Felicità made in Italy

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Felicità made in Italy
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E’ giunto il momento di tirare le conclusioni e di sintetizzare l’Italian way to happiness. Lo farò
tralasciando le esperienze minoritarie, nello sforzo di descrivere il minimo comun denominatore
del più variegato made in Italy della felicità.
Gli abitanti del Bel Paese che si dicono assai appagati hanno alcune idee chiare: non è
obbligatorio essere felici ( la vita può essere discreta comunque ) e specialmente è pericoloso
cercare di esserlo con molta insistenza, dato che il desiderare troppo la felicità comporta il non
averla o il restarne delusi.
E’ meglio perseguirla con moderazione e specialmente riconoscerla e accoglierla se e quando
viene. In altre parole è giusto e utile tentare di accrescere le opportunità di incontrarla, ma con
un po’ di fatalismo, essendo consapevoli che la gioia di vivere non dev’essere un obiettivo, ma
la conseguenza ( non certa ) di una serie di atteggiamenti e di attività facilitanti. La felicità da
noi, non c’entra granchè con i piaceri, grandi e piccoli, a cui pure siamo attenti; e
neppure con il ben-essere psico-fisico o il benessere economico. Certo, un’esistenza
povera e misera, scarsa di pleasures & leisure, schiacciata dalle difficoltà materiali,
magari solitaria, riduce parecchio la speranza di appagamento esistenziale, ma i soldi, gli
agi, i lussi, il potere sociale eccetera – se cospicui – non garantiscono affatto un di
soddisfazione di sé e delle proprie esperienze.
Il risultato è che chi si batte – con forza penetrativa e convessa – per salire nella scala
sociale al di là del livello media/medio alto non guadagna posizioni e anzi si danna.
Le cose vanno meglio a chi, all’opposto, si rilassa e si fa concavo, disponibile,
accogliente. In questo Paese la felicità si scopre e si coglie: spesso come lampo di
beatitudine magica nelle piccole cose quotidiane, più raramente come stato prolungato
. L’arte italica è appunto quella del farsi invadere dalla felicità, senza volerla a tutti i costi
produrre o inseguire, senza confonderla con il piacere o con l’eccitazione, spesso
accontentandosi di quel che offre la vita, nelle cui pieghe si possono trovare gocce o rivoli
felicitanti, godendoli con stupita meraviglia.
Di più: si deve essere consapevoli che la soddisfazione esistenziale è reversibile, può finire,
spesso non c’è stata in passato; ma proprio perché va coltivata con simpatia e rispetto, con
sapiente attenzione ( anche per poterla rievocare nei momento bui, quando bisognerà saperla
attendere, poiché a volte ritorna, inaspettata ).
Per molti italiani l’appagamento viene dalla serenità, dalla quiete, dall’assenza di grandi
aspettative, dalla passività soddisfatta e non pugnace. Eppure le possibilità di essere felici
crescono se ci sono senso di responsabilità e senso del dovere, impegno e tensione
migliorativa, consapevolezza e sforzo: mirati non all’appagamento, ma all’agire ( su di sé e con
altri ) per dare alla propria vita una direzione e un significato. Ciò può sembrare in contrasto con
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l’accoglienza passiva ( seppure attenta ) di cui s’è detto: ma la contraddizione è solo apparente,
dal momento che l’impegno è quello di dare un senso all’esistenza, ritrovandolo nella propria
cultura, oppure cercandolo con intima libertà. Come? Non con un movimento frenetico, ma
procedendo verso una meta senza maniacalità, alternando momenti veloci e momenti lenti,
investendo su più fronti, praticando il pluralismo delle passioni ( affettive, professionali, ideali
eccetera ) senza restringersi in un ambito solo.
Gli italiani appagati, inoltre, sanno che la felicità è un viaggio e non il raggiungimento della
destinazione, che lo zigzagare gli è tipico, e che esso avviene meglio con altri, che richiede
l’arte dell’ , della conciliazione degli opposti ( sonno e veglia, vivacità e relax, ricordi e progetti,
segreti e condivisione, lavoro o studio e tempo libero, serietà e giocosità, tecnologia e rifiuto del
meccanico e del virtuale, casa e fuori casa, capacità di sopportare e reazioni ferme ).
Il tutto richiede uno stile esistenziale allegro, positivo, flessibile, creativo, ottimista, esplicitante
le emozioni, a volte teatrale, sempre cordialmente relazionabile ed estroverso, aperto al dialogo
e alla mutua influenza oltre che alla cooperazione, generoso e impiccione ( ma senza strafare ),
fondato sull’ascolto e sull’empatia, espresso nel darsi da fare per gli altri e a favore di una
maggiore giustizia.
D’aiuto è il non volere molto ma preferire l’abbastanza, al di fuori di ogni delirio di
onnipotenza, rifiutando lo stress e la sistematica autocolpevolizzazione. E’ bene sottrarsi
alla schiavitù del voler crescere compulsivamente e continuamente ( in reddito, consumi,
produttività: non in sapere ), mirando al .
Sono da preferire la selezione e la rarefazione dei doveri e dei piaceri, anzitutto per
riconquistare tempo per sé e poi per opporsi silenziosamente, ma con decisione, ai dettami del
potere, al quale gli italiani resistono cercando spazi di libertà e di felicità privati e poco visibili (
la soddisfazione esistenziale è da noi tacitamente oppositiva, ostile o estranea al
mainstream
della produzione e del consumo: privilegia spesso i tempi vuoti, le chiacchere, la convivialità,
l’esposizione al bello ).
La felicità viene cercata qui con intelligenza e pure con furbizia ( e bugie ), spesso d’istinto e
sulla base di valori forti, di una certa autostima, dell’uso integrato dei propri sensi, di una
spiccata sensibilità fisica ed emozionale.
Gli affetti, la famiglia, i figli e i nipoti – ancora di più che l’amore e il sesso – sono la prima
palestra e spesso l’ambito-chiave d’applicazione delle strategie felicitanti dei nostri
connazionali: certo, la famiglia, la casa, le modalità di relazione tra donne e uomini sono assai
cambiate negli ultimi decenni, ma senza togliere centralità alla prevalente dimensione privata
dell’italico appagamento esistenziale.
Semmai la rivoluzione è ora quella dell’invecchiamento lieto e attivo, dello spostamento
in avanti del baricentro dell’innovazione: anche se il recupero esplicito dell’idea della
morte nella vita pare necessario per non cadere nell’infelicità della sua rimozione.
La via italiana alla felicità è improduttiva, calda, non troppo individualistica, estranea ai must del
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mercato e del consumo, a volte passiva e a volte con forte impegno sociale: comunque spesso
intima o legata alla propria microcomunità, estroversa e relazionale.
Essa ha il respiro di un’esperienza millenaria e ha sviluppato un’abilità particolare nelle fasi di
difficoltà, risultando più adatta nei decenni cupi e nei momenti di revisione – lenta e veloce –
degli assetti consolidati. Forse anche di alcune sue debolezze, appare valida proprio ora che
l’Occidente sta iniziando a perdere o a ridefinire la sua leadership: non pretende di rendere
l’umanità tanto migliore di quello che è, ma il mondo un po’ più abitabile ( e infatti mira alla
qualità della vita ).
Insegna ad accontentarsi e a godere, oppure a cambiare ma portandosi dietro sensibilità del
passato. Evita ogni estremismo, ma solo perché sa che la coesistenza degli opposti può dar
vita ad una miscela magica. Sfiora spesso l’irresponsabilità ma si riscatta con la generosità.
Non sempre aiuta l’incivilimento del Paese, ma lo rende più piacevole. Si muove tra realismo e
sogni. Ogni giorno cerca e sfrutta non la fonte della felicità ( che non c’è ), bensì le sue gocce e
i suoi piccoli rivoli interstiziali, spesso ignoti. Privilegia la rugiada al fiume, ma quella vuole
trovare e spesso trova. Insegna la misura, testimonia l’affetto, non si dà tante arie. Forse, nel
lungo termine, si dimostrerà vincente.
Brano tratto dal testo
Come siamo felici
di Enrico FINZI
3/3