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Una esperienza inattesa
“Ma dove sei stata????-chiese il padre- sei partita un’ora fa!!! E’ notte, è freddo!!!Ma …!” L’ultima
frase gli si spense in bocca, guardando la figlia che non riusciva a parlare e aveva il viso pallido e
gli occhi lucidi ed umidi. Per un secondo distolse lo sguardo da quel viso provato e lo rivolse alla
madre che osservava attentamente gli abiti, le mani, gli occhi supplichevoli e le labbra crucciate.
Poi il padre cambiò tono e da rabbioso divenne pacato, ma inquieto. “Rispondi- diceva- di’ cosa è
successo!” Entrambi conoscevano troppo bene il carattere della figlia, il suo brio, la sua prontezza
nel risolvere le piccole difficoltà e soprattutto la sua facilità di riferire e commentare tutto quello
che le succedeva.
Ma nonostante l’incoraggiamento, l’attenzione, la preoccupazione che traspariva dalla loro voce la
figlia non riusciva a dire, a raccontare, a tranquillizzare l’ansia, gli sguardi, la tensione. Era rimasta
sulla porta, incredula di essere tornata a casa da sola, camminando di sera per più di un chilometro
per quella strada buia dove le poche macchine le erano passate accanto senza accorgersi di lei e
della sua esperienza. Teneva il pacchetto della spesa in mano, come per dire che aveva obbedito e
rispettato la loro richiesta, quasi un testimone. Le parole le rimbombavano nelle orecchie pur non
essendo pronunciate a voce alta e, le sue, quelle che avrebbe voluto pronunciare per spiegare, per
chiarire, per uscire da quella situazione non le venivano in mente. Aveva davanti agli occhi tutta le
sequenze: l’approccio, il viaggio, il luogo, l’esperienza, la novità, l’abbandono, il ritorno. Da dove
cominciare?? Cosa dire??? Cosa raccontare per primo?? E quali emozioni??? Nella sua testa le
parole si accavallavano, si rincorrevano, si confondevano. La madre, come da rituale, le offrì un
bicchiere d’acqua: ”Bevi, bevi, ti fa bene!!” poi le avvicinò una seggiola perché si sedesse. Ma La
figlia non riusciva a fare nessuna delle due cose. Doveva liberarsi di quel peso che con il passare dei
minuti era meno oppressivo poiché si sentiva al sicuro. Ma sentiva lo sguardo attento del padre. Le
guardava le gambe, le mani. Poi chiese:” Ma ti ha fatto male???Ti ha picchiato??”
Quelle parole dettero alla figlia la certezza che lui avesse capito, che avesse intuito che il ritardo e la
tensione non fossero dovute ad una sua disobbedienza, ma che qualcuno si fosse intromesso nel loro
rapporto di responsabilità e di stima nei suoi confronti. La figlia, lentamente e dopo aver poggiato
sul tavolo di marmo della cucina il pacchetto di carne che gelosamente aveva costudito durante tutta
la strana vicenda, iniziò a raccontare l’approccio che aveva avuto con un signore gentilissimo che
stava fermo davanti alla porta della macelleria e che appena l’aveva vista uscire, con voce familiare
e un tono educato le aveva chiesto:” Ma tu sei la figlia di….Aspetta non mi ricordo bene …”E lei
pronta aveva pronunciato il nome del babbo dando all’uomo la prima chiave di accesso ad un
rapporto di fiducia. Poi egli, sorridendo e pacatamente l’aveva invitata a salire sul seggiolino del
motorino dicendole che aveva promesso al babbo un paio di piccioni. Naturalmente la figlia non
era stata sfiorata da dubbi. Sapeva che suo padre era un attento allevatore di piccioni viaggiatori,
che aveva numerosi amici che condividevano la sua passione e che fosse possibile un regalo o uno
scambio con questo signore. Tanto era tranquilla che non lo aveva neanche ben guardato in faccia,
non gli aveva neanche chiesto il nome. Era stata educata ad avere una grande fiducia negli altri e
non aveva alcuna malizia, né coscienza della sua crescita e del suo aspetto adolescenziale.
Comunque aveva vissuto questa passeggiata in motorino con grande tranquillità, direi anche come
nuova esperienza, aveva parlato con l’uomo, gli aveva rivolto domande su dove abitava e quanto
era lontano dal paese. Naturalmente lui non aveva mai perso il tono pacato e nessun allarme era
scattato nella testa della figlia. Ma, raggiunto un passaggio a livello secondario, l’uomo aveva
fermato il motorino rosso vicino ai binari e l’aveva presa per mano. Lei non voleva afferrare la
mano dell’uomo e non voleva seguirlo, ma questi trascinandola, senza molta convinzione, ma in
maniera decisa, l’aveva portata in uno spazio isolato, lontano dalle sbarre e vicino ad un muro di
cinta di una piccola fabbrica. Poi aveva iniziato ad accarezzarla e le aveva tolto le mutande. Non
mutandine, a quel tempo erano belle alte e di cotone felpato. La figlia aveva iniziato a piangere ed a
lottare ma l’uomo le aveva urlato che se avesse continuato, l’avrebbe uccisa, che tutto era inutile
perché fra il rumore della fabbrica e quello del treno nessuno l avrebbe sentita, né trovata. La figlia
non aveva smesso di lamentarsi, ma oltre alla paura ed alla stranezza della situazione si era resa
conto che quest’uomo non voleva farle male, non l’aveva malmenata, né le aveva provocato ferite
o dolori.
Ma dopo aver strofinato una cosa molle sulle sue cosce si era rialzato ed in fretta se n’era andato
raccomandandole di fare attenzione nell’attraversare i binari. Lei si era rinfilata le solide mutande
confezionate dalla nonna con stoffa rosa ed alte fino alla vita e camminando dapprima lungo la
ferrovia e poi lungo la strada principale era tornata a casa incerta e confusa, incapace di capire.
Eleonora Santarelli