TRE TEMPI, UN RACCONTO

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TRE TEMPI, UN RACCONTO
TRE TEMPI, UN RACCONTO
LARA LUCIANO
NOVE BESTIE
I.
Amo te, proprio te, le tue pieghe della pelle tra la base del collo e la clavicola.
Amo quel tuo venirti a riprendere dentro di me ciò che è tuo e amo quel dolore che questo furto provoca.
Ti ricordo e ti tratteggio, ti ripercorro sulle linee dei miei palmi, ridisegno le anse lucide del
serpente dei tuoi capelli, le tue rotondità che si incastrano sui miei spigoli.
Ti aspetto costantemente; quando non sei con me attendo con dispetto il tuo riportarmi anima
e corpo. E alla tua presenza sfido il battere del tempo perché anticipi i tuoi gesti futuri. Se mi
sfiori impreco perché questo tocco diventi abito, pelle, sangue.
Mi innamoro di quegli scorci di me che incornici negli archi di trionfo sulle mie resistenze,
sulle mie nausee.
Amo te oltre ogni perversione, oltre ogni pensiero dissoluto, di un amore indecente, che oltraggia ogni pudore estratto a comando davanti all’incompreso.
Amo riconoscere il mio bisogno di te, l’abisso della tua ombra che si allontana, l’imputridire
divenuto olio profumato di mirra. Questo, che è solo darsi e essere presi, senza la superbia di
uno scambio, senza l’indecorosa pretesa di essere dono.
Indecente, sempre indolente alla casta sembianza dell’amore lecito e ammainato.
Lo vedi anche tu, amore mio, che siamo al di fuori.
Guarda, mia lacrima, il foglio bianco dell’universo che ci incarta. Guarda l’arazzo
dell’equazione che lo decora: tutte le leggi del mondo; la traiettoria del sole che sorge
e svilisce sempre lungo lo stesso binario, meridiani che si incrociano con paralleli di
distanze costanti, sempre; il salutare, ringraziare, congedare, rispettare che lega gli
occhi abbassati con i cappelli di uomini sociali.
Osserva bene questo insieme di segni, anzi di simboli e dei loro referenti solo apparentemente molteplici, questa frase mai allegorica, questa libertà letteraria censurata
entro tavole periodiche.
Guarda a quegli individui numerici che si governano con giudizio sillogistico, si uniscono in copule di perfetta concordanza per genere e numero, in costrutti perfettamente coniugati. E se lo fissi un po’, amore mio, vi scopri grafici perfetti in cui misurano la dignità dell’esistere e del morire.
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Amo te, e ti vengo a riprendere, perché sei cosa mia. Ho riscattato il mio diritto di possederti in quel deposito di viscere che mi hai espropriato. Vengo a richiederti il mio velo di
vergogna che hai disfatto filo per filo mostrandomene trama ed ordito.
Amo l’idea di guardarti invecchiare, imbiancare, impolverare.
Ma vedo in questa equazione un decadere in tappe di vita ricorrente; vedo passeggeri
con la stessa ruga di salvezza segnata sul loro viso dal medesimo viaggiare, sostare,
ripartire.
Percorri con me, mio intestino, le parentesi di questo algoritmo dell’innocenza e del
candore, della giustizia e delle virtù.
Precedimi spalancando le sommatorie di leggi ordinate in cristalli, in diamanti di perfetti legami al carbonio. Rabbrividisci al loro trascinarsi stridente sulle pareti delle
graffe estreme di questa follia algebrica e idiota.
Amo il tuo buio, l’oscurità che mi spennelli attorno, il nero del tuo rifugio di coperte
pesanti da mettere sugli occhi, sui piedi, sulle spalle.
Ho scoperto di amarti nel desiderarti accanto ad aggiungere la tua orma sull’argilla morbida
del riposo.
Non vedo esplosioni di questo desiderio nella catalogazione delle emozioni bastarde e
concesse.
E questo Dio che fa da punteggiatura: sospende, interroga, chiude. Questo Dio e la
sua legge scritta nei cuori di questi fattori a cui dà nome, luogo, tempo di comparsa.
Il Dio che dispone l’amore come un vetrinista di atelier di lusso, alletta ricordando
che è merce di pochi o, peggio ancora, che pochi soltanto ne sono esclusi.
Ti chiedo, mio polso, di domandare a mio nome quale padre devo testimoniare, quale
divino filosofo immortale devo onorare per avere creato un sistema di armature perfette e cromate dal quale siamo stati buttati fuori come risultanti non previste, anzi,
perdonami mia disgrazia, errate.
E non posso non amarti, di un amore che sta a guardare, sospeso come respiro che non
sfiata, costretto a farsi deglutire e a soffocare sul fondo.
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Perdona il mio amore che ci ha denudati, che non trova sinonimi, che si ripete, cacofonico. Perdona questo mio amore avventato che ti ha ferito senza essere in grado di
medicarti, questo fiele amaro che ti ha bruciato la gola e la voce.
Dimentica le leggi che ci siamo dati e quelle luci che abbiamo creduto illuminarci.
Dimentica se puoi e se un giorno vorrai cercarmi, vienimi a scoprire tra le matricole
di questa frase numerica, dentro queste parentesi. Ma non scrutare nelle cifre piane
dei mediocri o negli apici degli esponenti virtuosi, riconoscimi come pendice al di sotto della riga, come zavorra posta a ricordare a qualche variabile il peso e il rischio
del caotico rimescolarsi di teoremi e assiomi.
II.
Sei sceso con me sulle scale mobili della metropolitana. Un istante di distrazione e il
tuo braccio già lega i miei fianchi. Anonimo. Per tutti gli altri sconosciuto. Eppure tutto di te
riempie il mio gradino che piano si inabissa sempre di più. La mia valigia. Sola con altri pochi
sto sui binari della stazione senza bagaglio, come chi accompagna, come chi attende. E tu che
fai? Vieni o parti da me?
Mi sento forte senza di te, raddrizzo le vertebre e tendo la schiena, alto il mento, nessuna occhiaia da notare, da compiangere. Procedo, evito il mio riflesso nelle
vetrine dei negozi, scampo i tuoi occhi che sono ovunque, anche nel sorriso bianco e
osceno di questo manichino vestito di rosa come un viados.
“Una storia per voi, fratelli viaggiatori, una favola per voi.” E’ un pazzo, non sente
l’odore solforico che effondono le sue fiabe immerse in questa provetta acida a porte
scorrevoli. Anche il mio ‘ti amo ’ esala la sua anima fumante. Fanno lo stesso i fiori
messi tra le mani delle salme quando vengono riesumate dopo anni di asfissia.
Sei il mio baule di cartone, tenuto insieme da spago di ragnatela che si sfilaccia ovunque, stretto stretto perché non si sfasci. Sono pronta ad imbarcarti, a spedirti lontano, per terra
e per mare. Sono pronta a guardare dinoccolarsi le vetture di un treno merci che si allontana
portandosi tutta l’aria che ho attorno, creando il vuoto, il nulla.
Sono grande senza di te, fanculo al mondo se lo sono. Posso fare l’alba senza bere,
senza rimettere, senza rovesciare la bile su qualche marciapiede. Non sei me. Io non
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sono te. Esisto completamente formata, sviluppata. Esisto e tu no, non più. Se mi sfinisco girando a vuoto non cerco la piega del tuo gomito. Cammino fino a quando il
fianco mi implode, sudo e sono viva. Fanculo, non mi servi. Fanculo.
So dove posso trovarti, vederti. Ti incrocerei senza rivolgerti parola, senza darti nulla
dei miei iridi. Posso avvertire che ci sei dalla mutazione del campo di forze in cui sono impigliata, dal buco nero che ad un tratto risucchia il flogisto dal mio stomaco. Ti passerei dietro
le spalle per sentire se profumi sempre di borotalco, per scostarti i capelli dalla nuca e ridere
del tuo collo così breve. Conoscerei i tuoi pensieri dal numero di volte che ti gratti la testa, dal
brillare o meno del sudore delle tue mani. So dove venire a sedermi per avvicinare il mio ginocchio al tuo e per scostarlo, con pudore.
E quando dopo questa vita, trascorsa a camminare nei guadi per nascondere le tracce e l’odore, quando ci incontreremo lì dove le acque stanno sospese, quando le cicatrici si ricamano tutte insieme, ti guarderò finalmente negli occhi, fino in fondo, fin
dove le immagini stanno capovolte. Non sarà necessario temere, non servirà. Potrò
amarti e invischiare il mio amore in quello che sarà attaccato ovunque. Potrò tacertelo e dirtelo sempre: se non esisterà tempo, quale altra legge varrà ancora?
Questa scala è eterna, siamo ancora qui a scivolare piano verso il basso. Sei tornato dai
tuoi musei, dalle tue esposizioni esotiche, dai tuoi scavi che ti ingrossano le braccia e ti anneriscono la faccia, come un minatore qualunque. Hai le ciglia piene di polvere egizia, sulle palpebre un velo d’ocra degli orti del deserto. Nell’angolo interno degli occhi la lacrima di ogni
donna riconosciuta come amore.
Ecco l’ultimo gradino. Muori tra gli ingranaggi, come in un tritacarne. E porta le mie cervella nei cunicoli della fogna di questa città che sa di piscio e marijuana,
insieme a tutto quello che la gente non riesce a trattenere. Dimentica. Dimentico di
avere un anello di un fidanzamento che è solo lamento, strascico di un velo perfetto
portato senza grazia, senza prole. Non ti darò il cognome, non mi darai il tuo, rami
senza possibilità di innesto, embolismi vacanti di senso uno nell’altro.
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III.
Voyeurismo nell’amore degli altri, dei manifesti e delle passeggiate nel centro. Voglio
salvarmi anch’io, essere bella per sempre, esorcizzare la solitudine che sforma i fianchi e il
mento. Guardo. Fisso e passo nel mezzo di coppie sul marciapiede forzando le loro mani a
slegarsi, a farmi giustizia.
Mani, mani, mani. Che farsene di mani e di braccia che non si intrecciano intorno al collo di nessuno? Non si congiungono più, nemmeno. Dita utili solo a portarsi i capelli dietro l’orecchio. Non si abbraccia un tabernacolo, un mantra, un’arca,
una sura. Non culla un paramento, non dà dimora un confessionale. Figli e gigli non
stanno nei vasi di gerani dei sottotetti tra angeli di cartapesta.
Epifania della verità, tutta intera. Non si impara, si sopporta, si sostiene. La si rincorre
mentre si dà alla fuga tra le gambe della folla beghina in processione, scappa da qualche pensiero maldestro, che è sfuggito e che domanda. Tutta intera, mica in razioni. Da buttare giù fino in fondo, da farci indigestione. Prendere o lasciare, dentro o fuori. Ma prima viene la persona, innanzitutto la persona. Antropologia al neon, lemmi improvvisati per uomini assenti.
Gloria all’uomo, carnevale di buona volontà.
E gloria a Dio nell’alto dei cieli, che qui c’è stato per poco, con uscita ad effetto. E beati i miti che erediteranno la terra, miti come i buoi che sui campi ci lasciano
la lingua. E finiscono per chiamare sorella la morte, gemella la foiba.
Capire e dare senso. Far convergere e vedere il punto di fuga. E tu, amore mio, mi rincorri per darmi il tuo. Ma fuggire in te appare d’un tratto aporia indesiderabile. E se appoggio
la schiena sperando di incontrare la tua, gli occhi miei in direzione opposta e un amplesso impossibile, ancora e sempre. Legge naturale che le bestie ignorano solo perché incapaci di immaginare una simile casistica; niente assurdo in ciò che è creato e non esploso inavvertitamente tra i guanti scuri di un mostro blu universale. Mi insegni la pazienza, mio patire. Quella
che tu impieghi per riordinare la sabbia di un giardino bonsai, possa io investirla nella ricerca
dei trifogli carnosi della mezzaluna fertile. Ci sono dedizioni ammirevoli e fedeltà che guadagnano il perdono o che persistono perché già redente. E se esiste redenzione capace di parlare
d’amore senza inferni di carne, allora che esista anche carne capace di redimere l’inferno
dall’amore, carne e sangue disarmanti ogni inquisizione.
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Ma, amore mio, quale perdono può salvarmi se la tua ferita verde e livida mi
marcisce davanti?
IV.
Ti chiedo cosa sia bello.
Quali superfici della nostra storia bianca ritieni degne di essere riempite delle tinte della bellezza?
Mi accusi di dogmatismo, ed hai ragione. Fisso la mia perfezione e la perfezione di me e perdo i sensi nello sforzo di renderle vere, con le vene gonfie e dure. C’è
un bello che è compiuto e che non si lascia partecipare dalle opere di chiunque, non
tutto porta la sua scintilla. E trascorro la mia vita nell’imitarlo sperando di raggiungerlo. Quando sarà mio, io sarò lui e nulla potrà negarci, respingerci, non riconoscerci. Se il mondo intero fosse prisma che frammenta il suo fascio nelle fiamme di
tutti gli esistenti, se ogni realtà godesse della sua emanazione, allora tutto diventerebbe confuso, appeso agli sproloqui di esteti improvvisati. E il mio sforzo sarebbe vano,
il giudizio di un qualunque critico riccioluto perso in una giacca demodè sarebbe in
grado di dirmi la mia bellezza, o la mia mostruosità. Sarei allora persa, più di quanto
non lo sia ora.
Sola paura, mi insulti. Sì, amore mio, ho paura. Ma non di quello che tu credi: la coscienza, la fede, la gente, l’inferno. Il timore piuttosto che vivono coloro che si sentono invecchiare e che inorridiscono all’idea di ritrovarsi ingialliti, raggrinziti, cadenti.
Temo di dovermi un giorno sopportare come una presenza della quale non sono riuscita a liberarmi. Devo lottare per quel bello, almeno lottare. E ho la maledetta angoscia di perdere.
Abbiamo mutilato il modello a favore delle nostre escrescenze informi e deformi, abbiamo azzardato un trasformismo improponibile per decenza e odore.
La mia tintura la stendo su quelle zone di sicurezza che le tue braccia circoscrivono; il
mio bello, nel nostro dialogo di vita, è il mondo da cui mi porti via per guardarlo da lontano,
al riparo. Fuori da quell’universo smetto di essere io, smette la mia storia, si riposa il tempo e
il suo degenerare. Amo questa bellezza e amo te che ne sei cavaliere, investito con onore da
chissà quale corte.
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Ma vorrei dirti ora che non mi importa più dell’estasi di una bellezza umana e che ho scoperto, da poco, quella dimensione morale in un cui il buono si sostituisce allo strazio del bello. E
allora, come noi, anche lo scudo rigido e mortifero di uno scarafaggio riempie le stanze della
sua grazia indossata con incoscienza e intelligenza. Come noi, la falena notturna non retrocede davanti a nessuna farfalla. Come noi, lo scarabeo rotola la sua palla stercoraria mentre il
bruco tesse attorno a sé la sua crisalide.
Ma la loro avvenenza, ormai mistica, è la consegna di una mano che ha operato secondo un pensiero di bene. Quale pensiero si potrebbe presumere come buono se
capace e desideroso di depositare un’opera di fattura così cattiva, come noi?
V.
Di nuovo accanto, sull’autobus fermo al capolinea. Vicino a me una ragazza con il viso anziano, già qualche capello bianco che nulla riflette dell’argento senile. Forse torna a casa
da una giornata di lavoro, ha scarpe eleganti ma non vezzose. Chi l’attende di certo non si deve prendere troppa cura di lei, forse vive sola. Più indietro una signora dai capelli sporchi e
mal raccolti ha lasciato cadere tutta la sua rozzezza sul sedile, stringe la busta di una grassa
spesa tra grasse dita con grossi anelli. Poi un paio di ragazzi. E in fine, dalla porta anteriore,
una figura sottile, bruna di carnagione e capigliatura, viso delicato e intenso. Spalanca gli occhi come a voler intercettare ogni pericolo imminente nascosto tra le fila dei seggiolini. Fissa
il posto di fianco a me, ma poi cambia idea.
Ha avvertito il mio nervosismo, ha inteso che non avrei ceduto quel sedile a nessuno.
La tua testa sulla mia spalla sobbalza e colpisce la mia clavicola.
Mi manchi, mi manchi da morire. E se ti avessi vicino ora, la ragazza anziana
smetterebbe di gridarmi di non essere diversa da lei. Mi ci vedi tu, con la ballerine ai
piedi e una sciarpa rosa svilita? Ti indico con lo sguardo e le faccio presente che io
sono amata, e questo è sufficiente a distanziarci di generazioni. Lei appartiene alla
madre ansiosa e al padre in pensione. Io invece non sono di nessuno se non di chi, venuto da lontano, abbia il desiderio di rendermi sua. Tanto basta, ma ancora così poco,
per farsi trattenere dal vuoto di bisogno che mi sono creata, o che mi è stato dato.
Strana consegna.
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Scendo alla mia fermata, da sola. Ti guardo spiarmi dal vetro mentre una signora con
buste di boutique si siede su di te e ti schiaccia. A presto, mia dimenticanza.
VI.
La portiera con il cane di qualche attico di lusso ricambia il mio sorriso. Si deve essere
compiaciuta di un momento insperato di comunione con un essere desideroso come lei di risollevare una giornata già organizzata in mezzi inchini e mezza cordialità. No, il mio è un sorriso aperto, di quelli che corrugano le guance e stringono gli occhi, che conformano a quelle
linee che solo i vecchi hanno. Ti rido in faccia e ti sputo addosso tutta la mia leggerezza di
oggi. Ricambia pure se vuoi, oppure abbassa lo sguardo meravigliato e arrossato per tanta
confidenza. Ma non provare ora a sentirti parte della mia gioia, perché mentre tu domi il tuo
bassotto come se fosse un destriero, io mi riprendo tutto il mio amore che ho sparso nei miei
quartieri e che sta tra i vapori degli alti soffitti delle cucine affrescate con le gesta epiche di
marmitte ribollenti.
Camminando in discesa il vento mi veste di quelle impronte di me lasciate nella nebbie di certe ore non proprio così lievi. Ore di certo assolte, ma pur sempre morte. Ed io li prendo al volo, questi abiti di pregiata manifattura, la mia. Nulla deve rimanere in circolazione, nulla deve
andare smarrito di quello che ho perduto un tempo.
Lo vado cercando passeggiando con la fronte alta nei vialetti e nelle piazze. Lì mi sedevo, lì
mi appoggiavo, lì giravo per poi discendere. Lì deve esserci qualcosa che di certo ho lasciato.
E se guardo il cielo, respiro più profondamente possibile, così da farlo passare tutto nella dialisi dei miei polmoni. E se non fossi impermeabile, non dovrei bere tutta l’acqua della terra
per riprendere quello che di me ho lavato e strofinato.
Amore mio, verrò anche sotto il tuo portone. Non scappare, ma lasciami fare.
Fammi salire quelle scale ripide, rese ancora più sinistre dal continuo sbattere del
portone rotto. Non ti spaventare se avrò il sopracciglio ironico, sollevato con il labbro
superiore. Riderò per far risuonare la mia voce nel tuo corridoio, rombo di una furia
che sta per arrivare, tardi per fuggire. Aprirò le ante dei mobili e spolvererò le mie
cellule dal compensato a buon mercato, frugherò impensabilmente anche nella credenza e nel cestino del pane. Poi fisserò lo sguardo su di te e imporrò le mani su tutto
quello che di mio ancora vive tra i tuoi pori. Ritornerà a me, abbandonando solo la
sua orma gassosa. Ti lascio il fossile, mi porto via la bestia con tutti i suoi denti e le
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sue nervature. Vengo a riprendermi una vita che non avevo da dare e che mi ha costretta a indebitarmi con la mia speranza. Non ti priverò di un dono fatto ma mi risarcirai di un furto che ha infierito su un forziere vuoto e già scardinato. Non abortirai il
mio embrione perché non avevo gameti da far unire nel tuo addome. E se sarà necessario, sono pronta a vederti piangere e non capire; se sarà necessario, sono pronta a
mietere anche quella radice che filamentosa si aggrappa alla tua camicia, quel tubero
di cuore violentato e baciato.
Ridi tra i fiori ingialliti del tuo grembiule da inserviente, ridi con la paletta e il sacchetto per gli stronzi della tua belva cotonata. E mi riprenderò anche questo mio sorriso, il tuo istante di vita.
Perché vedi, amore mio, non c’era vino alle nostre nozze, e gli unici ubriachi
della solennità eravamo noi. Non c’era vino e nessun sommelier attento al suo rosso
scarso e acidulo. Non c’era vino e neanche giare da riempire ancora, nessun invitato
esperto in miracoli. E quei vasi per la purificazione delle mani dallo sporco della
strada e delle brande sono rimasti vergini, inviolati dagli storpi e dai sordi che accorrevano ad una festa per folli. Come roulette russa, ogni giro di valzer ha attentato alle
nostre tempie, ha spuntato i compassi di una barca calata in mare verso nessuna pesca miracolosa. E quell’amore dichiarato ai nostri sguardi reciproci e beoni, è caduto
sulle piastre di marmo del salone, precipitato di tanti pensieri che seccano la base
della lingua. E quell’amore vorrei asciugarlo ora con le ginocchia a terra e passare
un panno che lo raccolga e che si faccia sciacquare in quei vasi di acqua pulita, per
dar loro quel riflesso ematite che i delinquenti hanno dietro le orecchie e sotto le unghie.
VII.
Fedeltà di chi è infedele per natura. Sì, perché è questo che sono, con responsabilità o
meno, non conta. Se ho pensato di tradirti? Certo. Mi sono guardata intorno e ho visto come
profanare i tuoi limiti nelle innumerevoli bellezze di passanti. Bastardo l’amore come bastarda
la mia nascita. Condanno a morte chi amo dal patibolo di chi mi ha cullato, dondolandosi dal
proprio cappio.
Ecco cosa significa l’elemosina, mio obolo. Mi disgusta vederti implorare il mio tempo. Io
invece, niente abiti di seconda mano e niente mensa dei poveri. Ho lo stomaco pieno di vermi,
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per la rabbia, per la fame. Mangio semi di girasole e sono sazia. Questo mi basta, nessuno ad
imboccarmi, nessuno allattava. E tu invece pesti i piedi se non hai l’esclusiva del mio risveglio. Neanche immagini con quanti pensieri ho già fatto l’amore prima di sfiorarti l’angolo
della bocca.
E non lo conoscerai mai. Cosa sai di me veramente? Cosa vuoi di me? Quel
poco che mi si scrosta di dosso e che raccogli con cura; oppure quel rigurgito di esistenza che sta dietro le quinte e che ribolle ? Perché tutto è semplice quando si ama il
fondo di una miscela.
Di un cavaliere l’amore per l’armatura non è che amore per l’aborto delle sue paure.
E per amore e per aborto si può morire allo stesso modo.
Ma io conosco la tua carne, sta dietro la maglia metallica sotto la corazza. E non si
può essere fedeli alla pelle che cade sovrapponendosi in drappeggi rosei sui fianchi e
alla base della schiena. Non si può se, come noi, si sta in difetto di illusioni.
Fedeltà chiama tempo e tempo invoca mondo.
Ma non ho da darti né tempo né mondo. Ti do quello che ti prendi e che ti pare bello. In realtà
non ho esattamente idea di cosa tu abbia in mano di me, dal momento che non leggo ancora la
carta delle mie terre, quasi come un’ereditiera che lascia coltivare campi non ancora accertati
nel testamento. Comunque mi tengo il solco tra le sopracciglia che tanto ti irrita.
Posso però dirti cosa non ti ho ceduto. Potrei indicartelo, ma ora non ha più
senso. Non importa più. Si conosce per similitudine. Quello che non hai visto è ciò che
non sei. Quello che non hai intascato è ciò che mi hai lasciato da gestire e da addomesticare in solitudine. Ti tradirò di certo. Con tutti coloro che si spaventeranno
all’abbaiare di quel cane che ho in gabbia tra le costole e che cercheranno di accarezzarlo.
Ti lascerò guardarci andare via in tre: io, lui e il cane. Lui che ha sentito l’amore famelico lanciato nella caccia prima del letargo dell’abbandono. Ci vuole davvero poco
a conquistarmi, è sufficiente una scorta abbondante di grassi e legumi, di legna da ardere, di un qualunque combustibile.
Quindi lascia ora quel ghigno di sicurezza arrogante. Quello che non ti ho dato è infinito, tanto immenso da essere un’altra esistenza che cammina senza assicurarsi alle
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tua giunture. Non assolvermi adesso perché la mia colpa è falla di struttura, non sarai tu il mio battesimo. Pensavi volessi la tua salvezza?
VIII.
Non ti irrigidire ma guardami. E nota quanto siamo simili. Tanto simili che sfiorandoti
sento le mie forme e mi soffermo a massaggiare le mie contratture. Come puoi non vedere,
non comprendere? Cosa possiamo concederci se non intravediamo il telo trasparente che avvolge il nostro corpo, stretto con forza perché le giunture non si sloghino? Sei diventato il mio
tumore. Non ti disgustare. Ogni moribondo alla fine finisce con il riconciliarsi con il proprio
male, parla con lui per convincerlo ad andarsene. Riconosci che siamo uno anomalia
dell’altra, che qualcosa un giorno è andato storto, storto come questo amore che cerchi in tutti
i modi di livellare con il profilo di un ventre gravido.
E se non riesci proprio a tornare indietro nella tua storia, se hai deciso di venderti alla follia di una commedia che ti ricatta fino a patteggiare sui ricordi, sui volti,
sui dolori, se ti prostituisci per pagare un debito mai contratto, indugia pure in questo
bazar di spezie e di aromi, e respira fino a bruciarti i peli del naso. Resta e fingi di
giocare all’eroe in battaglia contro l’impossibilità di essere ora.
Amore mio, sto partendo. Non sono eroe, non sono re. Sono vergine pronta a stanare
e ad accoltellare il destino infame di uno ius primae noctis, pronta a decapitare fin
dalla giugulare ogni pretesa porporata di deflorazione che ha tolto la differenza in
ogni sguardo all’altro. Non afferri? Ogni volta che violerai la legge di un rapporto,
non potrai non riconoscere che la ferita tanto profonda non si farà scrupoli nell’usare
ogni tipo di cellula per rimarginarsi.
Ed io ho usato te, che non sei né piastrina né cicatrene. Ma donna, donna in ferita di
donna.
Rigetto di tessuti.
Che male fa ora chiamarti per nome.
Potesse il corpo non esistere. Potesse la finale dei nomi non accentare il sesso. Utinam.
Ma la dieresi cade proprio lì e non può non tintinnare. Campanello che segna trascendenza e
devianza. Potesse il nome smettere di essere ricettacolo di epiclesi sul mio tetragramma blasfemo, scritto sugli stipiti di tutti i bordelli sacri.
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IX.
Ti lascio stillarmi addosso tutto il tuo libero arbitrio, tutto il tuo libero amore, il tuo
scegliere.
Mi riprendo il silenzio di un saccone appeso con i moschettoni alla ferrata di un sentiero di
cordata. Sto appesa qui, mentre il gelo fermenta il muco dei polmoni.
Ti stancherai di attendermi a valle e ti sfinirai nel deridermi e nell’insinuare il mio martirio.
Finirai per andartene per non impazzire nel non vedermi cedere, per non mentirti ancora sulla
mia debolezza.
Senza presunzione sacrificale, dormirò in vetta nel tumulo di strati termici e sorriderò a chi di
tanto in tanto poggerà il palmo caldo sulle mie orecchie, e accoglierò chi vorrà farmi compagnia leggendomi di sé e del mondo laggiù.
Ti rendo la tua storia che avevo preso come caparra del nostro tempo insieme.
Non hai obblighi nei miei confronti. Quando mi avrai perdonato, innamorati ancora,
cercando occhi di colore diverso e pronunce di suoni differenti. Scegli per te ti chi avrà già consegnato uno dei suoi ventricoli. Fa’ l’amore nei suoi anfratti e poi esci con
lei tenendole la mano.
Ti guarderò velandoti di nebbie per non vedere le tue gioie. Mi contorcerò di gelosia
nauseante e forse, per la prima volta, saprò piangere per te. Lo farò quando si sarà
ormai riavvolta del tutto su di sé la cute degli organi che ti avevo disteso addosso. E
allora sarà pianto che non ti riguarderà più in nessun modo. Lo confonderai con
qualche guaito di cani randagi, e ne avrai tenerezza.
Guarirò da te e dal batterio di cui ti sei nutrita nelle colture delle placche sul fondo della laringe. Risanerò la mia memoria e la laverò dal disprezzo e dal rancore, sostituirò le colpe
con le cause e le cause con le storie. Non ci sarà dolore se non quello di saper gustare il cibo
più dolce ma solo nelle sue manipolazioni. Senza ingenuità mi riconoscerò fragile ogni volta
che ripiegherò su me stessa per tamponare il vuoto di donne e di amore.
Ma non saprai mai della mia ridiscesa. Quando tutto si farà insopportabile tirerò questa corda che mi sospende sulla morena. Se lo spago non è altro che il grossolano intreccio marcio di qualche rosario, mi guarderanno precipitare, sbattere contro la parete e fracassarmi la testa su qualche roccia di biotite.
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Da tutte le miniature di mitologie manoscritte nove bestie si avventeranno su di me e
pagherò loro il mio debito di carne e midollo che non potrò più risarcirti. Nove come
le dita che sopravvivono al vortice di una sega, come i diamanti di una corona incompleta, nove come i giorni della finestra di fertilità di una donna, nove come gli anni di
carcere per concorso in stupro, nove bestie come nove licheni che si saziano dei cadaveri.
Se è vero invece quello che si racconta nei rifugi, che ogni sopravvissuto in montagna
si è salvato perché assicurato con un filo invisibile infilato nell’elastico delle mutande di lana,
se l’esperienza secolare vorrà accogliermi tra i suoi aneddoti, allora vedranno il sacco cadermi
dalle gambe e mi osserveranno in equilibrio sulla rosa dei venti. Bella – notizia.
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MAGABIT
(il tempo dell’erba)
Zig zag sotto il culo. Il jeans troppo liso fa passare il disegno regolare dal marciapiede alla pelle. Ho l’osso sacro gelido, ma quello stronzo si è portato via tutto, anche
quello straccio di plaid, luridume e cicche di sigaretta compresi. Pazienza. Che ore sono?
Tardi, tardi. Corri bello. Bella la borsa. Finta pelle? Tranquillo, fa la sua figura; la borsa,
non tu. Tu no, gruccia vestita da commercialista. Corri, corri con il culo caldo di piumone.
Sette e quarantacinque. Cartella verde sotto la tettoia delle sopracciglia foltissime. Un
quarto d’ora, tra la fermata davanti all’edicola fino al ministero. Un’eternità. Le pratiche
da firmare, il fazzoletto bordato di blu nella tasca interna della giacca, di quelli a poco
prezzo e il ricamo a punto pieno dell’iniziale. Pulito di un bagnoschiuma neutro e due
gocce di colonia che tanto le piace, da sempre la stessa. Senza tradimenti o nuove fragranze. Premio di fedeltà. Attraversi all’angolo, davanti al fioraio, obbligato dal semaforo all’odore della magnolia. Nove passi esatti sul rullo delle strisce pedonali. E poi svolti
a destra. Che combini adesso dietro l’angolo? Forse hai tolto il soprabito e cammini sulla
fascia bianca al centro della strada, con le braccia aperte in equilibrio sul vuoto nero
dell’asfalto. Passi con il mento diritto tra i palazzi, tendaggi colorati che ti si gonfiano attorno per quel vento che dal fondo ti piomba addosso. E il profumo del mare e del petrolio neutralizza il tuo odore e il tuo fiato. Forse pensi e finalmente tradisci. Oppure rintroni di vuoti e piangi le tue piccole sicurezze di pasta di sale colorata dei centrotavola nei
pranzi in famiglia. Invece ricompari e ti gratti l’orecchio. I pollini di magnolia e la tua allergia alle otto meno dieci.
Fame. Maledetto come tutti gli altri becchini. Se almeno mi avessero condannato; avrei chiesto minestra e linguine e le avrei sentite ribollire ancora nello stomaco sopra la
fiamma del rogo imbandito per la mensa di streghe. Stregoneria è comunque il risalire
degli acidi dello stomaco. Se mi avessero esiliato, li avrei asciugati con la segatura rimasta da un’ocarina intagliata a tempo perso. La lingua invece non si stacca dal palato e in14
crocio gli occhi tra il bianco e il nero delle piastrelle che confondono le dimensioni in
cubi concavi e convessi.
***
Otto e venti. Sono magro quasi come te. Arrivi come si avvicina un faro a cui si va
incontro su una lingua di terra lagunare, alta e nera nel piumino in cui si avvita la lampadina della tua testa incappucciata di rosso. Ci coordini tutti nell’intermittenza del tuo
comparire tra la gente che s’increspa ai lati della strada. E mentre scorrono quei sedici
secondi esatti che dividono il nome sanguinolento di un vecchio monastero dalla nuca
rasata che esce indenne dal rasoio di un barbiere, tutto ondeggia sotto la boa del tuo berretto di lana. La mattonella rompe l’attracco dal cemento e ruota, zattera di marmo sul
corallo delle vetrine. Otto e ventuno. Cali a picco nel mezzo dell’incrocio ed io getto la
zavorra nel porto di nomi ai piedi di un citofono.
Lo ricordo bene il campanello fuori dal mio portone. C’eravamo segnalati tutti, pure il
cane. Aveva un suono maldisposto, più simile ad un allarme e profondo come un organo,
con le canne d’ottone fin nella mansarda. Forse si scappa di casa proprio per sfuggire
l’insopportabile sfilata di anime pronte alla comunione di uno spazio non riassettato, il
salotto e l’umore. A me è successo così quando ho posto fine ad uno jodel di sorrisi al
zelten e karkadè.
***
Dieci e sette minuti. Dov’eri? Ti pensavo in permesso. Le occhiaia di ieri sono ancora
più livide. Hai una ruga nuova tra i drappeggi della fronte. Come te la sei data? Chiami
con la fessura degli occhi ciò che ancora non esiste o fissi gli incarti del tuo deposito per
richiamarti i contenuti? Hai le orecchie a punta di chi si chiama Tilde. Ti volti come a
scappare e a rincorrere insieme. Come un ubriaco, vedi benissimo e ci descrivi con arguzia le immagini pastello che ti chiamano ma non ricordi quanti bicchieri ti distanziano
dalla sobrietà. Altro giro, altro girone di dannati, con Caronte che ride da un filobus sulla corsia preferenziale. Tilde, dama in guerra al rintocco delle dieci e un quarto. Guarda
avanti, donna d’armi, e vi vedrai l’inizio.
15
Fissavo avanti e sempre più in basso dal ponte sul fiume. Quindici metri d’aria e una
sfida agli angeli di Dio. Fissavo l’acqua verde e cercavo la diga di quel fluire di assurdità
e sensatezza che dal cervello mi scendeva lungo la colonna dorsale. Nessuna scala con
serafini di soccorso. Sono rimasto vivo per l’inganno vigliacco della luce che rifletteva il
mio corpo e la scenografia alle sue spalle e che mi spaventò con l’idea di farmi morire in
ciò da cui sfuggivo. Mi sono gettato all’indietro, in una buca profonda del letto del fiume, affondato come in un sofà e il cielo che si faceva sempre più lontano. Ho sperato di
morire con il blu negli occhi. Vivo con il bianco sporco e nuvoloso dello smog nei polmoni.
***
Monì, Monì, ti aspettavo. E nell’attesa ho combinato insieme quattro lettere per poterti un giorno chiamare e verificare se ti stanno addosso, una per ogni arto, oppure se
scampanellano sorde ai tuoi orecchi. Din don delle undici meno venti. Hai la testa rotonda, tamponata tutt’intorno di un candore dalle venature gelide. Scendi da nord e ti sei
appiattito, seguendo la linea del meridione che declina lento, di una dolcezza afosa e paglierina. All’inizio stavi sul marciapiede, abete tra pini marittimi; ti sapevo vicino dal
triangolo verde muschio sopra la coltre velluto di chiome allungate e sottili. La città del
tempo, che livella i suoi colli con i tetti contigui e orizzontali dei palazzi, cammina su
ascisse che dallo zero scendono sempre più verso l’asse delle sue condutture sotterranee.
Niente dell’ascesi di montagna che costringe ad allarmare ogni ricettore di ossigeno
sempre più raro nella salita.
Conoscere gli uomini è conoscere i loro luoghi, gli ambienti che li hanno circondati per un solo secondo o per tutta la vita. I tempi difatti non raffigurano. Nessuno li
sceglie . Ci si interroga sul loro uso o su come sfuggirli, ma nessuno di essi decide di
consegnarsi a chi non vi può rinunciare. Modellano germogliando, danno la scadenza fasica del nostro formarci, il battere del cuore e il levare del respiro. Sistole e diastole del
camminare, concedono pause inattese, immobilità irrisolvibili, pungolano a correre, nel
loro curvare precipitosamente spostano l’aria attorno, invisibili, rapidi, inodore.
Il tempo è dato e si è costretti a tenerlo come dono che impegna. Allora ciò che qualifica un istante rispetto ad un altro è il luogo in cui esso è vissuto. Come scacchiera, il di16
stendersi dello spazio visualizza la tattica di vita nel tratteggio virtuale degli spostamenti.
Ed ogni posizione è posizione scelta.
Allora ho puntellato il mio segnaposto, un lanciarazzi divenuto vulcanico portacandele, sull’angolo sinistro di una palazzina color pesca, di un rosa profumato di cannella. Era un vecchio bordello che nelle sue stanze ospita oggi i cortigiani delle assicurazioni; è un palazzo con la vocazione all’imprevedibile calcolato e all’immediato del bisogno. Tutti i giorni difendo il mio territorio dagli uomini e dai cani; l’ho riempito di coperte tarlate e incenso, faccio pipì per lasciare il mio odore. Non tolgo mai l’immondizia
che non è quasi mai la mia, tutto mi è indispensabile. Ogni tanto qualcuno mi lascia del
fil di ferro o uno scatolone vuoto ed io mi diverto ad inventare oggetti inutili, nell’ironica
attesa che questo metro quadro di basalto diventi sito di un’archeologia perditempo che
ingaggi tombaroli per venirmi a scoprire. Li immagino domandarsi sull’uso di questa
mia cannuccia con cui disoriento le colonie di formiche interrompendo i loro percorsi
lungo uno zodiaco sconosciuto.
***
Nell’edificio di fronte, al piano terra, hanno aperto la veneziana di un ambulatorio medico. Un paio di schiene emergono dal davanzale, incorniciate dagli infissi della
sala di aspetto piena di sguardi ittici come giurati di un tribunale di provincia; boccheggiando scivolano sul fondo delle sedie di plastica rosso rubino lasciando risalire solo
qualche bolla di pensieri leggeri. Eccoti! In anticipo come sempre. Hai messo la camicia
nei pantaloni stamattina. Domenico. Solo un matto poteva chiamarsi così, perché per i
pazzi i venerdì sono in abbondanza, ma la salvezza scorre in flebo e dondola ipnotica.
Domenico che tutti i martedì arriva a passo di marcia snodato come gli scheletri delle aule di scienze al liceo. Domenico che balla la polka piegandosi sulle ginocchia , che fa
scrollare le ossa senza carne che già si è sciolta in cicoria da pastura. Domenico il folle,
che irrompe nella sala intonacata dal neon acceso a tutte le ore. Buon giorno anche te,
Domenico. Buon giorno anche oggi.
Ci hanno portato anche me: sguardo su di sé, settimanale e soteriologico. Anch’io
come te Domenico, anch’io davanti ad una porta vetri a scuotere la polvere della vergogna e della gelosa intimità. Poi dentro, davanti ad un tavolo di legno scuro, poco lavora17
to, scuro come la foto di gruppo di settembre in un calendario dell’associazione di volontariato. La stanza si riempie di parole che esplodono e si vanno a mangiare tutti i significati taciuti. E il bisogno di non dire che non si soddisfa, mentre il cervello si strizza e si
spiegazza. Mangi? Sì, mi mangio le unghie, ma preferisco le pellicine intorno. Dormi?
Sì, di un sonno ottimista. Proietta davanti a te il film di quando eri bambino. Posso pescare dal fantasy?
E allora fuori a calci in culo, per la porta principale, con tanto di stretta di mano
davanti agli sgombri depressi in attesa. Ci hanno provato. Avranno la loro reliquia in un
paradiso marittimo.
***
Ho assassinato od ho ucciso? Nel senso… era innocente, pura vittima? Non sono
colpevole signor giudice. Mi sono difeso. Sì, lo ricordo, era disarmato, con la busta della
spesa in mano. Ma mi guardava forte e mi aggrediva di normalità. Pettinato come un
chierichetto, con la camicia a righine sottili e il pullover leggero. Non la ritiene una minaccia questa? No, no, signori, io intendo e lo voglio, e lo voglio dire. Sono innocente,
colpo legittimo e vitale. Mi ha rincorso e seguito, tutti i giorni ovunque. Si traveste. Ma è
seriale nella tattica. Sempre nella norma, come un vicino di casa, uno del consiglio parrocchiale. Nove impronte soltanto, mi spiace, l’indice me lo sono amputato, ognuno di
noi può essere pericoloso, meglio prevedere il danno. Con la sinistra non posso indicare,
non mi si solleva l’indice, cause strutturali. Nove impronte, sì, brigadiere, spiacente.
Quindici anni? Tre cinquine da puntare sulla ruota di Regina coeli. Regina del
cielo: bel regno, signora, ma di difficile governo per una donna. Chissà quanti appelli di
clemenza? Quindici anni? Va bene, signor giudice, tutti in fila, senza sconto.
E poi fuori, obeso di sbarre di ferro mangiate in notti e sogni indigesti. E poi fuori a scontare la pena. Ero innocente, capo, ma il giardino lo so falciare. In prova due settimane e le siepi potate a forma di obelisco intorno ad un prato inglese, con le begonie
allineate alle costellazioni maggiori. - E’ troppo per noi ragazzo, ci devo seminare il tabacco io. Ma hai talento. Buona fortuna! - Fanculo, ma se vuole soffio il vetro, sei mesi
di corso in diretta da una cella della laguna veneta.
Dovevano insegnarmi a fare l’incenso. Il bengalese qui davanti fa affari sotto natale. Abu, secco e bruno, con le pupille come bottoni.
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Dodici e quaranta. Pranzi anche tu, con le dita nella scatola a tirare su il riso. Lo mastichi a bocca aperta, ti pulisci le mani sul fustagno del pantalone e ogni tanto ti ravvivi
l’onda nera dei capelli schiacciati sulla fronte. Ciao Abu, no riso non ne voglio, se avessi
del brodo…
***
Dodici e cinquantasette e due occhi: cristallizzano un precipitato di vita che, annidato
nella luce, riflette nitidezze e impurità.
Pulire gli avanzi e lavare tutto di te. La cosa più difficile del mondo. Come passare una scopa di saggina e voler togliere la polvere di mercurio. Terribile, soprattutto
quando basta il profumo di un detersivo per bucato per far risalire dal naso fino agli angoli degli occhi l’odore dei tuoi maglioni di lana pettinata. E nel mio mare dove gioco a
far salire e scendere la marea, al largo compari con il tramonto, rossa di vergogna per
aver scelto una luce così lieve solo per attirare il mio sguardo.
Ma i matti si innamorano alla maniera dei normali e dicono parole che tutti dicono. Pensano all’amore e lo colorano di rosso, come il cuore dei sani. I matti piangono
d’amore mentre gli altri si domandano il motivo. E se nelle squame di un serpente con le
dita cercano i resti di un luccichio lontano, allora viene qualcuno a cullarli e infreddolirli. Si sigillano le labbra con sillabe e saliva, con la cannuccia del succo di frutta tra i denti. Ai matti l’amore fa male perché riempie la loro testa d’elio e la fa ancora più leggera.
Danno quel poco che hanno davvero, un pezzo di spago e un pietruzza di quarzo, ma negano loro l’onestà.
Ti hanno portata lontano, su quella strada che correva via veloce dal mio pulmino. E non capivo. Ho avuto il tuo nome nelle mie mani fredde e sudate e lo ripetevo con
la bocca in fiamme ed asciutta. Per loro non esistevi, ma mi promettevano che saresti
venuta comunque un giorno. Tutto era bianco e sembrava fumo. Allora facevo una tenda
per raccoglierlo tutto e avere del buio per poter dormire. Ma non c’è tela sufficiente per
insaccare tutto il fumo dei matti, esce ovunque dalle maglie troppo larghe. In ogni caso
se l’amore non lo pensavo, lo facevo bene, in modi sempre diversi. Non lo ricordo ma ha
lasciato frequenze alterate nel battere della giugulare, pulsare che prima non era. Così
ogni tanto lo ascolto e so di essere vivo anche qui, tra il bianco dei loro camici e il color
pesca di questo angolo di città.
19
***
Tre in punto, principio di un pomeriggio quasi primaverile. Tra un po’ il sole si
farà più lieve e gli aranci apriranno il loro fiori color panna per farli respirare. Passi
sempre a quest’ora e marci rapido come chi scappa da un delitto senza dare nell’occhio.
Hai le mani magre e nervose dei truffatori o degli iracondi. Le infili nella tasca
dell’impermeabile per poi farle immediatamente giocare con i bottoni. Non ti dai tregua
e le porti dietro la schiena, incrociandole come a volerle sorvegliare. Conti i passi di un
piano che di tanto in tanto ripercorri per controllare che ogni cosa sia andata come doveva. Preambolo: fare pipì che se scappa sono cazzi; primo: sorridere e distendere i nervi;
secondo: bussare e guardare verso lo spioncino assumendo un’espressione gioconda e
rassicurante; terzo: dare fiato alla voce di affidabilità; quarto: attendere a capo chino che
la porta si sia aperta del tutto e sollevare lo sguardo seguendo la mano tesa fino ad incrociare gli occhi del prescelto; quinto: mostrare l’immagine dell’ultima calamità mondiale
e il bollettino di assoluzione delle coscienze; sesto: passare dallo stato di contrizione a
quello di necessaria insistenza; settimo: porgere le carte con una mano e colpire con
l’altra; ottavo: perquisire i cassetti, prendere il vendibile, ridere delle mutande; nono:
scendere le scale fischiettando e senza fretta; dieci: confondersi tra la folla fino al primo
bus; undici: mettere un soldo vicino a quel disgraziato che sarei io.
Sai cosa faceva la madre di Giuda? Era sarta di corte e dall’alba fino a sera indovinava la cruna di un ago con i fili robusti e lanosi degli stendardi romani, quelli che si
chinarono un venerdì prima dalla pasqua ebraica. Così io mi prendo quelle poche lire che
questo senza-dio mi concede dal suo bottino e ci mangio un brodo Bauer d’inverno o
uno di quegli yogurt strani che fanno oggi e che mi fa tanto bene alla pelle. Lei, tu ed io,
insieme viviamo tutti dei crimini commessi o che disponiamo nella storia e godiamo dei
vantaggi prima di sprofondare nelle conseguenze. Magari un giorno ti arresteranno mentre da un poggiolo il passaggio di donne straordinarie ti ha messo allo scoperto. La povera madre andrà a riprendersi il figlio in un campo maledetto, da sola taglierà la corda e lo
legherà per i piedi al carro per portarlo di nascosto nel deserto, giù per il Negheb. Anche
per me verrà il tempo in cui sconterò la pena per i miei delitti d’onore e di rancore. Ma
non tremo, perché la mia follia aprirà la cella davanti ai vostri chiavistelli piombati.
20
***
Quattro e vent’otto minuti. In coppia, un’ acciuga e un cestello per la tombola. Vestite di nero sfortuna nel loro cicaleccio ronzante. Mi saltellano davanti facendo ruotare
gli occhi come gli adulti rimbambiti fanno davanti ai neonati nel tentativo di stimolare
un sorriso. E la cosa mi fa andare in aceto, specie quando neanche la decenza riesce a
mettervi contegno. Due signore anziane appena uscite da un incontro di qualche centro
in cui si rivitalizzano i vecchi riempiendoli di buone azioni da fare nel corso delle loro
giornate interminabili. Così il malcapitato si addossa tutta la riscoperta del senso del loro
esistere. Anche oggi devo fare la mia parte. - Se mi dà ancora un po’ di torta di mele, le
faccio le fusa e le do la pancia da carezzare. No, non lanci il gomitolo che la mia gamba
non mi permette di giocare. Sa, quel volo dal ponte… Come si sente ora, un pochino
meglio? Se le mostro gli occhi dolci, le tolgo altri cinque o sei anni e così può tornare ai
suoi capelli castani a caschetto…
Una notte incontrai un giostraio rumeno che scappava per motivi di donne e soldi, o qualcosa di simile. Ci siamo fatti compagnia. Ha tolto due salami dalla tasca ed gli
offerto quattro ceppi per il fuoco. Guardandolo, non ho potuto fare a meno di pensare ad
uno di quei giochi in cui se ti colpiscono, precipiti da uno sgabello in una vasca profonda
con dei pesi da sub addosso. Fuori dalle pareti trasparenti del cubo d’acqua, tutti ti guardano e ti gridano di bere. Bere, bere, bere finché l’acqua finisce e puoi respirare. E se
proprio ti capita male, il tuo tempo termina esattamente quando hai bevuto l’ultima goccia e muori gonfio e verde come un’oliva per antipasto.
***
Lo hai fatto ancora. Sedici e cinquantadue e l’impronta del tuo scarponcino scamosciato sul mio cartone. Anche oggi, come ieri e come di certo sarà domani. Giri l’angolo
e tieni la testa incassata dentro il colletto, al punto che la pelle del collo si fa in piccoli
serpenti rosati che lo circondano quasi a volerti strozzare. E non chiedi scusa come non
si giustifica chi ti taglia male i capelli o chi sorvola qualche cifra nella denuncia dei redditi. Tutto è in conto qui sotto il portone delle assicurazioni. Importante è fingere di non
capire o, meglio ancora, di non essere in grado di prevedere dove può andare a pestare la
propria suola. Inutile del resto in seguito guardare al passato con la coscienza presente.
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E allora butta pure in giro i tuoi piedi come un piccolo Pinocchio snodato nelle giunture e nel cervello. E allora pestami le mani con quella noncuranza che tanto mi irrita e
che deglutisco ogni pomeriggio un po’. Magari un giorno, alle sedici e cinquantatre, mi
vedranno morderti il calcagno e sentiranno il tuo tendine schioccare e poi rilassarsi tra i
miei denti. Quando a petto gonfio pulirò la mia pipa pronto a fumare in onore della tua
sconfitta, mi accorgerò che nulla è invece cambiato. Il giorno seguente, pur riuscendo a
non sorpassare il confine dello scatolone e dell’umano, distratto come sei, darai un colpetto con l’indice alla tua sigaretta accesa e mi incenserai di disillusione.
***
La pianura magnetizza le cose e le appiattisce contro di sé; sull’orizzonte tutto diventa
nube bluastra, fumo di elettroni che navigano attorno al nucleo della terra. Nel mezzo il
Po scivola come goccia di sudore decisa sul collo abbronzato di rame. Percorre
l’epidermide delle risaie con l’acqua che arriva quasi sotto le ginocchia e si infila tra le
gonne sollevate e appesantisce il cotone delle calze negli stivali di lattice.
Il verde scorre uguale come se il grano fosse srotolato sopra un trentatregiri che procede regolare, e ogni cosa dice la verità da sempre. O forse, questa terra di mezzo, tra la
montagna emersa e il basalto del mare, imprigiona gli occhi e le orecchie in un bastione
di pietre anonime che nutre il suo rivestimento di edera sempre giovane con pensieri sospirati nella chiocciola della sua scala, nella condensa umida che trasuda nell’aria secca
del tempo. Pensieri lasciati come sementi snocciolate dalla mani sulla terra che ha divaricato agli inizi i ghiacci più sottili. Ogni tanto l’umore inquieto di un vento esaltato dal
suo correre sciolto senza ostacoli ha tentato di portare fuori quella patina di vite pensate
per asciugarle al sole. Ma il respiro dell’uomo si fa muschio che rifugge ogni tepore e
preferisce distendersi sopra la pietra nuda e indifesa del proprio timore per rivestirla di
velluto per il tocco estraneo e stingerla stretta per consumarla piano all’interno.
Mary che vieni dall’alto, hostess su qualche aereo transoceanico, non conosci i luoghi
della terra ma li sorvoli da lontano. Non ti accade mai di sostare per interi quarti d’ora in
pendenza sull’Appennino che declina in balia di freni che si contraggono sotto il sedile e
che sembrano poterlo fare per sempre. Eppure anche tu profumi di salviette all’eucalipto
che trovavo sui sedili di seconda classe disposti in fila dentro le carrozze. Guardo il tuo
foulard con il logo della compagnia e mi ci laverei le mani come a metà di un lungo vi22
aggio, e poi le tempie e la nuca a togliere la noia e ingannare per un attimo l’odore terribile che sale dal termosifone.
Mary, alta e balsamica, abbracciami alle diciassette e ventidue sulla chiatta del mio
imbarcadero. Apri la tua valigia compatta ed insegnami a piegare i miei cartoni e ad imbarcarli verso casa.
***
Ore diciotto e zerosette e piove. Per strada quando piove tutti lo sanno perché tutto lo
dice. Ma solo a noi che siamo sempre i primi a disporci a bocca aperta o a spostarci, se ci
va. In questo periodo dell’anno improvvisamente dal marciapiede lievita tutto insieme un
modulo d’aria umida e viola. E’ bello azzardare la mano sull’asfalto, sentirlo sciogliersi
piano in un odore di greggio e immaginare di affondarvi le dita e di giocare con la pasta
nera e ruvida. L’acqua che arriva si annuncia con un silenzio sordo che assorbe i rumori
e li trasferisce lontano, al di là dell’orizzonte che già tremula di caldo. I capelli di Antonia, la signora del negozio di fronte, dovreste poi vederli: dicono il tempo meglio di un
barometro e la nuova tresca del marito come un gazzettino ufficiale di quartiere. La bella
cuffia cotonata di mogano si solleva nel centro e d’un tratto si leva una cresta ramata
come un un’onda che si solleva in una baia corallina. Le sopracciglia si incrociano seguendo il moto dei capelli e tutto si acciglia e si fa irto, pure la voce. E se la scollatura
sopra il seno si fa sempre più generosa e graziosa, piego il cartone a tegola sopra la testa
e attendo impaziente un tuono che le faccia cadere le spalline del vestito leggero. Invano,
perché alla fine di aprile cade solo una spolverata di gocce pesanti e ben definite che
fanno quello sbuffo strano quando si schiantano sulla pelle e che finiscono dentro la lente degli occhiali ricordandomi come si piange.
Oggi non posso bagnarmi. Mi hanno vestito con uno di quei maglioncini in fibra vegetale che si allarga e si deforma ad ogni lavaggio; già sembro un ologramma che ondeggia in un intreccio cadente di bambù e canapa. Se fossero legumi ci avrei cenato, al
diavolo la biosfera.
Mi sposto un po’ più in qua, sotto la tettoia del palazzo, al caldo di questa baldracca imborghesita e sempre accogliente. Chissà quanti ne hai visti entrare e uscire dalla membrana del tuo portone… Mi sembra di poterli immaginare tutti. Qualcuno assume
un tono vincente come se dovesse andare a combattere con il banchiere per il mutuo, e
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esce con lo stesso fare sicuro, magari con il prestito negato per credenziali o prestazioni
scadenti. Qualcuno invece si butta dentro sfruttando la spinta di una corsa intenzionalmente lanciata altrove e sbuca all’improvviso, scompigliato e affaticato come una molla
che ha ceduto. Poi c’è il paroliere, quello che tace sempre perché nessuno è in grado di
arrivare al suo profondo e si apre solo alle donne di mondo che di certo non gli toccano
l’anima ma qualcosa di molto vicino, e va bene comunque. Entra con il cappello in mano
ed esce con uno sfogo dietro le ginocchia, come quando da bambino andava e veniva dai
confessionali. C’è chi uomo non è e che si sente a casa solo qui dentro, per quella politica della tolleranza che funziona unicamente dove nessuno si fida a guardare l’altro negli
occhi o sotto la cintura. Si addentra il giovinetto che si inizia alla vita e il vecchio venuto
a vedere in faccia la morte. E tanti altri ancora che a volerli nominare tutti sarei costretto
a pescare a caso tra la comunità del plancton cittadino.
Ma per gli spostati come me l’amore sta dal calzolaio, nel profumo del cuoio che
massaggia i piedi delle donne, nel martello che spinge a forza i chiodi nelle suole, nella
crema color castagna che sa di autunno e di vin brulè.
Antonia si pettina e riveste tutta la sua femminilità scomposta. Il viola sciama in
un respiro rosa del cielo che alle venti e tre minuti è senza sole e senza stelle. Tempo di
pensare. Esame di coscienza. Azioni buone: le vecchiette depresse, Domenico che nessuno saluta, Monì che tutti scambiano per un faggio, il giostraio rumeno me lo gioco
come bonus. Azioni malvagie: nessuna, sono pazzo, godo dell’immunità. Anche oggi
sono salvo, senza premio. Se fossi Dio scenderei con un tuffo a candela sul cartone di
questo uomo di frontiera con una bella tazza di brodo e un bicchiere di rosso fruttato. Se
fossi Dio verrei a dirgli che se non mi vede è perché non sono un illusione ma un illusionista, gli sistemerei il fagotto sotto le guance e lo guarderei addormentarsi. Se fossi Dio
non gli ruberei il plaid mentre ronfa, o per lo meno gli lascerei la spazzatura. A dirla tutta, se fossi Dio mi sarei fatto i fatti miei e avrei lasciato a quel satanasso di Lucifero il
compito di sputare in gola agli uomini di argilla.
***
Ore ventitre e diciannove. E’ tardi, tardi. Nascondo la cannuccia, il fil di ferro e
l’incensiere tra le gambe dentro lo scatolone. L’orologio a cipolla invece lo tengo agganciato alla cintura e lo ricarico fino in fondo perché devo ancora lavorare. Buona notte
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mondo, buona notte a tutti voi che ho violentato anche oggi. Parto, vado a contare i tempi e i segreti del mondo di là, dei beati e dei dannati. Domani torno. Ho puntato la sveglia molto presto per potervi consolare con i peccati degli angeli e per farvi vergognare
con le virtù dei demoni. Buona notte ad ognuno di voi, lancette nere che vi giostrate sul
quadrante bianco della follia.
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NINA
Nina la riconosci da lontano; la sua figura snella e atletica che le ragazze di qui
invigoriscono con pantaloni di velluto verde (le braghe) o valorizzano in tessuti a quadratini sottili, i capelli raccolti alla buona che si svincolano ribelli da un improvvisato intreccio biondo, le gambe incredibilmente diritte che neanche il peso di scarponi chiodati
è riuscito a deviare.
Cammina con quella andatura che è solo sua, leggermente curvata a destra e con
la testa lievemente chinata in avanti. Percorre la strada in salita di questo minuto paese di
montagna, un dipinto di case ruvide al tatto e allo sguardo, che nei freddi invernali si
scalda stringendosi attorno alla piccola piazza e nei tepori estivi si distende sereno lasciando che i raggi solari riempiano le piccole viuzze come sangue luminescente.
Nel centro di uno spazio che un intraprendente artigiano ha tagliato in otto lati
uguali e riempito di pretenziosa dolomia rosata, nel mezzo sta uno scroscio sonoro,
anch’esso ottagonale, di cemento grezzo decorato a vista con i rimasugli cerei di sapone
per il bucato: un mozzicone di candela consumata in cui brilla una fiamma d’acqua livida.
Nina si dirige verso la fontana con una mastella sul fianco sinistro così da inarcarla oltremisura. Quanti cesti pieni di panni sporchi di erba e di grasso hai portato fin
qui, dolce Nina? Tanti da lasciare una linea curva nella tua immagine che sembrava fatta
per svettare ad ogiva.
Deposto il canestro a terra, Nina ad occhi chiusi immerge le mani nell’acqua gelida e le
muove lentamente disegnando piccoli vortici trasparenti che le mangiano la pelle, mordendola di freddo. Serra i pugni facendo gemere la carne irrigidita.
E’ acqua di ghiacciaio, infinite molecole che si svincolano da quelle strutture diafane e compatte e che, impazzite per l’improvvisa libertà, si rovesciano sui crinali, caricandosi e spingendosi a vicenda verso i salti improvvisi. Ricordi Nina, quella prima volta ancora bambina alle cascate? Ti chiedevi come dal silenzio bluastro delle vette, tutto
si trasformasse in quel fracasso assordante. Sembrava che in quelle nevi perenni si conservassero urla lanciate e mai giunte al cielo e che nel tornare a terra si scaraventassero
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violente contro la roccia. Cosa ti spaventava di più? Il rumore che rintronava nelle orecchie o che il cielo vomitasse anche qualche tuo grido?
***
Cosa hai urtato Nina? Un fagotto di forma allungata e avvolto in bende ben fissate che lo irrigidiscono. Da quanto tempo è lì? Da pochi istanti, da sempre. L’acqua della
fontana ne fa vibrare i contorni. Nina torna a toccarlo senza toglierlo dal fondo, lo scuote
un po’. Piano, non vedi che si muove? Sollevalo, piano, così. Nina lo toglie dall’acqua,
ne emerge come un parto.
Che sia morto? Che queste bende fradice odorino di placenta? Che in cielo ci si
arriva umidi uguali ma si piange senza pacche sulle spalle? Che la spinta alla vita sia
simile alla contrazione che scaraventa nelle stanze dell’altro mondo? Ma che dici Nina?
Liberalo, liberalo, liberalo!
***
Da dove cominci? Libera il naso, la bocca.
Respira? Sì, respira. Si è gonfiato tutto, si è colorato di vita... Pensa agli inizi Nina, pensa a quando tutto era nero, caliginoso. Che respiro immenso deve essere stato… ,
tanto intenso da espandere l’universo, da dilatare il torace del nulla e fare spazio alla luce. Sai che ora invece ci contraiamo, che ci richiudiamo su un qualche centro magnetico,
verso qualche buco nero?
Che dici? Lo sanno anche qui, in questo luogo dove ogni scoperta è dono di una memoria? Non può essere che così. Le leggi dell’universo non si rinnovano: ci ripropongono
sempre le stesse evoluzioni. E la nascita del cosmo non deve essere stata tanto diversa
dalle migliaia di nascite che ogni giorno si fanno evento nel mondo.
Così ognuno di noi ha respirato a fondo, inarcando le costole fino all’estremo. Ci
siamo riempiti di aria, abbiamo ossigenato ogni cellula, abbiamo donato ad ogni globulo
rosso il suo fardello da portare in circolo in quel sangue fattosi caldo di continua ossidazione. La nostra galassia si è illuminata all’improvviso delle costellazioni fantasiose di
pensieri e progetti futuri, con le singole stelle polari pulsanti sull’angolo bianco del nostro Nord. E da subito abbiamo iniziato a raggrinzire; l’aria espirata sempre più di quella
rubata all’atmosfera, piano piano sempre più incurvandoci su noi stessi; un giorno non
avremo più anidride carbonica da riconsegnare e non ci sarà dato più ossigeno da inca27
merare. Avremo richiuso del tutto il nostro ventilabro. Quanto è flebile Nina quel rimasuglio di vita che all’ultimo ci sfugge di gola? Cosa rimane di quel respiro potente che ci
ha riempito accendendoci lo sguardo? Non possiamo non chiederci dove sia finito
l’amazzonico polmone del mondo che sfiata continuamente aria nuova.
Non ci pensare Nina, non ora che questo fagotto si è gonfiato tutto.
***
Non ci pensare, veloce. E’ freddo. Togli le bende, veloce Nina. Libera le mani, le
braccia, le spalle. Nina si stringe un polso e lo fa ruotare su se stesso. Sembra provarne le
articolazioni, lo osserva un po’, forse per la prima volta. Lo sfiora con l’indice destro.
C’è un mistero nascosto nel polso degli uomini.
C’è un ricamo di vene verdi; un estuario a delta che frammenta il grande letto dei
canali che percorrono le braccia e che irrigano le morbide pianure delle mani. E a guardarlo bene, quell’estuario si prolunga idealmente nelle cinque direzioni indicate dalle dite. Come se il plasma pulsato nei ventricoli più intimi venisse spinto a fertilizzare il
mondo incontrato in ogni carezza, in ogni tocco.
C’è poi un battito che sta proprio sotto quegli orologi pesanti che ci mettiamo addosso. No, Nina, qui in montagna nessuno misura il tempo in questo modo. Non ci sono
orologi negli alpeggi. Forse perché quello è un tempo che indossiamo, che firmiamo di
precisione e di eleganza. E’ un tempo di rappresentanza. Il suo ticchettio copre il ritmo
del nostro battito, anzi misuriamo questo in relazione all’altro. Abbiamo capovolto ogni
cosa.
C’è un tendine che sta nel mezzo. Se lo osservi bene, riconosci quante volte si è
contratto e quante si è lasciato distendere, quante volte hai stretto il pugno e quante volte
hai consegnato il palmo. In questo tendine si allena l’anima. E il tuo polso Nina si è ingrossato nello strofinare continuo di questi panni alla fontana. Come li sfreghi, corrugata
nella tua rabbia o docile di servizio?
***
Devi sbrigarti , devi sciogliere il ventre, il bacino. Ancora quegli spasmi? Tranquilla Nina, è la tua colica di sempre. Poi smette. Ti sembrano doglie ma non lo sono;
quel contorcersi di budella che viscide si stritolano a vicenda, in nulla assomiglia allo
sciogliersi della coperta uterina.
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Anche tu Nina hai imparato a riconoscere quel filo invisibile che trapassa tutti gli
anelli concentrici, quelle millimetriche fasce verdi che si sovrappongono fino alla cima
di ogni altura. Brava gente di montagna, di quella saggezza che sa di rame e di granturco. Qui tutti lo sanno che la vita è femminile, fatta di seni, mammelle, corolle, fatta di figli, cucciolate, e roseti selvatici. Uomo, animale, vegetale: la vita è femmina. Donna è la
chioma di ristoro, donna la fonte, donna la grotta, donna la discesa.
Cosa non ti convince Nina mentre ti massaggi il ventre bagnato di acqua e sapone? Forse hai ragione tu. Forse non è vero. Forse essere vivo è essere figlio. E allora è
essere uomo, maschio e femmina, figli e figlie. E che la maternità sia dono lo si capisce
solo dopo che il ricordo del parto si addolcisce. Ma il riconoscersi figli, omaggi di vita, è
immediato nel primo pianto: appena fuori, il ventre ci pare lontano e disperiamo di non
riuscire a proseguire al suo esterno. L’essere nati ci rende vivi, senza distinzione di sessi,
di gonadi.
***
Guarda l’addome bluastro che si gonfia e si sgonfia tra le fasce allentate: riconosci se è spazio fertile o pettorale massiccio, se è distesa argillosa o semipiano di quarzo.
Nina si sofferma con gli occhi e le dita su quel piccolo nodo che sta semifluttuante nel
bassoventre.
Forse il momento esatto in cui si compie quel passaggio dall’insensatezza
dell’infanzia all’arroganza dell’età adulta coincide con quella coscienza fulminea che
questo ombelico è brutto a vedersi, uno sciagurato inestetismo deturpante una pancia potenzialmente perfetta. Quando si smette di scommettere sulla possibilità di scioglierlo e
ci si rassegna a nasconderlo come prova impugnabile contro la propria bellezza. Quando
lo si accetta così come, per cortesia affettata, si sopporta di lusingare la retorica di un discorso confuso.
Ma chi come te, Nina, in qualche rifugio ha conosciuto il passo lento e fermo degli anziani che percorrono i sentieri come i soldati di guardia si muovono sui camminamenti, costui è in grado di riconoscere quegli incisi della remota possibilità di essere nati
per il bello. Perché è bello ciò che ha senso e perché nessun vecchio è più capace di indicare brutture. E anche quel nodo che rompe la pennellata uniforme della resina sulla corteccia è ricordo d’altro, è sfida alla capacità di riconoscere una presenza lì dove ne è rimasta sola traccia. E così, tronco d’albero e busto d’uomo possiedono entrambi il pro29
prio nodo che chiede di ricevere un referente nell’oltre. Un oltre cercato lontano, nei
luoghi e nelle stagioni, e che invece perviene dal primo punto di un ago sottile che ha ricamato la storia sull’arazzo d’erba di una radura nascosta. Un oltre alla luce del quale
ogni storpiatura smette di impietosire ed ogni pustola cessa di disgustare. Un oltre che
svela la funzione di un batuffolo di carne inutile che coincide con il baricentro di un corpo umano.
Lo riconosci anche tu, Nina? Lo senti anche tu quel rivolgersi furioso del non senso ad
un volto, quel lanciarsi iracondo del segno al suo spessore, del deforme alla sua natura?
***
Sì hai ragione tu, vanno sciolte le altre bende, vanno scaldati i piedi.
Piedi non più prensili che impediscono ormai di stare a dondolare a testa in giù, come se
l’uomo fosse costretto a tenere la testa sospesa tra cielo e terra, o già nel cielo che riempie il vuoto che poggia sull’orizzonte.
Presto questo esserino starà diritto sulle sue gambe e magari sarà anche in grado di
mettere un paio di passi uno dietro l’altro e far girare un po’ più veloce il mondo sotto di
sé. Sentirà premere sulle suole tutto il peso del proprio corpo e conoscerà la fatica e il
miracolo dell’equilibrio. Si riconoscerà ancorato sul fondo di uno strato di aria in tempesta da cui è sommerso fin sopra l’ aura dei propri capelli. Anche lui marcerà caricando
ogni passo e facendolo precipitare a terra; tutte le volte che scaricherà il proprio peso su
una gamba sentirà la muscolatura tendersi e indurirsi, tremare se sovraffaticata.
Non ti sei mai chiesta Nina, perché l’uomo non scivola sulla terra ma si muove
segmentando lo spazio percorso, tralasciando intervalli di suolo imbattuto secondo la misura della propria falcata? Cosa ne sarebbe di un sentiero di costa totalmente calpestato?
No, il montanaro sa che a quei centimetri saltati egli deve l’aver raggiunto la meta; sa
bene che quelle miglia scavalcate sono possibili insidie dalle quali la strada lo ha preservato. Il girovago conosce esattamente quanti chilometri sorpassati lo richiamano su viale
già percorsi.
E allora, alla fine di tutto, non saranno i tratteggi dei propri viaggi su varie cartografie ad
accreditare la propria avventura di vita, ma il suono e la profondità dei propri passi lungo
meridiani e paralleli: colpo grave e netto del legalista, tonfo pesante e flaccido
dell’indolente, tacco a punta tipicamente femminile di donne con voci tipicamente stridule, tacco basso e piatto dell’incerto e del prudente, suola gommata del fanatico, liscia
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del prete e del conservatore, a carro armato dello stolto e del militante, ondulata
dell’avanguardista, di finto cuoio dell’ignavo, insonorizzata del peccatore e del profeta.
Passo dopo passo tutto questo si scrolla dai femori e dagli stinchi e va a imputridire le strade, i sentieri, i fuori pista…E che effetto fanno ora quelle immagini assottigliate di danze macabre negli antri delle vallate, quegli insiemi di ossa rachitiche, le nacchere sonore delle loro giunture, quegli scheletri che sono sola filigrana della rosea floridità neonatale. Come possono danzare coloro che non hanno nervo? Come possono quei
tizzoni scarnificati aver sostenuto il camminare, il sedersi e l’alzarsi di una vita?
***
Ed ora Nina, prenditi cura di lei. E’ tempo di rivestirla e di rivestirti. Scegli nella cesta
quei panni che ti appartengono. Strofinali bene con la cenere, fai schiumare il grasso nella fontana. Scegli qualcosa di colorato, ma tenue nelle tinte. Rivestitevi entrambi e così
pulite venite indietro lentamente, stingendovi tornando ad essere una. Riprenditi il suo
respiro, corto e sonoro di chi ha il cuore in tumulto. Avvicina i vostri ombelichi fino a
farli toccare. Fa che ti stringa i polsi e baciale i dorsi delle mani. Nascondi la sua orma
nella tua.
Ma prima di andare via raccogli in fretta tutte queste fasce dalla piazza; riponi queste
bende nelle tasche del tuo grembiule e conservale fino a quando non sarai sola. Cucile
insieme e fanne una tunica grezza, della tua misura. Ricama le tue iniziali. Poi strappane
un filo, riunisci con esso una foglia di cardo e una stella alpina e mettile sotto il guanciale. Quando sarà tempo, pungiti un dito con le spine e ricorda il fondo livido dei tuoi occhi quando sei riaffiorata dall’acqua gelida della fonte e il livore che ti ha divorata nel
tempo interminabile della tua immersione. Asciuga il tuo sangue nella canapa dei petali
del fiore e della tua veste nuova. Volgi le spalle al sole e fa’ del suo calore coperta con
cui avvolgere le spalle. Fissa il perimetro ottagonale di questo spazio e sfondalo.
Accovacciati sull’erba, tutta fasciata di bende ricucite e attendi di essere risollevata ancora una volta; attendi di riemergere per sempre. Attendi e prega.
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TOBIA
racconto semplice
Nel corso degli anni…
il piccolo arbusto Tobia era divenuto uno di quegli alberelli che solitamente si scelgono per le loro dimensioni minute che inteneriscono e che preannunciano l’ombra delicata e
accogliente della loro chioma. Di tanto in tanto qualche vento di tramontana lo aveva fatto vacillare ma esso, con la tenacia imprudente e un po’ presuntuosa che è dei piccoli, aveva resistito ancorandosi forte al suolo, inarcandosi con ginnica flessibilità, trattenendo ogni fogliolina ed ogni gemma.
Così prese possesso del giardino a cui era stato destinato; sfidava il faggio vanitoso per l’abito
bianco del suo tronco, la mimosa che scuoteva la chioma in una nuvola profumata di giallo, la
siepe armata di bacche velenose, la rosa con la sua avvenenza altezzosa e pungente.
Tobia divenne idolo incontrastato dei bimbi di casa che gli correvano attorno senza il rischio
di inciampare in radici insidiose o di starnutire a più non posso per i pollini invisibili. Anche il
nonno aveva un occhio di riguardo per lui: posizionava lo sgabello instabile ai suoi piedi ed
appoggiandosi con la schiena al suo tronco, ripercorreva gli anni lontani, ora così lievi nella
frescura delle fronde.
Con il tempo il nostro alberello si abituò al suo compito ristoratore per tutti coloro che gli
chiedevano ombra: anzi, la sua vita divenne l’esserci per gli altri, anche a costo di ignorare
qualche piccolo grande malanno procurato dal peso eccessivo di chi voleva arrampicarsi sui
suoi rami. Tobia era certo che questo non sarebbe mai cambiato, che sarebbe stato sempre lì,
centro del giardino, riferimento del meridiano di casa. Ed era contento.
Un giorno…
piccole foglioline gialle comparvero tra le sue fronde verdi. Qualcuna a dire la verità
era di quel colore ocra che richiama subito l’arsura del deserto. Tobia se ne accorse una mattina presto quando la rugiada, depositandosi su esse, ne fece cadere alcune. L’alberello però
sminuì l’evento; in fondo era ancora piena estate, l’autunno lontano. Ma soprattutto, lui non
era come quegli arbusti cambiacolore e cambiabandiera. Proprio non si sarebbe potuto concedere un periodo di sonno, il letargo è degli orsi e non di quelli come lui, così forti, resistenti,
così…indispensabili.
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Giunse la vendemmia e poi le castagne…
e venne la pioggia che inesorabile si precipitò sul giardino investendo le rose che si arresero lasciando al suolo un tappeto rosso sanguigno; si arrese il faggio scheletrico, la mimosa
ormai fuori moda da tempo. Tobia li vide cedere rassegnati e questo turbò il suo animo combattivo e saldo. Ma anche il suo manto cominciò a diradarsi, tanto che il vento raggiungeva i
rametti più nascosti, da sempre protetti dal freddo e dal caldo. Nelle venature di ogni foglia,
Tobia sentiva scorrere una parte di sé e la vedeva ora precipitare. Cadde il suo verde ramato e
tutto quello che gli era parso inviolabile, cadde quello scudo che da sempre aveva nascosto le
sue imperfezioni, i percorsi incerti dei suoi rami, gli inestetismi dei suoi nodi.
E cadde la neve.
Si depositò sulle sue radici lasciate scoperte dalla terra ritiratasi per il freddo. Accarezzò i suoi tralci giocando a farlo rabbrividire. Tobia sentì penetrare il gelo dentro la corteccia , lo avvertì avvolgere tutti i suoi anelli ancora poco numerosi. L’albero conosceva questo
fenomeno. Aveva assistito a quella strana metamorfosi e ne aveva riso, come si deride un destino dal quale ci si sente minacciati. Le radici rumoreggiavano sinistramente come il legno
vecchio dei mobili delle case polverose, ogni scrocchio era sussulto di solitudine. I suoi canali
anemici si irrigidirono al punto di implodere, la linfa trasudava dai nodi ormai violacei e usciva da lui. Sconvolto, l’alberello non pianse. Smorzò i suoi colori nella loro luminosità superstite e tentò di confondersi con lo scenario che lo circondava e che aveva fatto da cornice a
tutto questo.
Intanto, affacciati alla finestra che dava sul giardino, si alternavano visi preoccupati e
dubbiosi. In casa ci si interrogava sulla sorte di Tobia, su quel suo essere inaspettatamente diverso rispetto ad ogni previsione. Su quel suo essere nuovo che era non-essere. Ma non si era
presentato come sempreverde?
In questo rumorio di interrogativi, solo il nonno taceva e ad occhi chiusi respingeva quel nodo
che gli risaliva la gola. Seduto sotto l’alberello, aveva ricordato la sua storia. Mentre gli altri
proiettavano la sua presenza all’infinito, egli aveva tentato di nutrirlo della storia dei suoi padri per interrare quelle radici scosse e sollevate dai colpi e dagli usi impropri che si facevano
di lui. Lui sì, lui aveva sentito vibrare gli anelli di quel tronco, prima di un tintinnio scherzoso, poi, col tempo, le sue vertebre e quegli anelli si erano calcificati in una sorta di artrosi
condivisa così che spesso si erano sostenuti puntellandosi a vicenda.
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Il nonno gli aveva mostrato il Sole ripercorrendo a ritroso i raggi che li raggiungevano
in quell’attimo. Ed ogni fotone divenne allele di una catena genetica che si ricostruiva. Così
dal tepore lieve e diafano del presente, la luce sempre più calda e lanosa li riempiva entrambi;
e i segmenti di tempo si fondevano adagio e si saldavano, lasciando intravedere solo le faglie
di assestamento ormai cicatrizzate. Come anelli di un’ancora che precipita rassicurante verso
il fondale, volti antichi si ricorrevano rapidamente, consegnando ognuno un tratto particolare
che il nonno e il piccolo Tobia conservavano gelosamente nell’ansia di collocarlo tra gli altri
raccolti nel viaggio.
La storia riconsegnò loro un’infinità di giardini con faggi, mimose e rose, con piccoli alberi al
centro e sgabelli malfermi alla loro ombra. La comparsa periodica delle nevi aveva rilasciato
l’odore delle foglie marcite e aveva riempito le loro gole di un singhiozzo che si era perso in
dissolvenza. Ovunque e sempre il fiorire della rosa si avviliva ai piedi di un faggio scheletrico
e il chinarsi mesto della mimosa sembrava segnare una fine. Nel loro procedere, entrambi si
erano accorti di aver oltrepassato innumerevoli frontiere, un susseguirsi di dogane temporali
che si erano abbassate alle loro spalle e che dividevano candori lividi da verdi primaverili, in
una continuità quadrifasica risolta sempre mortalmente.
Il nonno poteva comprendere quel silenzio che Tobia aveva disteso su di sé; egli difatti
conosceva i pensieri del piccolo albero, l’amara consapevolezza che questa era la frontiera del
suo giardino, era il suo inverno, la sua neve. E il nonno attendeva probabilmente di veder cadere le stesse gelide architetture simmetrie su di sé.
Ma si sa, l’attesa, quella vera di chi non possiede altro, dispone ad un ascolto che oltrepassa le
frequenze percepibili e che fa convergere onde sonore disperse ad una sola linea oscillante
che disegna perimetri mai visti e forse, proprio per questo, sempre desiderati e aspettati.
E allora ecco il delinearsi netto di uno spazio descritto con tratti precisi e marcati, uno spazio
senza coordinate in cui le cose si dispongono secondo Bontà, oltre ogni verità ed ogni equilibrio previsto e prevedibile. Questo giardino senza tempo dove il ciclico alternarsi di quattro si
scardina in sola primavera, quando la terra ancora ricorda lo spasmo ma già verde si accoccola sotto il lenzuolo di tiepidi venti. Questo giardino che sta al termine di quel ritorno verso il
Sole che entrambi avevano intrapreso e che il gelo, nella sua mortale costanza, aveva interrotto. Questo manto erboso che conosceva la neve e la custodiva in canali sotterranei che lo nutrivano goccia dopo goccia, rilasciando ai semi che vi si depositavano la densità salina di co34
lori e odori pregnanti e vaporosi al passaggio dei raggi solari. Questo giardino sempreverde in
cui la storia narrata ad un piccolo albero è ramificazione di venature sottili e rigonfie di un
flusso che violento scorre. E il fatto di mostrarsi ora e di essere prossimo a non essere, diventa
evento primordiale in cui l’esserci si fa ex-istentia, per cui la provenienza assorbe in sé la meta, secondo un’entelecheia mai esausta che riconduce alla stessa cataratta neve d’inverno e
pioggia primaverile.
E dal suo tacere, guardando a questo Sole indicatogli da un palmo ruvido per l’arsura
di una pelle che ha trasudato, agonizzante Tobia si rivelò a se stesso: « Se dico: “Almeno
l’oscurità mi copra e intorno a me sia la notte”; nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la
notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce.» Guardò quelle foglie cadute,
già prossime a nutrire il muschio che avanzava, e con infinità tenerezza le accarezzò con lo
sguardo riempiendosi gli occhi del loro tremore. In quell’istante il cielo divaricò la propria
membrana e un fascio insperato lo colpì alle spalle così che la sua ombra si proiettò a terra e
per un attimo rami e foglie si ricongiunsero ritraendo la sua figura. Repentinamente il cielo si
prese questo disegno aspirandone la china e lasciando al terreno il compito di custodirne il
fossile. Il nonno allora scese in giardino, ripiegò lo sgabello e appoggiata la mano a quel tronco devitalizzato lo sentì risanato, salvo per sempre, nutrito di humus consolatore: «Ti lodo,
perché lo hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu lo conosci fino in fondo.
Lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità.» Si addormentò ai piedi di questo che fu
per lui memoriale e attese anch’egli il proprio risveglio.
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