prove di disgelo per obama in sudamerica

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prove di disgelo per obama in sudamerica
PROVE DI DISGELO PER OBAMA IN SUDAMERICA
Lunedì 20 Aprile 2009 01:06
di Michele Paris
Il quinto summit delle Americhe si è concluso a Port of Spain (la capitale di Trinidad e Tobago)
senza un consenso fra i 34 Paesi sulla dichiarazione finale, ma l’amichevole stretta di mano tra
Obama e Hugo Chávez o i cordiali scambi di battute tra il neo-presidente americano con Evo
Morales e Daniel Ortega sarebbero di per sé sufficienti a spiegare il senso e a tracciare un
bilancio del quinto summit dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA). La popolarità del
nuovo inquilino della Casa Bianca ha contribuito in maniera decisiva al clima positivo di un
vertice che tre anni e mezzo fa a Mar del Plata, in Argentina, si concluse invece in un totale
fallimento e segnò il punto più basso nei rapporti tra l’America di Bush e il resto del continente.
Il rinnovato interesse di Washington nei confronti dell’America Latina dopo otto anni
d’indifferenza e la nuova disponibilità al confronto senza pregiudiziali, è dunque la cifra
principale dell’incontro tra i 34 leader, anche se ai sorrisi di circostanza dovranno fare seguito
ora cambiamenti sostanziali nei rapporti diplomatici continentali. Con due banchi di prova su
tutti per gli USA: Cuba e Venezuela. Di ritorno dalla recente trasferta europea per il G-20,
Barack Obama ha preparato con grande scrupolo la sua prima uscita con i capi di stato e di
governo dei paesi sudamericani. L’annuncio dell’abbandono di ogni restrizione sui viaggi dei
cubano-americani nella madrepatria e sulle rimesse di denaro verso L’Havana a poco meno di
una settimana dall’appuntamento di Port of Spain è servito ad allentare le tensioni e a mandare
un segnale importante all’intero continente, ormai unito nel chiedere la cancellazione
dell’embargo verso l’isola che dura da 47 anni. I timidi ma significativi passi intrapresi dal
governo americano nei confronti di Cuba, se da un lato sono stati accolti quasi universalmente
con soddisfazione, rischiano tuttavia di innescare una reazione a catena di attese e speranze
che Washington potrebbe faticare a controllare e a soddisfare.
Con queste premesse, il vertice delle Americhe ha finito per avere al centro dell’attenzione
proprio l’unico paese del continente americano assente, in quanto escluso dal consesso fin dal
1962 perché aderente al blocco comunista. Lo scambio di promesse reciproche per una
possibile apertura tra Obama e Raúl Castro nei giorni precedenti e l’annunciata disponibilità di
entrambi ad aprire un dialogo a tutto campo ha così prodotto una condanna pressoché unanime
dell’embargo americano nei confronti di Cuba da parte dei membri dell’OAS e un esplicito invito
al presidente USA ad intraprendere un percorso nuovo dopo decenni di incomprensioni.
Stati Uniti e Cuba, in ogni caso, sembrano essersi avviati verso una fase di studio
estremamente delicata e sulla quale influiranno non solo il reale desiderio di riavvicinamento da
parte dell’Avana ma anche, e soprattutto, gli equilibri interni alla società e alla politica
americane. Nonostante buona parte della comunità cubano-americana rimanga tuttora contraria
a qualsiasi genere di apertura verso Cuba, le nuove generazioni di esuli appaiono pensarla in
maniera opposta. A ciò si aggiungano le mire delle aziende statunitensi desiderose di fare affari
sull’isola. Esponenti di entrambi i rami del Congresso hanno poi introdotto negli ultimi mesi
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alcuni disegni di legge volti a neutralizzare molti aspetti dell’embargo. L’anacronistico residuo
della Guerra Fredda insomma sembra destinato lentamente ad essere superato, magari sul
modello del processo di riavvicinamento tra USA e Vietnam - come ha spiegato Robert Pastor,
consigliere per l’America Latina dell’ex presidente Carter - durante il quale l’evoluzione di
quest’ultimo paese verso un sistema democratico o un’economia di mercato non è mai stata
considerata una condizione preliminare imprescindibile.
Se pure i temi all’ordine del giorno a Trinidad dovevano essere legati principalmente alla crisi
economica in atto e ai cambiamenti climatici, difficilmente i titoli dei giornali sul vertice si sono
allontanati di molto dalla questione cubana. La storica stretta di mano tra Obama e Hugo
Chávez nella giornata di sabato ha rappresentato l’altro momento fondamentale del summit ed
ha inevitabilmente alimentato nuove speculazioni circa una possibile distensione anche tra Stati
Uniti e Venezuela. Poco prima di un incontro tra il presidente americano e i leader dell’UNASUR
- l’organizzazione che raccoglie i dodici paesi del continente sudamericano - Chávez ha
regalato a Obama il libro del giornalista e storico uruguaiano Eduardo Galeano “Le vene aperte
dell’America Latina”, una sorta di trattato anti-capitalista che descrive le conseguenze di secoli
di dominio europeo prima e statunitense poi sul continente sudamericano. Un dono poco
opportuno, secondo alcuni membri dello staff di Obama presenti al summit, ma che non deve
fare passare in secondo piano le aperture offerte dallo stesso presidente venezuelano.
Poco dopo l’incontro con Obama, Hugo Chávez ha infatti avvicinato il segretario di Stato
Hillary Clinton, alla quale avrebbe avanzato l’ipotesi di reinstallare il proprio ambasciatore a
Washington dopo sette mesi di assenza. Lo scorso mese di settembre, come gesto di
solidarietà nei confronti del presidente boliviano Evo Morales (il quale aveva espulso
l’ambasciatore americano a La Paz perché accusato di aver complottato con l’opposizione ed
incitato alla violenza nel paese) Chávez aveva messo alla porta il numero uno della diplomazia
USA a Caracas, Patrick Duddy. Per restaurare piene relazioni diplomatiche tra i due paesi, il
leader venezuelano avrebbe proposto di spedire a Washington l’attuale ambasciatore presso
l’OAS, nonché ex ministro degli Esteri, Roy Chaderton. Notizia questa confermata
successivamente anche dal Dipartimento di Stato americano.
Per quanto i rapporti tra Stati Uniti e Venezuela si siano deteriorati nel corso dei due mandati
di George W. Bush, i legami dal punto di vista economico tra i due paesi sono sempre rimasti
sostenuti. Caracas resta infatti il quarto fornitore di petrolio degli USA e gli scambi commerciali,
almeno fino alla vigilia della crisi economica, continuavano a far segnare notevoli progressi.
Sebbene gli accordi bilaterali siglati da Chávez con Russia, Cina e Iran negli ultimi anni siano
andati nella direzione di un futuro sganciamento del Venezuela dagli Stati Uniti, il rapporto di
mutua dipendenza tra i due paesi resta intatto, in particolare sul fronte energetico.
Anche se è evidente che una stretta di mano non sarà sufficiente a garantire un’inversione di
rotta nei rapporti diplomatici, non è da escludere che il desiderio di Obama di ricostruire un
qualche dialogo con un leader che ha fatto della retorica anti-statunitense uno dei capisaldi
della propria politica possa trovare terreno fertile a Caracas. E il presidente americano potrà
trarre qualche beneficio anche dalla rinnovata disponibilità mostrata nel confrontarsi con l’intero
continente latino-americano. Disponibilità evidenziata in primo luogo dai progressi compiuti sul
fronte dei rapporti con Cuba e che potrebbe inoltre garantirgli una sicura base di partenza per
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rafforzare i rapporti del proprio paese con la maggiore potenza politica ed economica
sudamericana, il Brasile del presidente Lula.
Il capitale politico di cui dispone Obama in patria e all’estero è d’altra parte ancora notevole in
questa prima fase della sua storica presidenza. A dimostrarlo ci sono non solo il calore
riservatogli dai leader di paesi che fino a poche settimane fa misuravano la durezza dello
scontro con il gigante nordamericano, ma anche note di colore a margine del summit che
apparivano impensabili durante la precedente amministrazione, come la richiesta di autografo al
presidente statunitense sulla sua autobiografia – “Dreams of my father” – da parte del primo
ministro di Saint Lucia, Stephenson King.
Nonostante l’attenzione suscitata in questi giorni, è probabile tuttavia che i riflettori sulle
questioni latinoamericane siano destinati a spegnersi presto. L’evoluzione dei rapporti con Cuba
e con il Venezuela, o il dilagare della violenza legata al narco-traffico in Messico, per quanto
promettano di continuare ad occupare nei prossimi mesi una parte importante nell’agenda di
Obama, rischiano di essere oscurati, almeno in parte, dai temi al centro del dibattito
internazionale ormai da qualche tempo, come la recessione, il Pakistan, l’Afghanistan, il
nucleare iraniano, l’Iraq o la questione mediorientale. Toccherà al neo-presidente, allora,
includere il dialogo con l’America latina nel nuovo corso della politica estera statunitense,
riparando agli errori e alle mancanze del suo predecessore.
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