Magia sporca - Penne Matte
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Magia sporca - Penne Matte
Magia sporca Un racconto di maghi e crimine di Giuseppe Sardano Capitolo 1 La valigetta 1 Quando vide l’uomo uscire dalla cabina telefonica con un lungo sorriso stampato in viso, Daniel Chesterfield tirò un lungo sospiro, sicuro che quel giorno avrebbe lavorato. La stazione di servizio era semideserta, a quell’ora del pomeriggio e solo qualche veicolo passava ad alta velocità sulla strada provinciale. La maggior parte erano automobili: pendolari, famiglie e gruppi di giovani perdigiorno diretti chissà dove; a volte c’era qualche furgone e camion di grossa taglia, ma quella era generalmente una giornata con poco traffico. La condizione ideale per lavorare. L’uomo uscito dalla cabina sorrideva soddisfatto, e mentre si avvicinava fece segno a Daniel si salire in auto: un’anonima cinque posti grigia. Dopo essersi sistemato meglio il berretto sulla testa, Daniel aprì lo sportello del passeggero e salì a bordo della vettura. Un attimo dopo lo raggiunse il suo compagno, ancora sorridente. Un sorriso malsano, su cui Daniel ancora non sapeva esprimersi. Era qualcosa di naturale, o semplicemente indotto dalla droga? <Daniel: ci siamo!> Esclamò l’uomo con entusiasmo mettendo in moto la macchina. <Bene, Malcolm. Bene.> Commentò Daniel, un giovane di ventiquattro anni, mentre si abbandonava leggermente sul sedile. Non degnò il suo compagno nemmeno di uno sguardo. Fissava dritto davanti a sé, con le mani affondate nelle tasche della felpa e cercando di scacciare quell’ansia che lo prendeva ogni volta che stava per svolgere un lavoro. <Vedrai, sarà fenomenale!> Rincarò Malcolm McKenzie mentre si metteva in bocca una sigaretta. Un attimo dopo, il suo accendino si aprì con uno scatto metallico. <Il miglior lavoro che mi sia capitato in tutta la mia vita, garantito!> Disse tra una boccata di fumo e l’altra. L’uomo, che indossava un elegante giacca color panna sincronizzata con i pantaloni, rimase in silenzio qualche secondo, prima di riprendere: <Sai che farò con quello che guadagnerò da questo lavoro, Dan? Me ne andrò ai tropici a fare la bella vita per un po’! Giuro che lo faccio! Cazzo, non ne posso più della città. Lavoro, lavoro, lavoro… Ho bisogno di staccare la spina per un po’, se capisci quello che voglio dire!> Daniel, tirando un lungo ma silenzioso sospiro, continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé per poi rispondere con tono poco convinto: <Ah, certo.> Malcolm, che di anni ne aveva trentadue e aveva ormai imparato da tempo a capire che cosa frullava nella testa delle persone, rise piano, prima di dire: <Ehi, ma che hai?! Non sarai mica in pensiero per il lavoro?> <Non ho niente, Mal. Davvero.> Rispose Daniel, punto sul vivo. Odiava mostrarsi teso. <Stronzate!> Disse Malcolm. <Hai una faccia da funerale!> <E’ il normale umore che avrebbe chiunque prima di un lavoro come questo!> Sbottò Daniel, già stanco di quella conversazione. <Sei tu che sei su di giri! Quanta Polvere hai preso stavolta, eh? Se il capo viene a sapere che ti sei fatto di nuovo prima di un lavoro, s’incazzerà parecchio!> Dandosi dell’idiota per essere scattato in quel modo, Daniel non poté far altro che aspettare la risposta del suo compagno. <Se il capo lo viene a sapere?> Chiese incredulo Malcolm. <E chi glielo dovrebbe dire? Tu? Ti metteresti a fare la spia con me!?> Man mano che parlava, la voce di Malcolm si era andata facendo via via più sibilante e velenosa. <Solo se fai qualche cazzata durante il lavoro.> Ribatté Daniel. <Questa storia della Polvere rossa ti sta sfuggendo di mano, Mal. Quanta ne hai già presa da stamattina?> <Non sono cazzi tuoi.> Sbottò Malcolm con il rischio di maciullare il filtro della sigaretta con i denti. <Si che lo sono, invece! Se dobbiamo lavorare insieme lo sono eccome. A me serve un partner lucido. Concentrato, maledizione! Un solo errore e siamo morti, lo sai questo, no?> <Ma vaffanculo, chi ti credi di essere?!> Urlò Mal puntando i suoi occhi ormai rovinati dalla droga sul partner, dimenticandosi per un attimo della strada. Daniel si irrigidì, incorciando quegli occhi inquietanti, con le iridi ormai sbiadite a due corone di un turchese pallido. <Cazzo, mi hai fatto passare tutto il buon umore! Ma non è possibile!> Sbottò Mal colpendo il volante della macchina con il palmo aperto. In un attimo, il viso che poco prima era contratto in un’espressione di rabbia, si ridistese, sorridente, come se nulla fosse successo. <Cioè, no davvero: è impossibile! Uno esce da una stramaledetta cabina telefonica con la conferma che stiamo per svolgere il lavoro più importante della nostra vita, e poi si ritrova accanto ad un cazzo di moralista bacchettone! Ma anche se fosse, Dan! Ti ho mai deluso? Ho mai mancato di coprirti le spalle?> Daniel si passò una mano sul viso, seccato da quell’improvviso cambio d’umore. <No, Mal.> “E spero anche che non ti venga in mente di iniziare oggi, maledizione!” aggiunse mentalmente tra sé e sé. In ogni caso sapeva che se il signor Strange avesse saputo dello stato in cui si trovava Malcolm in quel momento, non sarebbe semplicemente passato oltre. Troppe voci e troppe lamentele gli erano giunte dal resto dei suoi uomini che si erano ritrovati a lavorare con Mal. Perché lui era, a tutti gli effetti, un tossico. E un tossico non era una persona adatta a svolgere il tipo di lavori che gli affari del signor Strange richiedevano. Ma a dispetto di tutto, Malcolm lavorava ancora. Per i suoi numerosissimi lavori portati a termine con successo e per la sua lealtà: qualcosa di davvero raro nel loro campo. <Appunto! La risposta è ‘no’!> Riprese Mal. <Quindi rilassati, o sarai tu e il tuo stramaledetto nervosismo a mandare tutto a monte.> Senza dire più niente, Daniel strinse i denti. Detestava dover discutere con Mal, soprattutto per cose come quelle. Ma cavolo! Perché quell’uomo non poteva trattenersi almeno quando stavano per svolgere un lavoro? La Polvere rossa dava assuefazione, va bene, ma non come le altre droghe. E se Mal avesse voluto, avrebbe potuto combatterla, ma ogni volta decideva di non farlo! Preferiva cedere al desiderio di prendere quella maledetta boccetta che si portava sempre dietro, e di versarsi un po’ di polvere da sniffare sul dorso del pollice, come fosse tabacco da fiuto. Ne bastava una puntina, e per tutta l’ora successiva il cervello soffriggeva di eccitazione e adrenalina. Cose di cui ormai Mal sembrava non poter più fare a meno. In ogni caso, non era quello il momento di rimuginare. Ormai le cose stavano come stavano, e lui avrebbe dovuto portare a termine il lavoro comunque. Quindi Daniel, dopo essere riuscito a sbollire parte dell’irritazione, fece pulizia nella sua mente, scacciando qualunque pensiero superfluo. Al diavolo Malcolm, ora aveva bisogno di concentrarsi, o non sarebbe mai riuscito a richiamare tutto il suo potere. E se non ci fosse riuscito, allora si che il lavoro sarebbe potuto finire male. Fece un lungo e profondo respiro, e finalmente lo invase una familiare sensazione di caldo; dapprima lentamente, poi come un fiume che si fa strada attraverso una crepa in una diga. Distese i palmi delle mani e, dopo aver fatto un altro paio di respiri, su questi avvamparono due globi di fuoco verde. Le fiamme danzavano verso l’alto, senza superare i dieci centimetri d’altezza. Mandavano un forte calore, ma nemmeno un filo di fumo, perché ad alimentare le fiamme non c’era nessun combustibile organico, ma la più pura magia, che Daniel era riuscito a richiamare dal fondo del suo essere. <Cazzo, che ficata!> Esclamò Mal lanciando un’occhiata ai globi di fuoco. Daniel riaprì gli occhi lentamente, senza far spegnere le fiamme. Ma poi, quando fu sicuro di avere il pieno controllo del suo potere, chiuse le mani a pugno, e i globi svanirono in un due nugoli di scintille. <Ehi Dan! Ma quando m’insegnerai a fare quei trucchetti?> <Quando ti deciderai a disintossicarti.> Rispose Daniel con aria tranquilla. Anche se punto sul vivo, Malcolm rise di gusto. <Piuttosto dimmi: che ti ha detto il contatto?> Chiese Daniel per cambiare discorso. <Ha confermato quello che già ci aveva detto.> Rispose Mal. <Il furgone è per strada. Sarà partito da un quarto d’ora, ormai.> <Bene.> Commentò Daniel tenendo fissi gli occhi sulla strada: una lunga e rettilinea striscia di cemento a tre corsie battuta dal tiepido sole di aprile. In quel momento passarono davanti all’uscita per Lesliengton e Daniel provò l’intenso desiderio di tornare a casa. Di ritornare da Eveline. ‘La rivedrai’ disse a sé stesso. ‘Portiamo a termine questo lavoro e poi torneremo a casa’. Il lavoro, che in realtà aveva sperato di non dover compiere, consisteva nello svaligiare un furgone portavalori della Relics: la più importante e ricca compagnia del continente specializzata nella produzione di artefatti magici. Daniel non sapeva su cosa avrebbero dovuto mettere le mani, esattamente. Il signor Strange lo aveva convocato alcuni giorni prima per parlargli del lavoro, che gli era stato presentato come qualcosa di eccezionale. Un colpo che forse avrebbe reso la famiglia del signor Strange tra le più ricche e potenti di tutta Lesliengton. <Il nostro contatto è affidabile.> Aveva detto il signor Strange con quella sua aria sicura. <Ci ha assicurato che il sette di questo mese, dalla Relics uscirà un oggetto magico di grandissimo valore. Qualcosa su cui la compagnia sta lavorando da anni, e che potremo rivendere per una bella sommetta. Solo che, ovviamente, per un lavoro come questo non posso mandare un gruppo qualunque dei miei ragazzi. Ho bisogno di te, Daniel.> Già, ovviamente… Perché quale uomo migliore, se non uno stregone, avrebbe potuto prendere parte al furto di un artefatto magico? Dopo pochi chilometri, Malcolm accostò per poi fermarsi del tutto su una piazzola di sosta. Mise in folle e tirò il freno a mano ma non spense il motore, che continuò a girare lentamente, inviando deboli sussulti alla macchina. <Qui dovrebbe andare bene.> Commentò Malcolm prendendo la sigaretta tra pollice e indice e spegnendola con violenza nel posacenere dell’automobile. Nello scendere dalla macchina, Daniel fu sorpreso da una folata di vento freddo che fece stormire gli alberi della campagna al di là del guardrail. Poi, insieme a Malcolm, si diresse verso il portabagagli, che si aprì con uno scatto. Al suo interno c’erano poche cose: un solo fucile automatico, di quelli d’assalto, un rotolo di filo spinato e tre verghe in legno di ciliegio, lunghe una ventina di centimetri scarsi ma completamente ricoperte di incisioni. Daniel prese le tre verghe e se le infilò nelle tasche posteriori dei blue jeans, per poi far passare il braccio destro attraverso il nastro di filo spinato, facendo molta attenzione a non pungersi e mettendoselo così in spalla. Il rotolo di filo, poté notare, era una vera chicca: lo stesso usato dalla polizia per i posti di blocco. <Io ancora non capisco perché ti ostini a non voler prendere qualche ferro.> Disse Malcolm mentre inseriva un caricatore nel fucile automatico. <Insomma: non dico qualcosa di grosso, ma almeno una pistola!> <La magia mi basta.> Rispose Daniel mentre sistemava meglio le verghe in modo che non gli cadessero. <E poi non mi piacciono le pistole. Sono inaffidabili.> <Inaffidabili?!> Chiese Malcolm. <Come sarebbe ‘inaffidabili’?> <Mal, per favore, basta chiacchiere.> Disse Daniel avvicinandosi al bordo della piazzola. <Ho bisogno di concentrarmi, o tutto il lavoro andrà a gambe all’aria.> Alzando le mani in segno di scusa, Malcolm chiuse la bocca, lasciando solo il vento e lo stormire delle foglie a dire la loro. Daniel chiuse gli occhi e, come poco prima sulla macchina, trasse un lungo e profondo respiro. Di nuovo sentì il potere scorrere dentro di lui, ma stavolta molto più facilmente, come quando un corpo risponde meglio dopo una sessione di riscaldamento. Così l’incantesimo riuscì, e in quel preciso momento udì Malcolm urlare: <Oh cazzo! Ma… siamo spariti!> Quando Daniel riaprì gli occhi, non c’era più niente: né lui, né Malcolm, e nemmeno la macchina. C’era solo la strada lì vicina e la piazzola di sosta, che appariva però completamente vuota. Proprio in quel momento passò una macchina davanti a loro, sfrecciando a tutta velocità. Il conducente della vettura non diede alcun segno di averli visti. <Questa cosa è pazzesca, Dan! Porca miseria, non mi vedo più le mani! Le gambe! Cazzo, è sparito proprio tutto!> <Sta calmo, Mal! Non mi distrarre, o l’incantesimo svanisce!> Gli disse Daniel affacciandosi sulla strada. Ormai il furgone sarebbe dovuto essere in vista… A meno che non fossero stati ingannati e il loro contatto non avesse deciso di fregarli. Ma presto, quei timori divennero infondati. Dopo nemmeno cinque minuti, arrivò: un grosso furgone blu scuro, appena apparso sulla sommità di un dosso poco distante. E Daniel poté sentire il proprio cuore iniziare a pompare sangue a più non posso. <Ci siamo!> Disse, e in quell’istante udì Malcolm caricare il fucile d’assalto, nonostante questo fosse completamente invisibile. Daniel si avvicinò al ciglio della strada e si girò verso il furgone. Poteva iniziare a scorgere le facce dei due conducenti annoiati, completamente assorti nei loro pensieri e ignari della loro presenza. Con un gesto rapido e preciso, Daniel poggiò il filo spiato a terra e lo fece srotolare dalla piazzola di sosta fino al bordo opposto della carreggiata: ormai il dado era tratto. I due conducenti del furgone non capirono subito quello che accadde. All’inizio, ci fu solo lo scoppio assordante delle ruote, poi la perdita immediata di controllo del mezzo, il penetrante stridio dei cerchioni che slittavano sull’asfalto… In un attimo il furgone si ribaltò su un lato, con un assordante fragore di lamiere, continuando a slittare per inerzia sull’asfalto, sollevando ventagli di scintille. I conducenti avevano le gole talmente aride per il terrore, che non urlarono nemmeno. Erano bloccati ai loro posti, pieni di contusioni ma ancora vivi, salvi solo grazie alle cinture di sicurezza. Uno di loro provò a chiamare il compagno, ma gli uscì solo un suono strozzato e inarticolato. <Vai Mal, adesso!> Urlò Daniel correndo verso il furgone e appena si mosse l’incantesimo che li aveva resi invisibili svanì. Malcolm lo sorpassò con uno scatto, e con un balzo fu sullo sportello del furgone, puntando il fucile contro i due conducenti. <Non muovete un dito, stronzi! O v’ammazzo!> Urlò Mal alzando l’arma. I due uomini, precariamente imbracati ai loro sedili, si ripresero dallo stordimento iniziale e misero le mani in vista. Sul retro del furgone, Daniel estrasse dalla tasca dei pantaloni una verga e la tese verso le pesanti portiere. Istantaneamente, i simboli sulla verga si illuminarono di una luce verde scuro, e le portiere vennero percorse da un violento scossone che minacciò di scardinarle, ma quelle rimasero al loro posto. <Cazzo, andiamo!> Sibilò Daniel a denti stretti, mentre la verga che teneva in pugno di riduceva ad un mucchietto di cenere fredda. Per un attimo ebbe il terrore che gli incantesimi a protezione del blindato fossero troppo potenti per lui. Con la vista annebbiata per l’adrenalina, prese una seconda verga e, di nuovo, la puntò contro le porte del furgone, ma stavolta queste si divelsero dai cardini con un boato, per poi ricadere a terra pesantemente, sollevando un grosso polverone. Un attimo dopo, anche la seconda verga si polverizzò senza lasciare traccia. Dentro la camera blindata del furgone c’era una valigetta, sballottolata verso il fondo, e attorno ad essa c’erano quattro guardie pesantemente armate. Tre erano prive di sensi, mentre la quarta era solo intontita. La guardia fece per avvicinarsi al fucile d’assalto, che durante l’incidente gli era sfuggito di mano, ma non riuscì nemmeno a mettersi a gattoni che Daniel gli puntò contro entrambe le mani, come se volesse artigliarlo, e ad un suo unico e furioso gesto, la guardia venne sollevata da una forza invisibile per essere scaraventata contro la parete della camera, perdendo i sensi. Senza esitare, Daniel scattò verso l’interno del furgone, facendo attenzione a non inciampare sui corpi delle guardie, afferrò la valigetta ed uscì. <Mal! Andiamo!> Senza farselo ripetere, Malcolm saltò giù dal furgone e insieme a Daniel si mise a correre verso la piazzola di sosta. Un attimo dopo i due salirono in macchina e sfrecciarono via a tutta velocità, con un forte stridio di gomme, aggirando la carcassa del furgone da cui ancora si levavano colonnine di fumo grigio. 2 Daniel si strofinò nuovamente il viso, mentre lo teneva rivolto verso il potente getto della doccia. Era lì da almeno un quarto d’ora, con l’acqua che scorreva a fiumi, calda e rilassante. Mise le mani a coppa, e quando queste furono colme, vi immerse il naso succhiando un poco. Poi espirò violentemente, cercando di ripulirsi il più possibile. Se c’era una cosa che odiava era il puzzo che cacciavano le automobili quando bruciavano. Si appiccicava dappertutto, in particolar modo dentro il naso, e non riuscivi più a togliertelo di dosso se non dopo tre o quattro docce. Ma purtroppo non ci si poteva fare niente. La procedura era quella: rubare una macchina, usarla per svolgere il lavoro, e appena questo era fatto, bruciarla fino in fondo per non lasciare tracce. E bisognava bruciarla con la benzina, non con la magia, su questo Mal non discuteva. <Senza offesa Dan, ma sono sicuro che questo sia il metodo migliore. Lo so perché lo uso da anni.> Diceva. E così il puzzo del rogo diventava ancora più insopportabile, e lui si ritrovava a dover lottare per levarselo di dosso. Quando ebbe finito di lavarsi, Daniel si asciugò ed uscì dal bagno. L’appartamento in cui viveva non era molto grande, ed era piuttosto vecchio. La struttura doveva avere almeno una settantina d’anni, e i segni del tempo diventavano sempre più evidenti: le pareti erano sporche, piene di segni neri e con l’intonaco che si sfaldava in più punti, certe piastrelle del pavimento erano incrinate, e alcuni infissi della cucina e del bagno erano stati spaccati e rimessi in sesto con dello scotch da discount. Per non parlare poi degli scarafaggi, che ogni tanto uscivano allo scoperto dai loro nascondigli. Con i soldi guadagnati grazie ai lavori del signor Strange, Daniel era riuscito a dare un aspetto più umano a quella catapecchia. Aveva buttato via tutti i vecchi mobili dei precedenti inquilini, sostituendoli con dei nuovi e comprato alcune copie di quadri famosi per dare un aspetto meno deprimente al salotto e alla camera da letto. Un giorno, con quei soldi, avrebbe lasciato definitivamente quella topaia. Certo, poteva farlo sin da subito, se avesse voluto, ma si era ripromesso che quando avrebbe lasciato quel posto, sarebbe stato per qualcosa di davvero speciale. Come, ad esempio per andare a vivere insieme a Eveline. Erano mesi, ormai, che si frequentava con quella ragazza, e anche se avevano i loro alti e bassi, sentiva di amarla sinceramente. E più pensava all’idea di vivere insieme a lei, più se ne convinceva. In ogni caso, al momento aveva altro su cui concentrarsi: il lavoro iniziato con Malcolm la mattina prima poteva dirsi tutt’altro che concluso. Quando ebbe finito di vestirsi, Daniel si calò in testa il suo berretto (una patacca da quattro soldi, ricordo dei primi giorni a Lesliengton), prese la valigetta della Relics e dopo aver chiuso a chiave la porta di casa, scese in strada. Il quartiere in cui viveva Daniel era una zona tutt’altro che raccomandabile. Le strade erano sporche e trascurate, mentre i vicoli erano pieni di disperati di ogni tipo: rapinatori, spacciatori… Era come se il peggio che la città avesse da offrire fosse stata concentrata in quell’unico luogo, in modo da tenerla in quarantena. A contrastare con la miseria del paesaggio c’era Malcolm, con la sua macchina sportiva, di un acceso giallo canarino e con il logo della Sleipnir (un cavallino lanciato al galoppo) stampato bene in vista sulla fiancata. Se ne stava parcheggiato dall’altro lato della strada, con un paio di occhiali da sole tondi e con le mandibole impegnate a masticare una gomma. Appena vide Daniel scendere, gli lanciò un ampio sorriso, lasciando scoperti tutti i denti. <Ciao Dan! Dormito bene nella fogna?> Chiese Malcolm mentre Daniel chiudeva la portiera della macchina. <Divinamente, Mal. Peccato che un coglione mi abbia già guastato la mattinata.> Mal mise in moto e partì di colpo, senza nemmeno guardare chi arrivasse da dietro. Alla risposta del partner rise forte e di gusto, per poi ribattere: <E allora cambia casa! E che cazzo, con quello che ti passa il signor Strange te lo potresti anche permettere!> <La cambierò quando ne avrò voglia.> Ribatté Daniel. <E quando avrò un buon motivo per farlo.> <Quando avrai un buon motivo?!> Chiese Malcolm sollevando un sopracciglio. <Ma dai, ragazzo! E non ci pensi all’immagine?> Daniel alzò un sopracciglio, perplesso. <Cosa? Che c’entra l’immagine?> <Ma vuoi scherzare!? L’immagine è tutto! Sei uno degli uomini migliori del signor Strange, non puoi vivere in una catapecchia. Cosa penseranno gli altri, di te?> <Possono pensare quello che gli pare!> Disse Daniel con un verso di stizza. <Non mi metto di certo a traslocare per fare bella figura con gli altri!> <Ma è qui che ti sbagli!> Esclamò Malcolm con energia, mentre svoltava. <Devi tenere in conto di quello che pensano gli altri! Gli altri ti guardano le spalle! Devi essere sicuro che ti rispettino, o come puoi fidarti di loro!? Cazzo, Dan! Va bene che vieni dalla sperduta campagna, ma devo proprio spiegarti queste cose!?> Daniel sospirò, girando la testa verso la strada, e non sapendo cosa rispondere. Veniva dalla ‘sperduta campagna’, come la chiamava Malcolm, e questo era vero. Ed era anche vero che non aveva mai vissuto nel mondo come in quegli ultimi anni. In fondo, cos’era stata la sua vita prima di Lesliengton? Niente. Aveva vissuto come un eremita, seguendo i dettami della comunità delle streghe e degli stregoni e del mondo non aveva mai visto niente. Ora invece viveva a Lesliengton. Una delle più grandi città del Continente, affacciata sul mare nord-orientale e con centinaia di anni di storia alle spalle. Una città che poteva contare milioni di abitanti, ognuno dei quali si affannava ogni giorno per cercare di restare a galla in una vita dove rischiavi di affogare, tra l’indifferenza generale. Dove migliaia di uomini e donne si arrangiavano come poteva, svolgendo lavori di qualunque tipo, pur di poter riuscire a pagare l’affitto di fine mese. Lì a Lesliengton la vita era dura e spietata, e non c’era da stupirsi se a volte, sospinti dalla rabbia e dalla frustrazione, qualcuno diventava disposto ad accettare qualunque genere di lavoro. Nella stessa maniera in cui era capitato a Daniel Chesterfield… Dopo una ventina di minuti di corsa, ormai lontani dal fatiscente quartiere in cui abitava Daniel, Malcolm frenò davanti ad un grande cancello al cui ingresso c’era una coppia di uomini con un elegante abito nero, in netto contrasto con le facce turpi e rovinate. <Ehi Will!> Urlò Malcolm alzandosi dal posto guida, rivolgendosi all’uomo sulla sinistra. <Devo incontrare il signor Strange! Dai, apri!> L’uomo di nome Will staccò dalla cintura una ricetrasmittente, e dopo aver parlato con chi si trovava dall’altro lato della comunicazione, fece un cenno di assenso al suo compagno, con cui aprì il cancello. Senza dire altro, Malcolm imboccò a bassa velocità il viale alberato ricoperto di ghiaia che si snodava subito dopo il cancello e, dopo aver percorso una ventina di metri, la coppia si ritrovò di fronte ad una grande villa a tre piani da cui uscì un uomo che andò loro incontro a braccia aperte ed un ampio sorriso sulle labbra. <Malcolm!> Lo salutò l’uomo. <John!> Ricambiò Malcolm scendendo con un balzo dalla macchina, e quando i due furono a portata, si strinsero in un forte abbraccio. <Sei arrivato, finalmente! Iniziavamo a pensare che te ne fossi scappato con la roba! Ah, ma c’è anche lo stregone!> Esclamò sciogliendosi dall’abbraccio e mettendosi a squadrare Daniel. <Porca miseria, ogni volta che lo vedo non riesco a credere che sappia fare quelle cose incredibili. Dì un po’, Mal: tu che ci lavori spesso te li fa mai vedere un po’ di trucchi?> <Non sono trucchi.> Ribatté Daniel serio. <E’ magia autentica.> A quell’imbeccata, il sorriso di John si affievolì un poco. <E’ fatto così, che ci vuoi fare.> Disse Mal rivolgendosi a John con un gesto di rassegnazione. <Sempre serio e solenne, questo ragazzo. Mai un sorriso! Ehi, se vuoi sentire storie incredibili ti posso raccontare tutto il lavoro al furgone, se mi offri un po’ di whiskey, che ne dici?> <Ah si? Tutta la storia?> Chiese John, vivamente interessato dall’offerta. <Tutta la storia!> Garantì Malcolm. <Ma prima devi portarci dal signor Strange. Abbiamo un pacco che scotta, e prima lo consegniamo meglio è.> Al che Daniel diede un paio di colpetti sulla valigetta, come a voler sottolineare il concetto. <Perfetto, affare fatto!> Esclamò John porgendo la mano a Malcolm, che gliela strinse con vigore. <Venite, allora: vi faccio strada!> Quella non era la prima volta che Daniel metteva piede in casa del signor Strange, ma ogni volta che ci entrava, non poteva fare a meno di osservare affascinato le ampie stanze, arredate con oggetti di ogni tipo: quadri, vasi, mobili antichi… Tutte cose di grande valore. Nel guardarsi attorno, Daniel ripensò a quello che Mal gli aveva detto poco prima in macchina. Tutti quegli oggetti, così belli e costosi, sembravano essere messi lì dal signor Strange con il solo scopo di ostentare il proprio potere; non perché volesse averli, ma perché poteva. E tanto bastava. Lo studio dove il signor Strange riceveva le sue visite era probabilmente tra le stanze più grandi della casa. Era rettangolare, con l’ingresso su uno dei due lati corti ed una grossa scrivania sul lato opposto. Dietro questa, c’era un’ampia vetrata che dava a sud, cosicché ci fosse luce nel corso di tutta la giornata. Come il resto della casa, anche quella stanza era sfarzosamente arredata, ma lì si trovava il pezzo più prezioso di tutta la collezione del signor Strange: una lunga spada in magilite finemente decorata. La spada era tenuta in una teca di vetro, con l’elsa rivolta verso il soffitto, ed era costantemente illuminata da dei faretti alogeni in modo che la luce potesse far brillare il metallo dell’arma. Quella spada, ora Daniel ne era certo, non poteva essere altro che un’ostentazione bella e buona di ricchezza e potere. Le armi di magilite erano gli unici strumenti in grado di uccidere un demone, se usate da combattenti in grado di controllarle: i cacciatori. Ma la magilite era il minerale più prezioso in assoluto non solo del Continente, ma del mondo intero, e solo uomini o donne di famiglie ricche e potenti potevano comprarne abbastanza per forgiarne un’arma. In pratica, esponendo quella spada presa chissà dove, il signor Strange si metteva allo stesso livello di quelle famiglie che da generazioni si dedicavano alla battaglia contro i demoni. <Daniel! Malcolm!> Esclamò a gran voce l’uomo seduto alla scrivania, strappando Daniel alle sue considerazioni. <Benvenuti in casa mia! Avanti, venite dentro!> Eric Strange era un uomo ormai avviato verso i sessant’anni, corpulento, con radi capelli neri, ma con una grossa faccia che ancora esprimeva una forza ed un’energia da fare invidia ad un trentenne, mentre le sue mani erano talmente grosse e pesanti, che avrebbero potuto benissimo stendere un pugile professionista. Nella stanza, oltre al signor Strange, c’erano altri tre uomini, anche loro ormai avanti con gli anni, ma con facce che sembravano di granito. Erano Frank Millighan, Josh King e Martin Berry: i tre soci principali del signor Strange. Svolto il suo compito, John uscì dalla stanza, mentre Daniel e Mal si avvicinavano a passi misurati alla scrivania, dove poggiarono delicatamente la valigetta. Daniel fece scattare le due cerniere e lentamente la aprì, rivelando un piccolo pendente: un opale completamente in oro bianco, senza nessuna incisione, e con un semplice foro ad una delle estremità attraverso cui passava una catenella d’argento. Il tutto era deposto su un cuscinetto di spugna, scavata in modo che pendente e catenina potessero entrarvi perfettamente. Come Daniel posò gli occhi sul monile, venne preso da una strana sensazione. Era come se potesse sentire il potere scorrere in quell’oggetto; immenso, come non ne aveva mai trovato prima, in nessun artefatto magico. In quelle poche once d’oro c’era talmente tanto potere che, se avesse voluto, avrebbe potuto afferrarlo e spazzare via i presenti con un semplice gesto della mano. Invece si limitò a girare la valigetta in direzione del signor Strange e dei suoi uomini, che osservarono il gioiello con facce del tutto inespressive. <E’ tutto qui?> Chiese Josh King storcendo il naso. <A me non sembra tutto questo granché.> <Questo è perché non sai vedere oltre la superficie, Josh.> Gli rispose pacatamente il signor Strange sollevando il pendente per la catenina. <Gli oggetti magici sono qualcosa di affascinante. Anelli, bracciali, pendenti… Possono apparire come semplici gioielli, ma se forgiati con le formule e le conoscenze giuste… Oh, possono riservare sorprese molto grandi. Dico bene Daniel?> <Più che corretto, signor Strange.> Si limitò a rispondere lo stregone. <Ma come facciamo a sapere che il pendente è autentico?> Chiese Josh avvicinandosi di qualche passo a Daniel. <Come facciamo a sapere che non è una patacca da due soldi?> <Il nostro contatto è affidabile.> Assicurò il signor Strange. <Nicholas non ci avrebbe mai dato una falsa pista. E tantomeno ci avrebbe teso una trappola.> <Non mi riferivo al contatto che abbiamo alla Relics!> Esclamò Josh. <Mi riferisco al giovane, qui!> Per un attimo nello studio calò il silenzio, prima che Daniel, punto sul vivo, chiese in un soffio: <Che vorresti insinuare?!> <Oh, Josh, rilassati!> Si intromise Malcolm con fare conciliante. <Dan è uno a posto! Se dice che il pendente è autentico allora è autentico!> Daniel si morse la lingua. Non amava che qualcuno parlasse per lui, ma ormai era fatta. E non aveva intenzione di rendersi antipatico anche a Mal rifiutando il suo aiuto… Già in troppi, tra gli uomini del signor Strange, non gradivano la sua presenza. <Ma davvero?> Continuò Josh. <E come mai ne sei tanto sicuro?> <Perché ero là, quando l’abbiamo preso!> Esclamò Malcolm con un sorriso storto, come se stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo. <O forse credevi soltanto, di essere là!> Lo rimbeccò Josh. Il suo tono era quello di uno che si era tenuto dentro qualcosa per troppo tempo. <Chi ti dice che lo stregone non t’abbia fatto qualche giochetto mentale? Che t’abbia fatto immaginare tutto?> Quello era troppo. Daniel richiamò a sé il proprio potere, pronto a reagire. <Adesso basta!> Urlò Strange pestando un pugno sulla scrivania. <Non ho intenzione di stare a sentire queste stronzate un minuto di più!> <Ma capo…> <’Ma capo’ un corno! Daniel e Malcolm hanno corso un rischio enorme e tu li tratti così?!> Man mano che parlava, la voce del signor Strange si faceva sempre più profonda e minacciosa, al punto che Josh non osò ancora parlare. <Bene.> Disse il signor Strange rilassandosi contro lo schienale della sua poltrona. Il fatto che Josh avesse deciso di rimanere in silenzio significava per lui che la discussione era finita. <E ora che abbiamo risolto la questione, parliamo di lavoro. Dunque: per la vendita di questo pendente abbiamo già il nostro contatto. L’indirizzo è questo qui.> Il signor Strange si allungò sulla scrivania per prendere penna e carta, e scarabocchiò un indirizzo che passò a Daniel. <Con voi ci saranno un altro paio di ragazzi. Potete scegliere chi vi pare. L’appuntamento è per stasera stessa alle dieci; appena finito ci rivediamo qui domattina a questa stessa ora. Tutto chiaro?> <Certo signor Strange.> Disse Malcolm con un sorriso. <Allora potete andare. Buon lavoro, ragazzi.> A quel punto Strange chiuse la valigetta e la restituì a Malcolm. Daniel, che sentiva ancora su di sé lo sguardo bruciante di Josh, si voltò facendo finta di niente ed uscì dalla stanza. <Che gran pezzo di merda…> Sibilò Daniel non appena lui e Malcolm furono di nuovo in macchina. <Non ti preoccupare, Dan.> Lo rassicurò il partner. <Con il tempo vedrai che Josh imparerà a rispettarti come meriti. Sei uno tosto! Lo hai dimostrato in questi mesi! Senti, perché adesso non vieni con me e John a bere qualche drink? Così ci rilassiamo un po’ prima di stasera!> Daniel si sfilò il berretto e si passò una mano sulla faccia. Una volta a casa avrebbe potuto provare a contattare Eveline, se la ragazza non fosse stata a lezione. Ma in quel momento, forse a causa della rabbia che Josh gli aveva fatto montare dentro, provava una voglia matta di bere qualcosa. E poi, mancavano ancora parecchie ore all’incontro, quindi non dovette pensare molto a lungo prima di rispondere: <Va bene, ma niente sbronza: stasera si lavora.> Sorridendo, Malcolm mise in moto la sua macchina e si avviò verso il cancello della villa. 3 L’università di Lesliengton è senza dubbio una delle più rinomate strutture di tutto il Continente. Con complessi sparsi in tutta la città, ognuno adibito ad un ben preciso campo di studi, vanta studenti provenienti da ogni dove, incluse grandi città come Vigridr. In particolare, migliaia di giovani scelgono le facoltà di magia e, più nello specifico, quella riguardante l’evocazione dei demoni. Per quanto nel Continente sia illegale evocare demoni (a meno di non possedere uno speciale permesso), il governo si serve ancora di questa pratica per diversi motivi, che spaziano dalla ricerca di energie alternative alla semplice catalogazione dei demoni e delle loro abilità. Per questo l’arte dell’evocazione viene continuamente tramandata, insegnata, ma soprattutto sviluppata, perché sebbene si conoscano migliaia di tipi di demoni, ce ne sono altrettanti ancora sconosciuti. Nell’aula 7B del dipartimento dedicato all’evocazione, il giorno dopo l’assalto al blindato della Relics, il mago Frederich Valfrid stava tenendo una lezione sugli imp ad un gruppo di giovani al secondo anno di studi. L’aula, che aveva dimensioni vertiginose, era a malapena riempita da una quarantina di persone: tutto ciò che era rimasto dei più di duecento studenti che si erano iscritti l’anno prima. Il gruppo di giovani stava in religioso silenzio, intento a trascrivere freneticamente ogni commento del mago ed ogni simbolo o schema che veniva disegnato sulla lunga lavagna nera. Molti degli studenti avrebbero preferito seguire la lezione dalle diapositive, come erano soliti fare con la maggior parte dei professori, invece di riempire pagine e pagine di quaderno, ma Valfrid, nonostante i suoi trent’anni, era uno all’antica e amante del gesso. E così, durante le sue lezioni, il videoproiettore appeso al soffitto dell’aula rimaneva perennemente inutilizzato. Ad un certo punto, ad un’ora dalla fine della lezione, nell’aula entrarono un uomo e una donna. Erano in borghese, ma lo si capiva chiaramente dalle loro facce e dai loro modi che erano due militari degli Ordini: le organizzazioni che governavano tutto il Continente e che si occupavano della sua sicurezza e del suo sviluppo, sia magico che tecnologico. All’inizio Frederich non si accorse dei due nuovi arrivati, e continuò a spiegare come se nulla fosse, con le spalle rivolte ai suoi studenti e la mano impegnata a riempire la lavagna di simboli. <…e questa è la runa da tracciare nelle cinque sezioni di Heimdall se si vuole evocare un imp del fuoco. Ovviamente sarà necessario tracciare attorno al cerchio magico un ulteriore circonferenza e segnarla con gli appositi simboli di contenimento delle fiamme. Tuttavia ricordate che gli imp sono esseri di piccoli dimensioni; simboli di contenimento troppo grandi potrebbero indebolirli fino a ridurli in fin di vita, rendendo l’intero rituale un fiasco totale, quindi…> A questo punto Frederich si voltò verso il suo pubblico, e subito si accorse dei due nuovi arrivati, che si erano comodamente seduti in fondo all’aula, in paziente attesa. Per alcuni secondi il mago rimase imbambolato, completamente colto alla sprovvista da quella visita. Gli studenti, accortisi che qualcosa non andava, si guardarono inizialmente tra loro, poi si girarono verso i due nuovi arrivati, bisbigliando tra loro e facendo ipotesi su cosa stesse succedendo. <Per oggi abbiamo finito.> Disse ad un tratto Frederich, tornato improvvisamente composto e padrone di sé. <Ci vediamo venerdì: stesso posto, stessa ora. Buona giornata.> Senza protestare, i giovani si alzarono dai loro posti e dopo aver raccolto le loro cose, iniziarono ad uscire dall’aula chiacchierando rumorosamente. Nel frattempo, anche Frederich mise a posto le sue carte: appunti che lo aiutavano nell’esposizione delle lezioni. Quando tutti gli studenti furono usciti, i due militari si alzarono e si avvicinarono. <Non volevamo interrompere.> Disse l’uomo. <Potevi anche andare avanti fino alla fine.> <Davvero? Non mi sembra che abbiate tempo da perdere.> Disse Frederich mentre continuava a sistemare la sua roba. <Ah si? E che te lo fa pensare?> <Il fatto che siete qui.> La donna rise piano, divertita dalla faccia contrariata del collega, e commentò: <Buona questa.> <Grazie Maria. Comunque sia: che ci fate qui? Che sta succedendo di così grave da non poter aspettare la pausa pranzo?> Chiese Frederich lasciando perdere le sue carte e prestando attenzione ai due amici. Capitava spesso che si frequentassero fuori dall’orario di lavoro, ma non lo avevano mai cercato in quel modo. Segno che qualcosa non andava. A conferma di ciò, i due rimasero per qualche secondi in silenzio, prima che la donna decidesse di parlare. <Diglielo tu, Trank.> Disse Maria facendo un gesto con la mano, come a voler dire: accomodati. Trank mandò un sospiro, prima di dire: <Fred, pensiamo che in circolazione ci sia uno stregone.> Frederich strabuzzò gli occhi. L’ultima parola, che non sentiva pronunciare da anni, lo aveva colto completamente alla sprovvista, come un sassolino lanciatogli contro la fronte. <C-come? Ma è impossibile!> <Temiamo di no…> Disse Maria incrociando le braccia sul petto. <Ieri c’è stato un furto: un assalto ad un blindato.> <E che significa?> Chiese Fred. Improvvisamente si sentì sollevato. Forse era stato solo un falso allarme. <I portavalori sono sempre a rischio, da queste parti. Potrebbe essere stato chiunque a svaligiarlo.> <Non questo.> Disse Trank togliendoli ogni speranza. <Questo era della Relics. Nessuno può assaltare un portavalori della Relics se non…> <…uno stregone…> finì Frederich per lui. Si passò una mano sulla faccia, iniziando a provare un senso di vertigine. <Maledizione, dopo tutti questi anni…> Sussurrò. <Solo uno stregone poteva infrangere gli incantesimi che proteggevano il furgone. Fred, abbiamo bisogno di te per prendere quest’uomo. O questa donna. Tutti, persino i piani alti, sono convinti che tu sia il più qualificato.> <Ho paura che si sbaglino.> Replicò Fred scuotendo la testa. <Non esiste nessuno abbastanza qualificato. L’ultima strega è stata epurata tanto, troppo tempo fa. Gli unici che potrebbero aiutarvi sono gli elfi! Loro si ricorderanno della stregoneria come fosse notizia di ieri!> <Non dire idiozie, Fred!> Sbottò Maria. <Come se potessimo entrare in una città degli elfi come se niente fosse. Andiamo! Hai passato una vita a studiare gli incantesimi che neutralizzano la magia degli stregoni! E hai già combattuto per gli Ordini! Chi meglio di te?> <Non lo so… Un elfo forse?> Insistette Frederich. Maria sospirò, prima di controbattere: <Ma insomma Fred! Sii serio!> <Sono serio, Maria! Se non combatto più è per un buon motivo! E poi dare la caccia ad uno stregone non è come darla a un demone. E’ un essere umano!> <Gli uomini che usano la magia illegalmente perdono ogni diritto.> Gli ricordò Trank. <Che siano maghi, stregoni o cacciatori non fa differenza: vanno neutralizzati ad ogni costo. Sono troppo pericolosi per essere lasciati in circolazione.> Frederich sospirò, poggiandosi alla cattedra dietro di lui. Non esultava all’idea di rimettersi a combattere per gli Ordini. Amava la sua vita accademica, lontano dai rischi e dai pericoli che invece molti suoi colleghi affrontavano, ma se erano andati da lui e non da qualcun altro, allora forse aveva il dovere di rispondere alla chiamata. ‘Se non lo farai tu, allora chi?’ gli chiese una vocina molesta nella sua testa. <Fred, te lo stiamo chiedendo in ginocchio. Non lo faremmo se non ne avessimo davvero bisogno.> Gli disse Trank come se gli avesse letto nel pensiero. <Ci serve il tuo aiuto.> Frederich rimase in silenzio, in cerca di una scusa valida per svincolarsi da quell’incarico. Una scusa da usare con sé stesso, perché ormai sapeva quello che voleva, anche se non voleva accettarlo. <Va bene.> Disse, ormai sapendo che non sarebbe riuscito a sottrarsi alla richiesta. <Vi aiuterò. Da dove cominciamo?> 4 Era da poco passato mezzogiorno, e il pub Le tre pinte era semi-deserto. Qualche avventore se ne stava ai tavoli a consumare un rozzo pranzo, un uomo era già ubriaco e steso sul bancone, mentre un altro gruppo di quattro persone stava giocando al tavolo da biliardo. Daniel, Malcolm e John erano seduti in disparte in un angolo, dove le vetrate colorate attutivano la luce del sole che arrivava tiepida sulle loro facce. Sul tavolo c’erano delle ciotoline di arachidi e patatine, tre bicchieri di piccola taglia e una bottiglia di whiskey già vuota per tre quarti. <Ma parli sul serio!? Ha fatto sparire tutto quanto!?> Chiese John con un grosso sorriso. <Cazzo se l’ha fatto! Io, lui, la macchina… Completamente invisibili. Non proiettavamo nemmeno la nostra stessa ombra!> Esclamò Malcolm versandosi un altro bicchiere. <Ehi Dan, è vero che l’hai fatto?> <Si, l’ho fatto…> Confermò Daniel con un sorriso non molto convinto mentre sorseggiava. <Già, puoi ben dirlo!> Poi, rivolgendosi di nuovo a John: <E quindi quelli del furgone non hanno capito niente fino a quando non si sono ritrovati il fucile puntato in faccia! Dovevi vederli: secondo me si sono cacati sotto tutti e due!> Nel ricordare le espressioni che avevano fatto i due autisti, Malcolm si mise a ridere di gusto, imitato da John. Daniel invece continuava a sorseggiare il suo drink, seccato dalla piega che aveva preso la conversazione. Quei lavori lo esaltavano, era vero, ma non provava nemmeno il desiderio di metterselo a raccontare in giro in quel modo. Erano cose personali, porca miseria! <Non dovremmo parlare di queste cose.> Si intromise Daniel sfogando il suo disappunto. <Tantomeno in un posto come questo!> Quella frase uscì con un tono quasi biascicante. Anche se non poteva dirsi ubriaco, Daniel iniziava a sentirsi la testa leggera, al punto che il controllo della lingua gli stava lentamente sfuggendo. Gli altri due, che fino ad un attimo prima se la stavano ridendo, lo fissarono. John, in particolare, sembrava molto più seccato da quell’imbeccata. <E dai Dan, rilassati! Sei tra amici! Se non parliamo tra noi di queste cose con chi lo facciamo!?> Rispose Malcolm. <No, dai Mal. Il ragazzo ha ragione… Abbiamo parlato di lavoro già abbastanza.> Disse John, senza più nessuna traccia di fastidio. Anzi, sembrava quasi soddisfatto, come se gli fosse stata data l’opportunità di poter fare un discorso che aveva voglia di iniziare già da un bel po’ di tempo. E infatti, un attimo dopo chiese, con un sorriso: <Perché piuttosto non parliamo di magia?!> Daniel trattenne un sospiro. Non aveva alcuna voglia nemmeno di parlare di magia, ma stavolta sapeva di non potersi permettere di dire niente: se l’era proprio andata a cercare… <Della tua magia, Daniel. Io e molti dei ragazzi ci siamo sempre chiesti dove l’hai imparata. Come fai a fare tutte quelle cose?> <Mi sono diplomato alla scuola di magia di Vigridr con il massimo dei voti, ma ho mollato tutto per godermi la vita a modo mio.> Rispose Dan dopo aver pensato alla risposta per qualche secondo. Poi bevve tutto d’un fiato il suo quarto (o quinto? Non ricordava bene…) cicchetto. Mentre poggiava il piccolo bicchiere sul tavolo di legno, John lo guardò di traverso e scoppiò a ridere. <Ehi ragazzo! T’è cresciuto il senso dell’umorismo!> Poi, guardandolo più seriamente, chiese: <O stai dicendo sul serio?> <No, scherzavo.> Confermò Daniel giocherellando con il bicchiere. <Quello che faccio io non viene insegnato dagli Ordini… E’ pericoloso! E’ immorale! Così dicono. Loro formano maghi, io invece sono uno stregone!> <Ma scusa, non sono la stessa cosa? Che differenza c’è?> Chiese John poggiando i gomiti sul tavolo. Il suo interlocutore, notò, ormai aveva la lingua più che sciolta dall’alcool, e non avrebbe perso quell’occasione per farsi raccontare qualche dettaglio interessante. <Stessa cosa!? Ma che stronzate!> Imprecò Daniel, offeso. <Non sono affatto la stessa cosa! I maghi passano anni e anni a studiare la magia. Imparano centinaia, migliaia di formule diverse. Canti, filastrocche... Loro parlano e la realtà si deforma, la natura cambia e c’è la magia!> A quella parola Daniel schioccò le dita. <Per gli stregoni è diverso. Il nostro potere deriva interamente dai demoni.> A quella parola, John venne sorpreso da un brivido lungo la schiena. <Demoni?> <Demoni, si! Creature di un altra dimensione, più vecchie del nostro mondo. Maligni e sempre affamati, i demoni sono l’incarnazione stessa della magia.> Disse Daniel quasi con un sussurro e avvicinando la sua faccia a quella di John. Malcolm, intanto, osservava in silenzio. <Da queste creature si può trarre potere. E molto, se si sa come fare. Si evoca un demone, ci si parla e ci si stringe un patto! Tu dai qualcosa al demone e lui ti dà il potere. Subito, all’istante! Senza bisogno di perdere anni sui libri di magia. Potere facile ma molto, molto rischioso! Un minimo errore nel rituale di evocazione e si perde ogni controllo sul demone. E a quel punto sei morto.> Nel vedere come John cercava di nascondere il proprio disagio, Malcolm sorrise. <E cosa accettano?> Chiese John versandosi un altro bicchiere di whiskey che bevve subito. Chissà perché il solo sentir parlare di quelle cose gli aveva seccato la gola… <In pratica qualunque cosa. Ovviamente, più grande è il sacrificio, più ti viene dato. Nei tempi antichi, era pratica comune delle vecchie streghe rapire bambini per offrirli in sacrificio ai demoni in cambio di grandi poteri.> <Bambini!? Sacrificavano bambini?!> Chiese John con disgusto. <Oh, si.> Confermò Daniel. <E se la strega o lo stregone erano davvero ambiziosi, arrivavano a sacrificare i loro stessi figli. Per un tributo del genere il demone giusto può persino concederti una vita longeva quanto quella di un elfo.> <Ma che cazzo di schifo è?!> Chiese John indignato e ritraendosi. <Ehi John, calmati!> Disse Malcolm ridendo a denti stretti. <Calmarmi?! No che non mi calmo! Ma l’hai sentito che porcherie ha fatto!?> John, che fino a poco prima era stato semplicemente curioso, ora era indignato. La sua faccia era contratta dalla rabbia. <Non ho mai sacrificato bambini.> Si difese tranquillamente Daniel bevendo un altro bicchiere. <Per il mio potere, ho dato molto meno.> <E’ da pazzi, non è vero?> Chiese Malcolm con un sorriso che ormai gli si estendeva da un orecchio all’altro. <Ti fa venire voglia di provare a diventare stregone.> Ignorando completamente quel commento, John cercò di calmarsi. In effetti, dovette ammettere che si era un po’ lasciato trasportare. Colpa dell’alcool, probabilmente. <Ma lo fanno ancora?> Chiese un paio di minuti dopo, quando fu certo di aver riacquistato il controllo. <Perché ci sono ancora in giro streghe e stregoni!> Daniel lo guardò incredulo. Possibile che l’ignoranza di quegli uomini potesse arrivare a tanto? <Non ce ne sono quasi più.> Disse con voce incolore. <Quando la stregoneria iniziò a diventare un problema serio, gli Ordini crearono un corpo di maghi specializzati contro gli stregoni: l’Inquisizione. In nemmeno duecento anni ci sterminarono quasi tutti. Certo, da qualche parte si pratica ancora la stregoneria, ma non è nulla di che. I pochi di noi rimasti vivono nell’ombra, stando attenti a non attirare troppo l’attenzione.> <Ma tu no.> Disse Malcolm indicandolo col mignolo della mano con cui teneva il bicchiere. <Tu non te ne stai nascosto.> <No, io no.> Confermò Dan. <Ero stanco di nascondermi.> Improvvisamente, Daniel si sentì terribilmente stanco. Forse per il troppo parlare di quelle cose, o forse per lo sguardo di John, che non sapeva affatto come interpretare. In ogni caso decise che ne aveva avuto abbastanza, così si alzò dal tavolo. <Ehi, ma che fai? Vai via?> Chiese Malcolm. <Si.> Rispose Daniel mentre si teneva appoggiato alla sedia. Alzarsi così in fretta gli aveva fatto girare la testa. <Vado a casa a riposare un po’.> <Oh, andiamo!> Protestò Mal allargando le braccia. <Almeno finiamo la bottiglia!> <No, Mal, grazie ma passo.> <Come ti pare. A presto allora.> <Ci rivedremo stasera!> Fece notare Daniel. Poi, rivolto a John: <Noi, invece, chissà quando. Quindi arrivederci, John. E non interessarti troppo alla magia. Fidati: non ti piacerebbe.> A quel punto, senza aspettare una risposta, Daniel si incamminò verso l’uscita del bar. <E quello che accidenti voleva significare?> Chiese John dopo che il giovane era uscito dal locale, ma per risposta Malcolm si limitò a fare spallucce e a tracannare l’ennesimo bicchierino. 5 Nonostante non fosse molto lucido, Daniel riuscì ad inserire la chiave del portone al primo tentativo. Entrò barcollante nell’atrio della palazzina e premette il pulsate dell’ascensore, che si avviò con un sibilo. Pochi secondi dopo la cabina arrivò al piano terra, e Daniel vi entrò con una smorfia. Quella cosa era di un lerciume da far invidia ad un cassonetto dell’immondizia. Vecchie cicche di gomma da masticare se ne stavano sulle pareti ormai da anni, assieme a piccoli graffiti, e la puzza di piscio era insopportabile. Ogni volta che poteva, Daniel evitava l’ascensore come la peste, ma dopo tutti i bicchieri presi al bar, il solo pensiero di fare a piedi cinque piani lo atterrava. E poi, concentrarsi sui graffiti dell’ascensore lo aiutava a non pensare alle discussioni di quella giornata: alla villa del signor Strange e al bar. Di quelle situazioni gliene erano capitate già una dozzina, nell’arco degli ultimi mesi. Gli uomini del signor Strange si dividevano in due categorie: quelli che lo odiavano e diffidavano di lui, come Josh, e quelli che invece erano semplicemente curiosi di sapere cosa poteva fare con la sua magia, come John. E, doveva dire, trovava irritanti entrambe le categorie. Odiava stare al centro dell’attenzione, essere tempestato di domande. Ma almeno era rispettato. Dopo che si era sparsa la voce di quello che sapeva fare, sia che lo temessero, sia che lo odiassero, nessuno aveva mai osato affrontarlo direttamente. Prima di Josh, quella mattina… <Ah, sei arrivato!> Disse una voce all’improvviso, non appena le porte dell’ascensore si riaprirono, facendolo trasalire. Daniel alzò la testa e davanti a lui, seduta sui gradini, c’era una ragazza dai capelli biondi e ricci, con una borsa a tracolla. <Eveline? C…che ci fai qui?> Chiese Daniel alzando un sopracciglio. <Ho pensato di venire a farti un saluto.> Rispose lei con aria tranquilla mentre si alzava. Poi gli si avvicinò e gli diede un piccolo bacio sulle labbra. <Potevi telefonarmi! Da quanto tempo mi aspetti?> Disse Daniel cingendole la vita con un braccio. I capelli della ragazza profumavano di lavanda. <Non molto. Una decina di minuti al massimo. Non preoccuparti, avevo del tempo libero.> Daniel annuì, cercando di nascondere il suo disappunto. Non amava che Eveline si muovesse in quel quartiere da sola, anche se in pieno giorno. Nel corso degli ultimi mesi ne aveva viste e sentite di tutti i colori, ma nonostante avesse messo in guardia la ragazza, questa si ostinava a farsi trovare lì senza alcun preavviso e soprattutto completamente da sola. Così, per evitare un’ennesima discussione, disse semplicemente: <Ma non avevi lezione oggi?> <Si, ma è finita in anticipo. Sono arrivati due tizi degli Ordini, forse erano dei militari, e il professore ci ha fatti andare via prima.> <Due tizi degli Ordini?> Chiese Daniel perplesso. <Già. Ehi, ma sei ubriaco?> <No, ho solo preso un paio di drink con degli amici. Dai, vieni dentro.> Daniel aprì la porta di casa e barcollò dentro, seguito da Eveline. <E vengono spesso dei militari da voi in università?> <Abbastanza spesso, si.> Rispose tranquillamente appendendo il cappotto leggero all’attaccapanni nell’ingresso. <Sai, molti maghi che escono dall’università aspirano a combattere per gli Ordini, e quindi vengono spesso militari a raccontare com’è la carriera in quel senso.> <Ho capito…> Disse Daniel annuendo. Poi, per cambiare argomento: <E oggi che avete fatto?> <Abbiamo iniziato gli imp.> Spiegò Eveline con un sorriso. <Il professor Valfrid ha iniziato con una descrizione fisica e poi a spiegarci il rituale di base. Peccato che si è interrotto subito dopo, sembrava interessante.> <Bà… Non ho mai trovato molto interessanti gli imp. Sono piccoli, deboli… e non hanno quasi potere magico. Vuoi del caffè?> <Si, grazie.> I due si spostarono nella piccola cucina, dove Eveline si sedette al tavolo, mentre Daniel prese ad armeggiare con la macchina del caffè. <Comunque, non è che potresti darmi un’occhiata agli appunti? Solo per avere la conferma di non aver sbagliato niente.> Chiese Eveline con un tono volutamente pietoso. Daniel, che dava le spalle alla ragazza, sorrise compiaciuto. Adorava quando poteva dare prova della sua conoscenza in materia. <Certo. Dammi solo un attimo.> Nemmeno cinque minuti dopo, Daniel si sedette accanto alla ragazza con un paio di tazze fumanti e, dopo aver preso una lunga sorsata di caffè, aprì il quaderno che aveva davanti. Questo era pieno di appunti, formule magiche e schemi di ogni sorta, il tutto scritto e disegnato con un’impeccabile ordine ed una precisione quasi maniacale. A poco a poco, man mano che beveva caffè e acuiva la sua concentrazione per analizzare gli appunti di Eveline, Daniel sentì la sbornia sparire. <Direi che va tutto bene.> Decretò dopo nemmeno dieci minuti. <Si? Sei sicuro?> <Assolutamente. E per il resto hai capito tutto?> <Credo di si. Un paio di cose poco chiare, ma niente che non possa recuperare più tardi. Grazie mille, Dan.> Disse Eveline, dandogli poi un altro bacio sulle labbra. <Hai capito proprio tutto? Davvero?> Chiese cingendole un fianco. <Stai diventando brava, allora.> <Bè, non potevo certo rimanere allo stesso punto dello scorso inverno.> Rispose lei con un sorriso. <E diventerò ancora più brava, vedrai. Forse anche più di te.> Daniel rise piano. La sua faccia e quella della ragazza erano a pochi centimetri l’una dall’altra. <Ah si? Staremo a vedere.> Poi premette le sue labbra su quelle di lei. 6 Daniel si svegliò con il profumo di Eveline nelle narici. Si sentiva bene come non gli capitava da giorni. Si stiracchiò, ma quando notò che fuori era già buio, subito il panico lo assalì. <Cazzo, l’appuntamento con Malcolm!> sibilò mettendosi a sedere di scatto, ma quando lo sguardo gli cadde sulla sveglia accanto al letto, tirò un sospiro di sollievo: erano appena le sei e mezza del pomeriggio. <Ah, ti sei svegliato.> Disse Eveline mentre entrava in camera da letto; indossava un suo accappatoio e reggeva un paio di piatti, ognuno con uova, pancetta e due fette di pane tostato. Più cibo da colazione che da cena, pensò Daniel con un sorriso. <Mi sono fatta una doccia. Spero non ti dispiaccia.> <Casa mia è casa tua.> Rispose Daniel. Poi quando la ragazza si fu seduta sul letto ed ebbe poggiato i piatti, si allungò verso di lei e le diede un lungo bacio. <Solo un paio di drink? Da come dormivi non si sarebbe proprio detto!> <Bè, forse ho preso qualcosa in più.> Ammise Daniel mentre dava una forchettata alla pancetta. <Spero di non averti lascata sola troppo a lungo.> Dopo quella dormita, Daniel si sentiva decisamente meglio. La sbornia gli era completamente passata, si sentiva in forze e pronto a fare qualsiasi cosa. L’ideale, considerato il lavoro che lo aspettava quella sera. <Non preoccuparti, mi sono svegliata solo mezz’ora fa. Piuttosto, per stasera: al cinema è uscito il nuovo film di Valentine. Lo andiamo a vedere?> A quella proposta, Daniel si rabbuiò un po’. Odiava dover rifiutare una serata con Eveline… <Stasera non posso. Devo lavorare.> Eveline, che stava tagliando un uovo con la forchetta, si fermò scura in viso. <Possiamo andarci domani, se ti va.> Propose Daniel sperando di risollevare la situazione. <Va bene.> Rispose lei, riprendendo a mangiare. A Daniel bastò uno sguardo per capire quanto fosse finto quel ‘va bene’. Eveline aveva la fronte leggermente corrugata e anche se stava mangiando teneva le labbra serrate, chiaro segno che qualcosa la turbava. E infatti, non ci mise molto a chiedere: <Che tipo di lavoro?> Daniel sospirò, mentre posava la forchetta sul piatto. <Non te ne posso parlare, Eve. Per favore.> <Quindi è un lavoro per… lui?!> Insistette Eveline. Daniel fece finta di non aver sentito. <Non mi piace quel signor Strange!> Scattò Eveline. <Molti lo accusano di cose orribili. Perché devi lavorare per uno come lui?> <Eveline, per favore! Ne abbiamo già parlato!> Esclamò Daniel. Poi riprese a mangiare, stavolta con più stizza. Odiava quando Eveline doveva tirare in ballo l’argomento: ‘signor Strange’; gli provocava un forte senso di fastidio nelle viscere. <Si, ma… tu potresti fare qualsiasi altra cosa, invece che lavorare per quello Strange, ne hai le capacità! Potresti…> <Potrei cosa, Eve!? Ritornare a lavorare in un cesso come quel Groovy!?> Scattò Daniel con rabbia. Improvvisamente, tutto il senso di benessere che aveva provato al risveglio era svanito, completamente inghiottito da quel fastidio viscerale. Certo che lui, poi, era un vero idiota ad aspettarsi che Eveline capisse il suo punto di vista. In fondo chi era lei? La sua vita era sempre stata agiata e regolare. Era nata e cresciuta in un’anonima città di provincia, con genitori fantastici che le avevano dato tutto, inclusa la migliore istruzione: studi primari dai sei agli undici anni, una scuola di magia fino ai diciotto e ora l’università. Che cazzo ne sapeva lei di quello che aveva passato lui, invece!? Dispiaciuto ma non pentito per quello scatto, Daniel posò gli occhi sulla ragazza: era triste e anche un po’ spaventata, ma non sembrava aver perso del tutto la voglia di discutere. Non aveva nessuna voglia di intraprendere una discussione sul signor Strange, e non l’avrebbe fatto. Così, con un sospiro roco, lasciò il piatto a metà e andò in bagno a darsi una lavata. Mentre era sotto la doccia sentì la propria porta di casa sbattere violentemente, e quando uscì, esattamente com’era lecito aspettarsi, Eveline non c’era più. 7 La grossa jeep puzzava di tabacco e marjuana, ma Daniel non ci faceva per nulla caso. Se ne stava lì seduto, con il gomito sul bordo del finestrino e la testa poggiata sul pugno chiuso a fissare la buia strada di campagna che veniva illuminata dai fari. Al posto del guidatore c’era Malcolm, con in bocca una sigaretta accesa. Era rilassato; segno che per quella volta non aveva assunto droghe prima del lavoro, ma a Daniel non importava. Il ricordo di come si era separato da Eveline poche ore prima lo tormentava. Eveline era stata una delle prime persone che aveva conosciuto quando era venuto a vivere a Lesliengton, e fin da subito gli era piaciuta molto. Bella, intelligente… In poche settimane aveva deciso che la desiderava, e chissà come, nell’arco di un mese era riuscito a conquistarla. Si era ripromesso di chiamarla subito, non appena finito il lavoro, per cercare di chiarire le cose, di chiederle scusa. Ma nel frattempo, il rumore della porta che sbatteva mentre lui era in bagno continuava ad assillarlo. Ogni tanto, Mal gli lanciava un’occhiata indagatrice, ma non chiedeva niente. E non avrebbe chiesto niente per tutta la serata; non con gli uomini sul sedile posteriore: due brutti ceffi dalla faccia grossa, le teste rasate quasi a zero ed una lettera in stile tribale tatuata sul collo. Di tanti in tanto, Daniel tamburellava con le dita della mano sinistra sulla valigetta che teneva in grembo; dentro, l’artefatto magico gli inviava deboli pulsazioni, come se lo stesse invitando ad usarlo. Ma la mente di Daniel era troppo distratta per prestargli attenzione. Sulla valigetta, poggiato di traverso, c’era un bastone in legno di tasso lavorato lungo un metro, ben adagiato in una custodia di cuoio nero: un piccolo supporto, nel caso qualcosa fosse andato storto. Dopo una ventina di minuti, Malcolm svoltò a destra, in una strada in evidente disuso, e dopo ancora qualche minuto arrivarono ad una vecchia struttura abbandonata. Daniel non avrebbe saputo dire se fosse stata una fabbrica, o chissà cos’altro. Sapeva solo che doveva essere in disuso da ormai moltissimo tempo, a giudicare dalle pareti ammuffite e dai vetri rotti. Quella sera, la luna era quasi piena e le stelle non erano oscurate da nessuna nuvola, rendendo il posto ben illuminato anche in assenza di lampioni. Quando Daniel scese dalla macchina, si mise a tracolla la custodia con il bastone, poi insieme agli altri, in un silenzio quasi religioso, si avviò verso una nera bocca rettangolare che in passato doveva essere stata chiusa da un portone. Dentro, sul pavimento in cemento, i loro passi erano quasi assordanti. La luce che entrava dalle vetrate rotte non illuminava quasi per niente l’ambiente circostante, tanto che il gruppo si dovette fermare presto: davanti a loro, infatti, c’era il buio più completo. I due uomini erano chiaramente nervosi. Tenevano le mani sui calci delle pistole che portavano sotto le felpe, mentre Malcolm si guardava attorno perplesso. L’indirizzo dato dal signor Strange era quello, ne era più che sicuro, ed era anche abbastanza sicuro che non si trattasse di un’imboscata.. E infatti, proprio quando Daniel stava per esprimere le proprie perplessità, un globo di luce comparve a qualche metro di distanza tra loro, rivelando un gruppo di cinque uomini. Uno di loro teneva nel palmo della mano destra il globo, che emanava una forte luce gialla e sembrava fatto di vapore. <Bene!> Disse Malcolm con un ampio sorriso. <Iniziavo a pensare che avessimo sbagliato posto!> Senza rispondere, l’uomo con il globo di luce fece un gesto con la mano, e questo prese a fluttuare in aria, fino al soffitto della struttura, illuminando perfettamente l’ambiente. Poi il gruppo venne avanti, e Daniel poté notare i loro occhi a mandorla e le loro guance esageratamente gonfie: caratteri distintivi degli uomini che abitavano i paesi a est del Continente. Uno di loro, probabilmente il capo, disse qualcosa nella sua lingua. <Signor Chang vuole sapere se voi avere merce.> Disse un altro: l’interprete del gruppo. <Certo, come no! Dan: fagli vedere quell’aggeggio.> Senza dire una parola, Daniel sollevò la valigetta e la aprì in direzione degli orientali. Alla luce del globo, l’amuleto della Relics brillò. A quel punto, Chang disse qualcosa che l’interprete tradusse come: <Nostro mago deve fare esame. Essere certi di comprare giusto.> Mal rise piano per quel modo di parlare ridicolo, ma annuì. <Mi sembra giusto. Ma non deve toccarlo. Sappiamo che non ne ha bisogno.> L’interprete riferì. Poi l’uomo che aveva creato il globo di luce si fece avanti e, quando fu a pochi passi dall’artefatto, protese la mano destra. <Ehi, ho detto che non deve toccarlo!> Sbottò Mal, e gli orientali si irrigidirono, pronti a scattare. Chang disse qualcosa al mago, che rispose con aria seccata. Poi, mantenendo un contatto visivo con Mal, avvicinò la mano molto lentamente all’amuleto e vi tenne puntato il palmo. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Quando li riaprì alcuni secondi dopo, aveva la faccia contratta e la fronte imperlata di sudore. Il potere di quell’oggetto gli aveva quasi sconvolto la mente. Poi, come se nulla fosse, si voltò e tornò dai suoi, annuendo. <Bene, mi sembrate soddisfatti!> Disse Mal senza aspettare una risposta. <Ora: dove sono i soldi?> Chang, senza bisogno di nessuna traduzione, fece cenno ad uno dei suoi di avvicinarsi. Portava una valigetta che aprì in direzione di Daniel e Mal: dentro c’erano solo fogli bianchi pieni di scritte in una lingua incomprensibile. <Cos… Ma che cazzo sono quei cosi!?> Chiese Mal con aria indignata. Daniel si accigliò, sentendo puzza di complicazioni. <Titoli di stato.> Disse l’interprete. <Era solo modo di portare soldi. Contanti era troppi da trasportare.> <Non me ne frega una cazzo!> Imprecò Mal. <Si era detto pagamento in contanti e sarà in contanti! O l’affare salta!> Alla luce gialla del globo, Daniel poté vedere Chang aggrottare la fronte. Era chiaramente teso, pronto a scattare al minimo segno di minaccia; come tutti quelli nel fabbricato, d’altronde. <Titoli avere stesso valore di contanti.> Riferì l’interprete. Chang aveva parlato con tono talmente basso da sembrare quasi che ringhiasse. <Noi venuti qui da lontano. Concludiamo affare.> La voce dell’interprete, al contrario, era poco sicura e la si poteva sentir tremare leggermente. <Bè, è un vero peccato.> Disse Mal con finta accondiscendenza. <Perché avete mandato a puttane gli accordi. E quindi noi ce ne andiamo.> A quel punto Daniel chiuse la valigetta con un scatto e se la mise sottobraccio. Ma Chang, rapido come un serpente, estrasse una pistola da sotto il pesante cappotto, puntandola contro Mal; un attimo dopo, anche i due uomini che erano venuti con loro estrassero le armi e le puntarono contro gli orientali. Chang ringhiò qualcosa. L’interprete, che adesso era paonazzo e con la fronte imperlata di sudore, tradusse come: <Signor Chang vi prega di collaborare… V-vuole solo che si faccia interesse di tutti!> <Davvero?> Chiese Mal, per nulla spaventato. <Non mi sembra che una pistola puntata contro rientri nei miei interessi.> Come se avesse capito quello che passava nelle mente di Mal, Daniel richiamò dall’interno del suo essere il proprio potere, con l’intenzione di spazzare via gli orientali, ma non ebbe il tempo di fare nulla che un potente urlo riecheggiò per il magazzino: <Fermi tutti, in nome degli Ordini!> 8 Per i cinque secondi successivi, Daniel poté sentire solo il proprio cuore rimbombargli nelle orecchie e il respiro farglisi affannato. La sua faccia, come quella di Mal e di tutti gli altri, era una maschera di muscoli contratti e occhi sgranati. Dal buio circostante del magazzino, erano spuntati dodici uomini in tenuta antisommossa, con pesanti caschi neri e con in braccio fucili d’assalto puntati contro di loro. Si tenevano a debita distanza, e se ne stavano vicini ai vecchi cumuli di materiale dietro cui erano rimasti nascosti fino a quel momento. <State pronti a correre…> Bisbigliò Daniel. <Dove?> Chiese Mal senza staccare gli occhi dai fucili che aveva puntati contro. <Fuori. Non verso la macchina. Saranno sicuramente lì.> <Gettate le armi e mettetevi a terra! Subito!> Urlò l’uomo che doveva essere il capo delle teste di cuoio. La sua voce era dura, di quelle che non minacciano una seconda volta. Lentamente, Daniel si mise in ginocchio, quasi volesse arrendersi, ma non appena ebbe poggiato la valigetta a terra, premette i palmi sul pavimento e fece appello a tutto il suo potere. Subito, attorno a loro e agli orientali, comparve una cupola di un tenue azzurro fosforescente. <Fuoco, fuoco!> Urlò il capo della squadra. Subito i grossi fucili automatici iniziarono a sparare raffiche di piombo. Per ogni colpo che la cupola incassava, Daniel si sentiva scuotere nel profondo. La sua faccia era contratta in una smorfia di dolore, come se i suoi organi interni venissero sottoposti a piccole ma ripetute scariche elettriche. <Vaffanculo, bastardi!> Ruggì Malcolm estraendo un grosso revolver da sotto la giacca e iniziando a sparare contro le teste di cuoio, imitato subito dopo dai due uomini che erano con loro e dagli orientali. Subito i militari si rifugiarono dietro le loro coperture, interrompendo il fuoco, e Daniel poté finalmente trarre un sospiro di sollievo. Gli spari rimbombavano fragorosamente tra le pareti del magazzino, e Daniel sapeva che le loro munizioni non sarebbero durate a lungo, così non perse tempo. Infilò la mano in una tasca interna della giacca e ne estrasse un globo di cristallo delle dimensioni di una palla da tennis, al cui interno si agitava vorticando un sinistro fumo viola. Con un grugnito lanciò il globo fuori dalla cupola, verso la direzione da cui erano venuti, e nel punto in cui questa si infranse, iniziarono a comparire cerchi concentrici fatti da simboli fosforescenti. <Demone in arrivo! Demone in arrivo!> Urlò con una nota di panico una delle teste di cuoio, mentre fissava il terreno marcato con i simboli che a poco a poco sprofondava in una voragine. <Via! Correte!> Urlò Daniel, partendo con uno scatto lungo la direzione opposta a quella in cui si era frantumato il globo. Una delle teste di cuoio, non appena vide la cupola svanire, riprese a sparare, riuscendo a colpire uno degli orientali alla schiena. Questo cadde in avanti, senza nemmeno un lamento, ma non appena il militare sentì il profondo ruggito provenire dalla voragine, capì che in quel momento gli uomini in fuga non avevano più nessuna importanza. Quello che ora importava, era solo sopravvivere. 9 Quando un grosso braccio nerboruto uscì dalla fossa artigliando il cemento, Maria digrignò i denti, trattenendo l’impulso di iniziare a bestemmiare. Nascosta anche lei dietro un cumulo di vecchi materiali, aveva indovinato le intenzioni di Trank fin dal momento in cui l’orientale di nome Chang aveva estratto la pistola. <E’ l’occasione ideale, Trank!> Aveva detto nel microfono. <Lasciamo che si massacrino tra loro!> <No!> La risposta le era arrivata gracchiante, attraverso l’auricolare. <Dobbiamo prenderli vivi!> <Trank non fare stupidaggini!> Aveva insistito lei. Intanto la situazione tra i due gruppi criminali si era fatta via via più pesante. <Tra loro c’è uno stregone!> <Abbiamo degli ordini, Maria. Dobbiamo prenderlo vivo!> Poi, accorgendosi che la situazione si era ormai fatta insostenibile, aveva ordinato al resto della squadra di entrare in azione e si era fatto avanti con il fucile spianato urlando: <Fermi tutti, in nome degli Ordini!> E a quel punto la situazione era degenerata. Ora, dalla voragine era uscita una figura spaventosa: un colosso di più di tre metri, con muscoli talmente gonfi che sembravano dovessero strappare la pelle grigiastra. Alle mani e ai piedi aveva lunghe zanne grezze, mentre nella testa, che sembrava attaccarsi al corpo senza il mezzo di un collo, erano incastonati due occhi completamente bianchi, senza pupille né iridi. <Per Odino, è un Colossale!> Sussurrò Maria tra sé e sé. Senza attendere altri ordini, gli uomini iniziarono a sparare addosso alla creatura. Il demone ruggì di rabbia, più che di dolore, quando i proiettili di grosso calibro iniziarono a colpirlo senza però fargli alcun danno. Le pallottole si conficcavano nella sua carne sollevando spruzzi di polvere viola e creando buchi che però si rimarginavano subito dopo. A quel punto, stanco di incassare, il demone puntò contro un soldato a caso e lo caricò. Le sue gambe iniziarono a falciare metri su metri ad una velocità spaventosa, e ancor prima che l’uomo se ne accorgesse, il Colossale lo colpì con il dorso della mano, mandandolo a schiantarsi contro un muro. Il suono che produsse impattando contro la parete fu orribile, e quando il suo corpo cadde a terra, non diede più alcun segno di vita. <No! Edward!> Urlò sconvolto un altro soldato. Qualcuno, sopraffatto dal terrore, smise di sparare. Uno fece qualche passo all’indietro, lottando contro l’impulso di fuggire. <Rimanete dove siete! Continuate a sparare!> Urlò Trank, ma la verità era che niente sembrava funzionare. I proiettili colpivano il demone come avrebbero potuto fare delle palline di carta. A quel punto il mostro iniziò una nuova carica, stavolta puntando sullo stesso Trank, che vedendolo arrivare, si preparò a schivarlo. <Maledizione!> Imprecò Maria che, ripresasi dalla sorpresa iniziale, uscì allo scoperto. Non appena mise mano alla sua alabarda di magilite, sentì la magia invaderla; puntò la mano contro la testa del Colossale, e questa venne avvolta da un’esplosione di fuoco e fiamme. Il demone, stavolta urlando di dolore, deviò dalla sua traiettoria e andò a schiantarsi contro una colonna, demolendola. <Trank!> Urlò Maria. <Lo so!> Rispose l’uomo, che lasciò cadere il fucile d’assalto per sfoderare un lanciagranate. Un attimo dopo, il Colossale si voltò verso Maria. Quasi metà della testa era stata completamente spazzata via, ma entrambi gli occhi erano sopravvissuti e si erano fissati sulla cacciatrice, bruciando per la rabbia. <Ehi, stronzo!> Urlò Trank attirando l’attenzione del Colossale. Poi prese la mira e fece fuoco. La granata colpì il demone in pieno petto, e stavolta quello indietreggiò, travolto dall’onda d’urto. Trank sparò di nuovo e di nuovo, fino a quando il demone non si sbilanciò e prese ad agitare comicamente le grosse braccia, nel tentativo di non cadere. Senza aspettare che riconquistasse l’equilibrio, Maria scattò verso il Colossale, ignorando la paura di essere schiacciata da quella cosa e, non appena fu a tiro, afferrò l’alabarda con entrambe le mani e spazzò con tutta la forza che aveva. La lama di magilite tranciò di netto la gamba del demone, che ruggì talmente forte da far vibrare l’intera struttura. Poi crollò pesantemente, cercando di attutire la caduta con le mani. Sapendo che non avrebbe avuto un’occasione migliore di quella, Maria urlò per richiamare tutto il proprio coraggio e sollevò l’alabarda sul collo del demone, ora perfettamente a portata, e calò la lama. Il Colossale girò la testa verso di lei ringhiando e con gli occhi pieni di odio, ma un attimo dopo l’alabarda calò con forza, decapitandolo. Nel magazzino scese il silenzio. Niente più spari, urla ed esplosioni. Solo l’ansimare di Maria e il corpo del Colossale che si andava sfaldando in un’inconsistente polvere viola. 10 Nel momento in cui aveva lanciato il globo per l’evocazione e aveva iniziato a correre, i ricordi di Daniel si erano fatti confusi. L’adrenalina lo aveva sopraffatto, cancellando ogni traccia del suo sangue freddo. Sapeva solo che alla sue spalle c’era un demone, mentre davanti a sé c’era la campagna. Stava correndo da tanto ormai e chissà come, erano riusciti ad oltrepassare anche gli uomini che avevano circondato l’edificio, e si erano avventurati nella campagna, correndo a perdifiato. Nella mano stringeva ancora la valigetta con il pendente magico, mentre contro le spalle gli sbatteva la custodia di cuoio del bastone. Mentre correva, Daniel sentiva il cuore martellargli in petto non tanto per lo sforzo della corsa, quanto per la paura, che minacciava di trasformarsi in panico. Era solo. Nel buio della sera e nella confusione della fuga, aveva completamente perso di vista Malcolm e gli altri. Di tanto in tanto sentiva degli spari in lontananza. Ad un tratto, la boscaglia si interruppe bruscamente, e si ritrovò in una stretta radura inondata dalla luce lunare. Senza curarsi di dove si trovava, Daniel continuò a correre, fino a quando una misteriosa forza non gli si avviluppò alle gambe, facendolo rovinare a terra tra l’erba alta. Daniel imprecò, capendo al volo la situazione. In un niente riuscì a sciogliere l’incantesimo che gli bloccava le gambe, e un attimo dopo fu di nuovo in piedi, sfoderando il bastone che si portava sulla schiena. Guardandosi intorno, riuscì a scorgere la figura che lo aveva fatto inciampare: un mago, con indosso un lungo abito blu e con una bacchetta di legno stretta nella mano destra, ed era a nemmeno dieci metri da lui. Era alto, con larghe spalle e capelli corti, ma a parte questo non riusciva a vedere nulla del viso; troppa poca luce. <Arrenditi, stregone!> Gli intimò il mago con voce forte. <Arrenditi e potrai patteggiare per la tua vita!> <Figlio di puttana…> Sibilò Daniel tra sé e sé. Reso furioso da quell’implicita minaccia di morte, Daniel si sentì montare dentro una rabbia cieca. Senza nemmeno rispondere, sollevò il bastone di legno e lo puntò contro il mago, che a sua volta agitò la bacchetta iniziando a cantilenare qualcosa a voce alta. Dalla punta del bastone di Daniel scoppiettarono fulmini azzurri, ma questi non riuscirono nemmeno ad avvicinarsi al mago, che subito si scontrarono contro una barriera invisibile. Poi, ad un'altra parola del mago, i fulmini si infransero in tanti piccoli archi elettrici che subito sparirono in una nuvola di scintille. Sgranando gli occhi per la sorpresa, Daniel si preparò a lanciare un altro incantesimo, ma il mago gli urlò contro qualcosa, e una violenta forza lo investì in pieno, togliendoli il fiato e scaraventandolo a terra. Con le ossa e i muscoli doloranti, Daniel si rimise in piedi e non appena vide che il suo avversario aveva sollevato di nuovo la bacchetta, evocò una barriera, ma ad una parola del mago questa si frantumò in mille pezzi, lasciandolo completamente indifeso. Daniel fissò il suo avversario, incredulo, e senza più idee. Quell’uomo sembrava potesse infrangere ogni suo incantesimo come se nulla fosse! Senza aspettare la sua mossa successiva, il mago tracciò un segno a mezz’aria urlando un paio di parole, e Daniel si ritrovò ad urlare a pieni polmoni per il dolore: una fitta acuta e potentissima gli stava attraversando tutti gli organi interni, paralizzandolo a terra, in ginocchio. A mano a mano che il mago continuava nella sua opera, Daniel sentiva la coscienza abbandonarlo; di lì a breve sarebbe svenuto, svuotato di qualunque energia magica. Quando si sarebbe risvegliato, sarebbe stato senza un briciolo di forze, completamente alla mercé degli Ordini, e a quell’idea venne invaso da una paura cieca. Paura di morire, di non poter più rivedere Eveline per chiederle scusa e si diede dell’idiota per essersi lasciato trasportare dalle emozioni, di averle permesso di andarsene in quel modo. No! Non avrebbe permesso a quel mago di distruggere la sua vita! Chi si credeva di essere, per fargli quello!? Gliel’avrebbe fatta vedere, di che cosa era capace! Lottando contro il dolore, strinse i denti, muggendo pietosamente, e puntò il bastone contro la valigetta che gli era caduta a fianco, sventrandola come avrebbe fatto lo scoppio di un grosso petardo. Daniel allungò la mano verso il pendente della Relics, e non appena le sue dita lo toccarono, un potere gigantesco lo travolse come uno tsunami, facendolo urlare per la sorpresa. Il cuore prese a battergli all’impazzata, mentre la sua mente raggiungeva stati di conoscenza che non avrebbe mai immaginato. Bastò un gesto con il bastone e la bacchetta del mago esplose in una nuvola di schegge, lasciandolo completamente atterrito. Con un grugnito di rabbia, Daniel si rimise in piedi e tenendo gli occhi sul mago, iniziò a tracciare attorno a sé grandi cerchi con il bastone. Lungo la traeittoria, si generò un cerchio di fuoco, dapprima minuscolo, poi sempre più grande, fino a diventare qualcosa di enorme e luminoso, in grado di rischiarare ogni angolo della radura. Quando Daniel urlò, il mago sollevò istintivamente le mani, e il grosso circolo di fuoco esplose con una luce ed un boato talmente potenti da lasciare lo stregone cieco e sordo per qualche secondo. Quando i sensi gli tornarono, solo un piccolo cerchio di terreno attorno a lui era sopravvissuto alla furia dell’incantesimo: il resto della radura era invece una distesa di terra bruciata da cui si levavano colonnine di fumo nero e dove c’erano solo pochi fili d’erba che bruciavano. Daniel si poggiò al bastone, esausto. Aveva il fiatone e la fronte imperlata di sudore, ma a parte quello …stava bene! Fissò il pendente che teneva stretto nell’altra mano, sbalordito. Quell’oggetto gli aveva fornito una forza ed un potere straordinari! Normalmente, lanciare un incantesimo di quella potenza lo avrebbe ucciso all’istante! <Che cosa abbiamo preso?> Si chiese con un sussurro, mentre fissava l’artefatto illuminato dalla debole luce lunare. In quel momento, un gemito lo riportò alla realtà, facendogli alzare di scatto la testa. Dal mago, disteso al centro della radura, si levavano piccole colonne di fumo e versi sofferenti. Daniel si sentì stringere lo stomaco. Non aveva intenzione di creare tanti danni, ma quell’uomo lo aveva costretto, dannazione! Si consolò, pensando che sarebbe comunque sopravvissuto; all’ultimo momento doveva essere riuscito ad evocare qualcosa per proteggersi, anche se non aveva potuto aiutarsi con la bacchetta. Con una smorfia, Daniel voltò le spalle al mago ferito e riprese la sua fuga nella campagna di Lesliengton. 11 Erano le due del mattino e Josh King era ancora sveglio, perfettamente vigile e seduto sulla sua poltrona preferita, con addosso una vestaglia e ai piedi due pantofole blu. Il suo appartamento era completamente al buio, ad eccezione della luce che arrivava dai lampioni in strada e quella irradiata dalla televisione, l’ultimo ritrovato in fatto di tecnologia e su cui scorrevano immagini silenziose. Mentre osservava quello schermo muto, Josh prendeva qualche sorso di cognac liscio da un pesante bicchiere di cristallo che aveva riempito fino all’orlo, ma che adesso era pieno solo per metà. Di solito bere lo aiutava a prendere sonno, ma in quel momento la tensione lo teneva sveglio e perfettamente vigile, a dispetto dell’alcool che aveva già trangugiato. Il bussare alla porta non arrivò completamente inaspettato, ma nonostante questo trasalì. Chiuse gli occhi, stringendo con forza un bracciolo della sua poltrona con una mano e il bicchiere di brandy con l’altra. Ci mise qualche minuto a calmare il battito del cuore, e quando fu pronto, poggiò il bicchiere sul tavolino accanto, spense la televisione e si alzò. <Chi è?> Chiese Josh davanti alla porta, immerso nell’oscurità. <Sono io, Josh. Aprimi, dobbiamo parlare.> La voce gli arrivò ovattata. Con il cuore che iniziava di nuovo a palpitargli, osservò attraverso lo spioncino: Eric Strange se ne stava davanti alla porta con aria tranquilla, in tutta la sua enorme mole, con indosso una vecchia tuta da ginnastica e le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni. Era solo, e questo diede qualche speranza a Josh. Forse non era come pensava… Accese la luce nell’ingresso e fece scattare la serratura della porta, che aprì piano. <Ciao Josh.> Lo salutò Strange. <Ti ho svegliato?> <No.> Rispose Josh. <No, non riuscivo a dormire. Ma entri, la prego!> Strange annuì, poi entrò in casa. Josh richiuse la porta dietro di lui e lo invitò ad accomodarsi in salotto. <Vuole qualcosa, signor Strange? Un amaro? Un caffè?> <No, grazie.> Rispose Strange andandosi a sedere sul divano. <Sto bene così.> Con tranquillità, Josh si sedette di nuovo sulla sua poltrona e rimase in silenzio per alcuni minuti, prima di trovare il coraggio per chiedere: <Signor Strange, che ci fate qui a quest’ora? E’ successo qualcosa?> A quella domanda, Strange girò la testa verso di lui, con una faccia che non tradiva alcuna emozione. <E’ successo un casino, Josh. Stasera, all’appuntamento con gli orientali c’erano anche gli Ordini.> Josh deglutì silenziosamente. La voce di Strange era fredda come ghiaccio. <Ma i nostri ragazzi l’hanno scampata.> Continuò Strange. <Hanno fatto perdere le loro tracce nella campagna, e poi uno dei nostri è andato a recuperarli. Stanno bene tutti e due.> <Tutti e due? Ma…non erano in quattro.> <Appunto.> Rispose Strange tradendo uno spettro di rabbia. Di nuovo silenzio, poi Strange chiese: <Tu non sai niente di questa storia?> Josh si sentì ghiacciare il sangue nelle vene. Allora quella visita era proprio quello che aveva temuto… Valutò le sue opzioni: combattere era fuori discussione. Era disarmato, e affrontare quella montagna nel corpo a corpo sarebbe stato come suicidarsi. <Quei bastardi erano già lì, Josh. Li stavano aspettando. E gli unici che potevano conoscere il luogo dell’incontro erano quelli presenti a casa mia quando ho scritto il biglietto, stamattina. Solo che nessuno odia lo stregone quanto te.> <M-ma signor Strange… Non crederà davvero che…> <Non parlare, Josh.> Lo interruppe Strange. <Non trattarmi come un idiota! Il ragazzo mi ha raccontato tutto: non c’erano solo teste di cuoio. C’era anche un fottuto mago! Erano preparati per affrontare lo stregone!> Da quando aveva iniziato a parlare, Strange aveva iniziato a tradire la propria rabbia, che però soppresse subito, riconquistando tutto il suo sangue freddo. <Sta tranquillo, Josh. Se avessi voluto ammazzarti avrei fatto venire qui lo stregone. E fidati: avrebbe dato qualunque cosa per essere qui, ora. Ma noi siamo vecchi amici, abbiamo iniziato insieme, quindi ho deciso di farti questo piacere. Solo una cosa voglio capire: perché?> Completamente disarmato, Josh si passò una mano sulla faccia ormai sbiancata come quella di un cadavere. Lo avevano scoperto… Continuare a negare non aveva alcun senso… <Quel ragazzo è pericoloso, signor Strange.> Gracchiò dopo alcuni secondi di indecisione. <Non abbiamo idea di cosa può realmente fare e cosa no, né che intenzioni abbia. Fa patti con i demoni! Per quel che ne sappiamo noi potrebbe essere una loro marionetta!> Strange lo fissò con occhi sottili. <Cazzo, Josh… Da quanto ci conosciamo? Quindici? Vent’anni? Pensavo di potermi fidare almeno di te!> <Lei può fidarsi di me, signor Strange!> Proruppe Josh. <Ma mi ascolti: si deve liberare dello stregone! Le porterà solo guai, io…> <Zitto!> Sibilò Strange. <Non t’azzardare a parlare ancora.> E Josh si ammutolì all’istante, con le mascelle serrate e gli occhi sbarrati, puntati sul pavimento. <Stanotte lascerai la città.> Continuò Strange. <Te ne andrai e non tornerai mai più. Perché se ti dovessi rivedere… sta sicuro che non avrai una seconda occasione.> Strange si alzò lentamente dalla poltrona, reggendosi ai braccioli, e senza dire una parola di più, uscì. Rimasto solo, Josh rimase immobile per alcuni minuti a metabolizzare quello che era appena accaduto. Era stato cacciato… Dalla sua stessa città! Affondò la faccia tra le mani, sconfortato ma anche arrabbiato per il modo in cui il signor Strange lo aveva trattato. Non se lo meritava. Non dopo tutti quegli anni passati al suo fianco! Aveva fatto il suo lavoro sporco decine di volte, gli aveva coperto le spalle per anni e adesso lui lo mandava via così! Eric Strange gli aveva dato del traditore, ma il traditore in realtà era lui! Aveva preso con sé quel giovane perché era rimasto affascinato dai suoi incantesimi, dalle cose che poteva fare senza pensare alle conseguenze. La scomparsa di Daniel Chesterfield non avrebbe potuto che portare stabilità! Ma gliel’avrebbe fatta vedere lui, a quel grassone arrogante, di cosa era capace Josh King! Lasciare la città? Figurarsi! Con la rabbia che prendeva sempre più il sopravvento sul senso di colpevolezza e sulla paura, Josh andò in camera da letto a cambiarsi e a preparare una valigia con il minimo indispensabile. Non sarebbe partito, ma avrebbe dovuto dare quell’impressione. Sapeva che Strange avrebbe mandato degli uomini a controllare casa sua, appena fatto giorno. Invece, avrebbe passato il resto della notte in un motel e poi sarebbe andato da Vincent Stroud, nel quartiere nord della città. Lui gli avrebbe dato protezione, ne era sicuro! Una volta pronto, indossò il cappotto, prese la valigia e scese in strada, dove la luce gialla dei lampioni inondava ogni cosa e una fredda brezza soffiava da ovest. Non girava un cane, a quell’ora di notte, e Josh puntò dritto alla sua macchina. Mise il bagaglio sul sedile posteriore, si mise al posto di guida e girò la chiave di accensione. 12 L’esplosione svegliò uomini e donne fino a tre isolati di distanza. Uno scoppio fragoroso che rimbombò tra gli edifici rompendo anche qualche finestra. Le macchine vicine al punto dell’esplosione andarono distrutte, mentre le altre se la cavarono solo con qualche vetro rotto. In pochi minuti, un piccolo gruppo di curiosi scese in strada con addosso solo la camicia da notte o con un cappotto più pesante per osservare la scena: una macchina sventrata dall’esplosione, ora completamente avvolta da fiamme alte e gonfie.