Si fa per dire... - Istituto Comprensivo di Verbania Trobaso

Transcript

Si fa per dire... - Istituto Comprensivo di Verbania Trobaso
La classe II C della Scuola Media Statale “Ranzoni”
presenta
“Si fa per dire…”
…Ovvero diciannove etimologie più una rigorosamente
inventate di alcuni dei modi di dire più comuni.
Anno Scolastico 2009-10
Presentazione dell’opera
Leggendo sul testo di antologia un racconto della
scrittrice italiana Bianca Pitzorno, tratto dalla sua opera
“Parlare a vanvera”, gli alunni sono rimasti
piacevolmente sorpresi dallo sviluppo delle vicende
narrate ed hanno accolto con entusiasmo la successiva
richiesta, suggerita da un esercizio del manuale e
caldeggiata dalla sottoscritta, di comporre essi stessi
analoghe storie partendo da modi di dire quotidianamente
in uso nella lingua italiana.
Il risultato della fatica letteraria di questi scrittori
esordienti si è rivelato assai promettente e, forse,
l’iniziativa merita di essere ulteriormente coltivata.
In attesa di nuove produzioni creative, i ragazzi della II C
augurano buona lettura con l’avvertenza di non credere ad
alcuna delle parole con cui sono stati inventati questi
racconti, ma con la speranza che gli stessi regalino
momenti di piacevole divertimento.
L’insegnante, Roberta Fattalini
Indice
Introduzione
1. Il gatto ha mangiato la lingua
2. Parlare a vanvera
3. A caval donato…
4. Scendere a patti
5. Fare le cose alla carlona
6. In bocca al lupo!
7. L’amore è cieco
8. Parlare a vanvera
9. Cantare a squarciagola
10. Avere un tesoro di ragazza
11. Fare le cose alla carlona
12. Fare promesse al vento
13. Inghiottire il rospo
14. Cercare un ago nel pagliaio
15. Urlare a squarciagola
16. Lo zio d’America
17. Vedere con gli occhi del cuore
18. Senza cuore
19. Menare il can per l’aia
20. Parlare come un libro stampato
“Il
ha mangiato la lingua” di Irina Bernicu
C’era una volta una ragazza che, al solito, parlava tanto, ma tanto e non stava mai zitta né a scuola né a casa; quando era a casa sua parlava in continuazione e sua madre le diceva spesso che era una zecca, perché parlava troppo e quel giorno lei se la prese. Da allora la ragazza non disse più una parola né a casa né a scuola, ma una volta una sua compagna era a scuola con lei e le chiese perché non parlasse da un po’ di tempo e se, per caso, il gatto le avesse mangiato la lingua. La ragazza allora, dopo aver riso per la battuta ed essersi rasserenata, le spiegò tutto quello che era successo, cioè che aveva litigato con sua madre perché, secondo il suo parere, parlava troppo. La compagna le spiegò a sua volta che, quando i genitori sono nervosi e non vogliono sentire niente, dicono a volte delle cose che neanche pensano, come per esempio che vorrebbero che i figli non sapessero neppure parlare. La ragazza, visto che aveva parlato con la sua compagna e aveva capito tutto, andò a casa a parlare con sua madre e a chiedere se le volesse ancora bene; riferì anche che aveva parlato con una sua compagna, che le aveva spiegato tutto. La mamma le chiese scusa per come si era espressa, perché quel giorno era un po’ troppo nervosa. Da quando ebbe chiarito la questione con sua mamma, la giovane cominciò di nuovo a parlare… come una zecca noiosa e la vita tornò alla normalità, cioè esattamente come prima. Così finisce il mio racconto e non parlo più, perchè…”Il gatto mi ha mangiato la lingua!” Da quell’episodio della ragazza chiacchierona che, offesa dalla madre, decise di rimanere zitta e che fu riportata alla parola dalla simpatica battuta dell’amica, è nato infatti questo modo di dire ormai in uso ovunque. “Parlare a vanvera” di Raffaele Capobianco
In origine, ai tempi degli Egizi, le persone venivano vendute per poter guadagnare qualcosa. I ricchi le acquistavano e le rendevano schiave. Un giorno un ragazzo, Isalia, fu trovato da due mercanti nel deserto; essi lo portarono lungo le rive del Nilo, dove i ricchi potevano comprare oggetti, pietre preziose, vestiti o esseri umani. Isalia fu venduto al figlio del faraone, Maomet, che subito lo portò in una stanza, lo ripulì e bruciò i suoi vestiti cambiandoli con quelli da schiavo. Isalia si sentì perso in un mondo non suo. Prima di essere preso, infatti, studiava i papiri egiziani, mentre adesso era costretto a servire solo materialmente il suo signore. Passarono intere settimane, quando un giorno Maomet decise di andare a vedere come Isalia stesse svolgendo il lavoro assegnato. Dopo qualche ora gli disse: “Tu sei uno schiavo molto dotato: qual è il tuo nome?” Il servo, molto stupito, rispose: “Isalia.” Maomet restò tutto il giorno a guardarlo, rimase affascinato dalla sua tecnica di lavare il pavimento e, quando il giovane ebbe finito di lucidare ogni piastrella, gli disse: “Isalia, hai pulito questa terrazza talmente bene, che nessuno prima d’ora ha mai fatto un lavoro simile; se anche domani la luciderai così, come premio mangerai con il faraone.” La mattina seguente Isalia si recò in terrazza e ci rimase tutto il giorno: decise di pulire il pavimento meglio del giorno precedente, perché voleva cenare con il faraone. La sera, ogni piastrella brillava come le stelle nella notte, erano talmente lucide che ci si poteva specchiare. Isalia era così eccitato di mangiare con il faraone, che corse subito da Maomet e gli disse: “Quando c’è la cena?” Egli, voltandosi dalla parte opposta, gli rispose: “Mai!” Non mantenne dunque la promessa e non lo fece mangiare con lui; allora Isalia, colmo di rabbia, gli disse: “Signore, voi siete baravo in una sola cosa: a parlare a vanvera!” Maomet, con aria turbata, rispose: “Servo! Che significato ha il termine da te usato?” Lo schiavo con arroganza gli spiegò: “Vanvera era il nome di un famoso re del deserto; costui prometteva tanto oro alla sua gente, più di quanto ne possedesse lui stesso: ogni volta però non manteneva mai la parola data e tutti i sudditi alla fine organizzarono una rivolta contro di lui.” Maomet urlò: “Come osi dirmi una cosa del genere?!” e dopo quella frase lo fece rinchiudere nelle segrete. Passarono i mesi, quando un giorno quella porta si aprì… Apparve Maomet, che si scusò con Isalia, lo implorò di perdonarlo, tanto si sentiva in colpa e lo nominò “Safna Panea”; aveva cioè il potere su tutto l’Egitto: solo il faraone era più grande. Da quel momento, quando una persona promette una determinata cosa ad un’altra, ma poi non mantiene la promessa fatta, si usa dire “parlare a vanvera”. “A
donato…” di Mirko Castellana
C’era una volta un bambino di sette anni, che viveva in aperta campagna con i suoi genitori ed essi avevano un maneggio. Una domenica lui e la sua famiglia andarono a visitare una fiera di cavalli che si svolgeva regolarmente ogni anno, e c’erano tantissime razze di cavalli; girando, il bambino ne vide uno bellissimo molto particolare: era tutto marrone con una candida striscia bianca sul muso. Dopo un paio di giorni cadeva il suo compleanno ed egli chiese ai suoi genitori proprio quel cavallo, che lo aveva colpito molto, come regalo. La mattina del suo compleanno si alzò convinto di trovare lo stallone, però si trovò davanti agli occhi un pony e così rimase deluso. Il bambino era anzi molto arrabbiato con i suoi genitori, perché aveva chiesto un altro cavallo. La mamma, per farlo felice, organizzò una gara, perché lei sapeva che il pony avrebbe vinto. Arrivò dunque il giorno della gara e il bambino era convinto che il pony avrebbe perso. Quando la gara iniziò, il cavallo del bambino era in svantaggio, ma verso gli ultimi giri della pista riuscì a rimontare, vincendo così quella competizione che il bambino pensava persa. Il padre allora si avvicinò al figlio e gli disse che: “A caval donato non si guarda in bocca”, nel senso che i regali devono essere accettati senza brontolare e che bisogna apprezzare sempre il pensiero. Da quel giorno il detto si diffuse ovunque rapidamente, forse perché le persone mai contente abbondano in ogni luogo della Terra… “Scendere a patti” di Davide Chiesa
Nella metà del Settecento viveva nella cittadina di Patti un mercante di nome Settimio. Il paesello sorgeva a metà di una collina alle porte di Roma. Sulla cima della stessa collina si trovava un altro paese, di nome Cisterna. Anche qui viveva un mercante, chiamato Leonardo il Saggio per la sua saggezza nell’intraprendere gli affari con il resto dell’Italia. Le due città, seppure vicine geograficamente, non avevano mai instaurato dei commerci tra loro, perché smerciavano gli stessi oggetti. Entrambe infatti vendevano oro. La prima, Patti, commerciava con la parte ovest dell’Italia, mentre Cisterna aveva in pugno la parte est: per questo motivo non erano rivali. Agli inizi dell’Ottocento per la cittadina di Patti iniziò una decadenza economica e sociale. Infatti il dominio della parte ovest venne conquistato da Firenze, che con i suoi artisti aveva creato una città magnifica. Questo fu possibile solo con la rivendita ai mercati esteri dell’oro di Patti e con la scoperta di altri giacimenti d’oro. Firenze era anche il crocevia di numerosi traffici commerciali: quelli dal nord al sud Italia e viceversa e quelli tra le odierne città della Germania, dell’Austria e della Svizzera con Patti e Cisterna. Comunque parte delle ricchezze erano illegali, ottenute mediante dei saccheggiamenti ai carri commerciali. Settimio, molto furioso a causa di ciò, vedeva nel frattempo sempre di più la fame che attanagliava la città. La gente infatti, che di norma si cibava di carne e pesce tutti i giorni, con il passare del tempo doveva accontentarsi di prodotti ortofrutticoli e uova. Settimio veniva sempre più odiato dalla popolazione, siccome lo riteneva responsabile della mancata riuscita dei commerci. A questo punto egli chiese al saggio Leonardo di Cisterna di aiutarlo con i finanziamenti per un nuovo giacimento d’oro allo scopo di ritornare a dominare l’Italia occidentale. Per trovare un compromesso, Leonardo il Saggio scese nella cittadina di Patti. Il compromesso fu l’aiuto di Cisterna a Patti e la restituzione di un quarto del profitto annuale dalla seconda alla prima. Dopo questo evento il detto si diffuse dapprima in tutto il Lazio, in seguito in tutta Italia e poi in Europa e da allora con il modo di dire “scendere a patti” s’intende trovare dei compromessi, proprio come Settimio fece con Leonardo. “Fare le cose alla carlona” di Sharon De Pasquale
In una cittadina del Lazio viveva un signore di nome Carlo, che aveva sempre mille cose da fare, perché svolgeva un lavoro che richiedeva molto impegno: infatti possedeva una grande fattoria. Quasi ogni giorno doveva mungere, tosare, pulire, vendere e comprare…insomma, più di una fattoria, era un grande allevamento! Carlo aveva una moglie di nome Elisabetta e un figlio di nome Fiorello. La moglie era molto esigente e ogni cosa che chiedeva, la voleva avere a tutti i costi. Carlo, essendo buono e alla buona, la voleva accontentare ma, corri di qui e corri di là, a volte si dimenticava addirittura di avere una famiglia. E sua moglie gli diceva: “Vendi, vendi gli animali.” Carlo dal canto suo non ascoltava: e pensare che all’inizio era molto prudente e aveva cura nel fare il suo lavoro in ogni minimo particolare! Con il passare del tempo però, per il troppo lavoro appunto, cominciò a non tosare più le pecore e poi a non mungere più le mucche, oppure lo faceva, ma di malavoglia e con la testa altrove. Per esempio tosava le pecore male oppure solo a metà. E poi faceva cadere il latte. Un giorno si mise perfino una scarpa per qualità, la giacca alla rovescia e andò al mercato a vendere il bestiame e tutti ridevano. E così tutte le persone del villaggio vennero a conoscenza del fatto che Carlo era un pasticcione. E anche sua moglie Elisabetta ed il figlio Fiorello dicevano: “Papà fa le cose alla carlona!” Da allora una persona, se fa le cose non fatte bene, si dice che le abbia fatte “alla carlona”. “In bocca al !” di
Giada Gunella
C’era una volta in una piccola foresta un giovane lupo affamato e assai magro, che correva alla ricerca della sua preda. Il suo desiderio era di catturare una bella lepre grassa. Dopo numerose ricerche la trovò, quindi incominciò a rincorrerla e, con grande fatica, a raggiungerla. Quando la ebbe nelle sue fauci e stava già per divorarla, la lepre, per salvarsi, disse al lupo con gli occhi tristi e pieni di paura: “Per favore, non mangiarmi, sono molto piccola; se vuoi posso darti mia madre, che è molto più grossa di me. Guarda: si trova laggiù nell’erba da sola e, se sei d’accordo, posso aiutarti a farla uscire allo scoperto.” Il lupo si convinse e, dopo aver lasciato con delicatezza la piccola lepre a terra, la osservò per bene e vide che in effetti era piccola e magra. Allora disse. “Vai pure, un cacciatore come me non ha bisogno di aiuto!” La lepre scappò come un fulmine e gridò: “In bocca a te, o lupo, ci andrà un’altra preda, che non sono io e non è neppure mia madre, che non vive più qui da molto tempo!” E così detto si rifugiò nella tana e il lupo solo allora capì di essere stato ingannato. Da allora, dire ad una persona: “In bocca al lupo!”significa in realtà augurarle di riuscire ad evitarlo e di portare a termine felicemente la sua impresa, come la lepre è riuscita nella propria. “L’amore è cieco”
di Lucrezia Lanza
C’era una volta in America una principessa di nome Marta. Questa ragazza aveva gli occhi azzurri ed i capelli lievemente mossi e castani. Le piaceva molto ballare e le piaceva anche un ragazzo di nome Matteo. Egli aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri ed era molto alto e muscoloso. Marta, quando lo vedeva, diventava “matta”. Il ragazzo, quando vedeva che Marta faceva così, era molto lusingato. Matteo era attratto da Marta, ma non riusciva a dirglielo e neppure la ragazza riusciva a farlo… Matteo era molto dolce, tenero, simpatico, altruista, intelligente, ma le cose che piacevano di più a Marta erano la bellezza e l’intelligenza. A Matteo piaceva molto andare a cavallo, suonare la chitarra e il piano, giocare alla play… Invece alla ragazza piaceva ballare e cantare e lui adorava vederla ballare e sentirla cantare. Lei adorava vederlo correre sul campo da calcio con la maglietta con il numero ottanta, vederlo cavalcare. Una sera Marta, seduta alla scrivania a disegnare, sentì chiamare il suo nome: era Matteo che le faceva una serenata! Lei, con le lacrime agli occhi per la felicità, si affacciò e ascoltò le belle parole che le disse Matteo… Un giorno però Matteo dovette partire. Marta, dispiaciutissima, decise quindi di seguirlo. Lui diceva di dover partire per faccende di famiglia e lei, stolta, ci credette. Così salì sull’aereo e lo seguì. In verità egli in Italia, più precisamente a Volterra, in Toscana, aveva l’altra ragazza. Quando lo venne a sapere, infuriatissima, lo lasciò, ma lui continuò a chiamarla “amore”. Marta, a sentire questa parola, scoppiava in un bagno di lacrime e la reazione era dovuta al pensiero dei momenti felici. Da lì cominciò ad odiarlo con tutto il cuore e decise di ritornare immediatamente in America. Dopo un po’ anche Matteo ritornò dall’Italia, andò da Marta e la scongiurò di uscire con lui per scusarsi. Lei non seppe resistere ed accettò. Dopo nemmeno un’ora da quando erano in giro insieme squillò il cellulare del ragazzo: era l’altra ragazza! Matteo, assai arrabbiato ed imbarazzato, le fece una scenata intimandole di non chiamarlo più. Marta si intenerì e lo perdonò. E così adesso sono felicemente sposati con una bimba che fra poco compirà due anni. Quando si dice che “L’amore è cieco”… “Parlare a vanvera” di Stefano Losio
La vera storia di questo detto deriva da quella di un paese chiamato “Vanvera”, dove un giorno arrivò un mercante che diceva di vendere merci preziosissime a prezzi bassissimi e questo mercante parlava, parlava… La gente, ovviamente, accettò le offerte del mercante chiacchierone; ma solamente quando egli se ne fu andato, si accorse che le merci erano contraffatte. Da quel fatto la gente non si fidò più di nessuno: soprattutto dei mercanti chiacchieroni… Un giorno, un re propose al suo più fidato cavaliere di andare a Vanvera e di riuscire a farsi ascoltare, anche solo da una persona. Egli partì e dopo numerosi giorni arrivò in questo paese: l’atmosfera era tenebrosa… Nell’aria non si sentiva una parola, nelle osterie le persone non dialogavano e, per ordinare, non parlavano all’oste, ma indicavano i cibi o le bevande sul menu; nemmeno nelle scuole gli insegnanti parlavano… Il cavaliere rimase colpito da questa atmosfera, tanto che ritornò dal suo re a riferire la situazione di Vanvera, ma egli non diede alcuna risposta. A quel punto il cavaliere tornò al paesello taciturno per tentare di compiere la sua missione, ma di un dialogo nessuna traccia… fino a quando, ad un certo punto, un abitante lanciò dalla finestra un biglietto con scritto: “Non parliamo più con nessuno da quando un furbo mercante ci ha raggirati.” Il cavaliere lesse quel messaggio e accorse di nuovo dal re, il quale, anch’egli, lo lesse ed infine si rassegnò… Dopo molti anni un altro cavaliere propose al re un’impresa impossibile ed egli rispose: “E’ come parlare a Vanvera.” “Cantare a squarciagola” di Riccardo Murriero
Una gallina era seduta sulla mangiatoia aspettando con ansia il momento di esibirsi ancora cantando con la sua voce e con i suoi fortissimi acuti. Questa gallina si chiamava Elisabetta ed era molto conosciuta nella sua zona per la straordinaria voce che aveva quando cantava.
Quel giorno Elisabetta avrebbe dovuto cantare su un palcoscenico molto speciale con luci e pubblico in ogni angolo del palco. Quando arrivò il momento, la gallina notò un bellissimo microfono nero al centro del palco; il canto iniziò ed essa cantò come non aveva mai fatto prima d’ora ed esibì un acuto straordinario: il pubblico andò in delirio e fece talmente tanti applausi che la gallina si commosse, ringraziò il microfono e gli promise che sarebbe tornata a prenderlo per cantare ancora con lui, che rendeva i suoi acuti ancora più forti. Quando tornò a casa, Elisabetta fu ricompensata dal proprio padrone con una bella scatolona di mangime; dopo l’abbuffata la gallina si avviò verso il palcoscenico, perché si era ricordata della promessa fatta al microfono. Arrivata sul luogo, si accorse delle guardie che stavano davanti al microfono per curare che nessuno lo rubasse, ma Elisabetta era molto più furba di loro, infatti si travestì da agente, prese il microfono e lo portò via attraverso il palco… Nell’attraversarlo, però, premette accidentalmente il pulsante dell’accensione luci e tutti riconobbero la gallina in fuga: essa si aspettava una reazione rabbiosa da parte degli umani, invece vollero che cantasse il miglior brano del suo repertorio, e così fece. Cantò dunque il suo miglior brano a gran voce, come se la gola le dovesse scoppiare da un momento all’altro. Il microfono faceva il suo lavoro e l’acuto di Elisabetta fece persino scoppiare i vetri del palco; tutti scappavano e correvano via per la paura, quando improvvisamente il microfono implorò la gallina di smettere con il suo acuto, perché il merito era solo suo. Elisabetta però non mollava, cantava e cantava, sempre di più, perché voleva dimostrare al microfono che il merito di quei forti acuti era anche suo; così continuò a cantare forte, tanto forte che la gola le cominciò a fare male, a tal punto che le scoppiò in un fragoroso rumore: da qui nasce il detto “cantare a squarciagola”. “Avere un
di ragazza” di Marta Napolitano
In una cittadina del Piemonte viveva una famiglia di contadini che aveva due figlie e un figlio. Questa famiglia era molto povera e, per vivere, tutti dovevano lavorare la loro terra sia per mangiare che per vendere i frutti che produceva. Un giorno, mentre stava pulendo i pomodori, la figlia più piccola, Bella, vide una carta che volava e che si posò sul terreno; si alzò di scatto e corse per vedere cos’era: era una mappa che portava ad un tesoro e, per raggiungerlo, si doveva fare molta strada. Bella la portò subito dalla mamma Geltrude e le chiese se lei e sua sorella Isabella potevano andare alla ricerca di quel tesoro, ma Geltrude non voleva che le sue bambine andassero da sole in luoghi sconosciuti e pericolosi, quindi chiese ad Osvaldo, suo marito, se autorizzava le loro figlie. L’uomo però non voleva che due bambine, una di dieci anni e l’altra di otto, andassero in luoghi così pericolosi, allora lo chiese a Max, il fratello di Bella ed Isabella, che aveva ventitré anni e lui accettò di accompagnarle. Il mattino seguente i tre fratelli con zaino sulle spalle si avventurarono alla ricerca del tesoro. Entrarono in una foresta molto intricata e misteriosa. Max guidava, dietro di lui stava Isabella e, accanto a questa, Bella. Mentre camminavano, erano frequenti dei rumorini, come se qualcuno stesse parlando. Ad un certo punto Bella vide un omino piccolo piccolo: subito chiamò i fratelli e l’omino, per la paura, si nascose dietro un filo d’erba; Bella cercò di prenderlo dicendo: “Vieni, piccolo, non ti farò del male, voglio solo vederti!” Quindi allungò la mano e l’omino saltò su di essa. “Cosa sei?” chiese Bella. “Sono come te, solo che sono piccolissimo” rispose l’omino con gentilezza. Bella gli mostrò la mappa e gli domandò: “Sai dove si trova questo tesoro?” “Sì, ma ascoltami bene, fai quello che ti dico io o altrimenti non tornerai più a casa tua!” “Va bene” gli rispose la ragazza, dopodiché i tre fratelli si guardarono con sguardo impaurito. L’omino proseguì: “Più avanti c’è un ruscello: cammina sui sassi e non cadere, altrimenti i pesci ti mangeranno; ancora più avanti c’è una montagna, ma per arrivarci in cima devi trovare un filo d’erba a forma di chiave e devi infilarlo nella sua fessura: a quel punto la montagna diventerà scala. Ricordati di non calpestare i fiori, altrimenti la scala si chiuderà e tu cadrai giù! Se farai tutto quello che ti ho detto, arriverai viva al tesoro che, una volta aperto, ti permetterà di tornare subito a casa.” “Grazie, piccolo amico!” Poi Bella lo posò a terra ed i fratelli si incamminarono. Arrivarono al ruscello e Max disse: “Mi raccomando, calma e sangue freddo: andrà tutto bene, se manterrete l’equilibrio!” E infatti lo superarono, ma ora dovevano trovare il filo d’erba a forma di chiave. Dopo quasi due ore lo trovarono, lo inserirono nella sua fessura e la montagna si trasformò. Dopo altre due ore trovarono il tesoro, ma mancava la chiave e l’omino non aveva detto niente riguardo a ciò. I tre fratelli, esausti, si stesero sull’erba, ma Max sentiva qualcosa sotto di sé: era il pezzo iniziale di una chiave! Anche ad Isabella e Bella capitò la stessa cosa: infatti sotto Bella c’era il pezzo centrale e sotto Isabella quello finale; li misero vicini uno all’altro e per magia si unirono e il forziere si aprì, ma non uscì un tesoro, bensì una ragazza che possedeva tantissimo oro e così i tre fratelli tornarono a casa sia con il tesoro sia con un’amica. Con il tesoro si costruirono una villa e diventarono ricchi ed ora la famiglia Carlain non era più di cinque, ma di sei componenti e la frase, che era incisa sulla loro villa e che fece il giro del mondo, era: “Avere un tesoro di ragazza”. In effetti per loro valeva più la ragazza del tesoro, perché essa nel frattempo era diventata più di una figlia per i genitori ed un’amica importante per i figli. “Fare le cose alla carlona” di Giada Orecchia
Un giorno alle scuole medie, in una certa classe, c’era una ragazza di nome Carla: era un po’ grassottella, alta, con un taglio di capelli adeguato, dei begli occhioni quasi commoventi di color verde intenso ed un bel naso a patata; indossava sempre una tuta color rosa, perché il rosa era il suo colore preferito. Ella faceva arrabbiare sempre i professori per i suoi modi di fare: non ne faceva mai una giusta, faceva sempre cose sbagliate; per esempio, se le veniva detto di comporre un tema per il giorno successivo, lei lo faceva per il martedì venturo. Era anche successo che in un compito fosse stato detto di colorare di giallo i cerchi e di blu i quadrati e lei aveva fatto il contrario, facendo così arrabbiare la professoressa. Quando c’era palestra poi, lei non voleva farla, perché non le piaceva e poi anche perché andava male. L’insegnante quindi si era arrabbiata più volte e l’aveva costretta a farla, altrimenti, diceva, le avrebbe messo una nota. I suoi compagni la prendevano sempre in giro, perché era grassottella e, quando facevano palestra, la sua grandezza si notava di più ed allora uno del gruppo dei maschi la chiamava “Carlona”, perché appunto era grossa. Quel giorno la professoressa aveva detto di saltare la corda e lei si rifiutava, perché non riusciva; a quel punto la donna si arrabbiò per la terza volta con l’allieva dicendole con tono alto di provarci subito! La ragazza lo fece da arrabbiata, perché era stata sgridata e l’insegnante le ordinò di far bene l’esercizio, altrimenti le avrebbe messo subito la nota, e di portare educazione. La professoressa se ne andò… Carla sbatté la corda per terra e se ne andò a sua volta nello spogliatoio. La sua migliore amica, che era un po’ come lei, cioè faceva le cose male, accorse subito convincendola ad uscire… Intanto arrivò di nuovo l’insegnante ordinando all’amica di Carla di andare a fare l’esercizio interrotto; la ragazza dichiarò che non riusciva, ma la donna rispose di farlo immediatamente, altrimenti le avrebbe dato dieci fogli di teoria da compilare per l’indomani. Essa si mise subito a provare, ma lo faceva male, non secondo quanto spiegato, bensì al contrario! L’insegnante vide quello che stava combinando e le domandò: “Ma come fai le cose? Alla Carlona?!” Tutti i ragazzi si misero a ridere; nel mentre suonò la campanella e così tutti fecero la cartella e s’incamminarono verso casa dicendo a Carla, soprannominata “Carlona”: “Fai le cose alla Carlona, cioè male!” E continuarono in quel modo per un po’. Infine andarono a casa, ma “Carlona” non riuscì a cambiare mai e d’allora in poi il detto rimase per sempre! “Fare promesse al
” di Giulia Petrillo
Questo è un vecchio detto, che sta a significare che chi ha il vizio di mentire, non lo perde facilmente… Tutto nasce da una vecchia storia: ci troviamo in un bosco, esattamente in una fattoria circondata da un bosco e lì viveva una famiglia di contadini, che coltivavano cibo e allevavano animali. Una mattina come tante i contadini si alzarono alla solita ora, cioè all’alba e iniziarono la loro giornata. Si cominciava con il dare il cibo agli animali e, come ogni mattina, anche quel giorno essi si recarono al recinto dove si trovavano i loro agnelli, ma ebbero una grossa sorpresa, trovarono cioè il recinto aperto e alcuni agnelli azzannati. I contadini a quel punto si disperarono, perché non capivano come tutto quello fosse potuto accadere e non riuscirono a capire neppure come mai il recinto fosse aperto e quale animale avesse potuto uccidere i poveri agnelli. La mattina successiva trovarono lo stesso spettacolo; allora, preoccupati per il fatto, decisero di mettere una trappola e di acciuffare il colpevole. Aspettarono con ansia la mattina seguente e, al loro risveglio, trovarono il responsabile: era un vecchio lupo, che li supplicava di essere liberato da quel dolore atroce che gli procurava la trappola; non solo, ma giurava che non avrebbe mai più azzannato un agnello in vita sua. Considerato che quel giorno soffiava un vento mai visto prima, le “sincere”parole del lupo (che ai contadini sembravano veramente sincere)… quella grandissima bufera le portò via con sé! Dopo il giuramento comunque i contadini lo liberarono, convinti che avrebbe mantenuto la promessa. Trascorsero i giorni e il lupo passava e ripassava davanti al recinto, avendo una forte tentazione, ma ricordandosi anche della promessa fatta ai contadini. Una sera il lupo ripassò di nuovo davanti al recinto, si fermò a guardare gli agnelli e pensava a quanto fossero appetitosi e non resistette dimenticandosi della promessa. Questo detto sta a significare che un uomo che ha il vizio di mentire, anche se ha una grande forza di volontà, prima o poi ci ricade e da allora le “promesse al vento” appartengono a coloro dei quali non ci si può fidare! “Inghiottire il
“ di Maroua Rafik
In una città della Francia meridionale, nel tredicesimo secolo, si era diffusa l’abitudine da parte di molti cittadini di parlare del prossimo in modo offensivo e non sempre dicendo cose belle e buone. C’era nelle campagne attorno alla città un contadino che nei suoi campi allevava anche rane da vendere nei mercati e aveva sempre il problema di liberarsi dai rospi che andavano a stare in mezzo alle rane. Un giorno venne a trovarlo una signora che gli chiese di dare a lei tutti i rospi che riusciva a raccogliere e di portarglieli in una casetta appena fuori dalla città. Qualche giorno dopo si verificò in città un fatto nuovo: una donna, nota per essere pettegola, cioè una persona che parlava male della gente, venne aggredita, immobilizzata e costretta a ingoiare un rospo. Nei giorni seguenti la cosa si ripeté: tante persone, famose per essere chiacchierone, pettegole e bugiarde, furono anche loro costrette ad ingoiare altrettanti rospi. Poiché i rospi sono animaletti che dalla pelle emettono liquidi disgustosi, le vittime, costretti ad ingoiarli, per un po’ di giorni stavano male e in breve tempo la gente cominciò a collegare le chiacchiere cattive alle persone aggredite e in quella città l’abitudine di parlare male del prossimo praticamente scomparve, proprio per evitare di dover “ingoiare il rospo”… “Un ago nel
” di Vittorio Ruschetta
Tanto tempo fa, in un villaggio, viveva un povero contadino di nome Romualdo. Era molto magro, con capelli rossi e pelle scura. Viveva in una casetta in sasso al margine di un campo. Un giorno, mentre si recava alla sua bottega, vide passare una carrozza tutta bianca. Sulla porta vi era lo stemma dei conti proprietari di quelle terre. Dalla finestrella si affacciò una giovane donna. Aveva una pelle chiarissima e fra i suoi capelli castani spuntava una spilla a forma d’ago. Al vedere la fanciulla il giovane se ne innamorò e, senza pensarci, prese Bino, il suo mulo, lo legò al suo carretto e partì per seguire quella carrozza. Dopo ore ed ore di viaggio vide in lontananza un palazzo marmoreo tinteggiato di bianco e di verde. Proprio davanti al suo cancello vi era la carrozza. Ad un cenno della nobile esso si aprì. Dalla gioia il contadino iniziò a far correre all’impazzata il suo Bino. Arrivato davanti all’ingresso, una guardia lo fermò chiedendogli: “ Chi siete? E cosa volete?” “Sono un contadino innamorato della contessa e la voglio sposare.” Con una risata acuta il soldato rispose: “Voi sposare la contessa?! Ma è già sposata!” Col cuore a pezzi il ragazzo saltò sul suo carretto. Stava per ripartire quando… “Aspettate!” Una voce femminile aveva parlato alle sue spalle… era la contessa. “Voi siete un contadino?” gli chiese la donna. “Sì, e vi voglio sposare per giunta!” “Beh” continuò lei “Questo è impossibile, però potrete avere i miei favori, se troverete la spilla a forma d’ago che ho perso nel pagliaio quando sono andata nella scuderia del mio cavallo bianco.” Contento per la chance concessa dalla contessa, andò nelle scuderie alla ricerca dell’oggetto. Lo cercò in ogni angolo,ma non lo trovò mai. Così nel paese si iniziò a dire alle persone che cercavano cose piccole in luoghi grandi: “è come cercare un ago nel pagliaio!” Pian piano questo detto prese piede anche nelle città vicine fino a superare addirittura i confini dell’Italia. ”Urlare a squarciagola” di Christian Santina
Tanti anni fa viveva in un piccolo paese una famiglia, che amava molto cantare. I membri di questa famiglia cantavano sempre nelle fiere e nelle feste del paese, dove a loro piaceva molto esibirsi, perché si rilassavano. Passarono molti anni e il re di quello stato venne a sapere che c’era una famiglia a cui piaceva molto cantare; allora mandò dei cavalieri a chiamarla. Passarono altri due o tre giorni ed i cavalieri capitarono in un paese molto povero, dove gli abitanti stavano facendo una festa. Proprio in quel momento stava cantando una famiglia ed i cavalieri pensarono che fosse quella che stavano cercando: si avvicinarono dunque ad essa e dissero ai suoi componenti che li voleva re Antonio II di Savoia; loro accettarono la proposta di andare dal re e allora incominciarono ad incamminarsi verso il castello. Arrivati, andarono dal sovrano, che disse loro: “Voi siete la famiglia Garzoni?” ed essi risposero: “Sì, sì.” Il re disse loro che era al corrente del fatto che erano molto bravi a cantare e la famiglia rispose ringraziando di cuore; allora il re chiese loro se volevano cantare nella festa che si sarebbe tenuta la sera stessa ed essi acconsentirono. Il re li ringraziò. Arrivò l’ora dell’esibizione canora e la famiglia cominciò; il re dopo un po’ disse ai cantori che dovevano urlare per poter essere uditi e quelli cominciarono a cantare molto forte e poco dopo la loro gola si squarciò per lo sforzo eccessivo ed essi caddero tutti a terra morti con il sangue dappertutto. Così nacque il detto “urlare a squarciagola”. “Lo zio d’America” di Roberta Tascone
Tanto tempo fa in una cittadina molto piccola viveva un ragazzo di nome Teodoro di anni diciotto. Egli fin da piccolo aveva un sogno nel cassetto, cioè costruire una fattoria con tanti animali, come aveva fatto suo padre; la realizzazione di questo sogno però gli fu impedita dai soldi: infatti la sua famiglia era molto povera, ma la speranza rimaneva sempre. Un anno dopo completò gli studi e si diplomò elettricista, ma purtroppo in quel periodo c’era crisi e non trovò nessun lavoro da elettricista. Così cambiò mestiere e fece il pasticciere per guadagnare soldi e farsi una fattoria tutta sua. Teodoro però non era molto portato per fare il pasticciere, comunque ci provò lo stesso, seppure con scarsi risultati: infatti faceva tantissimi disastri, finché il suo capo, esasperato, lo cacciò ed egli si ritrovò in mezzo alla strada. Tutto ad un tratto gli venne in mente di fare il falegname: fortunatamente quel lavoro gli andò bene e dopo un po’ di anni si sposò con una contadina e insieme generarono due figli. Il lavoro da falegname sei anni dopo purtroppo finì, ma contemporaneamente quello di elettricista ritornò in auge e lui svolse questa professione per cui si era diplomato per trent’anni e, passati i trent’anni, andò in pensione. Giunto al traguardo si godette la vita, ma sfortunatamente un pomeriggio egli andò a fare la spesa e lasciò per sbaglio la porta di casa aperta con dentro tutti i suoi averi: i ladri gli rubarono tutto quello che aveva. Teodoro era disperato… Una mattina però arrivò il postino e gli consegnò una busta con una lettera e quella lettera gli salvò la vita, perché, siccome un suo zio d’America era venuto a mancare e gli aveva lasciato tutti i soldi, Teodoro finalmente coronò il suo sogno, cioè mettere su una fattoria con molto bestiame. Questa storia spiega il significato del modo di dire “avere uno zio d’America”, per indicare la fortuna di chi si ritrova tra le mani delle ricchezze insperate. ”Vedere con gli occhi del cuore” di Valentina Witri
Era una giornata stupenda, eppure accadde un fatto spiacevole: una bambina di nome Emy perse improvvisamente la vista mentre giocava con alcuni amici, così venne portata in ospedale, dove i medici scoprirono che aveva un tumore al cuore. Per fortuna questo tumore era molto piccolo, perciò poteva essere ancora salvata. Il caso non risultava grave né urgente e dunque il giorno dell’intervento era molto lontano. Intanto Emy continuava a coltivare la sua passione: il canto; era infatti una bambina amante della musica, continuava ad esibirsi in piccoli concerti nel paesino dove abitava, però, man mano andava avanti con questi concerti, si sentiva sempre più affaticata. Allora sua mamma Marisa si sentì in dovere di aiutare la propria figlia, perciò si recò in ospedale per parlare con i dottori, ma loro non le diedero ascolto, perché c’erano casi molto più gravi da risolvere. Un giorno il papà di Emy, dopo aver saputo che la figlia stava male, tornò subito a casa dal lavoro; con sé portò un ragazzo con cui Emy avrebbe potuto giocare senza che nessuno potesse prenderla in giro. Con questo ragazzo, Mat, si divertiva molto, perché anche lui era cieco da quando aveva perso la vista in un brutto incidente in cui era morta la madre; ora era rimasto da solo con il padre e questo padre conosceva delle cure molto efficaci per diverse malattie. Il giovane però non sapeva che la piccola Emy avesse un tumore e allora non parlava mai di suo papà, altrimenti si sarebbe ricordato della madre… Un giorno Mat venne a sapere del male che affliggeva la sua amichetta, perché, origliando alla porta della cucina, sentì i genitori di Emy che stavano parlando del tumore al cuore e del fatto che i dottori non potevano curarla subito, ma solo più avanti… Mat disse loro: “Mio padre è una specie di dottore, sa molte cose sulla medicina.” “Allora cosa aspettiamo? Prendiamo la macchina e andiamo da tuo padre!” intervenne Marisa. Dopo qualche minuto di viaggio arrivarono alla casa di Mat… “Ciao, papà, ti ho portato una bambina con un tumore al cuore: la puoi curare?” chiese il ragazzo. “Non so, però ci provo.” rispose il padre. Emy intanto si era sdraiata su un lettino e il padre di Mat formulava delle strane parole… Poi disse: “Ma questa bambina non ha niente…” “Come non ha niente? Hanno detto i dottori che ha un tumore.” disse la mamma di Emy. “Invece non ha niente e, se aveva un tumore, ora è sparito!” “Come ha fatto a sparire?” “Credo che sia per la vista: quando una persona non vede, concentra la forza nelle altre parti del corpo ed Emy evidentemente ha riposto tutti i suoi interessi ed i suoi sentimenti sul problema al cuore, risolvendolo da sola.” Sembra incredibile, ma da qui nacque il detto: “Vedere con gli occhi del cuore”. “Senza cuore” di Ivana Xia
Questa vicenda è accaduta molti, molti anni fa, persino prima della scoperta dell’America! In una piccola cittadella inca infatti viveva un ragazzo di tredici anni, che si chiamava Yachimo. Aveva tantissimi amici, ma purtroppo aveva un difetto: l’egoismo; era così egoista che, se qualcuno aveva qualcosa che lui non possedeva, faceva di tutto per ottenerlo e, se aveva qualcosa lui, lo teneva soltanto e unicamente per sé. E fu per questo motivo che man mano perse quasi tutti i suoi amici e soltanto uno di loro restò al suo fianco: si chiamava Naiki ed aveva i suoi stessi anni; questo ragazzo era di buon cuore e, qualsiasi cosa facesse Yachimo, stava sempre accanto a lui. Gli anni intanto passavano e quando finalmente Yachimo e Naiki compirono i sedici anni, furono scelti per andare in guerra, in una battaglia contro un villaggio azteco. Dopo ore di cammino, i soldati inca decisero di accamparsi vicino ad un piccolo lago. I due ragazzi erano nella stessa tenda. Dopo qualche minuto, Yachimo chiese con voce sprezzante al suo compagno di andargli a prendere dell’acqua e, nonostante questo suo comportamento poco amichevole, Naiki senza ribattere andò al lago. Mentre il ragazzo prendeva l’acqua, gli si avvicinò un pastore; non si sa perché, ma a Naiki sembrava simpatico e dopo avergli parlato per un po’ di quello che gli stava succedendo, familiarizzarono, così il pastore gli regalò una foglia e gli disse che, se per caso fosse stato catturato dai suoi avversari e gli fosse stato tolto il cuore per essere donato al dio azteco (come succedeva a tutti i prigionieri catturati da quel popolo, per motivi religiosi), mangiando la foglia prima dell’espianto, sarebbe vissuto anche senza di esso, ma soltanto se lui fosse stato veramente una persona senza pensieri malvagi. Infine gli raccomandò di non darla a nessuno, soprattutto a chi avesse una mente cattiva, perché quella persona sarebbe potuta diventare persino un mostro! Arrivato alla tenda, Naiki raccontò subito tutto quello che gli era successo al suo amico. Dopo il racconto, nei pensieri di Yachimo c’era come un flusso negativo, come un dovere, il dovere di ottenere quella foglia ad ogni costo! E così nella notte di quello stesso giorno Yachimo decise di rubare la foglia, quindi litigò con Naiki e alla fine, senza pietà, buttò il suo amico nel lago, il suo unico amico… Come previsto, gli Inca persero la battaglia e furono imprigionati e presto fu tolto loro il cuore; allora Yachimo, prima dell’espianto, mangiò la foglia. Le parole del pastore risultarono veritiere e lui non morì. Purtroppo però era malvagio e così, senza il cuore, nella mente aveva solo pensieri cattivi e crudeli e, come un mostro assetato di sangue, cercò di uccidere chiunque incontrasse; allora gli abitanti, sapendo che era un pericolo per tutti catturarono quel mostro e lo uccisero Da quel giorno venne diffuso man mano in tutto il mondo il modo di dire “senza cuore”; così, se c’erano delle persone che sembravano senza sentimenti, con in testa soltanto crudeltà, fu loro attribuita l’espressione “senza cuore” e si disse: “ Sei una persona senza cuore!” Attenzione però, in tutto questo racconto non c’è soltanto una fine atroce, infatti Naiki è ancora vivo, perché al lago fu salvato dal pastore e pochi mesi dopo si sposò con sua figlia, Liviana, la donna più bella del mondo ai suoi occhi. Eh, già, era proprio un ragazzo fortunato! A proposito, sapete chi sono io? Sono io quel ragazzo fortunato… “Menare il can per l’aia” di Riccardo Zito
Un giorno, nella bella campagna di Way, un signore con appresso la moglie (entrambi erano sui quarant’anni), portava a passeggio un cagnolino. Sulla schiena la moglie aveva un piccolo zainetto e un cestello nella mano: essendo gracile, non portava oggetti pesanti, che toccavano al marito, molto alto e dotato di una buona forza. I due si fermarono come per fare un pic‐nic, ma la donna ordinò di andare a togliere tutti i sassi, mentre lei si riposava all’ombra. L’uomo, sempre costretto a lavorare, era esausto, ma continuava a lavorare senza mai smettere, senza perdere tempo. Ad un certo punto il cane si avvicinò a lui e incominciò a tirargli i calzoni per portarlo via dal sole cocente, ma lui continuava a togliere i sassi. Quando ebbe finito, la moglie esclamò: “Finalmente!”, con aria scocciata. L’uomo non disse nulla, ma, con tono da dittatore, riprese lei: “Monta il gazebo!” E aggiunse: “In fretta!” In silenzio l’uomo si mise a sgobbare. Una volta finito, mangiarono; quando l’uomo volle andare a farsi un bagno, lei lo fermò: “Devi sparecchiare.” “Ma se ho lavorato solo io…” disse lui con aria quasi seccata. “Non mi interessa!” rispose lei e si giustificò: “Io ho apparecchiato.” Egli ribatté: “Questo ruscello aspetta me e il cane: lavora tu adesso.” “Se non sparecchi, stasera niente cena…” L’uomo sparecchiò, smontò il gazebo e poi andarono via. Il poveretto era molto arrabbiato, ma si tranquillizzò il giorno dopo al lavoro. Lui sapeva che si sarebbe dovuto sorbire la moglie per due ore, prima che anche lei andasse finalmente a lavorare. Fece, allora, mezzora di straordinari, percorse la strada più scoscesa e lunga, ma mancava ancora un’ora. Arrivato a casa ebbe un’idea: dietro vi era un’aia, che la moglie odiava e di certo non si sarebbe neanche lontanamente sognata di andarci. Decise di sciogliere il cane e di menarlo per l’aia. Fece girare il cane fino a quando la moglie non se ne fu andata a lavorare e lui rientrò in casa. Facendolo tutti i giorni e raccontandolo agli amici,si diffuse il detto “menare il can per l’aia”, usato quando si vuole indicare il tentativo di qualcuno di perdere tempo. “Parlare come un
stampato” di Roberta Fattalini
Non lontano dalle ridenti sponde del Lago Maggiore, in località Trobaso, sorgeva (e ancora sorge) un istituto intitolato al famoso pittore locale Daniele Ranzoni, la “Scuola Media Statale Ranzoni”, per l’appunto. L’edificio, lungo e non particolarmente elevato, di una monotona tonalità grigio‐avorio all’esterno, ma coloratissimo negli spazi comuni interni, era frequentato da una popolazione scolastica assai folta. Tra i numerosi giovani, si recavano quotidianamente a svolgere il proprio dovere di studenti anche gli alunni della seconda C, una classe di diciannove cervelli ben assortiti… Un giorno, apparentemente non diverso dagli altri, entrò in aula l’insegnante di Lettere, una donna tanto imprevedibile quanto metodica: non si sapeva mai cosa aspettarsi da lei, che dal cilindro dell’esperienza scolastica, ormai vecchio di vent’anni, riusciva a tirar fuori consegne scaturite senza ombra di dubbio da qualche…pensata notturna. L’unica certezza, tuttavia, consisteva nel fatto che non mancavano mai! In quell’occasione la professoressa propose ai ragazzi la lettura comune di un racconto, che rappresentava un caso esemplare di origine fantastica di un noto modo di dire. La lettura procedette in tutta serenità nel silenzio generale e, alla fine, il racconto risultò di notevole gradimento. Come sempre, furono somministrati agli allievi esercizi domestici di comprensione e analisi, ma neppure in quella circostanza la docente si dimenticò di regalare loro un bell’ “invito alla scrittura”, solo che…questa volta la proposta era davvero stuzzicante: ogni alunno avrebbe scelto un modo di dire e, secondo il modello di racconto precedentemente esaminato, avrebbe inventato un testo etimologico rigorosamente fantasioso! Gli elaborati sarebbero stati letti successivamente in classe per condividere la comune fatica della stesura e la piacevolezza che certamente sarebbe scaturita dal loro reciproco ascolto. Per questo la donna si raccomandò di curare molto la forma, cioè di non “parlare” come in genere avviene in contesti orali quotidiani alla presenza di coetanei ovvero di famigliari, ma di esprimersi al contrario “come un libro”, meglio ancora, aggiunse in tono scherzoso, se “stampato”. I ragazzi presero sul serio la proposta e non si risparmiarono, al punto da creare tutti, nessuno escluso, piccoli gioielli letterari molto apprezzati innanzitutto dall’insegnante, che, ritenendoli meritevoli di attenzione, decise di valorizzarli conferendo loro una veste informatica in grado di farli “parlare come un libro (forse in futuro) stampato”. Da allora, il modo di dire “parlare come un libro stampato” sta ad indicare l’abilità espressiva di chi, come gli alunni di quella famosa seconda C, sa trasmettere con particolare efficacia il proprio pensiero creativo.