliel'avessi chiesto non me l'avrebbe rifiutato. Ma io,
all'inizio, non gli avevo domandato nulla. Gli avevo esposto ciò che
per me era già chiaro, e forse volevo soltanto che mi fermasse se
riteneva che mi ero messo su una strada sbagliata. Ora, con la
parola "porta", mi diceva che per lui quella strada non era
affatto sbagliata. Ma certamente voleva mettermi in guardia, col
tocco leggero che gli era abituale. "Sono cose che bisogna fare da
soli". Mi metteva in guardia contro le teorie che abbondavano
tutt'intorno e che non spiegavano niente. Sapeva meglio di ogni
altro quanto quelle teorie sbarrassero la strada a ogni conoscenza
dei fenomeni collettivi. Sonne era amico di Broch, lo stimava e
forse gli voleva anche bene. Quando parlava con lui il discorso
non poteva non cadere su Freud, al quale Broch era profondamente
devoto. Mi sarebbe davvero piaciuto scoprire come faceva Sonne
a sopportare quei discorsi senza reagire in maniera offensiva, ma
non era proprio possibile porgli una domanda così personale. Che
avesse obiezioni fondamentali contro Freud lo sapevo da quando,
una volta, aveva attaccato con veemenza la "pulsione di morte":
"Anche se fosse vero, non si sarebbe mai dovuto esprimere un
concetto simile. Ma non è vero. Tutto sarebbe troppo semplice, se
fosse vero".
Ciò che si svolgeva tra Sonne e me lo sentivo come la vera
sostanza della mia giornata: valeva per me anche più di ciò che
scrivevo a quel tempo. Allora non riuscivo a concludere nessuna
delle cose a cui lavoravo. Le ragioni erano molte, e la più
importante era certamente la consapevolezza della mia
insufficiente preparazione. Non che ritenessi assurda l'impresa in
cui ero impegnato: restava ben salda la mia convinzione che
dipendeva da noi stabilire e poi anche applicare le leggi della
massa e del potere. Ma con l'incalzare degli avvenimenti le
dimensioni di una simile impresa sembravano crescere ogni giorno,
incessantemente. Le conversazioni con Sonne avevano il potere di
acuire a dismisura la sensibilità per il futuro. Lui non cercava in
nessun modo di sminuire il pericolo, anzi la coscienza del
pericolo diventava sempre più forte in te, come se Sonne ti
mettesse a disposizione
uno straordinario telescopio che solo lui sapeva regolare a dovere.
Nello stesso tempo avevi la percezione della tua spaventosa
ignoranza. Non bastavano le idee che ti ballavano nella testa.
Sì, lampi e folgorazioni ti riempivano di orgoglio, ma c'era il
rischio che ti precludessero la via della verità. C'era una
pericolosa vanità dell'intelligenza. L'originalità non era
tutto, e neanche la forza, e neanche il micidiale ardire al quale
Karl Kraus ti aveva educato.
I lavori letterari in cui allora ero occupato mi
lasciavano insoddisfatto e restavano a metà. Non vi rinunciavo
definitivamente, li accantonavo. Era proprio questo che ispirava a
Veza le più profonde apprensioni. Una volta, durante una seria
discussione, Veza arrivò a sostenere che l'intelligenza di Sonne
esercitava sugli altri un'azione che li rendeva sterili. Certo, era
il migliore di tutti i critici - alla fine, non senza sforzo, Veza
doveva ammetterlo -, ma bisognava andare da lui solo per
mostrargli qualcosa di compiuto. Non era una persona da
frequentare ogni giorno. Era l'uomo della rinuncia, forse un
saggio, un asceta puro. Egli prevedeva il peggio, ma poi non
agiva concretamente per opporvisi, si limitava a dirlo, a
enunciarlo: come potevo accontentarmi di questo? Quando tornavo a
casa dai colloqui con Sonne sembravo quasi paralizzato, secondo
Veza, e lei faticava a strapparmi qualche parola. Sì, a volte - e fu
un'osservazione che mi ferì profondamente - Veza aveva
l'impressione che Sonne mi avesse convertito alla prudenza. Avevo
smesso di leggerle ciò che scrivevo, un capitolo di un nuovo
romanzo, un nuovo dramma. Quando mi interrogava cautamente, la mia
risposta era sempre la stessa: non è ancora al punto giusto per te,
voglio lavorarci ancora. Perché in passato tutto era al punto
giusto per lei? Perché allora avevo più coraggio?
Veza diceva che tutto era cominciato con l'umiliazione sofferta
a causa di Anna. Di ciò si era resa conto perfettamente, e per molto
tempo aveva temuto le conseguenze della serata in cui avevo letto
la commedia nel palazzo della Maxingstrasse. Per questo lei
aveva stretto amicizia con Anna, per capire che creatura fosse
in realtà, poiché io l'avevo vista trasfigurata e l'avevo
glorificata in tutti i modi facendone il contraltare di sua madre.
Adesso Veza la conosceva così bene da essere sicura di una cosa:
con Anna non bisognava sentirsi sconfitti - lei non amava come gli
altri esseri umani, e certamente non amava come sua madre. Anna
aveva le sue leggi personali, rigide, come vetrificate: si
poteva contemplarla e ammirarla, trovare meravigliosi e
ineguagliabili i suoi occhi, ma non si doveva mai sentirsi guardati
da lei. Se una volta posava gli occhi su una cosa, lei doveva
giocarci, doveva conquistarsela, come se si trattasse di un
gomitolo, di un oggetto, non di alcunché di vivo. Soltanto quel
gioco degli occhi era pericoloso in lei, per il resto era una buona
amica, fiduciosa, ingenua, generosa, su cui addirittura si poteva
fare assegnamento; ma c'era un limite da non superare: non si
doveva mai tentare di legarla. Senza la sua libertà Anna non poteva
esistere, ne aveva bisogno per il suo gioco degli occhi, per
nient'altro, ma quella era l'esigenza più profonda della sua natura e
non sarebbe cambiata mai, nemmeno con l'avanzare dell'età: chi
aveva avuto in sorte occhi simili non poteva fare altrimenti, era
soggetto e asservito alle pretese di quegli occhi, come anche altri
esseri umani, certamente, ma loro in veste di vittime, lei di
cacciatrice.
Quella mitologia degli occhi mi divertiva. Sapevo quanto c'era di
vero nelle parole di Veza e quanto Veza mi aveva aiutato grazie alla
sua amicizia con Anna. Ma sapevo anche quanto Veza si ingannasse
sull'altro punto. La mia amicizia con Sonne non
era nata dall'infelice esperienza con Anna, era qualcosa di
autonomo e di sovrano, la più pura esigenza della mia natura,
che si vergognava delle proprie scorie e poteva trovare una
correzione o almeno una giustificazione solo nei severi dialoghi
con uno spirito di gran lunga superiore.
Invito in casa Benedikt
Durante quel primo incontro al LiliputBar la signora Irma, la
madre di Friedl, mi era piaciuta per le sue parole schiette, senza
fronzoli, dietro le quali non si avvertiva niente di
pretenzioso: si era pronti a credere a quel che diceva, e senza
pensarci due volte. Aveva una testa molto rotonda, come non ne
conoscevo: non era una testa slava, che pure sarebbe stata
attraente, era di un altro tipo. Venni a sapere da Friedl che sua
madre era per metà finlandese. Benché fosse nata a Vienna, era
andata molto presto in Finlandia come ospite della famiglia
materna e vi era poi ritornata regolarmente.
In casa loro si parlava spesso di
una zia della madre che si era fatta notare per la sua vita
indipendente e le sue attività intellettuali. Zia Aline era
vissuta molti anni a Firenze e aveva tradotto Dante in svedese.
Possedeva un'isola lassù in Finlandia e ogni tanto vi si ritirava
per scrivere in assoluta solitudine. Non si era mai sposata, per
orgoglio e per riservare la sua libertà alle cose dello spirito.
Friedl era la sua pronipote prediletta, e zia Aline aveva in animo
di lasciarle in eredità l'isola finlandese. Faceva impressione
sentire Friedl quando parlava di quell'isola. A lei non interessava
il possesso materiale, ma l'idea di un'isola tutta sua la mandava in
estasi. Non vi era mai stata, ma ne aveva un'immagine molto
avventurosa, specialmente delle tempeste invernali, quando si restava
tagliati fuori da ogni rapporto con la terraferma. Non parlava
mai dell'isola senza offrirmela solennemente: un regalino, per
così dire, che secondo lei era l'unico modo per attestare la
sua ammirazione a colui che considerava il suo modello letterario.
A volte accettavo l'isola, a volte no. In ogni caso era il luogo
in cui Dante era stato tradotto in svedese. Mi commuoveva
piacevolmente la generosità dell'offerta, ma più ancora la
longevità che così Friedl mi attribuiva. Mentre mi descriveva i
luoghi solitari e le bellezze dell'isola, venivo a sapere per
inciso alcuni particolari che mi facevano un'impressione
assai maggiore. Una volta, quando il discorso si spostò dall'isola
finlandese verso temi svedesi, Friedl mi disse che la sua madrina di
battesimo era Frieda Strindberg, la seconda moglie di Strindberg,
un'amica di gioventù di sua madre che adesso abitava a Mondsee e
spesso veniva a trovare i Benedikt. Friedl ne portava il nome ma
aveva anche altre cose in comune con lei. La signora Irma, quando la
figlia la faceva disperare per il suo disordine, le diceva: "Ecco
che cos'hai ereditato da Frieda, la tua madrina. E" proprio vero
che col nome si prendono anche certe qualità". Quella Frieda
Strindberg era nota come l'essere più disordinato del mondo.
Friedl era andata da lei una volta, quando era ancora piccolissima.
La confusione che aveva trovato l'aveva talmente colpita che
subito si era messa in testa di riprodurla nella sua stanza di
bambina. Ci aveva provato spesso, quando la lasciavano sola:
apriva cassetti e sportelli, tirava fuori tutti i vestiti e la
biancheria, li buttava alla rinfusa in mezzo alla stanza e poi si
sedeva felice su quel disordine. Così aveva anche lei una stanza
come la casa della sua madrina. Ma non aveva mai confessato alla
mamma quale fosse l'origine di quel terribile disordine. Questo
era il suo grande segreto, il più grande di tutti, e perciò
doveva rivelarmelo. Guai se fossi entrato improvvisamente nella
sua stanza, perché a vederla anche solo una volta avrei provato un
tale orrore di lei da rifiutarmi per sempre di condurla a passeggio
con me. In realtà io non avevo nessuna intenzione di vedere la sua
stanza e non dovevo quindi preoccuparmi di quella eventualità. Ma
l'accenno a Strindberg mi diede come una fitta, e credo che fu
questo a farmi apparire la casa dei Benedikt in una nuova
dimensione.
Immagino che Friedl, per attirarmi in casa sua, abbia assillato
ben bene sua madre perché gli invitati fossero quelli giusti e
messi a tavola al posto giusto. Infatti, sebbene lei si annoiasse a
quei ricevimenti, sebbene si rassegnasse di rado a parteciparvi,
aveva intuito ben presto dalle nostre conversazioni che io fiutavo
qualcosa di perverso e di equivoco là dove per lei non c'era altro
che convenzionalità e noia. Fin da bambina non aveva sentito
altro che nomi celebri. Per un certo periodo, quando già andava
a scuola, aveva pensato che tutti gli adulti fossero celebri, e
non era affatto una buona raccomandazione, né per loro né per gli
altri. Se a casa sua un nome nuovo veniva ripetuto spesso, i
motivi potevano essere soltanto due: o era qualcuno che era
diventato celebre all'improvviso - come si può fare perché accetti
un invito? - o era qualcuno che la celebrità l'aveva conquistata
da un pezzo - era nato celebre, pensava Friedl - e che,
trovandosi di passaggio a Vienna, veniva naturalmente a pranzo
da loro. Non le sarebbe mai passato per la testa che le cose
potessero stare diversamente, era sempre e soltanto la stessa
storia, e quindi la stessa noia. Adesso però, se durante i nostri
incontri mi faceva il nome di qualcuno che frequentava la loro casa,
Friedl avvertiva in me un soprassalto e mi sentiva domandare:
"Come? Anche lui viene da voi?", quasi fosse un atto illecito
metter piede in quella casa. Friedl notava che a certi nomi non
reagivo minimamente, e in effetti non mi stupivo che la casa fosse
frequentata da quei personaggi, perché era l'ambiente giusto per
loro, secondo il codice della "Fackel". Ma poi c'erano gli altri,
quelli che mi davano da pensare, e Friedl cominciò a
interessarsene e non tardò a capire che solo quelle erano le esche
con cui poteva attirarmi in casa sua. Ma anche questo richiedeva
tempo e preparativi abbastanza lunghi.
"Oggi è venuto a pranzo Thomas Mann" disse un giorno, e mi guardò
piena di speranza.
"Ah sì? E di che cosa parla Thomas Mann con suo padre?"
Non avevo saputo trattenermi, e capii troppo tardi quanto
fosse indelicata la domanda, perché era facile arguirne tutto il
mio disprezzo per il padre di Friedl. Evidentemente io non gli
riconoscevo la capacità di sostenere una conversazione con Thomas
Mann.
"Di musica" rispose Friedl. "Non hanno fatto che parlare di
musica, soprattutto di Bruno Walter".
Ma aggiunse che lei di musica non capiva niente e quindi non
poteva darmi ragguagli precisi. Perché non andavo a sentire con le
mie orecchie? Sua madre mi avrebbe invitato così volentieri,
ma proprio non ne aveva il coraggio. Tutti mi giudicavano un
tipo scontroso, simile al Kien del romanzo: un misogino, e anche
piuttosto sgarbato. "Io dico sempre alla mamma che lei mi racconta un
mucchio di cose divertenti. "E" uno che ci disprezza" dice la
mamma. "Non capirò mai come può uscire a passeggio con te"".
Dopo diversi tentativi Friedl riuscì ad adescarmi. Della famosa
triade che aveva brillato nel cielo della décadence viennese
tra Ottocento e Novecento: Schnitzler, Hofmannsthal e BeerHofmann,
soltanto il terzo era ancora al mondo. Aveva scritto
pochissimo e passava per il personaggio più "esclusivo" della città.
Ormai da decenni continuava a lavorare allo stesso dramma. Non ne
era mai soddisfatto, nessuno sapeva persuaderlo a terminare la sua
fatica. Era questo l'unico motivo per cui BeerHofmann mi
interessava: vedevo in lui tutto l'opposto di un giornalista e
conoscevo di lui soltanto una poesia. La sua riservatezza,
nella Vienna di quegli anni, aveva qualcosa di misterioso. La
gente si domandava come fosse arrivato a un prestigio così alto
con così poche opere. Io mi immaginavo che evitasse ogni contatto
"inquinante" e che frequentasse soltanto persone del suo stesso
valore. Ma come faceva, adesso che gli altri due della triade non
erano più in vita? Ed ecco che Friedl veniva a dirmi che
BeerHofmann era un ospite quasi fisso a casa sua, che ci andava
spesso e che non era affatto un misantropo. Era un vecchio
vigoroso, con una moglie bellissima che aveva vent'anni meno di
lui e sembrava ancora più giovane. Tutto questo era già abbastanza
allettante, ma la spinta decisiva, quella che mi indusse ad
accettare l'invito, fu un vero colpo di scena. Emil Ludwig, il
personaggio del giorno, colui che scriveva un libro in poche
settimane e ancora se ne vantava, aveva promesso di andare dai
Benedikt per conoscere il colendissimo Richard BeerHofmann. Adesso,
diceva Friedl, tutti erano curiosi di assistere a
quell'incontro, e io non dovevo lasciarmi sfuggire un'occasione
così divertente. Lei immaginava già che il dialogo tra i due si
sarebbe svolto come tra due personaggi di fantasia. Aveva
convinto sua madre a invitarmi, e sua madre mi avrebbe telefonato
quel giorno stesso. La mia curiosità era stuzzicata, ringraziai e
accettai.
Invece della cameriera venne ad aprirmi Friedl, che dalla
finestra mi aveva visto arrivare. Disse subito, come se fossimo
dei congiurati: "Ci sono già, tutt'e due!". Nel salotto il padre
di Friedl mi salutò con un paio di frasi smaccatamente adulatorie,
che però non si riferivano a niente in particolare. Disse che non
aveva ancora letto il mio libro, perché tutte - le signorine e sua
moglie - se lo passavano tra loro, ma finalmente
era riuscito a strapparglielo, e adesso era lì - mi indicò un
tavolino -, non se lo lasciava più portar via, avrebbe iniziato la
lettura quel pomeriggio stesso, voleva farsi forte conversando con
l'autore prima di imbarcarsi nella pericolosa avventura, c'erano
in giro certe leggende, si raccontava quanto il libro fosse
perfido, ma anche avvincente, benché dopo una prima occhiata
all'autore non si sarebbe proprio detto. Non senza stupore mi
accorsi della sua innocuità, ma anche lui della mia. Dopo le
descrizioni che gli avevano fatto della Blendung si aspettava di
trovarsi di fronte a un poète maudit.
Mi condusse da BeerHofmann, il più illustre dei suoi ospiti,
quello che non scriveva più di due righe in un anno. Il vecchio
signore dall'aria imponente restò seduto e disse con sussiego:
"Giovanotto, io non mi alzo, lei non pretende mica che mi alzi?".
Emisi qualche sillaba di assenso, come lui sicuramente si aspettava,
e già ero trascinato verso un ometto piccolo piccolo che stava
lì in tutta la sua
esplosiva gracilità. Costui non fece caso alla mia mano, e
così non fui costretto a dargliela, ma subito potei
ascoltarlo mentre inondava BeerHofmann con la sua spumeggiante
ammirazione. L'ometto era Emil Ludwig, intento a proclamare la
venerazione che già da tanto tempo - fin dall'infanzia? - nutriva
per BeerHofmann. La parola "maestro" affiorò più volte dallo
sproloquio, e anche "perfezione", e perfino "compiutezza", un
vocabolo piuttosto indelicato all'indirizzo di uno che asseriva di
aver bisogno di decine d'anni per scrivere un dramma di normale
lunghezza e poi non lo portava neanche a compimento.
BeerHofmann dondolava gravemente la testa, ascoltava tutto
attento, non perdeva una parola, era molto sicuro di sé; e chi
non si sarebbe sentito sicuro al cospetto di quel minuscolo
velocista della scrittura, primatista delle vendite e
intervistatore universale? - Un peso massimo si misurava contro una
piuma. (1) - Ma il vecchio signore corpulento non si sentiva del
tutto a suo agio, il contrasto tra la sua dignitosa parsimonia di
scrittore e la diarrea letteraria del mingherlino era troppo
clamoroso, e poi lì c'erano anche altri ad ascoltare. Così
BeerHofmann interruppe quell'uggiolio idolatrico e disse con
rammarico, ma anche con fermezza: "E" troppo poco".
Aveva pubblicato così poco che doveva dirlo, e chi avrebbe
potuto rispondergli su questo punto? Nella sala c'era forse una
dozzina di persone, e tutte trattennero il fiato. Ma Emil Ludwig
aveva pronta la risposta, questa volta una frase sola:
"Shakespeare sarebbe meno Shakespeare se avesse scritto soltanto
l'Amleto?".
La sua impudenza lasciò tutti a bocca aperta. BeerHofmann
non dondolava più la testa. Oso ancora oggi cullarmi nella
speranza che, nonostante la grande presunzione che lo
distingueva, non si attribuisse la paternità di un Amleto.
Subito dopo, durante il pranzo, Emil Ludwig provvide a rifarsi
di tanta abnegazione badando più a sé e tessendo l'elogio della
propria fecondità e facilità di scrittura, della propria conoscenza
del mondo, degli importanti amici e ammiratori che aveva in
ogni Paese. Conosceva tutti, da Goethe a Mussolini. Seppe
descrivere con toccante efficacia il contrasto tra quella che definì
la spoglia dimora di Goethe a Weimar e l'immensa sala in cui era
stato ricevuto a Palazzo Venezia. Quel salone, che paragonò a un
continente imperiale, lui l'aveva percorso in tutta la sua
lunghezza, a passettini, per arrivare fino all'uomo che con aria
risoluta lo aspettava all'altra estremità, dietro il mastodontico
scrittoio. Mussolini sapeva chi era l'uomo che veniva verso di
lui, e quando Ludwig, dopo la lunga traversata, si trovò infine
davanti allo scrittoio (senza alcun dubbio il più grande del mondo,
anche più grande di quello che lo stesso Ludwig aveva ad Ascona), lo
accolsero parole lusinghiere che la modestia impediva di riferire.
Mussolini dimostrava un istinto sicuro nel cogliere l'importanza di
un personaggio come Ludwig, noto in tutto il mondo letterario, e
infatti gli accordò una serie di lunghi colloqui che furono
pubblicati in tutti i grandi giornali del pianeta e naturalmente
anche in volume. Ma questa
era acqua passata. Da allora erano usciti altri libri, sei, otto,
l'ultimo era Il Nilo. Per scriverlo, Ludwig era stato in Egitto.
L'aveva terminato in sei settimane. Il padrone di casa,
seduto a capotavola, interruppe il racconto e indicò con un
gesto riverente e invitante un tavolino poco lontano, sul quale Il
Nilo era posato in piena solitudine e in tutto il suo spessore.
Ma Ludwig non ci fece caso, era già proteso verso altri lidi, si
diffondeva con trilli di gioia o con toni sibillini su tre o
quattro progetti che lo aspettavano. Di quel che sarebbe venuto
poi, era meglio non parlare, giacché dopo tutto non era lui
l'unico invitato. "E noi non vogliamo dimenticare, pur con tutto il
nostro legittimo amor proprio - solo i pezzenti sono modesti ATTENZIONE: SI E" RISCONTRATO UN ERRORE
NON PREVISTO DALLA CONVERSIONE DEL FILE.
SI PREGA COMUNICARE ALLA BIBLIOTECA CIECHI
IL NOME DI QUESTO FILE.
GRAZIE PER LA COLLABORAZIONE.
, non vogliamo dimenticare colui che oggi, a questa tavola,
rappresenta il prezioso Jung Wien di fine secolo. l'unico
rappresentante di una tradizione imperitura che sia ancora tra
noi, l'unico e il più grande".
Non era una tirata da poco, ma corrispondeva
all'opinione di casa Benedikt e forse anche a quello che
BeerHofmann pensava di sé, perché diversamente sarebbe
stato difficile conservare quella sostenutezza di fronte al
mondo. BeerHofmann, come poi ebbi modo di vedere più di una volta
negli incontri con lui, lasciava trapelare che Hofmannsthal
aveva ceduto troppo alle tentazioni del mondo: ai suoi occhi,
tutto quello che aveva a che fare con Salisburgo, i
libretti, l'interesse per l'opera lirica, era un'aberrazione. Emil
Ludwig doveva essergli profondamente antipatico - lo era a tutti
i commensali, con l'eccezione del padrone di casa -, ma
BeerHofmann non poteva restare indifferente nel sentirsi
proclamare "il più grande" fra i tre grandi dello Jung Wien.
Subito dopo Ludwig volse di nuovo il timone verso se stesso.
Doveva farsi vedere all'Opera, era un debito che aveva con Vienna,
e aveva prenotato un palco per quella sera. Ma non poteva andarci
senza un'accompagnatrice. Si augurava di trovarla in una delle
quattro figlie dei Benedikt. La più bella. Friedl, seduta di
fronte a lui, lo ascoltava con interesse. Non lo interruppe e
non rise neanche una volta. Ludwig si sentiva ammirato da lei,
e in verità era lei che lo spronava, con la sua ingannevole
attenzione, a prolungare quelle iperboliche effusioni su se stesso.
Ludwig la pregava dunque di tenersi libera per quella sera e di
accompagnarlo all'Opera. Friedl aveva avvertito nettamente la mia
antipatia per Ludwig e forse esitava ad accettare l'invito nel
timore di perdere un po'"della mia stima. L'istinto le diceva che
la mia stima non poteva essere molto grande, perché dopo tutto
lei apparteneva a quella famiglia esecrata. Ma pregustava il
ridicolo contegno che Ludwig
avrebbe probabilmente tenuto all'Opera, come anche il resoconto
pepato con cui lei mi avrebbe divertito. Così accettò, e alcuni
giorni dopo, alla nostra prima passeggiata, venni a sapere tutto
quello che era successo.
Emil Ludwig, nel suo palco, non si stancava di balzare su dalla
poltrona per farsi notare dal pubblico. Aveva fatto il galante con
Friedl accompagnando le arie dell'opera, prima sottovoce, poi
sempre più forte. Gli spettatori dei palchi vicini avevano reagito
contro l'importuno, ma era proprio quello che Ludwig voleva. Alle
proteste non fece caso, sembrava in trance, inebriato dalla
presenza della sua giovane accompagnatrice. Riuscì a distrarre
gli occhi del pubblico dal palcoscenico per attirarli sul suo
palco. Alla fine qualcuno andò a cercare l'usciere dei palchi
per fargli le sue rimostranze e perché cessassero quei rumori
molesti, e così venne a sapere chi era quel tappo che saltava su
continuamente e si affacciava alla balaustra a cantare e a
gesticolare: Emil Ludwig in persona. La voce si sparse in un
battibaleno, e quando fu ben sicuro che tutti erano al corrente,
Ludwig si concesse di colpo un po'"di riposo. Non ricordo quale
opera si rappresentasse quella sera, ma Friedl raccontava che al
momento degli applausi lui si era inchinato e invece di battere
le mani si era preso gli applausi come se fossero diretti a lui, e
solo quando lei gli aveva fatto notare l'inopportunità della sua
condotta si era rassegnato molto a malincuore a battere le mani una o
due volte.
NOTE:
(1) Nel testo eine Feder vale "una piuma", ma anche "una penna
per scrivere", mentre è implicito il riferimento a Federgewicht
("peso piuma") ?N" d'T"*.
"Io cerco i miei pari!"
Già alla seconda visita in casa Benedikt accadde qualcosa che per
me trasformò in un palcoscenico orientale quello che era stato un
regno del demonio. Avevo salito i gradini che portavano all'ingresso
e avevo già suonato il campanello quando udii dietro di me dei passi
frettolosi, un po'"strascicati; mi meravigliai, perché non
potevano essere i passi di un ospite adulto, e mi voltai.
Davanti a me stava tutta affannata la giovane "giapponese",
come la chiamavo io, la ragazza che da mesi incontravo nella
Himmelstrasse, col mantello aperto, una ciocca di capelli neri sul
viso, le impetuose movenze da mimo, come in un ritratto d'attore
di Sharaku, come in
una scena del teatro Kabuki. Era un'invitata, come me? Una
ragazza così giovane? Ero talmente sbalordito da questa idea che
dimenticai di salutare. Lei fece un cenno col capo e non disse una
parola, la porta si aprì, Friedl si affacciò, come la prima
volta, rise vedendoci l'uno accanto all'altro sulla stuoia e disse:
"Sei tu, Susi? Questo è il signor C". E questa è Susi, la mia
sorella più piccola".
Avevo buoni motivi per sentirmi imbarazzato, ma anche Susi lo
era. Infatti, sebbene le fossi del tutto indifferente, senza
dubbio sapeva che la incontravo ogni giorno nella
Himmelstrasse. Non veniva come invitata, veniva dalla scuola,
aveva fatto tardi come sempre, e questa era la ragione
dell'affanno e della fretta. Subito scomparve salendo al piano di
sopra, e Friedl disse stupita:
"Ma allora la Susi lei l'ha già vista spesso. Non me ne ha mai
parlato".
"Non sapevo chi fosse. Lei non mi aveva detto che la sua sorella
più piccola ha quattordici anni?".
"Infatti. Però ne dimostra diciotto".
"L'ho presa per una giapponese".
"Ha un aspetto così esotico. Nessuno sa spiegarsi come sia
spuntata nella nostra famiglia".
Poi entrai nel salotto. Ma ancora per un poco mi sentii confuso.
Finalmente mi rendevo conto di aver cercato quegli incontri
nella Himmelstrasse: ero sceso sempre alla stessa ora e avevo fatto
in modo da non lasciarmi sfuggire la ragazza quando usciva dalla
Strassergasse. Una ragazzina di quattordici anni che veniva dalla
scuola! Il suo affanno, la sua eccitazione, che si erano
comunicati anche a me, non avevano nessun significato
particolare: una ragazzina che temeva di far tardi a casa per il
pranzo. Certo, gli attori giapponesi, che non potevo dimenticare,
avevano contribuito a quell'impressione, e anche il mio amore per le
stampe di Sharaku. Ma perché mai Susi aveva l'aria di un attore
uscito da una di quelle stampe? Aveva un fascino esotico, e non
c'era paragone tra la sua bellezza inspiegabile e Friedl, che
incarnava l'impertinenza e la leggerezza di Vienna. Era una
sensazione così forte che non ne feci parola, e nessuna delle
sorelle venne a sapere che ad attirarmi sempre più nella loro
casa era ormai il pensiero del mistero che avvolgeva quella
ragazzina.
Domandai un giorno a Friedl se era capace di ascoltare molte
cose insieme in un locale affollato, mentre da tutte le parti si
parlava, si litigava, si cantava. Non voleva credere che fosse
possibile: che cioè si potesse ascoltare più di una voce
contemporaneamente senza lasciarsi scappare qualcosa. Le spiegai che
nell'orecchio entravano due, tre, quattro voci tutte insieme e che
la cosa più interessante era il gioco che si svolgeva tra quelle
voci. Le voci non avevano riguardo l'una per l'altra e
prorompevano alla loro maniera, come un meccanismo d'orologeria
caricato a dovere, inarrestabili, ingovernabili; ma quando poi
insieme ad esse si afferravano altre voci contemporaneamente, ne
venivano fuori le cose più strane, era come se tu avessi la
chiave giusta di un particolare meccanismo d'orologeria, una
chiave capace di svelare le interazioni, per così dire, delle
quali le voci stesse non sapevano niente.
Promisi di darle una dimostrazione: doveva solo venire con me
qualche volta, cominciare con le mie orecchie, in un certo senso,
mettendosi al mio posto, e presto avrebbe acquistato anche lei quella
facoltà che poi sarebbe diventata un'abitudine di cui non avrebbe
più potuto fare a meno.
La condussi una volta, a tarda notte, nel caffè della
Kobenzlgasse, dove la gente si ritrovava quando gli Heurigen (1)
avevano già chiuso e l'ultimo tram della linea 38 era partito. Il
pubblico era più assortito che negli Heurigen. In principio
arrivavano quelli che non si erano divertiti abbastanza nelle ore
precedenti la mezzanotte e pensavano di "arrotondare" la nottata. Ad
essi si univano persone del posto che dopo aver servito da bere
per tante ore, finito il lavoro, volevano spassarsela a loro volta
in un'atmosfera diversa ma non troppo estranea. Erano costoro a
dare il tono: i clienti degli Heurigen non erano più al centro
dell'interesse, non erano in maggioranza, né occorreva badare a
loro in particolare. Col passare delle ore, infatti, i clienti
venivano relegati sempre più nella parte di spettatori, e al posto
dei canterini degli Heurigen, di cui il pubblico aveva ascoltato o
accompagnato le canzoni tra una bevuta e l'altra, entravano in
scena i veri cittadini di Grinzing, personaggi che per la loro
originalità e le loro stranezze superavano tutte le aspettative di
chi frequentava le mescite popolari o i locali di maggiori pretese.
In un'ora potevano succedere più cose al caffè della Kobenzlgasse
che in tutta
una serata negli altri posti; e quasi ogni sera, mentre i
clienti di fuori cambiavano, i personaggi del luogo erano gli
stessi.
Eravamo arrivati piuttosto tardi perché volevo che Friedl,
per la sua iniziazione, sperimentasse tutta la discordanza
delle voci quando l'attesa era già al culmine. Il caffè era
pieno zeppo, fumo e baccano ti venivano sbattuti in faccia come
strofinacci, neanche un posto libero da nessuna parte, ma in
onore di Friedl, che arrivava come una boccata d'aria fresca
- lei saltava come un gatto in quella baraonda, gli occhi le
scintillavano -, ci lasciarono un varco e ci costrinsero a sederci invece di
farci lottare per la conquista di un posto. "Non capisco niente,"
disse Friedl "le orecchie sentono tutto, ma non capisco niente".
"Udire è già tanto," dissi io "adesso succederà qualcosa che
sbroglierà il garbuglio".
Contavo sulla comparsa di un uomo che avevo già visto alcune
volte: la notte del sabato non mancava mai e mi dava non poco da
riflettere per tutta la settimana. Non passò molto tempo, la porta si
aprì e apparve il personaggio, secco, piuttosto alto, una nera
testa da uccello con gli occhi sporgenti. Con passo ondeggiante,
quasi danzando, si aprì la via fino al centro della sala, fece
arretrare con i gomiti, senza però urtare nessuno, tutti quelli
che gli stavano intorno, cominciò a girarsi su se stesso, levando
le mani a mezza altezza in un gesto di supplica, e accompagnò il
gesto dicendo: "Io cerco i miei pari! Io cerco i miei pari!". Lo
disse in un modo che sembrava quasi un canto. Quel "miei" suonava
solenne come l""io" o il "noi" di un sovrano. Le mani abbracciavano
nell'aria qualcuno che non c'era, appunto i suoi pari, e intanto
l'uomo continuava a girarsi su se stesso, continuava instancabile,
impedendo a tutti di avvicinarsi alle sue mani, e cantava: "Io
cerco i miei pari! Io cerco i miei pari!" - il grido lamentoso e
protervo di un trampoliere.
"Ma quello è il Leimer!" disse Friedl. Lo conosceva, ma come
poteva averlo riconosciuto lì? Lo conosceva di giorno, non l'aveva
mai visto di notte, quando andava tra la gente col suo grido
regale. Di giorno stava alla piscina di Grinzing, di cui era
proprietario con i fratelli. Là assegnava le cabine ai clienti
o sedeva alla cassa. A volte, se ne aveva voglia, dava anche
lezioni di nuoto. Poteva permettersi qualche capriccio, perché la
piscina incontrava le simpatie generali ed era sempre ben
frequentata. Spesso era così piena che non si riusciva più a
entrare: da tutte le parti di Vienna la gente arrivava in tram per
fare il bagno a Grinzing, e i Leimer passavano per una delle
famiglie più ricche del posto, forse la più ricca. I fratelli
dovevano il loro benessere a una madre ardimentosa, la quale ancora nel secolo scorso - si era lanciata davanti alla carrozza
dell'Imperatore e, giovane e bella com'era, aveva gettato a
Francesco Giuseppe una supplica in cui la famiglia Leimer
chiedeva un privilegio per l'acqua, necessario per l'apertura di una
piscina. Da poco era entrato in funzione l'acquedotto che dalle
montagne portava a Vienna l'acqua migliore, e
l'intraprendente signora aveva saputo approfittare del momento.
L'Imperatore le concesse il privilegio, e la sua benevolenza
assicurò alla piscina di Grinzing, come alla famiglia Leimer, i
vantaggi desiderati.
Era una storia arcinota, perché a quella piscina ci andavano
tutti. Ciò che il pubblico diurno ignorava era l'effetto che la
graziosa concessione dell'Imperatore aveva avuto, adesso che di
imperatori non ce n'erano più, su quel membro della famiglia.
"Io cerco i miei pari!" - quel grido "monarchico", a leggerlo
stampato, può anche suonare ridicolo. Ma non riusciva ridicolo
sulla bocca e nei gesti di colui che lo intonava di notte e lo
ripeteva con una cadenza sempre uguale, scandendo lentamente le
sillabe.
Struggendosi su se stesso, l'uomo si aggirava tra i tavoli e
poi di nuovo nell'angusto spazio centrale. Non parlava a nessuno,
nessuno gli parlava, per nulla al mondo avrebbe interrotto il
suo grido. Nessuno gli faceva il verso, nessuno tentava di
distoglierlo dalla sua ricerca. L'entrata in scena del Leimer era
ormai ben nota, e sembrava che non disturbasse nessuno,
nonostante la serietà che lui ci metteva. Essendo il padrone di
tutta quell'acqua di cui poteva disporre a piacimento, era un
personaggio rispettato, e tuttavia la sua irrequietezza portava nel
caffè una nota sinistra. Il grido si spegneva quando l'uomo si
faceva largo per uscire. Ma anche dopo che lui si era allontanato
il grido restava nell'orecchio.
Poi un vignaiolo seduto vicino a me disse: "Arriva il
francese!". Un altro, che mi stava quasi di fronte, raccolse la
frase e la ripeté avidamente. Era un fatto nuovo, qualcosa che non
capivo, e non potei spiegare alla mia accompagnatrice di che si
trattasse. Sembrava che anche agli altri tavoli ci fosse molta attesa
per "il francese". Non sapevo di nessun francese che abitasse
a Grinzing, ma la gente del posto doveva avere un'idea precisa del
personaggio: da come ne parlavano sembrava che il suo arrivo fosse
atteso come una scadenza annuale. Friedl ascoltò un paio di volte
l'annuncio: "Arriva il francese! Arriva il francese!", e quel
senso di attesa generale la indusse a rivolgersi a un
vicino, un uomo beatamente ubriaco - non che volesse
incoraggiarlo, perché già doveva difendersi da lui - per
domandargli: "Quando arriva il francese?". Nelle condizioni in cui
si trovava, l'ubriaco non sarebbe stato in grado di
rispondere a una domanda più complessa. - "Ma subito! Arriva
subito!".
Di lì a poco apparve un gigante biondo che dava
l'impressione di sovrastare di tutta la testa ogni persona
presente nel locale. Una giovane donna si stringeva a lui, e
dietro di loro tutto un codazzo faceva ressa. "Ecco il francese!
Ecco il francese!". Era proprio lui, mentre il seguito era
composto da gente di Grinzing. La donna era anche lei una Leimer, la
sorella di quello che era venuto a cercare i suoi pari. Il gigante
si procurò un posto, con tutto il suo seguito, ed era incredibile
quanta gente potesse accogliere il locale che già prima era
pieno. Ma si sedettero tutti, a un lungo tavolo - quelli che lo
occupavano in precedenza avevano fatto largo ai nuovi venuti e si
erano pigiati ad altri tavoli. La sorella del Leimer era ancora al
fianco del francese, continuava a stringersi a lui, ma adesso si
capiva che cercava di trattenerlo da qualcosa che non era ancora
accaduto e non sarebbe dovuto accadere. Qualcuno mi spiegò che la
donna era la moglie del francese: era andata a sposarlo in Francia
e una volta l'anno tornava in visita a Grinzing portandosi dietro il
marito. Lui era marinaio su un sommergibile, ma non era chiaro
se lo fosse ancora o lo fosse stato durante l'ultima guerra. Io non
mi capacitavo e lo guardavo stupito: un gigante simile in un
sommergibile! Io mi ero immaginato che per quei compiti si
scegliessero uomini piuttosto piccoli.
Tutti gli rivolgevano la parola, lui non capiva niente di
tedesco, e sembrava che le persone sedute al suo tavolo non
s'interessassero ad altri che a lui. Non conversavano tra loro,
pensavano solamente a lui. Tutti gli domandavano qualcosa e lui non
sapeva rispondere, gridavano addirittura per farsi capire, ma la
situazione non migliorava. Restava assolutamente muto, non diceva
una parola neanche nella sua lingua: un francese così alto e così
silenzioso non l'avevo mai visto. Quanto meno diceva, tanto più
la gente strillava al suo indirizzo. Anche da altri tavoli si
facevano tentativi di stuzzicarlo a parlare. La moglie, che gli
serviva da interprete e perciò gli si teneva così vicina, fece
all'inizio, allungando il collo, qualche movimento con le labbra.
Ma presto rinunciò. Non c'era speranza, forse la donna non sapeva
il francese abbastanza bene, ma anche se lo avesse conosciuto
come la sua lingua materna era escluso che potesse tener dietro a
quella valanga di grida e di richieste. Intanto continuava a tenere
il marito per il braccio, sempre più stretto. Il caos creato nel
locale da tutti i rumori possibili salì rapidamente fino a
diventare un enorme muggito che da tutte le parti si scaricava sul
francese. Se al nostro tavolo il frastuono era assordante, si può
immaginare che cosa doveva essere al suo.
Potevo vederlo benissimo e non gli toglievo gli occhi di dosso.
Come tutti gli altri, anch'io ero concentrato su di lui. Mancò poco
che gli gridassi qualcosa, nella sua lingua, ma lì, al culmine
dell'eccitazione generale, non gli sarebbe servito granché.
All'improvviso balzò in piedi e ruggì: "Je suis français!".
Con due poderosi movimenti delle braccia spazzò via tutti quelli che
aveva vicino. Con un salto formidabile scavalcò il tavolo e si trovò
in mezzo a un cumulo di corpi. Tutti gli si buttarono addosso
mentre lui andava avanti a ruggire con quanto fiato aveva. Si udiva
soltanto il suo grido di guerra: "Français! Français!". Spezzò
quel groviglio umano con una forza incredibile, anche per un
uomo della sua statura era un'impresa stupefacente. Si aprì un
varco verso la porta trascinandosi dietro uomini appesi a ogni
parte del suo corpo. Aveva perso il contatto con la moglie, che
era rimasta indietro, in mezzo a quelli del suo gruppo. L'uomo
le era sfuggito con quel primo balzo al di sopra del tavolo, e
adesso lei cercava di seguirlo, confusa tra gli altri della turba
ostile che gli stava alle calcagna. Ma lei non era tra quelli che
gli si aggrappavano alle braccia e alle gambe e non volevano
mollarlo. Quando il francese ce l'ebbe fatta, lei cercò di uscire
e di raggiungerlo, ma ciò che accadde poi sulla strada non
potei vederlo. Alcuni, rientrando, raccontarono che adesso la
moglie lo riportava a casa. Come cognato, il francese aveva
diritto all'ospitalità dei Leimer, quelli della piscina, e su
questo punto sembrava che nessuno avesse niente da obiettare.
Dentro il caffè, da quel momento, non si parlò d'altro. Il
francese, si diceva, veniva ogni anno. Si sapeva in anticipo del
suo arrivo, ci si preparava, e finiva ogni volta allo stesso modo.
Domandai a questo e a quello perché il francese era saltato su
all'improvviso. Faceva sempre così, fu la risposta, e nessuno sapeva
dire di più. In principio, per un poco, se ne stava seduto lì in
silenzio. Ma capiva quello che gli gridavano? - No, non capiva
una parola. - Allora, perché la gente ci provava? - Così, dipendeva
dall'umore generale. - E lui ruggiva sempre a quel modo,
dicendo le stesse parole? - Sì, sempre: "Je suis français!",
e la gente cercava di imitarle. Che forza, però, quel tipo. Già, ma
la gente non si lasciava mettere sotto.
Io mi domandavo quante parole straniere, completamente
incomprensibili, bisogna sentirsi dire, ognuna schiacciata in
mezzo a cento altre, per dare fuori da matto.
NOTE:
(1) Le numerose osterie dei dintorni di Vienna, e soprattutto di
Grinzing, con sale interne, giardino e tavoli all'aperto. Il nome si
richiama al vino nuovo, bianco e frizzante, chiamato Heurige, che si
produce sulle colline viennesi ?N" d'T"*.
Una lettera di Thomas Mann
Era una lettera circostanziata, scritta a mano, tutta in quel
linguaggio ben calibrato che si conosceva dai suoi libri. Vi erano
cose che non potevano non sorprendermi e rallegrarmi.
Esattamente quattro anni prima avevo mandato a Thomas Mann il
manoscritto del romanzo, in tre grossi volumi rilegati in tela
nera che dovevano avergli dato l'impressione di una trilogia.
Nella lettera di accompagnamento, lunga e asciutta, gli avevo
esposto il progetto di una "Comédie humaine dei folli". Non avrei
potuto usare un tono più altero, era difficile trovarvi una sola
parola di omaggio al destinatario, e Thomas Mann dovette
domandarsi che cosa mai poteva avermi indotto a scegliere proprio lui
come lettore.
Veza amava I Buddenbrook quasi quanto Anna Karenina, e se in lei
l'entusiasmo arrivava a un grado tale, succedeva spesso che mi
tenesse lontano dalla lettura di un libro. Avevo letto invece La
montagna incantata, la cui atmosfera mi era familiare grazie ai
racconti della mamma, che aveva trascorso due anni ad Arosa nel
sanatorio tra i boschi. Il romanzo mi aveva fatto una grande
impressione, se non altro per la problematica della morte, e sebbene
io avessi altre idee in proposito, l'analisi fatta dall'autore
era senza dubbio circostanziata, pari all'importanza del tema.
Allora, nell'ottobre del 1931, non mi vergognavo di rivolgermi in
prima istanza a Thomas Mann. Musil non l'avevo ancora letto, e un
motivo di ritegno sarebbe potuto venire solo dal fatto che avevo già
letto qualche libro di Heinrich Mann, che a me piaceva più del
fratello. Ciò che era stupefacente, in ogni modo, era la mia
fiducia in me stesso. In quella prima lettera non rendevo omaggio a
Thomas Mann, mentre La montagna incantata lo avrebbe senz'altro
giustificato. Ma ero dell'idea che gli sarebbe bastato dare
un'occhiata al manoscritto per sentirsi costretto a leggere fino in
fondo, senza scampo, perché quello era un libro irresistibile per
un autore pessimista quale Thomas Mann mi sembrava. Ma l'enorme plico
ritornò indietro intatto, con una garbata lettera nella quale lo
scrittore chiedeva venia spiegando che l'impegno era superiore alle
sue forze. Fu un colpo molto duro. Se non lo leggeva lui, chi
altri avrebbe voluto leggere un libro così tetro? Da lui mi ero
aspettato assai più che un consenso, qualcosa di molto vicino
all'entusiasmo. La parola di Thomas Mann, una parola che il libro
meritava e che egli avrebbe pronunciato con convinzione e non
solo per amichevole solidarietà, avrebbe potuto aprire la
strada al romanzo. Non vedevo ostacoli davanti a me, e forse per
questo gli avevo scritto con tanta presunzione.
La sua lettera di diniego era la risposta alla mia
presunzione, e probabilmente era la risposta giusta, dal momento che
Thomas Mann non conosceva il libro. Così il manoscritto rimase
bloccato per quattro anni. E" facile immaginare le conseguenze
per la mia vita esterna. Ma le conseguenze furono ancora più
gravi per il mio orgoglio. Mi sentivo offeso da quel diniego e
decisi di non prendere più iniziative per il libro. Solo a poco a
poco, dopo essermi fatto qualche amico attraverso le letture
pubbliche di brani del romanzo, mi lasciai persuadere a provare
con questo o con quell'editore. Furono tentativi infruttuosi,
come del resto mi aspettavo dopo il colpo che Thomas Mann mi aveva
vibrato.
Ora finalmente, nell'ottobre del 1935, il libro aveva visto la
luce, e io avevo la ferma intenzione di mandarne una copia a
Thomas Mann. La ferita che mi aveva inferto era rimasta aperta.
Lui era l'unico che potesse guarirla, se la lettura del libro lo
avesse convinto che aveva avuto torto, che aveva respinto
qualcosa che avrebbe meritato la sua attenzione. La lettera che
scrissi questa volta non
era sfacciata, poiché mi limitavo a esporgli i fatti e lo
mettevo già così, senza forzature, dalla parte del torto. Mi
rispose con una lunga lettera. Il suo carattere, la sua scrupolosa
coscienza lo avevano spinto a riparare a quel torto. La sua lettera,
dopo tutto quello che era successo, mi rese felice.
Nello stesso periodo il romanzo ebbe anche un'eco pubblica,
molto pubblica, poiché nella "Neue Freie Presse" apparve la
prima recensione. Era un articolo traboccante di elogi, ma
firmato da uno scrittore che io non stimavo e che era difficile
stimare. Fece tuttavia il suo effetto, poiché nello stesso giorno
(o fu il giorno dopo?), quando entrai al caffè Herrenhof, Musil mi venne incontro
con una cordialità che non gli avevo
mai conosciuto. Mi tese la mano e non solo sorrise, era
addirittura raggiante, e ne fui tanto più colpito perché ero
convinto che in pubblico non si permettesse mai un atteggiamento
simile. Disse: "Mi congratulo con lei per il suo grande
successo!". Aveva letto soltanto una parte del romanzo, ma se
continuava così, disse, quel successo me l'ero meritato.
Nell'udire dalla sua bocca quella parola, "meritato", fui preso da
una specie di ebbrezza. Aggiunse altre osservazioni molto
positive, ma preferisco non riportarle, perché forse, con la
piega che presero poi le cose, Musil avrebbe anche potuto
ritirarle più tardi. Furono parole che mi fecero perdere la
testa. All'improvviso capii quanto avessi contato sul giudizio di
Musil, forse non meno che su quello di Sonne. Ero inebriato e
confuso, dovevo essere molto confuso perché, altrimenti, come
avrei potuto commettere la più penosa delle gaffes?
Lo ascoltai fino in fondo e poi dissi subito: "E immagini
un po', ho anche ricevuto una lunga lettera da Thomas Mann!".
Musil cambiò fulmineamente, fu come se con un balzo si fosse
ritirato in se stesso, la faccia gli diventò grigia, era ridotto al
solo guscio. "Ah sì!" disse. Mi diede la mano a metà, così che
potei stringergli soltanto le dita, e si voltò bruscamente.
Così fui congedato.
Il suo fu un congedo definitivo. Musil era un maestro
nell'imporre le distanze, aveva una lunga pratica in quell'arte: se
respingeva una persona, la respingeva per sempre. Nel corso dei
due anni successivi mi accadde qualche volta di vederlo in mezzo
ad altra gente, ma non mi rivolse mai la parola pur
mostrandosi sempre cortese. Non si lasciò più attirare in una
conversazione con me. Se qualcuno faceva il mio nome, se ne stava
zitto come se non sapesse di chi si parlava e non avesse nessuna
voglia di informarsi.
Che cos'era successo? Che cosa avevo fatto? Qual era la colpa
imperdonabile da cui non poteva più assolvermi? Avevo
pronunciato il nome di Thomas Mann nello stesso istante nel quale
lui, Musil, mi esprimeva il suo apprezzamento. Avevo parlato di una
lettera di Thomas Mann, una lunga lettera, subito dopo che lui,
Musil, si era congratulato con me e aveva motivato le sue
congratulazioni. Doveva supporre che io avessi mandato il romanzo a
Thomas Mann, come a lui, con una dedica altrettanto piena di
ammirazione. Non conosceva l'antefatto e non sapeva che il primo
invio era avvenuto già quattro anni prima. Ma anche se avesse
conosciuto tutta la vicenda, anche se fosse stato al corrente di
ogni particolare della vecchia storia, non si sarebbe offeso meno
profondamente per la mancanza che avevo commesso nei suoi
riguardi. In Musil il senso dell'onore arrivava a una
suscettibilità che non ho mai sperimentato in nessun altro, e non può
esservi dubbio che io, felice e confuso com'ero, mi ero preso troppa
confidenza. Era comprensibile che mi facesse espiare la mia colpa. E"
un'espiazione che mi ha molto addolorato, in realtà non sono mai
riuscito a consolarmi del fatto che Musil mi voltò le spalle in
quello che per me rimane il momento più alto tra quanti ne ho
vissuti con lui. Ma proprio perché era lui a infliggermela, ho
accettato questa espiazione. Ho capito tutta la gravità dell'offesa
che gli facevo in quello stato di confusione mentale che accompagna
l'improvviso riconoscimento di un merito, e me ne sono vergognato.
Musil doveva credere che io collocassi Thomas Mann più in alto
di lui. Non poteva ammettere una simile valutazione da parte di
qualcuno che
aveva sempre proclamato il contrario. Per Musil il rispetto
doveva avere
una motivazione intellettuale, altrimenti non era da prendere
sul serio. Per Musil fu sempre importante una chiara scelta tra lui
e Thomas Mann. Se si fosse trattato soltanto di un personaggio
come Stefan Zweig, la cui fama era affidata soprattutto all'intensa
attività, il problema di una simile scelta non si sarebbe mai
posto. Ma Musil sapeva benissimo chi
era Thomas Mann, e ciò che lo irritava principalmente
era la misura dell'apprezzamento riservato a Thomas Mann in
rapporto a quello riservato a lui. A suo modo, proprio in quel
periodo, Musil si era adoperato in favore di Thomas Mann (senza
che io ne avessi la più pallida idea), ma nella consapevolezza
che lui stesso valeva di più, con l'intima sensazione che lui
aveva il diritto di strappargli
una parte della sua celebrità. Tutte le lettere di Musil a
Thomas Mann, nelle quali gli offre aiuto, hanno il tono di
altrettante rivendicazioni. Le cose cambiavano nel mio caso: qui
c'era un giovane che, dopo avergli reso l'omaggio più convinto,
proprio nel momento in cui vede accettata e riconosciuta da lui
la propria opera, tira fuori per l'appunto il nome che lui, Musil,
ha il diritto di soppiantare, che lui - per il momento - tenta
ancora inutilmente di scalzare. Questo comportamento getta
un'ombra di sospetto su tutti gli omaggi del passato. Nelle cose
dello spirito ciò equivale a un delitto di lesa maestà e merita la
pena dell'ostracismo.
Il brusco commiato di Musil lasciò in me un segno profondo.
Già nel momento in cui avveniva davanti a me, in senso strettamente
fisico, nella sala dello Herrenhof, intuii che qualcosa di
irreparabile si era compiuto.
Adesso però non mi sentivo di rispondere alla lettera di Thomas
Mann. Dopo l'effetto che il suo nome aveva prodotto su Musil era
subentrata in me una sorta di paralisi. Per alcuni giorni non
riuscii a prendere in mano la lettera. Rimandai la risposta così
a lungo che a un certo punto mi era diventato impossibile anche
solo ringraziare Thomas Mann. Poi ritornai alla sua lettera e la
rilessi con una gioia tanto maggiore. Fintanto che ad essa non
avevo reagito, la mia gioia rimaneva intatta. Ogni giorno avevo
la sensazione di avere appena ricevuto la lettera. Può darsi che,
dopo averla aspettata per quattro anni, volessi fare aspettare
Thomas Mann ancora un po', ma questa è una congettura di oggi. Gli
amici che sapevano di quella lettera mi domandavano come avessi
risposto, e tutto quello che io potevo dire era soltanto: "Non
ancora, non ancora!". Dopo qualche mese la domanda era: "Che
spiegazione lei gli darà? Come giustificherà il fatto che non ha
ancora risposto a una lettera simile?". Era un'altra domanda alla
quale non sapevo rispondere.
Nell'aprile del 1936, dopo più di cinque mesi, appresi dai
giornali che Thomas Mann sarebbe venuto a Vienna per una
conferenza su Freud. Mi parve l'ultima occasione per rimediare al mio
ritardo. Gli scrissi la lettera più ridondante della mia vita,
non vedevo altro modo per chiarire la mancanza che avevo commesso.
Oggi proverei un po'"di vergogna a leggere quella lettera. Al
momento di scriverla, infatti, conoscevo l'opera di uno scrittore
che per me contava più di lui: i primi due volumi dell'Uomo senza
qualità. A Thomas Mann ero realmente grato, perché quella ferita
si era chiusa. Nella sua lettera c'erano cose che mi
riempivano di orgoglio. In fondo, senza confessarmelo,
facevo dopo quattro anni la stessa cosa che proprio Thomas Mann
aveva fatto: un atto di riparazione dopo una negligenza. Lui aveva
letto la Blendung e aveva espresso la sua opinione, io avevo
sostituito la mia prima lettera piena di presunzione con
un'altra in cui moltiplicavo la riverenza che avrei dovuto
tributargli fin da allora.
Credo che Thomas Mann se ne sia compiaciuto. Ma il cerchio
non si è mai chiuso del tutto. Io dicevo nella mia lettera
quanto piacere mi avrebbe fatto poterlo incontrare durante il
suo soggiorno a Vienna. Fu invitato a pranzo dai Benedikt. Là,
quel giorno, Thomas Mann chiese di me e disse che mi avrebbe visto
assai volentieri. Al pranzo era presente Broch, il quale spiegò che
io abitavo lì a due passi, dall'altra parte della strada, e si
offrì di cercarmi e di andare a prendermi. Venne a casa mia e non
mi trovò, avevo appena preso il tram per andare da Sonne al Café
Museum. Così avvenne che Thomas Mann lo sentii parlare in pubblico
ma non l'ho mai conosciuto di persona.
Ras Cassa. - Gli schiamazzi notturni
Una comitiva indiana, a tarda sera, in uno degli Heurigen della
Kobenzlgasse. Davanti all'ingresso cinque o sei automobili di lusso
depositano il loro carico, una comitiva di forse trenta persone
occupa il locale, sono tutti indiani, cercano di accaparrarsi
una sala, gli altri clienti che li hanno preceduti sgomberano
premurosamente i posti e passano nella seconda sala. Vi sono giovani
indiani, vestiti elegantemente all'europea, con gioielli alle dita
che brillano di pietre preziose, bellissime donne in sari, tutti,
uomini e donne, scuri di pelle, neanche un bianco tra loro - hanno
l'aria di non volere estranei e lo fanno capire mentre cercano
sorridendo, ma con piglio risoluto e sempre in inglese - nessuno di
loro conosce il tedesco -, di far vuotare la sala laterale.
Ora che sono tutti seduti, i musicisti del posto si
avvicinano dall'altra stanza e si accingono a cantare per loro. Il
portavoce degli indiani rifiuta con un gesto energico: è la loro
musica che vogliono far sentire lì, alla meglio. Da un angolo
si ode già un suono che sembra il verso di un grillo, inconsueto,
vago; tutti ammutoliscono, poi segue un canto che alla gente del
paese sembra malinconico, quasi un inno funebre, e proprio lì,
nell'allegro Heurige di Grinzing; ed è per questo che tutti hanno
fatto silenzio. Adesso si vorrebbe sapere - la canzone è
appena finita - che roba è, e il portavoce degli indiani, con
un sorriso invitante che chiede comprensione per quella musica,
dice: "An Indian lowsong". Nessuno capisce. Che cos'è un lowsong?
Da quando gli indiani hanno attaccato con la loro musica c'è
nell'aria una curiosa tensione, altre teste spuntano nel vano
della porta, c'è gente fuori che preme per vedere. Nessuno ha
ancora messo piede nella sala degli indiani. Lowsong? Lowsong?
Poi qualcuno, forse io stesso, trova la soluzione: lovesong,
lovesong, una canzone d'amore indiana. Allora la delusione si fa
strada: "Una canzone d'amore! Oh bella! Hai sentito!". E la musica
dello Heurige ha dovuto smettere per questa roba. La chiamano canzone
d'amore, da quelle parti!
Gli indiani si aspettavano applausi per la loro canzone. Invece
avvertono ostilità, grida come quelle che accompagnano le canzoni
tradizionali del posto, che si sentono soppiantate e offese. Gli
indiani esitano, forse quella che hanno eseguito non era la giusta.
Provano con un'altra, ma il cantante non ha molta fortuna, per
orecchi inesperti l'effetto è ancora lo stesso. Ora c'è gente del
posto che, spinta da dietro, è già nella sala. Fuori le grosse
automobili sono state ispezionate con occhi pieni di astio. Il
portavoce degli indiani continua a sorridere, ma s'intuisce il
suo disagio di fronte ai plebei che gli si avvicinano; le
donne, sì, sono ancora sedute, ma si fanno piccole e non hanno più
il loro aspetto radioso, le voci degli intrusi diventano più forti
e più rudi, un indiano fa ancora sentire il verso del grillo.
Nessuno lo ascolta, in mezzo alla sala qualcuno lancia un grido
astioso e sguaiato: "Ras Cassa!".
E" il nome del capo abissino che combatte ancora contro gli
italiani. Mussolini ha aggredito l'Abissinia, bisogna
difendersi contro aeroplani e bombe. La fotografia di Ras Cassa è su
tutti i giornali. E" ammirato per il suo valore. Ha la pelle scura.
A parte il colore della pelle non ha altro in comune con questi
indiani di Grinzing; e tuttavia il suo nome, una volta gettato
lì, ha l'effetto di un grido di guerra. Benché pronunciato
alla viennese, lo afferrano anche gli indiani, che però vi sentono
qualcosa di minaccioso. Le note del grillo e il canto si perdono
nel frastuono crescente. Gli indiani si alzano e si spingono verso
l'uscita, prima esitanti, poi più in fretta. La gente li lascia
passare. Si ode ancora qualche grido di "Ras Cassa!", fuori
c'è un assembramento intorno alle grosse automobili.
L'ammirazione per tanta ricchezza cede il posto all'esecrazione
per tutto quel lusso. E" ancora un ostilità titubante, non
aggressiva, ma molto prossima a scatenarsi. L'ostilità si
esprime, in fondo, in quel grido di "Ras Cassa!", divenuto però
un insulto, l'ultima cosa che ci si potesse aspettare durante
questa guerra in Abissinia: tutte le simpatie, si pensava, erano
dalla parte dei deboli, degli aggrediti che hanno deciso di
difendersi in una guerra senza speranza. Ras Cassa! Ras Cassa! Gli
indiani scompaiono nelle automobili. Adesso tutto ciò che è scuro
di pelle è Ras Cassa. Gli indiani si allontanano.
Di notte scendevo nel giardino che dietro la casa digradava
per un ampio tratto lungo la collina. All'inizio dell'estate
l'aria era rischiarata da tracce luminose, dappertutto
lucciole, che io cercavo di seguire con gli occhi ma perdevo di
vista, erano troppo numerose. La loro moltitudine era inquietante
come se le avesse inviate un misterioso potere, risoluto a
eliminare la notte. Nella loro luce c'era un fascino che mi
entusiasmava fintanto che erano poche, ma poi si faceva ossessivo
col loro rapidissimo moltiplicarsi. Ero contento che si tenessero
basse, che non si levassero in alto e non si disperdessero
troppo.
Giungeva fino a me un cantare scomposto, da tutte le parti,
non troppo vicino, non fastidioso, soprattutto dalla direzione
del paese sottostante, il canto a squarciagola degli ubriachi
negli Heurigen, le loro canzoni impossibili da distinguere
l'una dall'altra, un mugghiare tra la gioia e il pianto, non
l'ululare di lupi. Era la voce di un animale vero e proprio, un
animale che lì si adagiava volentieri, contento di accucciarsi, di
commuoversi su se stesso e di abbandonarsi a questa commozione,
con una voce in cui non si sentiva tanto una minaccia quanto un
desiderio di beatitudine. Anche chi non aveva la minima
inclinazione per la musica poteva tuffarsi in quella fonte di
giovinezza e diventare parte di quel curioso animale d'osteria
unendosi alle voci di tutti gli altri.
Ogni notte stavo ad ascoltare tutto ciò dal giardino della
casa, nella parte alta della Himmelstrasse. Fintanto che
accoglievo in me quei canti a squarciagola nel loro insieme,
potevo giustificare davanti a me stesso il fatto di vivere lì. Me ne
veniva una sorta di disperazione che però non mi impediva di sentire
che avrei superato la prova, perché la affrontavo.
Era un esempio plausibile di quella che in seguito chiamai
massa festiva. (1) Quando scendevo a Grinzing con amici e mi
sedevo in una delle osterie con giardino, anche noi vi prendevamo
parte a modo nostro. Ci limitavamo a bere e a raccontarle grosse,
senza unirci a quei canti scomposti. Ad altri tavoli c'erano
altri che le raccontavano grosse. Tutto era a portata d'orecchi e
tutto era tollerato. Era comico e poteva essere impudente, ma non ti
era proibito eguagliare l'impudenza altrui. Tutto si muoveva nel
senso dell'esagerazione, ma nessuno toglieva qualcosa all'altro
e non c'erano scontri: per quanto grossolani fossero i desideri,
ognuno sembrava disposto a concedere all'altro la sua parte di
esagerazione. Nel frattempo si continuava a bere, il bere era il
magico strumento dell'amplificazione, e fintanto che si beveva
tutto s'ingrossava, sembrava che non ci fossero ostacoli,
divieti o nemici.
Quali enormi pietre, destinate allo scalpello di Wotruba,
mi accadeva di vedere quando ero seduto lì con lui! Ma intanto lui
tollerava che un giovane architetto, seduto con noi, elevasse città
intere. Wotruba lasciava addirittura che gli gettassero addosso
il nome di Kokoschka, cosa che raramente poteva passare liscia.
Era il nome più importante di cui allora potessero gloriarsi i
pittori e gli scultori di Vienna, e sebbene a quel tempo Kokoschka
fosse a Praga e di Vienna non volesse più saperne, chiunque avesse
a cuore la celebrità era fiero di lui, che era ritenuto
insuperabile. Quando gli amici volevano raffreddare i bollori
di Wotruba, quando avevano l'impressione che si prendesse troppo
sul serio, ecco che saltava fuori ad un tratto il nome di Kokoschka;
e sebbene Wotruba non avesse niente in comune con lo stile del
pittore - egli era l'esatto opposto di ciò che in Austria, negli
ultimi tempi, si richiamava al barocco -, quel nome, a causa della
sua importanza, aveva su di lui l'effetto di una mazzata sulla
testa.
Questa reazione la osservai più di una volta: era come se
improvvisamente lo paralizzasse la paura di non poter arrivare tanto
in alto, era qualcosa che proprio non s'intonava alla sua natura,
e io usavo allora appellarmi alla sua coscienza e metterlo in
guardia da una sopravvalutazione di Kokoschka, del quale,
comunque, egli non teneva in nessun conto le opere più recenti.
Solo allo Heurige, mentre fantasticava intorno a enormi blocchi di
pietra e raccontava di Michelangelo, che voleva scolpire
montagne intere dalle parti di Carrara per poi imbarcarle
sulle navi che si vedevano laggiù sul mare, montagne intere, non
semplici blocchi da spedire a Roma per la tomba del papa; mentre
si intuiva quanto lo affliggeva l'idea che Michelangelo non
lo avesse fatto davvero, sembrava che Wotruba pensasse ancora
adesso di incitare Michelangelo a farlo, e in verità erano i suoi
blocchi di pietra che stavano improvvisamente in mezzo a quelli di
Michelangelo, e lui gli toglieva il lavoro di mano senza tanti
complimenti -, solo in quegli istanti il nome di Kokoschka, se mai
qualcuno era tanto stupido da pronunciarlo, diventava un nome
insulso, più o meno come Hähnlein, (2) e Wotruba, al confronto,
possente come una montagna.
Con Wotruba assistevo letteralmente al moltiplicarsi e
all'ingrossarsi, si vedevano le pietre crescere. Non l'ho mai
sentito cantare, e dunque neanche unirsi a quei cori d'osteria,
tutt'al più ringhiare, ma allora era in collera e lui non andava
allo Heurige per sfogarsi.
Ma quando di notte scendevo tutto solo nel giardino e udendo
quei canti a squarciagola mi vergognavo di abitare così vicino e
non me ne andavo prima di averli assimilati fino in fondo e di
aver superato la vergogna, allora mi avveniva qualche volta di
chiedermi se laggiù non vi fossero anche altri che, come Wotruba,
non si abbandonavano a quei canti e dalla generale volontà di
amplificazione traevano forza per un fine particolare, per un fine
legittimo. Non mi sono mai dato una risposta. Non mi sarebbe stato
possibile scalfire la fiducia nella solida, inconfondibile
personalità del mio amico, ma già il fatto che mi ponessi la domanda
smorzava un poco la superbia dell'ascoltatore che si credeva
superiore a quegli schiamazzi di ubriachi.
Negli Heurigen ci andavo - di tanto in tanto, non spesso - in
compagnia di amici e specialmente di ospiti che venivano
dall'estero. In questi casi era quasi inevitabile fare gli onori di
Grinzing. Allora capivo anch'io, con l'aiuto di occhi
stranieri, che cosa avevano da offrire quei locali. Lì, dove la
vita conservava davvero un tono campagnolo, dove si poteva star
seduti tranquillamente in un giardino senza troppa gente intorno,
affiorava in molti il ricordo di antichi dipinti olandesi, di
Ostade, di Teniers. Non mancavano gli argomenti a favore di
questa idea, che ravvivava di colori la mia avversione per quel
cantare scomposto. Grazie a questi richiami pittorici compresi
finalmente che cos'era in realtà a disturbarmi in quella specie di
svago. Io ero ancora e sempre soggiogato da Brueghel, amavo tutto
ciò che aveva la sua ricchezza e le sue dimensioni, continuerò
sempre ad amarlo. A me riusciva insopportabile la caduta da quei
portentosi quadri d'insieme ai piccoli particolari addomesticati
dello stesso mondo, appunto ciò che avveniva nella pittura
olandese di genere. Era lo svilimento, era lo
spezzettamento a darmi la sensazione dell'inganno, e solo quando si
arrivava a scene come quelle provocate dalla presenza dei
distinti ospiti indiani che eseguivano le loro canzoni d'amore in un
simile ambiente e così si attiravano una reazione di ostilità, solo
allora quell'ambiente ritornava di colpo a somigliare al mondo
reale, a Brueghel.
NOTE:
(1) Cfr" Massa e potere, cit", pp" 73-75 ?N" d'T"*.
(2) Hähnlein, un cognome abbastanza diffuso, equivale a
"galletto", mentre Kokoschka vuol dire "gallinella", "piccola
chioccia" ?N" d'T"*.
Il tram 38
Non era un lungo tratto, io lo facevo da capolinea a
capolinea, neanche mezz'ora in tutto. Ma il viaggio sarebbe anche
potuto durare di più, era un tratto interessante, e non c'era
niente che facessi tanto volentieri quanto installarmi in una
vettura alla curva di Grinzing. All'inizio del pomeriggio, quando vi
salivo, la vettura era ancora quasi vuota. Mi sedevo in libertà
e aprivo il libro, uno dei non pochi che avevo con me. Lo stridere
delle rotaie completava la mia partitura, e per quanto questa mi
assorbisse, non tutti i sensi vi erano impegnati: ero pronto ad
accorgermi di ogni fermata e badavo a tutti quelli che prendevano
posto sulla panca di fronte a me. Era la distanza giusta per
osservare le persone. Prima si sedevano qua e là a caso, a una
certa distanza tra loro. A ogni fermata gli spazi liberi
diminuivano. I passeggeri che si sedevano dalla mia parte sfuggivano
all'osservazione. I più lontani erano coperti da quelli che
sedevano più vicino a me, e potevo guardarli solo quando salivano
nella vettura o quando poi si alzavano per scendere. Ma di
fronte a me se ne radunavano sempre in numero sufficiente, e
poiché questo avveniva un po'"per volta c'era il tempo di
inquadrarli con calma, mentre si susseguivano quasi a intervalli
precisi.
Alla prima fermata, al Kaasgraben, saliva Alexander von Zemlinsky
che io conoscevo come direttore d'orchestra, non come compositore:
una testa da uccello, tutta nera, con un naso triangolare assai
sporgente, senza alcuna traccia del mento. Lo vedevo molto spesso,
lui non badava a me, era davvero sprofondato nei suoi pensieri,
pensieri musicali, mentre io facevo solo mostra di leggere. Ogni
volta che lo vedevo, era inevitabile che mi mettessi alla ricerca
del mento. Non appena spuntava sulla porta del tram io avevo come
un piccolo sobbalzo e cominciavo la mia ricerca. Questa volta ce
l'ha, non ce l'ha, l'avrà finalmente trovato? Non l'aveva mai, e
anche senza il mento conduceva la sua vita molto intensa. Per me
era come se fosse il rappresentante dell'uomo che a quel tempo
non era più a Vienna, Arnold Schönberg. Pur avendo soltanto
due anni meno di Zemlinsky, Schönberg era stato suo allievo e
lo aveva ripagato con la venerazione, che era l'elemento
essenziale del suo carattere e di cui fu gratificato lui stesso dai
suoi allievi Berg e Webern. Schönberg era povero, e chi sa in
quali condizioni aveva dovuto tirare avanti a Vienna! Per
lunghi anni aveva strumentato operette, aveva dovuto
contribuire digrignando i denti allo splendore più dozzinale di
Vienna, lui che fonda ex novo la fama mondiale della città come
culla di grande musica. A Berlino gli era stato concesso di
insegnare ufficialmente composizione. Poi, licenziato come ebreo,
era
emigrato in America. Io pensavo a Schönberg ogni volta che
vedevo Zemlinsky, la cui sorella era stata sposata con Schönberg
per ventidue anni. E ogni volta lo guardavo con soggezione,
sentivo l'energia concentrata in quella testa piccola piccola,
profondamente segnata da linee pure, spirituali, così austera,
quasi macilenta, senza un'ombra della boria del direttore
d'orchestra, sebbene in tondo anche lui lo fosse. Non aveva
limiti il prestigio di cui Schönberg godeva presso i giovani più
seri e promettenti, e forse dipende da questo il silenzio che
circondava la musica di Zemlinsky. Nel guardarlo, non immaginavo
che esistesse musica sua. Sapevo però che Alban Berg gli aveva
dedicato la sua Suite lirica. Berg non era più al mondo.
Schönberg non era più a Vienna, e da questo pensiero ero sempre
commosso quando Zemlinsky, che li rappresentava, saliva alla
fermata del Kaasgraben.
Ma il viaggio poteva anche cominciare in tutt'altro modo se al
Kaasgraben saliva Emmy Wellesz, la moglie del compositore Egon
Wellesz. Questi si era reso benemerito con le sue ricerche sulla
musica bizantina, per le quali aveva avuto il
riconoscimento dell'Università di Oxford. Si parlava anche della sua
opera di compositore, ma meno di quanto Wellesz avrebbe
desiderato. Per lui era quasi un'offesa ricordargli che si era
distinto in un altro campo. Sua moglie era una storica dell'arte, e
io l'avevo già osservata da qualche tempo sul tram prima di farne
la conoscenza in società. Aveva uno sguardo intelligente, un po''
troppo mite, come se avesse deciso di convertirsi alla mitezza per
vincere una natura forse troppo penetrante. Poi, nel corso di una
lunga conversazione, appresi da dove veniva tanta mitezza. Emmy
Wellesz aveva un'infatuazione per Hofmannsthal, che aveva conosciuto
di persona, e quando parlava di lui, di come lui le era apparso in
anni lontani durante una passeggiata, simile a una visione
soprannaturale, quei lineamenti così assennati e critici si
trasfiguravano, la voce cedeva alla commozione e lei doveva
trattenere una lacrima. Ne parlava come se avesse incontrato
Shakespeare. Io trovavo ridicolo quel fanatismo, e da allora non
potei più prenderla sul serio. Solo molto tempo dopo scoprii
quanto Emmy Wellesz fosse già allora in armonia con la germanistica
più avanzata del secolo; e allorché venni a sapere dei preparativi
per l'edizione di tutte le opere di Hofmannsthal in centottantotto
volumi cominciai a vergognarmi della mia miopia. Che cosa non
darei adesso, a posteriori, per aiutare quella lacrima a scorrere
liberamente e per bagnarmi in quella mitezza.
Nei pressi del parco Wertheimstein, là dove la linea 39 si
distacca per Sievering, saliva talvolta un giovane pittore che
abitava nella vicina Hartäckerstrasse. Ero andato a trovarlo nel suo
studio un giorno che presentava i suoi quadri. Era il padrone di una
creatura dai capelli nerissimi, una bellezza eccitante che aveva il
fascino di un'antica yakshini (1) indiana, senza però essere
minimamente indiana. Si chiamava Hilde, e le sue origini le davano
diritto a quel nome. Era sottomessa al suo signore come una schiava:
una schiava che si guarda intorno con occhi languidi alla ricerca
di un liberatore ma che poi, quando le arride la liberazione niente sarebbe stato più facile per una donna così bella -, ritorna
docilmente alla frusta del suo padrone. Mai, in nessun caso, si
sarebbe lasciata liberare. Soffriva sotto quella dura signoria, ma
soffriva volentieri. Mi avevano raccontato di quell'insolito
rapporto, ma soprattutto della bellezza della ragazza, e forse
per questo avevo accettato l'invito all'atelier senza avere ancora
un'idea dei quadri del pittore.
Questi, sotto l'influsso di Braque, si era votato al cubismo.
La presentazione dei quadri avvenne con una solennità vagamente
rituale. Lentamente, impersonalmente, a intervalli regolari,
senza il minimo tentativo di accattivarsi lo spettatore con charme o
lusinghe, i quadri venivano collocati a turno sul cavalletto, e
sembrava doveroso reagire con altrettanta regolarità.
Uno scrittore che abitava al piano di sopra della stessa casa
assisteva alla presentazione in compagnia della sua amica. Era un
individuo imponente e mi colpì per le continue smorfie che faceva e
per le braccia lunghissime. Si era accomodato a una giusta
distanza dal cavalletto. La sua amica, poco vistosa ma a suo modo
assai docile anche lei, di un biondo un po'"insipido, gli sedeva
accanto e sorrideva come lui, sia pure con maggior discrezione,
all'apparire di ogni nuovo quadro. L'aria di dolciastro
apprezzamento che emanava dallo scrittore mi urtava i nervi nella
generale monotonia: ogni quadro suscitava in lui lo stesso piacere
ben calcolato, la stessa partecipazione come se fossimo stati in
San Marco a Firenze ad ammirare un Fra Angelico dopo l'altro. Io ero
talmente affascinato dal regolare ripetersi dello spettacolo di
quella reazione che tenevo gli occhi più sullo scrittore che sui
quadri, ai quali sicuramente non resi giustizia. Proprio a questo
mirava lo scrittore: la sua presenza e il gioco dei suoi consensi
diventarono la principale attrazione di quella piccola brigata, e
non era un risultato da poco se si considera che intanto la
schiava locale non risparmiava alcuno sforzo per richiamare
l'attenzione sul proprio stato di oppressa.
Con incrollabile sicumera, come se fosse a cavallo, lo scrittore
sorrideva dall'alto, intrepido cavaliere mai sfiorato da un dubbio
su se stesso, in confidenza da sempre con la Morte e il Diavolo,
abituato a trattare con loro da pari a pari. Ma non guardava la
prigioniera che si torceva in catene non lontano da lui; anzi
pareva a me che non vedesse nemmeno i quadri che gli sfilavano
davanti, tanto puntuale e uniforme era il sorriso con cui li
liquidava. Finita la presentazione, ringraziò sentitamente per quella
grande esperienza. Non si trattenne un attimo di più, e mentre la
schiava sorrideva invano, lui si ritirò con la sua amica. Solo
allora appresi il suo nome, un nome che trovai un tantino comico
sebbene si attagliasse a tutte quelle smorfie: si chiamava Doderer.
(Lo rividi vent'anni dopo in circostanze molto mutate. Era
diventato celebre, e venne a farmi visita a Londra. La
celebrità, mi disse, una volta che ha preso piede, è
irresistibile come una corazzata. Mi domandò se avevo mai ucciso
qualcuno, e alla mia risposta negativa fece una grande smorfia che
esprimeva tutto il disprezzo di cui era capace, e disse: "Allora
lei è una vergine!").
Ma era il giovane pittore a salire sul tram 38 a quella fermata
e a salutarmi col suo stile formale e incolore. Era sempre solo,
e un giorno che chiesi della sua amica la risposta non fu meno
contegnosa del saluto: "E" a casa. Quella non esce mai. Quella non
sa comportarsi". "E come va lo scrittore con le lunghe braccia da
scimmione, quello che abita sopra di lei?". Indovinò il mio
pensiero. "Quello è un signore. Quello sa comportarsi. Quello si
fa vedere solo quando io lo invito".
Di lì in poi, nella Billrothstrasse, il tram cominciava già ad
affollarsi, e quasi sempre finiva la possibilità di osservare
tranquillamente i passeggeri. Ma per me il viaggio offriva
ancora altre suggestioni, di natura storica. Dopo il Gürtel
veniva finalmente la Währingerstrasse, e ben presto passavo
davanti all'Istituto di Chimica, nel quale avevo passato alcuni
anni senza scopo e senza risultato. Mai una volta mi lasciavo
sfuggire la vista dell'Istituto in cui non avevo più messo piede
dal 1929. Lo guardavo con sollievo, congratulandomi di averla
scampata bella, e mentre il tram vi correva davanti si ripeteva per
me la fuga che non avrei mai potuto benedire abbastanza. Con
quale rapidità si può riguardare a un certo passato e con che
gioia si sfiora la salvezza dal pericolo corso un tempo! Quel
senso di esultanza mi accompagnava fino allo Schottentor e si
rinnovava ogni volta che il tram passava per la Währingerstrasse.
Hermann Broch, che veniva a trovarci a Grinzing, mi domandò
una volta se era quello il motivo per il quale mi ero stabilito lì;
e se nel fare la domanda non avesse tentato di squadrarmi con
l'occhio indagatore dell'analista, forse gli avrei dato ragione.
NOTE:
(1) Yakshini o yakshi: un genio femminile, spirito degli alberi,
portatore di vita e di abbondanza, che nell'arte indù è spesso
effigiato come donna di aspetto rigoglioso ?N" d'T"*.
Parte quinta - L'evocazione
Incontro insperato
Ludwig Hardt, che io avevo conosciuto in veste di dicitore durante
una matinée a Berlino nel 1928, viveva adesso in esilio a Praga e
veniva di tanto in tanto a Vienna a tenere qualche lettura.
Andai a sentirlo una volta e di nuovo rimasi incantato, come allora.
Ero sicuro che non si sarebbe ricordato di me, ma andai ugualmente
nel suo camerino per ringraziarlo. Non avevo ancora aperto la
bocca che mi balzò addosso e mi spaventò con una frase che coglieva
nel segno: "Lei ha perduto il suo idolo e non è nemmeno andato al
funerale!".
Karl Kraus era morto da poco, e in effetti non ero andato
al funerale. La delusione per la sua condotta dopo gli avvenimenti
del febbraio 1934 era stata enorme. Si era pronunciato a
favore del cancelliere Dollfuss, aveva accettato la guerra civile
per le strade di Vienna e avallato il peggio. Tutti, veramente
tutti l'avevano abbandonato. Ormai Karl Kraus teneva soltanto
piccole serate clandestine di cui non si sapeva nulla, non si
voleva saper nulla: in nessun caso si sarebbe cercato di esservi
ammessi. Era come se la persona Karl Kraus non esistesse più. I
vecchi numeri della "Fackel" erano ancora al loro posto senza che
io li avessi più aperti negli ultimi due anni: lui, come persona,
era soppresso in me come in molti altri, cancellato, non più
presente, in nessun modo e in nessun luogo. Era proprio come se Karl
Kraus, davanti al suo pubblico riunito, avesse tenuto uno dei
suoi più grandiosi discorsi contro se stesso e così si fosse
annientato. In quegli ultimi due anni della sua vita veniva
ancora nominato nelle conversazioni, sia pure con una certa
riluttanza, ma già come se si parlasse di un defunto. La notizia
della sua morte vera - morì nel giugno 1936 - la accolsi senza la
minima commozione. Non mi è rimasta nella memoria neppure la
data, e adesso ho dovuto addirittura documentarmi sul mese. Il
problema di andare al funerale non me lo posi nemmeno per un
istante. Nel giornale non lessi una riga, e non la sentii come
un'omissione.
La prima persona a spendere una parola sull'argomento in mia
presenza era adesso Ludwig Hardt. Dopo otto anni mi aveva
riconosciuto subito e si ricordava di quella conversazione a
Berlino nella quale mi ero coperto di ridicolo mostrando una
cieca venerazione per il mio semidio. Sapeva che cos'era successo nel
frattempo e dava per certo che non ero andato al funerale. Per la
prima volta provai un senso di colpa per quell'assenza. Volendo
rimediare all'effetto della sua frase, Ludwig Hardt si invitò da sé
e venne a farci visita a Grinzing.
Mi aspettavo una grande discussione, un colloquio
imbarazzante, ma ero talmente stregato dall'arte di Ludwig Hardt che
ero pronto a mettermi nelle sue mani. D'altra parte non potevo
pensare che un uomo come lui volesse
aver ragione a tutti i costi. Forse mi avrebbe compianto e si
sarebbe aspettato una sorta di confessione, l'ammissione che per
Karl Kraus avevo preso un abbaglio. Ma come avrei potuto rinnegare
l'uomo al quale ero debitore degli Ultimi giorni dell'umanità e
di innumerevoli letture di Nestroy, del Lear, del Timone, dei
Tessitori? Io ero fatto di quelle letture, su questo non poteva
esservi dubbio, e ciò che era accaduto di terribile negli ultimi
tempi, pochi anni prima della sua morte, era inspiegabile e
doveva restare inspiegabile. A una discussione non c'era neanche da
pensare, si poteva solo tacere: era la più profonda delusione che
un grande spirito mi avesse mai riservato in trent'anni, una ferita
così grave che neanche i prossimi trent'anni avrebbero
potuto guarirla. Vi sono piaghe che si portano addosso fino alla
morte, e tutto quello che si può fare è nasconderle agli occhi
degli altri: è semplicemente assurdo frugarvi dentro in pubblico.
Non sapevo con sicurezza come mi sarei comportato nel colloquio
con Ludwig Hardt, ma di una cosa ero certo: mai e per nessuna
ragione avrei rinnegato ciò che Karl Kraus era stato per me. Io
non l'avevo sopravvalutato, nessuno l'aveva sopravvalutato,
era cambiato lui, ed era morto - così pensavo - in seguito a quel
cambiamento.
Ludwig Hardt venne a Grinzing e non dedicò a Karl Kraus una sola
parola, nemmeno un'allusione. La frase con cui mi aveva tanto
spaventato dopo la sua recita non era stata nient'altro che un segno
di riconoscimento. Un altro avrebbe forse detto: "Mi ricordo
perfettamente di lei, sebbene siano passati già otto anni e non ci
siamo più parlati da allora". Lui aveva dovuto dimostrarlo
subito, alla sua maniera, saltandomi addosso, per così dire, e
anch'io del resto lo ricordavo sempre nell'atto di saltare da un
tavolino all'altro, nella casa di quell'avvocato di Berlino, quando
voleva dire qualcosa o declamava Heine.
Arrivò, e io lo accompagnai subito nella stanza dove avevo i
miei libri e il tavolo al quale scrivevo. Era un mio dovere verso
di lui, ma non volevo nemmeno distrarlo col paesaggio. Da
quella stanza non c'era niente da vedere, non i vigneti, né la
pianura, né la città: soltanto l'ingresso del giardino e il breve
sentiero che portava alla casa. Forse mi ci sentivo più sicuro, dal
momento che mi aspettavo uno scontro. E lui doveva vedere che lì,
tra i molti libri, si trovavano ancora al completo quelli
dell'uomo per il quale ci saremmo accapigliati.
Ma lui non vi prestò attenzione, parlava di Praga, quel piccolo
uomo dal bel viso e dalla straordinaria mobilità, incapace di
star fermo un attimo e poco disposto a sedersi. Mentre andava
su e giù per la stanza, teneva la mano destra affondata nella
tasca della giacca e giocava con un oggetto che aveva la forma di
un libriccino. Alla fine lo tirò fuori, era davvero un libro,
me lo porse con un gesto solenne e disse: "Vuole vedere la cosa
più preziosa che possiedo? La porto sempre con me, non mi fido a
lasciarla a nessuno, e quando vado a dormire la metto sotto il
cuscino".
Era un'edizioncina ottocentesca dello Schatzkästlein (1) di
Hebel. L'aprii e lessi la dedica:
"A Ludwig Hardt, per la gioia di Hebel, da Franz Kafka".
Era l'esemplare dello Schatzkästlein appartenuto a Kafka,
quello che anche lui usava portare con sé. Dopo avere ascoltato
per la prima volta Ludwig Hardt che recitava Hebel, Kafka era
rimasto talmente commosso che gli aveva regalato il libro con
quella dedica. "Le piacerebbe sapere quali brani ascoltò Kafka
da me quella volta?" domandò Hardt. "Sì, sì" dissi io. E a memoria
come sempre - il libro l'avevo in mano io - Hardt declamò
nell'ordine: "La notte insonne di una nobildonna", i due brani su
Suvarov, "Malinteso", "Moses Mendelsohn" e, per finire, "Incontro
insperato".
Vorrei che tutti potessero aver ascoltato quest'ultimo racconto
dalla voce di Hardt. Erano passati dodici anni dalla morte di
Kafka, e le stesse parole che egli aveva udito allora, dalla
stessa bocca, giungevano adesso al mio orecchio. Restammo entrambi
in silenzio, consapevoli di aver vissuto una nuova versione
della stessa storia. Poi Hardt domandò: "Le piacerebbe sapere
quale fu il commento di Kafka?". Non aspettò la mia risposta e
aggiunse: "Kafka disse: "E" la storia più meravigliosa che
esista!"". L'avevo pensato anch'io, e avrei continuato a
pensarlo. Ma era già straordinario udire un tale superlativo
sulle labbra di Kafka, nel racconto di una persona che per aver
recitato quella storia era stata premiata col dono del suo
esemplare dello Schatzkästlein. I superlativi di Kafka, come si sa,
sono contati.
Da quel giorno i rapporti tra Ludwig Hardt e me furono diversi.
Avevano acquistato un senso di intimità quale ho provato per
pochissime persone. Adesso Hardt veniva spesso a trovarci, ogni
volta che capitava a Vienna correva subito da noi. Passava molte ore
nella Himmelstrasse, recitando quasi senza sosta. Il suo
repertorio era inesauribile, e io non ne avevo mai
abbastanza. Aveva tutto nella testa, e forse non ho ascoltato
proprio tutto ciò che aveva nella testa. Il ricordo di quel
momento hebeliano non impallidiva mai. Qualche volta, quando ci
sembrava che appunto per questo l'atmosfera si facesse troppo
solenne, andavamo nella stanzetta di Veza, tutta foderata di
legno, e lì Hardt declamava altre cose che piacevano anche a lei:
molto Goethe e poi sempre quella poesia di Lenz, "Die Liebe auf dem
Lande", scritta a Sesenheim, che sembra di Goethe e in cui Goethe
è presente. Seguiva poi una vivace discussione su Lenz, il cui
destino appassionava Hardt non meno di me; e una volta, quando
io dissi che quella poesia era pervasa di ciò che Goethe era stato
per Lenz, e che in ogni suo momento Lenz aspettava Goethe, come
lo aveva aspettato Friederike Brion, e che Goethe non poteva
tollerare tutto questo e perciò lo aveva distrutto, allora Hardt
mi balzò addosso e mi abbracciò: un raro segno del suo pieno
consenso. Per Veza, ma anche per me, recitava Heine, al quale mi
aveva convertito a suo tempo a Berlino, e a Veza dedicava
Wedekind e Peter Altenberg.
C'erano due brani da cui non poteva mai esimersi, entrambi
di Matthias Claudius. Erano il "Canto di guerra ":
"E" guerra! E" guerra! O angelo di Dio& soccorri e intercedi!& E"
guerra, ahimè - e io chiedo soltanto& di non avervi colpa!"
del quale ancora oggi potrei trascrivere a memoria ognuna delle
sei strofe, e lo "Scritto di un cervo, abbattuto nella caccia di
corsa, al principe che lo aveva abbattuto".
Alla fine di questo brano avveniva il miracolo della
metamorfosi che da allora ho sempre davanti agli occhi: la
metamorfosi di Ludwig Hardt in un cervo morente. Se avessi potuto
dubitare che di tutti gli atti di cui l'essere umano è capace la
metamorfosi è il più alto - la sua giustificazione, il suo
coronamento dopo tutto ciò che ha commesso -, lì ne avrei avuto la
prova con schiacciante evidenza. Hardt era il cervo morente, e quando
aveva esalato l'ultimo respiro mi riusciva inconcepibile come
potesse riaversi e ridiventare Ludwig Hardt; e benché godesse
del nostro stupore, non era mai meno veritiero: quella era
l'agonia dell'animale incalzato, qualcosa di emozionante, perché
l'animale era al tempo stesso una persona, e una persona che per
questo aveva il nostro affetto.
NOTE:
(1) Il titolo completo è Schatzkästlein des rheinischen
Hausfreundes ("Tesoretto dell'amico di famiglia renano"). Johann
Peter Hebel vi raccolse nel 1811 raccontini e articoli apparsi
negli anni precedenti nell'almanacco "Der rheinische Hausfreund" che
redigeva per i contadini del Baden. Dallo Schatzkästlein Canetti
rimase affascinato fin dalla prima lettura, avvenuta negli anni
del liceo in Svizzera. "Non ho scritto un solo libro senza averlo
misurato sulla sua lingua" afferma in La lingua salvata, cit", pp"
314-16 ?N" d't"*.
La guerra civile spagnola
L'amicizia che mi legava a Sonne compì il suo secondo anno al
tempo della guerra civile spagnola. Era questo il tema
dominante della nostra conversazione giornaliera. Tutti quelli che
conoscevo e avevo in simpatia stavano della parte dei
repubblicani. A favore del governo spagnolo si prendeva partito
scopertamente e ci si pronunciava con passione.
Se ne parlava dappertutto, ma mentre di solito le
conversazioni scaturivano dalla lettura quotidiana dei giornali e non
andavano oltre le notizie, con Sonne si allargavano a un preciso
esame della situazione spagnola e degli effetti che sul futuro
prossimo dell'Europa avrebbe avuto ciò che avveniva, per così dire,
davanti ai nostri occhi. Sonne si rivelò un eccellente conoscitore
della storia spagnola. Sapeva una quantità di cose sulla guerra
che si era combattuta per secoli in terra iberica, sul periodo
moresco e su tutti i particolari della Reconquista. Le tre culture
della Spagna gli erano familiari come se fosse di casa in tutte,
come se esistessero ancora, come se la padronanza delle tre lingue,
spagnolo, arabo, ebraico, e la lettura del loro patrimonio
letterario bastassero per acquisire il senso della loro
continuità. Da lui imparai non poco sulla poesia araba. Con
facilità, come se si trattasse di testi biblici, Sonne traduceva per
me la lirica moresca di quel tempo e me ne spiegava
l'influsso sul Medioevo europeo. Del tutto incidentalmente, senza che
se ne fosse mai fatto un vanto, venne fuori che per lui la lingua
araba non aveva segreti.
Quando io cercavo di spiegare certi avvenimenti della storia
spagnola, contemporanei o anteriori, richiamandomi alle peculiari
aggregazioni di massa proprie della penisola, Sonne ascoltava e
si sforzava di non scoraggiarmi; anzi, avevo l'impressione che
si astenesse da ogni intervento personale solo perché intuiva che i
miei pensieri erano ancora allo stato fluido ed era meglio
lasciarli sviluppare liberamente, evitando di consolidarli prima
del tempo con una discussione.
Veniva spontaneo, in quei mesi, pensare a Goya e alle sue
acqueforti, i Disastri della guerra. Perché il primo dei pittori
moderni, e anche il più grande di tutti, è dovuto passare attraverso
l'esperienza del suo tempo per diventare ciò che fu. "Non ha girato
gli occhi dall'altra parte" diceva Sonne, e io sentivo quale peso
avesse per lui quella frase che gli veniva dal cuore. Il rococò dei
primi quadri, e poi quelle acqueforti e i dipinti della vecchiaia!
Si sapeva che Goya aveva una sua concezione del mondo, che
prendeva partito: come avrebbe potuto non avere una sua concezione
l'uomo che vedeva con quegli occhi la famiglia reale! E tuttavia
vedeva ciò che avveniva come se lui appartenesse a entrambi gli
schieramenti, perché la sua scienza era quella dell'uomo e il suo
orrore era la guerra, e sapeva meglio di tutti - come nessuno
prima di lui e forse con una passione che nessuno ha eguagliato
ancora oggi - che non c'è una guerra che sia buona, perché
attraverso ogni guerra si perpetua ciò che vi è di più perverso e
pericoloso nella tradizione dell'umanità, ciò che non si può
correggere. Con la guerra è impossibile abolire la guerra, la
guerra non fa che rafforzare tutto quello che si esecra più
profondamente nell'uomo. La testimonianza di Goya trascese la sua
passione di parte, ciò che vide era mostruoso ed era più di quanto
si augurasse. Dopo il Cristo di Grünewald, nessuno aveva
rappresentato l'orrore come lui, senza migliorarlo di un filo
rispetto alla realtà, ripugnante, opprimente, più sconvolgente di
qualsiasi profezia, e tuttavia senza soggiacervi. La coercizione
che esercitava sul riguardante, la direzione ineludibile che
imprimeva ai suoi occhi, era l'ultimo brandello di speranza,
anche se nessuno avrebbe osato chiamarlo così.
Quelli per i quali non era andata in fumo la lezione che avevano
tratto dalla prima guerra mondiale vivevano nella più tormentosa
condizione di spirito. Sonne capiva la vera natura della guerra
civile spagnola e sapeva a che cosa avrebbe condotto. Lui
che odiava la guerra riteneva necessario ed essenziale che la
Repubblica spagnola si difendesse. Con occhi di Argo scrutava ogni
passo delle altre potenze che cercavano di evitare un
allargamento del conflitto in Europa. Si doleva dell'ingenuità
con cui le potenze democratiche scoprivano i propri punti
deboli quando dichiaravano il nonintervento, facendosi così
ingannare consapevolmente dalla controparte. Sapeva che tanta
debolezza scaturiva da quell'orrore della guerra di cui volevano
impedire a ogni costo il dilagare. La loro condotta era
alimentata dall'orrore che Sonne condivideva, ma tradiva anche
una totale ignoranza dell'avversario e una spaventosa miopia.
Ogni scrupolo, ogni esitazione, ogni cautela imbaldanziva Hitler,
il quale voleva soltanto saggiare fin dove poteva spingersi e la
cui determinazione di fare la guerra cresceva sulla paura che
della guerra avevano gli altri. Sonne riteneva che nulla si potesse
più mutare nella determinazione di Hitler, la giudicava un dato
acquisito, la legge naturale di quell'uomo (ricavata dalla sua
esperienza della guerra), una legge che aveva seguito e grazie
alla quale era arrivato al potere. Era inutile, secondo Sonne,
tentare di influire su quella volontà. Era invece necessario
troncare la catena dei suoi successi fintanto che in Germania
sopravviveva una resistenza contro la guerra. Si poteva
ravvivare dall'esterno, quella resistenza, soltanto con atti
chiari e inflessibili. La marcia trionfale di Hitler era diventata
per tutti, compresi i tedeschi, il pericolo più letale, poiché la
sua cieca concezione della storia gli imponeva di travolgere
infine nella guerra tutte le potenze e tutti i popoli; e come
avrebbe potuto la Germania vincere contro il resto della Terra?
Mi è impossibile dare un'idea adeguata della chiarezza con cui
Sonne vedeva tutto questo. La sua visione
era di gran lunga in anticipo su un'età in cui i politici si
trascinavano traballando da un espediente all'altro. Sebbene per
lui si delineasse sempre più netta la rovina incombente, prendeva
parte a ogni minimo aspetto degli avvenimenti spagnoli.
Lo straordinario era infatti che per uno spirito così lucido nulla
era definitivo, da un episodio inappariscente che nessuno aveva
previsto poteva discendere una speranza nuova - e non si doveva
trascurarla, bisognava tener d'occhio tutto, non c'era niente che non
fosse importante.
Nel corso della guerra civile affioravano nomi spagnoli, luoghi
ai quali si collegava un ricordo storico o letterario. Sonne mi
dava ragguagli in proposito, e io non finirò mai di stupirmi del
modo in cui scoprii la Spagna, con tanto ritardo e tanto fervore.
In passato un senso di soggezione mi aveva trattenuto
dall'occuparmi più da vicino del Medioevo spagnolo. I proverbi e le
canzoni della mia infanzia restavano indimenticati, ma non erano
stati di stimolo, erano rimasti sepolti dentro di me, irrigiditi
nell'orgoglio della mia famiglia, che si arrogava un diritto su
tutto ciò che
era spagnolo in quanto giovasse alla sua fierezza di casta. Tra
gli "spagnoli" della Bulgaria conoscevo individui che vivacchiavano
nell'indolenza orientale, paghi di uno sviluppo intellettuale
inferiore a quello di chi aveva frequentato la scuola a Vienna,
convinti che per essere felici nella vita bastasse e avanzasse
credersi superiori agli altri ebrei. Non avevo neanche torto se,
nel caso di mia madre, notavo che era imbevuta di quasi tutte le
letterature europee ma poi sapeva poco o niente di quella
spagnola. Aveva visto alcuni drammi di Calderòn al Burgtheater,
ma non si sarebbe mai sognata di leggerne uno nel testo originale.
Per lei lo spagnolo non era una lingua da leggere. Ciò che aveva
ereditato dalla Spagna era il ricordo di un Medioevo glorioso, un
ricordo che aveva forse qualche valore solo perché era orale e
ispirava un certo contegno "distinto" a persone dell'ambiente più
vicino a lei. Dalla mamma non potevo ricevere impulsi che mi
avvicinassero alla letteratura spagnola. Perfino i modelli del
suo orgoglio, che aveva moltissimo di spagnolo, andava a
prenderseli in Shakespeare, nel Coriolano. La sua rispettabile
cultura si ispirava a Vienna, non certo alle sue origini familiari.
Avevo trent'anni quando venni a sapere qualcosa dei poeti
che hanno fondato il patrimonio durevole di quel lontano periodo
della Spagna; e lo appresi da Sonne, che per mia madre era un
"todesco" - la sua famiglia veniva dalla Galizia austriaca - al quale
non avrebbe mai riconosciuto il diritto di accedere ai "nostri"
poeti, che lei poi ignorava del tutto. Sonne me li traduceva a
voce dall'ebraico e me li commentava, ma poteva succedere che
nello stesso pomeriggio avesse tradotto dall'arabo e commentato
poesie moresche. Poiché mi mostrava qualcosa nell'insieme,
senza isolarlo dai nessi del suo tempo per il ridicolo gusto di
farsi bello, io misi da parte la mia diffidenza contro tutto ciò che
era "spagnolismo" mal riposto e cominciai ad averne rispetto.
Era curiosa la piega che prendevano quelle
conversazioni. Si partiva dalle notizie dei giornali sui
combattimenti in Spagna. Se ne discuteva con realismo valutando le
forze contrapposte, facendo congetture sul tempo necessario perché
gli aiuti promessi arrivassero a destinazione, cercando di prevedere
gli effetti di una ritirata sull'atteggiamento degli altri Paesi sarebbero aumentati gli aiuti, sarebbero diminuiti? -, prendendo
in esame i cambiamenti avvenuti nel governo spagnolo, il
crescente influsso di un partito, il peso specifico delle regioni
nella loro volontà di autonomia -; ed era un realismo che non
ometteva nulla e non dimenticava nulla. Spesso mi sembrava di
avere davanti a me un uomo nelle cui mani confluissero i fili
degli avvenimenti. Ma Sonne, era evidente, voleva anche darmi la
sensazione che tutte quelle cose si compivano in un Paese che
a me doveva essere familiare, e si adoperava lui stesso perché
tale mi diventasse. Nel suo modo pregnante mi spingeva nei domini
spirituali che erano tutt'uno con la Spagna non meno di quella
terribile guerra.
Posso dire ancora oggi quali furono le occasioni che mi
avvicinarono a questa o a quell'opera. Esse sono rimaste legate
molto spesso ai nomi di allora e continuano a portare dentro di sé
l'emozione di una notizia, così che il libro non è più fatto
soltanto di se stesso: dagli avvenimenti di quei mesi si è
formato un cristallo segreto, la seconda, immutabile struttura di
quel libro.
Venni spinto allora verso i Sogni di Quevedo, e questi diventò,
dopo Swift e Aristofane, uno dei miei antenati. Uno scrittore ha
bisogno di antenati. Alcuni deve conoscerli per nome. Quando
teme di essere soffocato dal proprio nome, dal nome che continua a
portare, si ricorda di antenati che portano i loro nomi felici, non
più mortali. Gli antenati possono sorridere della sua invadenza,
ma non lo respingono. Anche a loro stanno a cuore gli altri, ossia i
posteri. Sono passati per mille mani; nessuno li ha mai
scalfiti, perciò sono diventati antenati, perché senza
combattere possono difendersi dai più deboli, e diventano tanto
più forti quanto più prestano la propria forza. Ma vi sono anche
antenati che vogliono prendersi un po'"di riposo. Dormono per
cento, duecento anni. A un certo punto vengono svegliati, di
questo si può essere certi, e allora squillano improvvisamente
da ogni parte, come fanfare, e già anelano a ritornare alla
solitudine del loro sonno.
Forse a Sonne riusciva insopportabile il fatto di lasciarsi
totalmente assorbire dagli avvenimenti del tempo. Forse non
sopportava il loro corso perché su di esso non poteva
influire. Non perdeva occasione per richiamarsi alla mia origine, per
renderla vera, proprio perché io ci tenevo così poco. Per lui era
importante che in una vita non scompaia niente. Un essere umano
porta con sé tutto ciò che ha toccato. Se mai se ne dimentica,
bisogna ricordarglielo. Non è in gioco l'orgoglio delle
origini, che è sempre piuttosto dubbio. E" in gioco la necessità
che non sia rinnegato nulla di ciò che si è vissuto. Un uomo
racchiude in sé tutto quello che ha sperimentato e continua a
sperimentare, e in questo consiste il suo valore. Di un tale
patrimonio fanno parte i Paesi in cui egli è vissuto, le lingue che
ha parlato, gli uomini di cui ha inteso le voci. Ne fa parte anche
la sua origine, se mai è possibile saperne qualcosa. Ma per Sonne
l'origine non era, non poteva essere un fatto puramente privato,
al contrario era l'insieme del tempo e del luogo da cui si proviene.
Le parole di una lingua che forse si è conosciuta soltanto da
bambini sono legate alla letteratura in cui quella lingua è
fiorita. Le notizie su una persecuzione o su un'espulsione
sono legate a tutto ciò che l'ha preceduta, e non soltanto alle
pretese scaturite da un caso singolo. Altri casi sono avvenuti in
precedenza in altro modo, e anch'essi rientrano nella stessa storia.
E" difficile farsi un'idea della giustizia in questo genere di
pretese verso la storia. Per Sonne la storia era il regno perfetto
della colpa. Bisognerebbe sapere di che cosa sono stati capaci i
nostri simili nel passato, non soltanto quello che hanno subito.
Bisognerebbe sapere di che cosa si è capaci noi stessi. E poi
ancora bisognerebbe conoscere tutto, da qualunque parte e da
qualunque distanza si offra la conoscenza, bisognerebbe cercare di
coglierla, di esercitarvisi, di tenerla fresca e irrigarla e
fecondarla con quanto altro si viene a sapere in seguito. Sonne
non si peritava di usare l'attualità di quella guerra civile - che
ci toccava più da vicino che non gli avvenimenti stessi della città
in cui vivevamo - per rafforzarmi nel mio passato, che solo grazie a
lui diventò un passato reale. Così Sonne ha provveduto affinché più
di quel che io ero partisse quando, di lì a poco, fui costretto a
lasciare Vienna. Mi ha preparato a portare con me una lingua, a
salvaguardarla con tale forza che in nessun caso essa corresse il
rischio di andare perduta a me stesso.
Non voglio dimenticare il giorno in cui, in preda a una grande
eccitazione, mi presentai da Sonne al Café Museum e lui mi accolse in
silenzio. Il giornale era davanti a lui sul tavolo, la sua mano vi
era posata sopra, lui non si alzò per darmela. Dimenticai di
salutarlo, una frase con cui volevo precipitarmi su di lui mi rimase
in gola. Era pietrificato, e io, io mi sentivo sconvolto come da
un delirio. Era stata la stessa notizia a provocare in lui e in
me reazioni così differenti. Guernica era stata coperta di bombe
e distrutta dagli aviatori tedeschi. Volevo udire da lui una
maledizione, e doveva essere la maledizione di tutti i baschi,
di tutti gli spagnoli, di tutti gli uomini. Non volevo quella
pietrificazione. Era impotenza, la sua impotenza non la tolleravo.
Sentii che la mia rabbia si volgeva contro di lui. Rimasi in
piedi e aspettai una sua parola prima di prendere posto. Mi
ignorò. Sembrava come spento. Sembrava come morto da tempo e
rinsecchito. "Una mummia!" fu il pensiero che mi passò per la
testa. "Ha ragione lei. E" una mummia". Così lo chiamava Veza
quando scendeva in campo contro Sonne. Ero sicuro che lui sentiva
il mio insulto anche se io non lo pronunciavo. Ignorò anche
l'insulto. Disse: "Io tremo per le città". La voce era appena
percettibile, ma sapevo di aver udito bene.
Non lo comprendevo. In quei giorni non era ancora così facile
capire quelle parole come sarebbe oggi. E" confuso, pensai,
non sa quello che dice. Guernica distrutta, e lui parla delle città.
Non sopportavo quello stato di confusione. La sua lucidità era
diventata per me la cosa più importante al mondo. Era come se due
notizie di catastrofi mi avessero colpito contemporaneamente.
Una città distrutta dagli aviatori. Sonne in preda alla follia. Non
feci domande. Non cercai di aiutarlo. Non dissi niente e me ne andai.
Anche fuori, una volta sulla strada, non provai compassione per lui.
Provavo - lo dico con ripugnanza - compassione per me stesso. Mi
sembrava che Sonne fosse perito a Guernica, e io tentavo di rendermi
conto che avevo perduto tutto.
Non feci molta strada, e di colpo mi venne un pensiero: forse
sta male, era terribilmente pallido. Mi sorpresi a riflettere
che no, non poteva essere morto, aveva parlato, avevo udito la sua
frase, era stata l'assurdità di quella frase a colpirmi così
profondamente. Tornai indietro, lui mi accolse sorridendo, era
quello di sempre. Avrei voluto dimenticare ciò che era accaduto
nel frattempo, ma Sonne disse: "Lei voleva prendere una boccata
d'aria. Posso capirla. Anch'io dovrei forse prendere un po',
d'aria". Si alzò, e io lo accompagnai. Fuori del caffè parlammo come
se niente fosse accaduto. Anche in seguito non tornò più sulla
frase che mi aveva riempito di sgomento. Forse è questo il motivo
per cui non ho mai potuto dimenticarla: anni dopo, durante la
guerra, io ero in Inghilterra, fu come se mi cadesse una benda
dagli occhi. Eravamo molto lontani l'uno dall'altro, ma anche
lui era vivo, come me. Lui
era a Gerusalemme, non ci scrivevamo. Pensavo: non c'è mai
stato un profeta meno contento di esserlo. Ha visto quale destino
sarebbe toccato alle città. Ha visto anche il resto. C'erano
ragioni sufficienti per farlo tremare. Non ha mescolato un orrore
con l'altro. Era uscito dalla spirale delle vendette di sangue della
storia.
Discussione nella Nussdorferstrasse
Una rivista in quattro lingue, progettata da Hermann
Scherchen, doveva chiamarsi "Ars Viva" come il ciclo di concerti che
egli teneva allora a Vienna e per il quale aveva costituito una
propria orchestra. La rivista non doveva servire soltanto alla
musica nuova: letteratura e arti figurative dovevano esservi
rappresentate con la stessa ampiezza. Quando mi domandò quali
collaboratori si potevano prendere in considerazione a Vienna, gli
feci i nomi di Musil e di Wotruba. Risoluto e rapido com'era in
ogni cosa, propose un incontro a quattro per discutere le
prospettive di collaborazione a una rivista di quel genere.
Doveva essere un incontro riservato, senza testimoni, e in quel
periodo di tensione politica un caffè sembrava un luogo troppo
pubblico. Wotruba, per la prima volta, aveva lasciato sola la
madre nella casa della Florianigasse, con la sorella, e si era
trasferito in un appartamento della Nussdorferstrasse. Sembrava il
posto giusto, favorevole per la posizione e per di più
neutrale. La Himmelstrasse, a Grinzing, era piuttosto fuori mano. E"
vero che Scherchen abitava presso di noi con la moglie cinese, ma da
quando, un anno prima, con la mia infelice uscita su Thomas Mann,
ero incorso nella collera di Musil, questi si comportava
freddamente con me e io non mi sentivo di invitarlo a casa mia.
Wotruba aveva conosciuto Musil la sera della mia lettura alla
Schwarzwaldschule. Da allora, erano passati quasi due anni, si
salutavano senza però che ci fosse stato un vero avvicinamento. Tra
loro comunque non era successo niente che potesse rendere
difficile un invito. Così Wotruba gli scrisse una lettera, piena di
"robusto" rispetto, per la quale si era consultato con me, e Musil
accettò l'invito.
Fin dall'inizio tutto fu complicato, come si addiceva a Musil.
L'invito valeva anche per sua moglie, perché si sapeva con quanta
riluttanza Musil andasse da solo in un posto nuovo. Ma non si limitò
ad arrivare con lei, si portò dietro altri due signori che nessuno
aveva invitato. Uno era Franz Blei, un personaggio magro, altero,
un tantino troppo sofisticato, di cui nessuno si sarebbe augurato la
presenza. L'altro era un giovane che nessuno conosceva. Musil lo
presentò senza il minimo imbarazzo, quasi allegramente, come un
ammiratore dell'Uomo senza qualità; e Blei completò la
presentazione dicendo: "Appartiene al circolo del caffè
Herrenhof!". E adesso erano lì, in quattro. Musil aveva l'aria di
sentirsi a suo agio, sotto la protezione della moglie, del vecchio
amico Blei (1) e del giovane ammiratore, che non aprì mai bocca
ma stava molto attento a tutto quello che si diceva. Blei prese un
tono solenne, come se fosse lui a fondare una rivista, mentre
Musil disse schiettamente e senza alcun ritegno quello che pensava.
Sull'altro versante cominciarono subito i malumori, perché
le affettazioni "estetizzanti" di Blei non garbavano affatto a
Wotruba. Blei, entrando nella stanza intonacata di bianco e
notando alla parete due quadri di Merkel, si era bloccato e
aveva intonato un panegirico che era degenerato quasi in un insulto:
"Ha del fascino" disse; e dopo una pausa: "E" un
giovane?".
Wotruba, a ragione, riferì quel "giovane" a se stesso e fiutò
che Blei lo giudicava semplicemente un "giovane", mentre per il
resto non sapeva niente di lui. Reagì quindi con calcolata villania:
" Bè, è vecchio quanto lei!".
Era certamente un'esagerazione, Georg Merkel non era vecchio
come Blei, ma apparteneva alla stessa generazione di Musil. Per
Wotruba l'idea che un quadro appeso in casa sua dovesse per
forza essere di un giovane era un'insolenza bella e buona. Quando
Marian entrò poco dopo col caffè, Fritz le disse a voce alta,
interrompendo senza complimenti la conversazione degli altri:
"Ehi tu, lo vuoi sapere che cos'è il Merkel? E" un
giovane!".
Scherchen cominciò a esporre il progetto della sua rivista.
A lui interessava un'impronta originale e una qualità elevata,
doveva essere qualcosa di veramente nuovo. Tutto ciò che era
accademico doveva essere escluso in anticipo. Ma Scherchen non
voleva legarsi a un determinato indirizzo del moderno, tutti
dovevano poter esprimersi, in qualunque lingua, si sarebbe sempre
provveduto alla traduzione. Musil volle sapere che lunghezza
potevano avere le collaborazioni e sembrò contento della risposta di
Scherchen, perché questi disse:
"Qualunque lunghezza". Ma aggiunse subito: "Può essere anche un
lavoro intero. Mi piacerebbe veder pubblicato un dramma del mio
amico Canetti. Lui veramente non vuole, ma noi lo
convinceremo".
Dopo più di tre anni non aveva ancora dimenticato Nozze, che io
però volevo pubblicare solo in forma di libro. Non era il momento di
discuterne, ma Scherchen teneva a far notare che non era digiuno di
letteratura moderna. Per lui Nozze era pur sempre qualcosa di
"nuovo".
Non aveva ancora terminato la sua frase che Blei prese la
parola.
"Il teatro non è letteratura," proclamò "per una rivista
letteraria il teatro è escluso".
Lo disse con tanta sicurezza che noi tre, Scherchen, Wotruba e
io, restammo a bocca aperta. Musil sorrise soddisfatto.
Secondo lui, credo, Blei doveva spuntarla e aveva bell'e preso
nelle sue mani la rivista. Ci fu anche un lungo discorso di Blei, in
punta di penna, sul modo in cui doveva essere fatta la rivista, e
ogni sua frase rafforzava l'impressione che la rivista sarebbe stata
proprio così. Con mio stupore Sch", quel dittatore, lo lasciò dire,
almeno fino a quando l'odio ribollente di Wotruba mi fece temere il
peggio. Adesso lo prende per il collo, pensai, e lo scaraventa
fuori della finestra. Benché fossi indignato anch'io, cominciai
a temere per la vita di quel sofisticato rompiscatole. Se avessi
saputo che Blei era uno degli scopritori di Robert Walser, gli avrei
perdonato ogni arroganza, non l'avrei trattato con rispetto solo per
un riguardo verso Musil. Ma adesso Sch" gli troncò improvvisamente il
discorso:
"Noi la pensiamo in tutt'altro modo, i miei giovani amici e
io" disse. "Tutto quello che lei sostiene è all'opposto delle nostre
intenzioni. Noi vogliamo una rivista viva, non un fossile
scolastico. Lei si preoccupa solo di mettere limiti, mentre "Ars
Viva" deve servire a un allargamento. Noi non abbiamo paura, è
inutile avere paura prima del tempo. Per i fossili ci sono già
abbastanza riviste in giro".
In tanti anni che lo conoscevo, era la prima volta che sentivo
Sch" parlare col cuore. Wotruba, furente, disse: "A me l'opinione
del signor Blei non interessa. Nessuno l'ha invitato. Io voglio
sapere come la pensa il signor Musil, su questa rivista".
Wotruba era famoso per la sua villania, e nessuno gliene voleva.
Chi non lo conosceva ancora di persona sarebbe rimasto deluso se
a un primo incontro lui si fosse comportato diversamente.
La sua serietà era irresistibile. Sarebbe riuscito ridicolo se si
fosse sforzato di fare il gentile: sarebbe stato come se avesse
tentato di balbettare in una lingua straniera, sconosciuta. Avevo
la sensazione che Wotruba piacesse a Musil, il quale non sembrava
offeso per Blei sebbene l'avesse ascoltato senza risparmiare i
segni di approvazione.
A questo punto Musil uscì, per così dire, dall'ombra di Blei e
si aprì con una schiettezza non inferiore a quella di Wotruba.
Confessò di essere incerto e di non potere ancora dire niente.
Aveva pronto un lavoro su Rilke che si prestava bene per la rivista.
Forse gli sarebbe venuto in mente qualcos'altro da scrivere per
l'occasione. Il suo modo di parlare
era così netto che contrastava ancor più col contenuto delle sue
parole. Non prometteva proprio niente. Era indeciso. Ma era stato
invitato e accolto con tale rispetto che non poteva tirarsi indietro
come se niente fosse. Si sentiva sicuro, lì col suo seguito. A Franz
Blei lo legava una vecchia amicizia, ma Blei era imprevedibile
e volubile, e poi era stato lui che tutt'a un tratto aveva esaltato I
sonnambuli di Broch fino a collocarli quasi al livello di
Musil. Broch non era stato proposto per la nuova rivista: in quei
giorni non si trovava a Vienna, ma per il momento ci eravamo
guardati dal fare il suo nome, ben sapendo quale opinione Musil
avesse di lui. Se uno di noi ci si fosse provato, Musil avrebbe
rifiutato subito lasciando cadere l'invito a una discussione.
Nelle sue ripulse Musil era brusco e tagliente. Sul suo "no"
correvano leggende che mandavano in estasi noi due, Wotruba e me.
Lì, in compagnia di tre guardie del corpo e di fronte a tre
uomini che lo corteggiavano, non si sentiva alcun indizio di quel
"no". La sua era la prudenza indecisa di una persona che non voleva
lasciarsi adoperare per fini poco chiari ma non voleva nemmeno
trascurare una buona occasione. Musil aveva bisogno di tempo per
riflettere, e perciò non diceva né sì né no, ma si sforzava di
sapere qualcosa di più. Sch", che in vita sua non si era mai tenuto
tanto indietro e adesso, a ogni frase, metteva avanti i suoi
"giovani amici" prima di dire "io", poteva non piacergli. Era
chiaro che Sch" non sapeva niente di cose letterarie e si
sarebbe affidato a me. Ma io ero stato messo al bando per il mio
eretico accenno a Thomas Mann. Tuttavia la tenacia con cui
avevo continuato a sostenere che lui, Musil, stava più in alto di
tutti, aveva avuto il suo peso nell'indurre Musil ad accettare la
mia presenza. Verso Wotruba si sentiva attratto. Wotruba gli
piaceva straordinariamente: non aveva niente a che fare con la
letteratura, ma le sue parole avevano vigore e penetravano come
proiettili. La faccia di Musil, quando qualcuno gli piaceva,
esprimeva meraviglia. Era una meraviglia controllata che non
degenerava mai in effusioni. Musil aveva il potere di determinare
il peso esatto delle proprie reazioni e non si sbagliava. La sua
meraviglia era limitata, ma entro quei limiti non perdeva nulla
della sua purezza. Musil non la assoggettava a scopi
particolari.
Adesso, quando diceva qualcosa, dava la sensazione di aspettare
una reazione, quella di Wotruba, come se nessun'altra contasse.
Non aveva dato troppo peso al proclama ben tornito di Blei. Erano
cose che conosceva da un pezzo e senza dubbio le aveva già
assimilate. Mi venne il sospetto che lo annoiassero. Le mandò giù
perché erano pronunciate dal suo primattore, ma non vi si soffermò
e sorrise con indulgenza, prendendone così le distanze. Il
rude intervento di Wotruba, col rifiuto opposto a Blei e poi con
l'invito a Musil perché dicesse la sua, fu apprezzato da
quest'ultimo, che infatti cominciò senza timore a sondare cautamente
il progetto della rivista. Insistette nel suo proposito di
scrivere su un tema di poesia e cercò di sapere qualcosa di più
preciso su quello che poteva fare al caso.
Sch'osservò che era una bella coincidenza, perché sua moglie,
che non
era presente alla discussione, s'interessava in modo del tutto
particolare alla poesia. A buon diritto, dal momento che per lei,
cinese, la lirica faceva parte di un antico patrimonio
ereditario. Per sua moglie la lirica era addirittura più
importante della musica. Certo, lui l'aveva conosciuta come allieva
a un corso di direzione orchestrale che teneva a Bruxelles,
e la ragazza era venuta apposta dalla Cina a Bruxelles per averlo
come maestro, ma lui era sempre più convinto che le stesse più a
cuore la poesia. Adesso gli dispiaceva di non averla portata con sé.
Sua moglie aveva preparato per la rivista certi progetti che si
riferivano esclusivamente alla lirica e si era annotata tutta una
serie di possibilità, quella che lei chiamava la sua "lista". Ed
era prontissima a presentarla subito, ma a lui, Sch", non
avevano detto che il signor Musil si occupava anche di poesia, e
perciò gli era sembrato sconveniente mettere in tavola questo
argomento fin dalla prima discussione. Ma c'era tempo, meglio
preparare la cosa con la cura necessaria. Avrebbe provveduto lui a
mandare al signor Musil le riflessioni di sua moglie insieme a
quella lista di temi nel campo della lirica, che cadevano tutti a
proposito. Del resto sua moglie parlava solo il francese, lui
all'occorrenza poteva intendersi con lei, a voce non era tanto
facile, e anche per questo aveva esitato a portarsela subito
dietro; ma lei scriveva un francese eccellente, già a Bruxelles tutti
le avevano fatto grandi elogi. E poi anche Veza si era offerta
di rivedere punto per punto quei testi francesi, per maggior
sicurezza, e quindi il signor Musil non doveva darsene pensiero.
Nessuno era abituato ad ascoltare da Scherchen
perorazioni così circostanziate. In generale si accontentava di
dare ordini o di spiegare faccende musicali. Ma della sua nuova
moglie cinese parlava volentieri. Era fiero di lei, con lei al
fianco faceva scalpore. Era una donna affascinante, molto colta, di
ottima famiglia. Aveva assistito all'invasione giapponese, e quando
ne parlava faceva rivivere quegli spaventosi avvenimenti. A
Bruxelles, così delicata, esile, avvolta in seta cinese, aveva
diretto Mozart, e a quella vista Sch" si era innamorato di lei; ma
quando parlava della guerra in Cina, dalla sua bocca
crepitavano le mitragliatrici, tactactac. Dopo essere tornata a
Pechino aveva scritto a Sch", e lui aveva disdetto tutti i
concerti ed era partito con la Transiberiana per Pechino.
Disponeva solo di cinque giorni, non poteva concedersi più di
cinque giorni per sposare ShüHsien. All'arrivo gli avevano detto che
non era possibile fare le cose così in fretta, che doveva
prendersi più tempo già solo per il matrimonio, ma anche là aveva
fatto valere la propria volontà: in capo a cinque giorni aveva
sposato ShüHsien, l'aveva lasciata provvisoriamente presso i
genitori, si era rimesso in treno e dopo poco più di un mese era di
nuovo in Europa, ai suoi concerti.
ShüHsien lo seguì alcuni mesi dopo, e i due si
stabilirono nella nostra casa di Grinzing. Lì fummo testimoni del
primo periodo del loro matrimonio. La lingua in cui dovevano
intendersi era il francese: corretto, ma scandito in una musica di
monosillabi, quello di lei; un francotedesco indicibilmente
barbaro, infarcito di errori e per noi assolutamente
incomprensibile, quello di lui. Sch" mise subito al lavoro la
moglie cinese, che tutto il giorno doveva copiare note per lui,
voci per la sua orchestra. Mi domando quando le restasse il tempo per
trovare temi di poesia per la progettata rivista "Ars Viva". Forse
le era capitato una volta di parlare con Sch" della lirica cinese.
Può darsi che lui allora, pronto com'era a trarre profitto da
tutto, le avesse dato l'incarico di mettere su carta le proprie
idee sull'argomento. Ora, durante la discussione, questo ricordo
gli veniva proprio al momento buono. Poteva promettere a
Musil qualcosa, una serie di temi che forse lo avrebbe allettato
e la cui esposizione non sarebbe costata alcuna fatica a ShüHsien,
che era ferrata in letteratura francese.
Sch'era talmente infatuato del suo amore cinese che non avrebbe
mai smesso di parlarne. A quel tempo mi riusciva simpatico.
Il rancore che covavo in me dai giorni di Strasburgo sembrava
sfumato. Il cambiamento era cominciato quando avevo ricevuto un
suo telegramma, del tutto inatteso, con cui mi pregava
caldamente di andare il tal giorno e alla tal ora, con le indicazioni
più precise, alla stazione Ovest di Vienna, dove lui avrebbe fatto
una sosta di un'ora fra due treni. Io c'ero andato, più per
curiosità che per compiacerlo. All'arrivo del treno, ancora dal
finestrino aperto, Sch" mi aveva dato la grande notizia: "Vado a
Pechino a sposarmi!".
Poi, appena ebbe messo piede sulla banchina, giù tutta la
storia, senza nemmeno prender fiato. Parlava della sua cinese con
entusiasmo. Mi descrisse quel che aveva provato nel vederla
dirigere Mozart in costume cinese. Era incredibile: Sch'aveva
parole, parole estasiate, per un altro essere umano. Le aveva
promesso di sposarla non appena lei gli avesse scritto, sui due
piedi, per così dire. E adesso lei gli aveva scritto, ed era come se
lui, che di solito dava sempre ordini, fosse agli ordini di
qualcun altro: gli ordini venivano dall'altra parte della Terra, e
lui vi si assoggettava ciecamente e beatamente. Non l'avevo mai visto
in quella disposizione di spirito, e mentre continuava a parlare
senza prender fiato sentii che all'improvviso mi era simpatico.
Sembrava inconcepibile che lui, quell'animale da lavoro, avesse
disdetto per cinque settimane tutti i concerti e le prove.
Nella sua ebbrezza nuziale aveva dimenticato qualcosa
d'importante. A un tratto spuntò di corsa Dea Gombrich, la
violinista, anche lei convocata alla stazione. Era in ritardo, lui
le disse soltanto che andava a Pechino a sposarsi e la pregò di
correre a comprargli una cravatta, perché si era dimenticato di
portarsene dietro una per la cerimonia. Lei scappò via subito e
ritornò in tempo, prima che il treno si avviasse. Gli allungò la
cravatta attraverso il finestrino dello scompartimento, lui era lì
in piedi, sorrideva, ringraziava, non teneva le labbra strette
come sempre. Era già in viaggio verso la Siberia quando io
raccontai tutta la storia a Dea, ancora trafelata per il gran
correre.
Avevo visto Sch" soggiogato, e per un bel po'"rimase vivo in
me il nuovo calore che provavo per lui. Poi, come ho già detto,
accogliemmo i due sposi, per un periodo abbastanza lungo, nella
nostra casa della Himmelstrasse. Veza era entusiasta di ShüHsien,
che aveva spirito, vedeva Sch" come realmente era, pur essendone
innamorata, ed era capace perfino di ridere di lui.
Non mi sfiorò il sospetto che adesso, durante la
discussione su "Ars Viva", Sch" si servisse di lei, di fronte a
Musil, come si serviva di tutti. Sentivo piuttosto che non poteva
fare a meno di vantarsi di quella moglie cinese, perché ne era
ancora innamorato. Forse avviene un miracolo, pensai, e questa
storia non finisce come tutto finisce con lui: forse Sch" rimane con
la cinese. Nel mio amore per tutto ciò che era cinese, mi stava a
cuore l'esito di quella storia, e la mia preoccupazione per
ShüHsien, capitata in un mondo così estraneo al suo, era maggiore
di quella che avevo mai provato per una delle mogli europee di
Sch". Ma all'improvviso, durante quella discussione nella
Nussdorferstrasse, ShüHsien era ben presente. Musil, che
evidentemente aveva cura soprattutto di non promettere nulla di
"epico" per la rivista e quindi metteva avanti la possibilità di
argomenti lirici, aveva evocato ShüHsien con le sue domande
dubbiose. Tutti ormai sapevano di lei, la si pensava con
simpatia, era diventata lei stessa un argomento poetico. Della
rivista non si fece nulla, ma quella discussione preliminare
rimase, credo, un gradevole ricordo per tutti, grazie alla
cinese.
NOTE:
(1) Franz Blei (1871-1942), scrittore e critico, si era
avvicinato a Musil dopo la pubblicazione dei Turbamenti del
giovane Törless (1906) e l'aveva invitato a scrivere racconti per una
sua rivista, "Hyperion" (che pubblicò anche, fin dal 1908, i primi
frammenti di Kafka). Nel 1920 Blei aveva poi trovato a Dresda un
editore disposto a pubblicare I fanatici di Musil. Come curatore e
traduttore contribuì a far conoscere nell'area tedesca G" K"
Chesteron, Paul Claudel, André Gide e Francis Jammes. Per la sua
opera a favore di Rohert Walser, si veda la pagina seguente ?N" d'T"*
Hudba. Danze di contadini
Il 15 giugno 1937 morì mia madre.
Alcune settimane prima, in maggio, ero andato per la prima
volta a Praga. Mi sentivo ancora leggero e libero, e presi una
stanza all'albergo Juli` s nella piazza San Venceslao,
all'ultimo piano. Della stanza faceva parte un'ampia terrazza,
dalla quale si vedeva di giorno il traffico della piazza
sottostante e di notte le sue luci. Quella vista sembrava fatta
apposta per il pittore che abitava nella stanza vicina alla mia:
Oskar Kokoschka.
Per il suo cinquantesimo compleanno si era aperta a Vienna
una grande mostra al Museo d'Arti e Mestieri, sullo Stubenring.
Lì mi ero fatto un'idea precisa della sua opera, che prima conoscevo
solo attraverso quadri isolati. Kokoschka si era rifiutato di
ritornare a Vienna per la circostanza, e rimase a Praga, dove
stava facendo il ritratto al presidente Masaryk. Il suo vecchio
paladino di Vienna, Carl Moli, mi aveva raccomandato di rintracciare
Kokoschka a Praga e mi aveva affidato una lettera per lui. Dovevo
raccontare a Kokoschka della mostra e ricordargli quanti ammiratori
avesse a Vienna. Si sapeva che il pittore era pieno di rancore
verso l'Austria ufficiale. Non si trattava soltanto del disprezzo
dimostrato per la sua opera. Kokoschka non poteva scordare gli
avvenimenti del febbraio 1934. Sua madre, alla quale era
affezionato più che a qualsiasi altro essere umano, era morta di
crepacuore per la guerra civile nelle strade di Vienna. Dalla sua
casa nel Liebhartstal aveva potuto vedere i cannoni che sparavano
contro le case dei lavoratori costruite dal municipio. Proprio
perché il luogo offriva quella vista su Vienna, il figlio
aveva comprato la casa alla madre, che fin dall'inizio aveva
creduto in lui e aveva partecipato con tanta passione alla sua
vicenda di pittore; e adesso, ecco che cos'era diventata quella
bella vista! (1)
La madre si trovava abbastanza vicino per udire il tuonare
dei cannoni, e non poté fare a meno di seguire lo svolgersi
dei combattimenti. Poco dopo si era ammalata, e da quella
malattia non si era più ripresa. Carl Moli l'aveva conosciuta
ed era convinto che senza di lei il figlio non sarebbe più stato lo
stesso. Il fatto che non ci fosse più quella donna che portava un
nome meraviglioso, Romana, era un pericolo per lui. Ora Kokoschka
avrebbe troncato ogni rapporto con l'Austria. Per il nuovo regime
al potere in Germania Kokoschka era un pittore degenerato, per
l'Austria si offriva un'occasione per accogliere a braccia aperte il
suo pittore più grande. Ma anche se a Vienna fossero stati così
lungimiranti da invitarlo a un ritorno con tutti gli onori,
come
avrebbe potuto Kokoschka ritrovarsi sotto un regime al quale
attribuiva la responsabilità della morte di sua madre?
Già prima avevo sentito parlare molto di lui. A una fase
turbolenta del suo passato mi avevano riportato i racconti di
Anna. La passione per Alma Mahler, la madre di Anna, era
diventata leggenda attraverso alcuni dei quadri migliori di
Kokoschka. Durante la mia prima visita alla Hohe Warte avevo
visto il ritratto che lei chiamava "la Lucrezia Borgia". Era
appeso nella stanza "trionfale" dell'instancabile vedova e veniva
presentato ai visitatori con molta enfasi, non senza sottolineare che
l'artista, a quel tempo ancora così capace, aveva preso
purtroppo una brutta strada - era diventato un povero emigrante.
Adesso lo vedevo in persona per la prima volta, da una terrazza
all'altra, con quei lineamenti che mi erano familiari dagli
autoritratti. Ciò che mi sorprese non poco fu la sua voce. Parlava
così sommessamente che stentavo a capirlo. Stavo molto attento a
non lasciarmi sfuggire nessuna frase, ma ciò nonostante ne perdevo
molte. Carl Moli gli aveva anche scritto direttamente per
annunciargli la mia visita, ma era un caso inaspettato che
abitassimo in due stanze contigue. Kokoschka parlava con molta
discrezione, non solo a bassa voce. Ancora sotto l'impressione
della grande mostra, ero un po'"imbarazzato vedendo che mi
trattava da pari a pari. Chiese del mio libro, disse che voleva
leggerlo, che Moli gliene aveva scritto con grandi elogi. Lì
sulla terrazza ebbi la sensazione che fosse curioso di
conoscermi. Mi sentivo addosso il suo occhio da polipo, che però non
mi sembrava ostile.
Chiese scusa se quella sera non era libero, quasi che si sentisse
in obbligo di dedicarmi subito una serata. Era una delicatezza
tanto più stupefacente se ripensavo ai racconti di Anna, a un
episodio della sua prima infanzia: lei, Gucki, (2) come la
chiamavano allora, era seduta sul pavimento in un angolo
dell'atelier e ascoltava atterrita una scenata di gelosia che si
svolgeva tra sua madre e Kokoschka. Lui minacciava di chiuderla a
chiave nell'atelier prima di andarsene, e forse una volta aveva
davvero messo in atto la minaccia. Di nessun'altra cosa Anna mi
aveva parlato con tanta emozione. Quelle scenate me le immaginavo
fragorose e violente, e quindi mi ero aspettato di incontrare un
uomo appassionato che avrebbe accolto le mie notizie sulla mostra
viennese indirizzando subito parole di fuoco contro il governo
austriaco. A questo argomento, invece, dedicò soltanto qualche
parola sprezzante, ma sempre in tono sommesso. La parte più
aggressiva della sua persona mi sembrò il mento, che era molto
pronunciato, quasi come amava dipingerlo negli autoritratti. Ma
quello che colpiva davvero era l'occhio, immobile, opaco, fisso, in
agguato: stranamente, pensavo sempre a un solo occhio, così come
ho scritto adesso. Le sue parole
erano atone e appannate, come se Kokoschka le emettesse quasi a
caso e controvoglia. Mi diede appuntamento per il giorno dopo e
mi lasciò alla mia perplessità: non riuscivo a conciliare i suoi
quadri e tutto ciò che sapevo di lui con quella mansuetudine.
Il giorno dopo lo incontrai al caffè. Era in compagnia del
filosofo Oskar Kraus, un fedele allievo di Franz Brentano. Questo
Kraus, professore di filosofia, un personaggio assai noto a Praga,
aveva ereditato dal suo maestro l'interesse per gli indovinelli e
ora faceva la parte del leone con Kokoschka e con me. Riuscì ad
avvincere Kokoschka con enigmi d'ogni genere e con discorsi che si
riferivano sempre a quell'argomento, e di nuovo il pittore mi diede
un'ingannevole impressione di modestia, anzi addirittura di
ingenuità. In realtà, me ne resi conto solo in seguito, era
tutt'altro che un semplice, il suo spirito prendeva volentieri
strade complicate. Non era neanche modesto, ma gli piaceva
scomparire dentro certi ambienti, quasi adattandosi a un determinato
colore, quello dominante. Questa
iridescenza era un suo dono: Kokoschka somigliava a un polipo anche
nel suo naturale e agevole cambiar di colore, mentre il suo occhio,
molto grande e - come ho già detto - apparentemente unico, spiava
la preda con una forza inesorabile.
Ma lì, al caffè, c'era poco da spiare. Kokoschka conosceva
bene il vecchio Oskar Kraus, e difficilmente si sarebbe lasciato
eccitare da quel professore chiacchierone e tanto sicuro di fare
effetto. L'insistenza con la quale costui, alla sua età, si
richiamava ancora all'antico maestro, il filosofo Brentano, aveva
qualcosa di subalterno; così almeno sembrava a me, che di Brentano
non mi ero ancora occupato e avevo un'idea inadeguata dei suoi
molteplici influssi. Mi pareva poi di cattivo gusto
quell'instancabile loquacità di fronte a Kokoschka, ma questi
aveva l'aria di trovarla gradevole: non aveva voglia di prendere la
parola e si ostinava nel suo iridescente occhieggiare.
In verità io ardevo dal desiderio di sentire da Kokoschka
qualche notizia su Georg Trakl. Sapevo che l'aveva conosciuto e
che Trakl gli aveva suggerito il titolo meraviglioso di un quadro,
La sposa del vento. Ero convinto che senza quel titolo il quadro
non sarebbe esistito, che se si fosse chiamato in altro modo non
avrebbe attirato l'attenzione. Era il periodo in cui Trakl mi aveva
conquistato, nessun lirico moderno ha avuto per me tanta importanza.
Del suo destino sono ancora tutto preso come la prima volta che ne
venni a conoscenza. (3) Certo, essendo lì con noi l'arido ometto
degli enigmi, non era il momento migliore per portare il discorso su
Trakl, e tuttavia lo feci e domandai a Kokoschka se l'aveva
conosciuto. "L'ho conosciuto molto bene" rispose con la sua voce
atona. Non disse altro, e anche se avesse voluto non avrebbe potuto
dire di più, perché l'ometto aveva già tirato fuori un nuovo
indovinello e lo snocciolava belando con la sua voce da capra. (4)
Io avevo l'impressione che Vienna non contasse più per Kokoschka
da quando ne era partito. All'inizio della sua carriera,
quando improvvisamente spuntava dappertutto tenuto per mano da Adolf
Loos, Vienna aveva rappresentato qualcosa per lui. Ma adesso non era
Vienna a metterlo al bando, era lui che metteva al bando Vienna; e
il buon vecchio Moli, che da decenni si dava tanto da fare per
Kokoschka, non era la persona più adatta a risvegliare in lui
l'interesse per quella città. E" vero che Kokoschka eccelleva
nell'arte di scomparire, ma intuivo che adesso scompariva
soltanto per essere lasciato in pace da tutti.
Avevo quasi rinunciato alla speranza di un vero colloquio
con lui quando si scaldò all'improvviso e portò il discorso su
sua madre e su suo fratello Bohi.
La casa nel Liebhartstal, dove il fratello abitava ancora
dopo la morte della madre, era l'unica cosa che al momento legasse
Kokoschka a Vienna. Era convinto che suo fratello fosse
uno scrittore. Lo conoscevo? Aveva scritto un grande romanzo in
quattro volumi. Era stato marinaio e aveva viaggiato molto.
Nessun editore voleva pubblicargli il libro. Sapevo di qualcuno che
potesse interessarsene? In quel genere di cose suo fratello non
aveva fortuna. Non gli mancava la coscienza del proprio valore,
ma la capacità di fare il proprio interesse. A Kokoschka non
sembrava assolutamente un disonore che il fratello si
lasciasse aiutare da lui. Lo manteneva volentieri e senza
brontolare. Ne parlava con delicatezza e rispetto. Io ero
commosso da quell'amore per il fratello che aveva sempre creduto in
lui ma anche in se stesso; e mi parve un tratto molto
accattivante di Kokoschka l'insistenza con cui cercava di
stabilire davanti al mondo una sorta di equivalenza tra sé e suo
fratello.
Con alcuni miei amici di Vienna si era parlato spesso di Bohi. Il
prestigio di Kokoschka era così grande che ogni relazione con
lui, anche la più modesta, tornava a onore di chi poteva vantarla.
Un giovane architetto, Walter Loos, che non era parente del grande
Loos ma aveva lo stesso cognome, si sentiva in dovere - forse
proprio a causa di quella omonimia - di conoscere almeno il
fratello di Kokoschka; e nello Heurige in cui s'incontrava
con Wotruba e con me si abbandonava a entusiastiche descrizioni
della bella e prosperosa ragazza, figlia di uno spazzacamino,
che sembrava nata apposta per essere l'amica del grasso Bohi.
Raccontava degli alti e bassi di quella relazione, della gelosia
di Bohi, di violente scenate e tempestose riconciliazioni.
Tutti correvano dietro alla figlia dello spazzacamino, ma lei
restava assolutamente fedele al suo Bohi, era impossibile sedurla.
Così Bohi era proprio il fratello del famoso pittore, il quale era
in realtà il vero oggetto di tutti quei discorsi, e perciò la gelosia
diventava "obbligatoria" anche per lui. Wotruba ascoltava quasi con
devozione tutti i racconti che si riferivano al fratello di
Kokoschka. Il giovane Loos, come noi lo chiamavamo, continuava a
stuzzicarlo con la celebrità del pittore; e a furia di esaltarlo
con una fiducia incrollabile, come fosse una bandiera, si era fatto
una certa posizione nella nostra cerchia, sebbene per il resto
non dicesse niente di molto interessante.
Adesso era Kokoschka a portare il discorso su suo fratello.
Nominava Bohi con la massima naturalezza, come se a Vienna tutti
dovessero sapere di lui senza bisogno di altre spiegazioni; e
quando io mi addentrai nell'argomento e raccontai quel che sapevo
dal giovane Loos, il pittore sembrò un po'"irritato da questo
nome.
"Sarebbe meglio se non ci fosse un altro architetto che si chiama
così: di Loos ce n'è stato uno solo".
Non si rasserenò neanche quando difesi il nome del mio
conoscente dicendo che in fondo costui era amico del fratello e
non, come il vecchio Loos, del vero Kokoschka. Ne prese spunto per
tessere l'elogio di Bohi, e così ebbi notizie più precise
sull'opera in quattro volumi che non trovava un editore.
Possibile che il cosiddetto "giovane" Loos non avesse mai
accennato a quel romanzo?
No, lui parlava solo e sempre del suo amore per la figlia
dello spazzacamino e delle scenate tra i due. Kokoschka, che
reagiva con una prontezza sbalorditiva, subodorò il nesso con le
leggendarie scenate avvenute tra lui e Alma Mahler, e parò il colpo
senza che io avessi avuto l'indelicatezza di alludervi.
"Questo è Nestroy bello e buono," disse "questo non ha niente a
che fare con Bohi e col suo modo di scrivere. Le loro baruffe
fanno tanta impressione solo perché tutt'e due sono così grassi. Ma
Bohi è un uomo puro. Non fa quelle scene perché si parli di lui".
Sembrava che volesse giustificare se stesso per le sue scenate
di una volta. Quando insegnava a Dresda viveva con una bambola di
grandezza naturale, preparata secondo le sue indicazioni,
che riproduceva le sembianze di Alma Mahler; e così aveva perpetuato
- si può ben dire - le chiacchiere che correvano su loro due.
Questa storia era familiare anche a coloro che sapevano solo
inorridire davanti alla sua pittura. La bambola se la trascinava
sempre dietro, era ciò che gli restava delle scenate di un
tempo con Alma. Al caffè stava seduta al tavolino accanto a lui,
aveva la sua tazzina davanti, e poi, così si diceva, finiva
addirittura nel letto di Kokoschka. Bohi, tutto al contrario del
fratello, non muoveva un dito per farsi conoscere, e perciò Oskar
lo chiamava "un uomo puro", perciò ne parlava volentieri e si
richiamava a lui come se personificasse la sua innocenza.
In uno dei giorni successivi ebbe luogo una grande sfilata
di contadini nella piazza San Venceslao. Dall'alto della terrazza
della mia stanza all'albergo Juli` s si poteva seguire benissimo
tutto lo spettacolo. Ludwig Hardt, che adesso abitava appunto a
Praga, venne con sua moglie. Lo avevo invitato con qualche
altro conoscente a guardarsi la sfilata, e in
quell'occasione conobbi sua moglie, piccola come lui, una
personcina graziosa, che si prendeva alquanto sul serio. A
vederli insieme non si poteva non pensare a un numero di circo
equestre. Da un momento all'altro ci si aspettava di assistere
all'ingresso dei cavalli e di vedere quella figurina ben tornita
saltare da un cavallo all'altro mentre lui eseguiva acrobazie non
meno temerarie, passando a un millimetro da lei oppure insieme con
lei.
Ma adesso stavano entrambi accanto a me sulla terrazza, alta
sulla piazza in cui contadini di tutte le parti del Paese sfilavano
nei loro costumi, non pochi a cavallo, accompagnati dalla musica
e da acclamazioni: sembrava un quadro di nozze campestri.
Singoli contadini cominciarono a ballare, ognuno per conto suo,
avvicendandosi in rapida successione, e il modo in cui
uscivano all'improvviso dal corteo muovendosi di traverso e
facendosi largo in quel trambusto, senza però rinunciare in nulla
alla loro aria solenne,
aveva una tale levità che mi vennero le lacrime agli occhi. Mi
voltai da
una parte per nascondere la commozione, e proprio allora il mio
sguardo incontrò quello di Kokoschka, che era uscito sulla sua
terrazza e guardava giù, come noi, verso i contadini. Egli notò la
mia emozione e mi fece un cenno affettuoso, come se parlasse di suo
fratello Bohi.
Che cosa mi toccasse così da vicino negli assolo di danza dei
contadini che si staccavano dal loro gruppo, allora non avrei saputo
dirlo. Nella loro allegria, nella loro forza, in tutti i loro
colori non c'era niente che potesse turbare. Era un momento libero
da ogni cattivo presagio, uno stato di felice commozione, anche
se non si prendeva parte alla loro sfilata - che cosa si poteva
avere in comune con un contadino? La mia commozione veniva anche
da un ritrovamento: ritrovavo davanti a me i balli dei contadini di
Brueghel. I quadri condizionano le nostre esperienze. Si
incorporano in noi quasi come una terra che ci appartenga. A seconda
dei quadri di cui siamo fatti ci è data in sorte una vita diversa.
Era ricca di colori e liberatrice l'emozione per quei contadini
impegnati nelle loro danze sulla piazza San Venceslao. Due anni
dopo il destino di Praga era segnato. Ma a me fu ancora
consentito di vivere la forza e la grazia un po'"greve di quegli
esseri umani.
Qualcosa di simile sentivo anche nella lingua, che mi era del
tutto sconosciuta. A Vienna i cechi erano moltissimi, ma all'infuori
di loro nessuno conosceva quella lingua. Innumerevoli viennesi
avevano nomi cechi, e non si sapeva che cosa
significassero. Uno dei nomi più belli l'aveva il mio "gemello",
Wotruba. Neanche lui conosceva una parola della lingua di suo
padre. Adesso ero a Praga e andavo in giro da ogni parte, di
preferenza nei cortili delle case dove abitava molta gente di cui
potevo ascoltare i discorsi. Mi sembrava una lingua combattiva,
perché tutte le parole erano fortemente accentate sulla prima
sillaba, e quindi, in ogni discorso che si ascoltava, si
percepiva una serie di piccole scosse che si ripetevano per tutta la
durata della conversazione.
Io mi ero occupato della storia delle guerre hussite, il
quindicesimo secolo mi aveva sempre attirato, e chi tentava di
capire qualcosa delle masse non poteva non rimuginare a lungo
sugli hussiti. Avevo un grande rispetto per la storia dei cechi, ed
è probabile che lì, da profano, mentre cercavo di ascoltare la loro
lingua nei suoi vari gradi d'intensità, credessi di scoprirvi
cose che derivavano soltanto dalla mia ignoranza. Ma non potevano
esservi dubbi sulla vitalità di quella lingua, e non poche parole
erano per me sorprendenti nella loro assoluta originalità.
Rimasi incantato nell'apprendere la parola ceca che significa musica:
hudba.
Nelle lingue europee, per quanto ne sapevo, la parola era
sempre la stessa: musica, una bella parola sonante. A
pronunciarla in tedesco, Musik, con l'accento sulla seconda
sillaba, si aveva la sensazione di balzare in alto insieme con la
parola. Là dove l'accento cadeva invece sulla prima sillaba, la
parola non sembrava così dinamica, rimaneva un poco a librarsi
nell'aria prima di dilatarsi. Avevo per quella parola un
attaccamento pari quasi a quello per la cosa che significava, ma a
poco a poco non mi era sembrato giusto che fosse usata per ogni
genere di musica. Quanto più ascoltavo musica nuova, tanto più
incerto diventava il mio rapporto con quella denominazione
universale. Una volta ebbi il coraggio di domandare ad Alban Berg se
non dovessero esservi anche altre parole per significare la musica,
se l'irrimediabile chiusura dei viennesi di fronte a ogni novità non
dipendesse anche dal fatto che erano diventati tutt'uno con
l'idea che avevano di quella parola, a tal segno che non potevano
tollerare qualcosa che ne modificasse il contenuto. Forse, se si
fosse chiamata in altro modo, sarebbero stati più facilmente
disposti ad abituarvisi. Ma lui, Alban Berg, non voleva
saperne. Per lui, come per tutti gli altri compositori venuti
prima, si trattava della musica, di nient'altro, di qualcosa
che discendeva da quei predecessori; ciò che lui stesso faceva, ciò
che i suoi allievi imparavano da lui era musica, ogni altra parola
sarebbe stata un inganno; e non mi aveva colpito il fatto che la
stessa parola si fosse diffusa su tutta la Terra? Reagì alla mia
"proposta" con impeto, quasi con sdegno, con una tale
determinazione che non toccai più l'argomento.
Ma anche se non ne parlavo, consapevole com'ero della mia
ignoranza musicale, tuttavia quel pensiero non mi
abbandonava. E adesso, a Praga, scoprendo improvvisamente e come per
caso che la parola ceca per musica era hudba, ne rimasi
estasiato. Questa era la parola per Les Noces di Strawinsky, per
Bartòk, per Janà` cek, per molte altre cose.
Come ammaliato passavo da un cortile all'altro. Ciò che al mio
orecchio suonava come sfida era forse semplicemente
"comunicazione", ma in questo caso era più carica, racchiudeva
qualcosa di più del parlante, conteneva più di quanto noi usavamo
mettere di nostro nel comunicare. Forse era l'impeto con cui
entravano in me le parole ceche a richiamare ricordi del bulgaro
della mia prima infanzia. Ma io non ci pensavo mai, perché avevo
dimenticato del tutto il bulgaro; e non saprei stabilire in che
misura le lingue dimenticate permangono, nonostante tutto, dentro di
noi. Di certo, in quei giorni di Praga riconfluivano in me molte
cose che si erano svolte in periodi isolati della mia vita. Percepivo
i suoni slavi come parti di una lingua che mi riguardava da
vicino, in maniera inspiegabile.
Ma con molte persone parlavo in tedesco, parlavo soltanto
in tedesco, ed erano persone che avevano con questa lingua una
consuetudine consapevole e differenziata. Per lo più erano uomini di
lettere che scrivevano in tedesco, e ogni volta si avvertiva come
questa lingua, alla quale restavano fedeli sullo sfondo vigoroso
del ceco, rappresentasse per loro qualcosa di diverso che per
quelli che adoperavano la stessa lingua a Vienna.
Era stata pubblicata da poco la traduzione ceca della Blendung.
Per questo motivo avevo intrapreso il viaggio a Praga. Un giovane
scrittore, che oggi è noto sotto il nome di H" G'Adler, lavorava
allora in un
istituto pubblico e mi aveva invitato a tenere una lettura.
Apparteneva a un gruppo di amici che scrivevano in tedesco, più
giovani di me di circa cinque anni, tra i quali la Blendung
passava di mano in mano. Adler, il più attivo del gruppo, si era
battuto in ogni modo a favore della mia lettura. E fu ancora lui a
guidarmi per la città, con molto impegno, affinché nessuna delle
sue bellezze mi sfuggisse.
Ciò che lo distingueva soprattutto era l'alta tensione del suo
fervore idealistico. Lui, che di lì a poco sarebbe stato vittima in
così grave misura di quel tempo degno di essere maledetto,
dava l'impressione di non appartenere al tempo. Difficilmente
si sarebbe potuto immaginare in qualche parte della Germania un
uomo che fosse più segnato dalla tradizione letteraria
tedesca. Ma lui viveva lì, a Praga, parlava e leggeva agevolmente
il ceco, aveva rispetto per la letteratura e la musica ceche;
e tutto ciò che io non capivo me lo spiegava in modo tale da
rendermelo attraente.
Non voglio enumerare le meraviglie di Praga, che sono sulla
bocca di tutti. Mi sembrerebbe quasi sconveniente parlare di piazze,
chiese, palazzi, vicoli, dei ponti e del fiume con cui altri hanno
trascorso una vita e della cui presenza è impregnata la loro opera.
Di tutto questo io non ho scoperto nulla da solo, ogni cosa mi
veniva mostrata e spiegata: se c'è qualcuno che avrebbe il
diritto di parlare di simili scoperte, sarebbe colui che le ha
progettate e provocate. Il giovane scrittore, che non sembrava mai
stanco di escogitare sorprese per me, era a sua volta pieno di
curiosità e continuava a fare domande nel corso delle nostre
camminate. Io lo accontentavo volentieri, e molte persone che
erano entrate nella mia vita affiorarono davanti a lui nella
conversazione, con
opinioni, giudizi e pregiudizi.
Ma il giovane intuì anche quanto fosse importante per me ascoltare
da solo, poter ascoltare la gente, le persone più diverse,
mentre parlavano in una lingua che non comprendevo, ascoltarli
senza che subito mi venisse tradotto ciò che dicevano. Per lui quella
doveva essere un'esperienza nuova: c'era qualcuno che inseguiva
l'eco di parole incomprese, un effetto tutto particolare che
non si poteva paragonare a quello della musica, poiché dalle
parole incomprese ci si sente minacciati, si continua a
voltarle e rivoltarle dentro di sé e si cerca di smussarle, ma
quelle si ripetono e nel ripetersi diventano ancor più minacciose.
Il mio accompagnatore ebbe la delicatezza di lasciarmi solo per
ore intere, ed era un po'"preoccupato che io potessi smarrirmi e
sicuramente non accettava senza rammarico l'interruzione che il
nostro dialogo doveva subire in quel modo. Con tanto maggiore
curiosità mi fece poi raccontare le cose che mi avevano colpito; e
fu un segno della mia grande simpatia per lui se feci fatica a non
dirgli tutto.
NOTE:
(1) Nel 1924 circa, Kokoschka aveva dipinto nel quadro
WienLiebhartstal il paesaggio intorno alla casa della madre, nella
campagna a ovest di Vienna ?N" d'T"*.
(2) Il nomignolo dato alla figlia da Gustav Mahler ha anch'esso
un riferimento al "gioco degli occhi", essendo legato al verbo
gucken, "guardare con curiosità, con gli occhi sgranati"
?N" d'T"*.
(3) Georg Trakl (1887-1914) fece visita a Kokoschka nel 1914 e
vide nello studio un grande quadro in cui il pittore aveva
raffigurato se stesso con Alma Mahler. Improvvisò allora una
poesia in cui ricorreva la parola Windsbraut ("sposa del vento", o
"tempesta"). Poi, come racconta Kokoschka nell'autobiografia, Trakl
"ha indicato il quadro con la pallida mano e l'ha chiamato die
Windsbraut. Di lì a poco egli è morto, disperato per il massacro
di Grodek, a causa di una dose eccessiva di medicinali,
nell'ospedale di guerra di Cracovia".
(4) Il filosofo Franz Brentano (1838-1917), le cui idee avevano
trovato molto seguito a Praga, aveva anche pubblicato, sotto il
titolo Aenigmatias, una raccolta di indovinelli, sciarade,
logogrifi e altri giochi. Racconta Max Brod nell'autobiografia: "La
segreta attrazione di questo libro stava nel fatto che non vi erano
indicate le soluzioni. Aenigmatias era entrato in molte delle
grandi famiglie di Praga, e anche nelle riunioni mondane si cercava
di venire a capo di quegli enigmi. Inutilmente: alcuni dei giochi
più difficili erano diventati famosi, resistevano a tutti gli
assalti ?...*. Si diceva che Oskar Kraus avesse ricevuto dallo
stesso Brentano un esemplare del libro in cui per ogni indovinello
c'era la soluzione, scritta di pugno dall'autore. Molti
pregavano Kraus di svelare qualche soluzione. Lui non tradì mai il
segreto" ?N" d'T"*.
Morte della mamma
La trovai assopita, gli occhi chiusi. Tutta consunta, ormai
soltanto pelle diafana, eccola lì distesa, profondi fori neri al
posto degli occhi, immobili fori neri là dove prima era il gioco
delle sue ampie, stupende narici. La fronte sembrava più stretta,
contratta da entrambe le parti. Mi ero aspettato lo sguardo dei
suoi occhi, ed ebbi la sensazione che li avesse sigillati contro di
me. Poiché gli occhi si negavano, cercai quelli che in lei erano i
tratti più personali, cercai le grandi narici e la fronte imponente;
ma la fronte non aveva più un'estensione, non delimitava
nulla, e la collera delle narici si era persa in tutto quel nero.
Mi spaventai, ma ero ancora talmente persuaso della sua antica
forza che in me s'insinuava il sospetto che si celasse ai miei occhi.
Non vuole vedermi, non mi aspettava. Sente che sono qui e finge di
dormire. Mi passavano per la testa i pensieri che lei stessa
avrebbe avuto al mio posto, perché io ero lei, conoscevamo i
pensieri l'uno dell'altro, appartenevano a entrambi.
Avevo portato delle rose, lei non resisteva mai al loro profumo.
L'aveva respirato nel giardino della sua infanzia a Rustschuk, e
quando negli anni migliori scherzavamo sulle sue narici, enormi,
come nessun altro le aveva, lei diceva che erano diventate così
grandi perché da bambina le aveva dilatate per accogliere il
profumo delle rose. Nel più remoto dei suoi ricordi era stesa tra
le rose e poi piangeva perché la riportavano in casa e il profumo
svaniva. In seguito, dopo aver lasciato la casa e il giardino di
suo padre, aveva saggiato ogni profumo alla ricerca di quello
vero, e in questo esercizio le narici le erano cresciute ed erano
rimaste così grandi.
Quando aprì gli occhi, dissi: "Ti ho portato questo da
Rustschuk". Mi guardò incredula, non dubitava della mia presenza,
bensì del luogo che avevo nominato. "Dal giardino" dissi, e non
c'era che un giardino. Lei mi ci aveva condotto, aveva respirato
profondamente e mi aveva consolato con la frutta per le
umiliazioni che avevo sofferto dal nonno. Ora io le porgevo le
rose, lei inalò l'odore, la stanza ne fu invasa. Disse: "E"
questo il profumo. Vengono dal giardino". Si arrendeva alla
notizia, accettava anche me - io ero racchiuso in quella nuvola - e
non domandò perché ero a Parigi. Era ricomparso il suo viso, con
le narici insaziabili. Gli occhi, molto più grandi, si
fissarono su di me, e lei non disse: Non ti voglio vedere! Che
cosa fai qui? Io non ti ho chiamato! Riconosceva il profumo, e nel
profumo mi ero insinuato anch'io. Non faceva domande, si
abbandonava interamente all'olfatto, e a me parve che la fronte le
si allargasse e che dovessero arrivare le sue parole
inconfondibili. Aspettavo parole dure e le temevo. Udivo il suo
amaro rimprovero come se l'avesse già pronunciato ancora una
volta: Vi siete sposati. Non mi hai detto niente. Mi hai
ingannata.
Non aveva chiesto di vedermi, e quando Georg, allarmato per il
suo declino, mi aveva telegrafato e scritto di accorrere subito,
quando avevo interrotto dopo otto giorni la visita a Praga ed
ero partito in tutta fretta per Vienna proseguendo poi per Parigi,
un pensiero lo angustiava: come avremmo potuto farle accettare la
mia presenza? Per lui la cosa più importante era sciogliere ciò
che alla fine si era coagulato dentro di lei, ciò che le occupava la
mente, ciò che la tormentava, evitando a ogni costo uno scoppio di
collera che Georg paventava anche in una condizione di spirito così
estenuata.
Quando al mio arrivo gli spiegai ciò che avevo in mente, l'idea
di portarle le "rose del giardino di Rustschuk", e dissi che lei mi
avrebbe creduto, Georg non nascose i suoi dubbi: "E tu hai questo
coraggio? Sarà la tua ultima bugia!". Ma non gli venne un'idea
migliore, e quando capì che io non volevo semplicemente vincere in
lei la resistenza alla mia visita, ma che mi premeva davvero
riportarle il profumo per il quale aveva provato tanta nostalgia,
allora cedette, vergognandosi un po'"e forse anche convertendosi
al mio proposito. Ma non volle assistere all'incontro per
non compromettere la fiducia che la mamma aveva in lui, nel caso
che il mio piano fallisse e attizzasse in lei nuova collera.
I fiori se li teneva sopra il viso come una maschera, e a me
parve che i suoi lineamenti riprendessero forza e dimensioni.
Mi credeva ancora, come
una volta, e aveva ricacciato i suoi dubbi, sapeva chi ero ma
dalle sue labbra non uscì una parola ostile. Non disse: Hai fatto
un lungo viaggio. Sei venuto per questo? Ma a me ritornò alla mente
ciò che in passato aveva raccontato tante volte. Prima di
arrampicarsi sul gelso in cui usava ritirarsi a leggere, faceva
ancora una corsa tra le rose. Leggeva nel segno delle rose, il
profumo persisteva in lei, e ogni libro se ne saturava. Allora
le riuscivano sopportabili anche le cose più spaventose, perfino
quando moriva di paura non si sentiva veramente in pericolo.
Nel nostro periodo peggiore gliene avevo fatto un
rimprovero. Le avevo detto che tutto ciò che aveva letto in
quello stato di narcosi non aveva per me alcun valore, che quella sua
paura non era paura, che le cose spaventose che avevano
resistito al profumo delle rose non erano spaventose. Non avevo mai
ritirato quelle dure parole. Forse per questo mi era venuta l'idea
di quello stratagemma.
E ora disse tuttavia: "Non sei stanco del viaggio? Riposati
un poco!". Non si riferiva al viaggio da Vienna, ma all'altro,
quello più lungo, in Bulgaria, e io assicurai che non ero per
niente stanco, che non volevo staccarmi subito da lei un'altra
volta. Forse immaginò che fossi venuto soltanto per portarle quel
messaggio da laggiù, che sarei subito scomparso di nuovo. Forse
sarebbe stato meglio così. Non avevo pensato che nella mia persona
qualcosa poteva disturbarla anche dopo il primo atto di
riconoscimento e che nel suo stato sopportava le visite solo per
breve tempo. Presto disse: "Siediti più lontano!". Io mi ero appena
seduto. Scostai la sedia dal letto, ma lei disse: "Più lontano, più
lontano!". Arretrai ancora un poco, ma a lei non bastava. Mi
ritrassi fin nell'angolo della piccola stanza e compresi che non
voleva parlare e perciò mi allontanava da sé. Georg, quando
entrò, capì da come erano posate le rose che la mamma le aveva
accettate, e dai suoi lineamenti che era sollevata. Ma poi,
vedendomi in disparte nell'angolo, si meravigliò che stessi
seduto e in quel punto. "Non preferisci stare in piedi?"
domandò; ma lei scosse la testa quasi con violenza. "E perché
non ti siedi più vicino?" aggiunse Georg, ma lei gli interruppe la
frase e rispose al mio posto: "Là è meglio".
Lui invece non doveva allontanarsi dal letto, le rimase vicino e
iniziò
una serie di operazioni di cui non mi era sempre chiaro il senso.
Erano cose che lei si aspettava da Georg, in una successione
prestabilita, e per le quali dimenticò tutto il resto. Non
sapeva più che ero lì, a quel punto ormai le sarebbe stato
indifferente se me ne fossi andato. Per quanto inerte sembrasse,
preveniva Georg con tanti piccoli movimenti, come se volesse
ricordargli l'ordine delle varie operazioni. Lui le inumidì le
mani e la fronte e la rialzò un poco sul letto. Le portò un
bicchiere alle labbra e lei accettò di bere un sorso. Le aggiustò la
coperta e tentò di toglierle le rose dalla mano. Forse voleva
liberarla dall'ingombro, forse pensava di metterle in un vaso, ma
lei non allentò la presa e gli rivolse uno sguardo severo, come una
volta. Lui avvertì l'impeto di quella reazione e si rallegrò
dell'energia che la animava. Da settimane seguiva e temeva in lei
il declinare delle forze. Le lasciò i fiori nella mano posata sulla
coperta: occupavano molto posto e non erano meno importanti di
lui. Intanto io ero stato confinato in un angolo e dubitavo che
lei fosse cosciente della mia presenza.
Improvvisamente la sentii dire a Georg: "E" arrivato il tuo
fratello più grande. Viene da Rustschuk. Perché non vi
salutate?". Georg guardò nel mio angolo, come se solo adesso si
accorgesse di me. Si avvicinò, io mi alzai, ci abbracciammo. Ci
abbracciammo veramente, non di sfuggita come prima, quando avevo
messo piede nell'appartamento. Ma lui non pronunciò una parola, e io
la sentii dire: "Perché non gli chiedi niente?". Si aspettava un
dialogo sul mio viaggio, sulla mia visita al giardino. "Era tanto
tempo che non ci andava" disse lei; e Georg, che non amava le
invenzioni, aderì con riluttanza alla mia storia: "Da ventidue anni,
dal tempo della prima guerra mondiale". Lui voleva dire che non ero
più stato a Rustschuk dal 1915. Allora la mamma mi aveva mostrato
un'altra volta il giardino della sua infanzia, suo padre non era
più al mondo, ma il gelso era sempre al suo posto e dietro, nel
frutteto, maturavano le albicocche.
Le si chiusero gli occhi, e ancora mentre noi due stavamo
in piedi l'uno accanto all'altro, si assopì. Quando Georg fu sicuro
che avrebbe dormito per un poco, ci ritirammo nel soggiorno, e
lui mi disse delle condizioni della mamma e che non c'era nulla che
potesse salvarla. Molti anni prima, noi eravamo bambini, si era
convinta di avere un male ai polmoni, poi la malattia era diventata
realtà. Lui, giovane medico di ventisei anni, si era
specializzato in malattie polmonari per assisterla. In ogni momento
libero, giorno e notte, era stato vicino alla mamma. Da studente
si era ammalato lui stesso di tubercolosi: i suoi amici pensavano
che fosse stato contagiato dalla mamma. Allora aveva trascorso
alcuni mesi in un sanatorio sopra Grenoble, lavorandovi come
medico, ne era ritornato rimesso a nuovo, come si diceva, e aveva
ripreso a curare la mamma con la stessa dedizione.
Lo preoccupavano le difficoltà respiratorie, da anni la mamma
soffriva di asma. Durante gli ultimi mesi aveva avuto un declino
così rapido che alla fine Georg era arrivato, tra molte incertezze,
alla decisione di chiamarmi. Sapeva che cosa voleva dire un
incontro, le conseguenze potevano essere pericolose, ma per lui
contava di più il pensiero di una riconciliazione. Ora sembrava,
per il momento, che la cosa fosse riuscita, e sebbene Georg
conoscesse i repentini mutamenti d'umore della mamma e non fosse da
escludere con sicurezza un'esplosione ritardata di collera, si
sentiva sollevato per il buon inizio. Con mio stupore, anche
quando fummo soli, non mi rimproverò, non disse che non ero stato
nel giardino del nonno e l'avevo ingannata con un mazzo di rose preso
a Parigi. "Lei ti crede ancora," disse "e tu le hai sempre creduto.
Ecco quello che vi unisce. Voi due avete il potere di
uccidervi. Tu sapevi bene perché dovevi proteggere Veza dalla
mamma. Io lo capisco. Ma io ho visto l'effetto che tutto questo
ha avuto sulla mamma. Perciò non posso perdonarti. Adesso non ha più
importanza. Per lei tu sei venuto dal luogo a cui continua a
pensare".
Nel piccolo appartamento rumoroso della Rue de la
Convention non c'era posto per me. Dormivo fuori e andavo da lei più
volte al giorno. Sopportava solo per poco tempo la mia
presenza, ma del resto non sopportava a lungo nessuna visita.
Dovevo sempre lasciare di nuovo la stanza e aspettare fuori.
Al suo letto non mi avvicinavo troppo. Ogni mattina, al primo
incontro, i suoi occhi diventavano più grandi e più luminosi,
e io mi sentivo catturato da quello sguardo. Il respiro si
attenuava, ma lo sguardo acquistava forza. Non guardava
dall'altra parte: quando non voleva vedere, chiudeva gli occhi. Mi
guardava fino a che mi odiava. Allora diceva: "Vattene!". Lo diceva
alcune volte ogni giorno, e nel dirlo era ben decisa a punirmi.
Quella parola mi colpiva, sebbene fossi consapevole del suo stato e
mi rendessi conto che ero lì per questo, per essere punito e
umiliato - era per questo che adesso le servivo. Mentre aspettavo
nella stanza vicina, entrava da me l'infermiera e con un cenno del
capo mi faceva capire che la mamma aveva chiesto di me. Allora
andavo da lei, e mi puntava lo sguardo addosso, squadrandomi
con una forza tale che io temevo dovesse restarne fiaccata. Lo
sguardo si dilatava e si acuiva, lei non diceva niente, finché
all'improvviso ordinava di nuovo in un soffio: "Vattene!", ed era
come se per tutta l'eternità io fossi condannato a rimanere
lontano dal suo cospetto. Mi inchinavo appena, da imputato che
accetta la sentenza perché è cosciente della propria colpa, e
uscivo. Pur essendo sicuro che di nuovo avrebbe chiesto di me, che
presto mi avrebbe chiamato, ne restavo afflitto, non mi ci
abituavo e ogni volta era come una nuova punizione.
Era diventata molto esile. Tutta la vita rimasta in lei si era
concentrata negli occhi, grevi del torto che io le avevo fatto. Mi
guardava per dirlo, io reggevo il suo sguardo, lo sopportavo,
volevo sopportarlo. Non c'era collera in quello sguardo, c'era
il tormento di tutti gli anni in cui le avevo impedito di
liberarsi di me. Per sciogliersi da me si era convinta di
essere malata, era andata dai medici, si era spinta in luoghi
lontani, in montagna, al mare, qualunque posto andava bene purché
io non ci fossi, e là era vissuta e nelle lettere mi aveva nascosto
la verità, e per causa mia si era creduta malata e dopo anni si
era ammalata davvero. Era quello che adesso mi rinfacciava, ed
era tutto nei suoi occhi. Poi cedeva alla stanchezza e
diceva: "Vattene!", e io, mentre aspettavo nell'altra stanza,
falso penitente, scrivevo a colei il cui nome non affiorava su
quelle labbra, e accordavo a Veza la fiducia di cui ero debitore a
lei.
Poi, dopo il breve assopimento, chiedeva di me, come se fossi
appena arrivato dal viaggio; e il suo sguardo, che nel sopore si
era di nuovo caricato del passato, si puntava un'altra volta su di
me e mi diceva in silenzio come io l'avessi lasciata per un altro
essere umano, lasciata, ingannata e offesa.
Quando però Georg era presente, in ogni atto di mio fratello
avevo lo spettacolo di ciò che sarebbe dovuto essere. Lui non si
era legato a nessuno. Lui era lì solamente per lei. La serviva in
ogni gesto, non poteva far nulla che non fosse ben fatto, perché
era fatto per lei. Quando si allontanava, non vedeva che il
momento di tornare da lei. Per lei era diventato medico e andava
in ospedale a raccogliere esperienze utili alla sua malattia, e mi
condannava come lei, istintivamente, senza che lei glielo avesse
imposto. Il fratello minore era ciò che il maggiore sarebbe
dovuto essere, incurante della propria vita, sempre pronto al
servizio della mamma; e quando il fardello era diventato troppo
pesante per lui si era addirittura ammalato come lei, della stessa
malattia. Era andato in montagna a cercarvi l'aria e la vita, ma
solamente per ritornare da lei e curarla di nuovo. Verso di lei
non aveva un debito di gratitudine così grande come il mio,
perché io ero in tutto figlio del suo spirito, ma io avevo
fallito, mi
ero lasciato persuadere a inseguire chi sa quali chimere, ero
rimasto a Vienna, mi ero votato anima e corpo a Vienna, e poi,
quando finalmente avevo ideato qualcosa che aveva valore, si
scopriva che anche quello veniva da lei, era stata lei a dettarmelo,
e non le chimere. Così tutta la triste vicenda non sarebbe stata
necessaria, avrei potuto percorrere la mia strada senza staccarmi
da lei e sarei giunto allo stesso risultato.
Questa è la forza di chi sta per morire e lotta per
difendersi da chi gli sopravvive; ed è bene che sia così, è bene che
si affermi il diritto del più debole. Quelli che noi non
riusciamo a proteggere devono poter rinfacciarci che non abbiamo
fatto niente per la loro salvezza. Nel loro rimprovero è
racchiusa la sfida che tramandano a noi, la divina illusione che
potremmo riuscire a vincere la morte. Colui che ha mandato il
serpente, il tentatore, lo richiama indietro. La pena è durata
abbastanza. L'albero della vita è vostro. Voi non morirete.
Rimane in me la sensazione di una lunga marcia dietro il feretro,
come se avessimo attraversato a piedi l'intera città fino al Père
Lachaise.
Provavo un orgoglio mostruoso e volevo dirlo a tutti quelli
che si aggiravano quel giorno in quella città. Ero pieno di
fierezza, come se per lei fossi sceso in campo contro tutti. Per me
nessuno era meglio di lei. Non riferivo quel "meglio" alla bontà,
che non aveva mai avuto, ma a un'altra qualità, alla capacità di
rimanere benché fosse morta. Accanto a me, a destra e a sinistra,
camminavano i due fratelli. Non sentivo nessuna differenza tra
loro e me: fintanto che camminavamo, eravamo una cosa sola, noi e
basta. Tutti gli altri che seguivano il feretro erano troppo poco
per me. Il corteo doveva estendersi per l'intera città, per
quanto era lungo il tragitto. Maledicevo la cecità che ignorava
chi veniva portato alla sepoltura. Il traffico non si fermava se
non per lasciar sfilare il corteo, e quando eravamo passati era di
nuovo lo stesso trambusto, come se il carro non trasportasse il
feretro di qualcuno. Era un lungo percorso, e sempre, per tutta
quanta la sua lunghezza, durò quel senso di sfida: come se
dovessimo combattere per aprirci la strada attraverso quello
sterminato numero di persone. Come se, in onore di lei,
cadessero vittime a destra e a sinistra; e nessuna bastava mai e
nessuna poteva saziare le pretese di lei. E" la lunghezza del
cammino a giustificare il funerale. "Guardatela! Eccola! Lo
sapevate? Sapete chi è chiuso lì dentro? E" lei, è la vita. Senza
di lei nulla esiste. Senza di lei crolleranno le vostre case e si
rattrappiranno i vostri corpi".
E" ciò che ancora ricordo di quel corteo. Mi vedo
camminare, mi vedo sfidare, con la fronte di lei, la città di
Parigi. Sento accanto a me i due fratelli. Non so come Georg
abbia fatto tutta quella strada. Sono stato io a sorreggerlo? Chi lo
ha sorretto? Lo sosteneva il medesimo orgoglio? Lungo il
tragitto non vedo le facce degli altri, nemmeno una, e non so chi
c'era. Con odio, prima di uscire, avevo assistito anch'io alla
chiusura della bara, con le viti che entravano nel legno, e
fintanto che lei rimase nella casa era come se le avessero usato
violenza. Durante la lunga marcia non provavo nulla di simile, il
feretro era diventato lei stessa, niente mi separava
dall'ammirazione per lei; e così dev'essere portata alla tomba una
persona come lei, perché la si possa ammirare incontaminata. Era il
medesimo sentimento che non si affievoliva, aveva sempre la stessa
forza, dev'essere durato per due o tre ore. E in esso non era
alcuna traccia di rassegnazione, forse neanche di dolore: come si
sarebbe potuto conciliare con quell'orgoglio furioso? Mi sarei
battuto per lei, avrei potuto uccidere. Ero pronto a tutto. Non era
paralisi, era sfida. Con la sua fronte io le aprivo la strada
attraverso la città, uomini barcollanti da ogni parte, e aspettavo
l'offesa che mi obbligasse a scendere in lizza per lei.
Voleva star solo per parlare con lei. Per alcuni giorni rimasi
vicino a Georg nel timore che si facesse del male. Poi mi pregò di
lasciarlo solo due o tre giorni, per stare con lei:
era ciò che desiderava, per sé non chiedeva altro. Mi fidai di lui
e ritornai il terzo giorno. Non voleva lasciare la casa in cui lei
era stata malata. Si sedeva sulla sedia sulla quale aveva
trascorso le serate accanto al letto e continuava a parlare. Per
lui, fintanto che diceva le vecchie parole, lei era ancora in
vita. Non voleva ammettere che non potesse più udirlo. La voce
della mamma era diventata così fievole, non era nemmeno un
soffio, ma lui la udiva e continuava a parlare. E poiché lei
voleva sempre sapere tutto, le raccontava della sua giornata,
della gente, di insegnanti, di amici, di passanti per la strada.
Raccontava come allora, come quando ritornava dal lavoro; adesso non
andava più in nessun posto e tuttavia aveva da raccontare.
Inventava per lei, ma non se ne faceva un rimprovero, e infatti
ogni invenzione era lamento, un sommesso, monotono, incessante
lamento, poiché forse tra poco lei non avrebbe più udito. Lui
voleva che nulla finisse, tutti i gesti, tutte le incombenze
continuavano sotto forma di parole. Le sue parole la svegliavano, e
lei che era morta soffocata aveva di nuovo il respiro. La voce era
intima e sommessa, come allora, quando lui la scongiurava di
respirare. Non piangeva; per non perdere uno solo dei momenti di
lei; quando era seduto lì, su quella sedia, dove l'aveva davanti
agli occhi, non si permetteva nulla che potesse degenerare per lei
in una perdita. L'evocazione non finiva mai, io udivo quella voce
che non avevo mai conosciuto, pura e alta come quella di un
evangelista: non avrei dovuto udirla, perché lui voleva star
solo, ma la udivo, perché ero preoccupato e mi domandavo se
potevo lasciarlo solo, come lui desiderava, e saggiavo a lungo
quella voce prima di decidermi: mi è rimasta nell'orecchio per
tutti questi anni. Come si saggia una voce, che cosa non si
riesce più a trovarvi, che cosa può ispirare fiducia. Si ode il
parlare sommesso alla morta che lui non abbandonerà mai, pur
senza seguirla; alla quale lui parla come se avesse ancora in sé
tutta la forza per trattenerla, e questa forza appartiene a lei, e
lui la dà a lei, lei deve sentirlo. Si sta in ascolto come se lui
le cantasse qualcosa sottovoce, non di sé, nessun lamento, solo di
lei, soltanto lei ha sofferto, soltanto lei può lamentarsi,
ma lui la consola e la evoca e le promette sempre di nuovo che lei è
ancora lì, lei sola, con lui solo, nessun altro, ogni persona la
disturba, perciò lui vuole che io lo lasci solo con lei, due o
tre giorni, e sebbene sia sotto terra lei è lì, distesa dove è
sempre stata durante la malattia, e lui va a prenderla con le
parole e lei non può abbandonarlo.
Fine