leggi l`incipit - Amélie Nothomb

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leggi l`incipit - Amélie Nothomb
Amélie Nothomb
Diario di Rondine
traduzione di
Monica Capuani
Ti risvegli al buio nella più assoluta incoscienza. Dove
sono, che cosa è successo? Per un istante la memoria è
cancellata. Non capisci più se sei un bambino o un
adulto, un uomo o una donna, colpevole o innocente.
Le tenebre sono quelle della notte o di una prigione?
Capisci solo una cosa, e tanto più intensamente dal
momento che è il tuo unico bagaglio: sei vivo. Più di
così non lo sei mai stato: sei vivo e basta. In che consiste la vita all’interno di questa frazione di secondo in
cui hai il raro privilegio di non avere identità?
In questo: hai paura.
Non c’è libertà più grande di questa breve amnesia del risveglio. Sei un neonato che conosce il linguaggio. Puoi assegnare un vocabolo alla scoperta senza nome della nostra nascita: sei scaraventato nel terrore della vita.
Durante questo intervallo di pura angoscia, non ti
ricordi nemmeno che al risveglio è possibile che si verifichino simili fenomeni. Ti alzi, cerchi la porta, ti senti smarrito come in albergo.
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E poi i ricordi reintegrano il corpo in un baleno restituendogli quanto gli fa da anima. Ti senti rassicurato
e deluso: dunque sei questo, dunque sei solo questo.
Subito ritrovi la geografia della tua prigione. La mia
stanza sfocia nel lavabo, dove mi inondo d’acqua gelata. Cosa cerchi di sfregarti via dal volto, con tutta quell’energia e quel freddo?
Poi riparte il tran tran. A ciascuno il suo: caffè-sigaretta, tè-toast o cane-guinzaglio, il percorso di tutti
noi è organizzato in modo che si abbia meno paura
possibile.
In realtà, passiamo il nostro tempo a lottare contro
il terrore della vita. Per sfuggirgli, inventiamo definizioni: mi chiamo tizio, sgobbo per conto di caio, il mio lavoro consiste nel fare questo e quello.
Sotterranea, l’angoscia avanza con il suo lavoro di
trincea. La sua voce non si può completamente imbavagliare. Credi di chiamarti tizio, che il tuo lavoro consista nel fare questo e quello ma al risveglio niente di
tutto ciò esisteva. E può darsi che davvero non esista.
Tutto è cominciato otto mesi fa. Ero reduce da una delusione d’amore così idiota che è meglio non parlarne.
Alla mia sofferenza si aggiungeva la vergogna della sofferenza. Per impedirmi un simile dolore, mi strappai il
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cuore. Un’operazione semplice, ma poco efficace. Il dolore che mi aveva assediato dilagava ovunque, sotto la
pelle e sopra, negli occhi, nelle orecchie. I miei sensi mi
erano nemici e non la smettevano di ricordarmi quella
stupida storia.
Decisi allora di uccidere le mie sensazioni. Mi bastò individuare l’interruttore interno e spostarlo verso
l’universo del né-caldo-né-freddo. Fu un suicidio sensoriale, l’inizio di una nuova esistenza.
Da allora, non soffrii più. Non sentii più niente. La
cappa di piombo che mi mozzava il respiro scomparve.
E anche il resto. Abitavo in una specie di vuoto.
Passato il sollievo, cominciai ad annoiarmi di brutto. Pensai di riportare l’interruttore interno sulla posizione di partenza e mi accorsi che era impossibile. La
cosa mi preoccupò.
La musica che prima mi commuoveva non suscitava
più nessuna reazione in me, e anche le sensazioni primarie, come mangiare, bere, fare un bel bagno rilassante, mi lasciavano di pietra. Ero castrato su tutti i fronti.
La scomparsa dei sentimenti non mi pesò. La voce
di mia madre, al telefono, equivaleva alla scocciatura
provocata da una perdita d’acqua. Smisi di stare in pena per lei. Il che non era affatto male.
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Il resto però non mi andava a genio neanche un
po’. La vita era diventata morte.
Fu un album dei Radiohead a far scattare qualcosa. Si intitolava Amnesiac. Il titolo si confaceva al mio destino, visto lo stato di amnesia sensoriale. Lo acquistai. Lo ascoltai e non provai nulla. Era l’effetto che ormai aveva su di
me ogni genere di musica. Stavo quasi per alzare le spalle
all’idea di essermi procurato altri sessanta minuti di niente quando cominciò la terza canzone, il cui titolo alludeva a una porta girevole. Una sequenza di suoni sconosciuti, distribuiti con parsimonia sospetta. Il motivo aveva un nome azzeccato, che ricostruiva l’attrazione assurda
per le porte girevoli che hanno i bambini piccoli, incapaci, se vi si avventurano, di uscire dal loro cerchio. In teoria, non c’era nulla di commovente, ma mi stupii quando
mi accorsi di avere una lacrima all’angolo dell’occhio.
Dipendeva dal fatto che non provavo niente da settimane? La reazione mi parve eccessiva. Il resto dell’album non suscitò in me altro che il vago stupore provocato da qualsiasi primo ascolto. Finito l’album, riprogrammai la traccia numero tre: cominciai a tremare in
tutte le membra. Il mio corpo, folle di riconoscenza, si
protendeva verso quella musica scarna, come se si trattasse di un’Opera italiana, tanto era profonda la sua
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gratitudine di uscire finalmente dal congelatore. Bloccai il tasto repeat affinché la magia continuasse a prodursi ad libitum.
Prigioniero appena liberato, mi abbandonai al godimento. Ero il bambino vittima della sua fascinazione
per la porta girevole, ruotavo come una trottola in quel
percorso circolare. Sembra che i decadenti cerchino la
sregolatezza di tutti i sensi: quanto a me, ne avevo uno
solo funzionante ma, attraverso quella breccia, mi inebriavo fino alle profondità più abissali della mia anima.
Non si è mai così felici come quando si è scoperto il
modo di perdersi.
A freddo, compresi: ormai mi toccava solo quanto non
coincidesse con nulla che già conoscevo. Se un’emozione evocava la gioia, la tristezza, l’amore, la nostalgia, la
collera, ecc., mi lasciava di ghiaccio. La mia sensibilità
apriva ormai le porte solo alle sensazioni senza precedenti, che non potevano essere annoverate né tra le buone né tra le cattive. E andò così anche per quello che, da
allora, sostituì i miei sentimenti: cominciai a provare solo quelli che vibravano al di là del bene e del male.
L’orecchio mi aveva ricondotto tra i vivi. Decisi di
aprire una nuova finestra: l’occhio. L’arte contemporanea sembrava concepita per gli esseri della mia specie.
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Mi si vide dove prima non ero mai stato, al Beaubourg, alla fiac. Ci andavo a guardare opere che non
facevano venire in mente niente: proprio quello che mi
ci voleva.
Quanto al tatto, ero messo male: all’epoca della non
frigidità, andavo a vela e a motore. Dunque non mi rimanevano territori sessualmente inesplorati e rimandai
a più tardi la soluzione del problema.
Anche per quanto riguarda il gusto, non sarebbe
stata una cosa facile. Mi avevano raccontato di ristoratori pazzi che avevano inventato cibi gassosi dai sapori
fantastici, ma un pasto medio nei loro locali si aggirava
intorno ai cinquecento euro, la metà del mio stipendio
di pony express. Era escluso.
L’odorato ha di meraviglioso che non implica alcun
possesso. Si può essere straziati di piacere, per la strada,
grazie a un profumo indossato da una persona non
identificata. È il senso ideale, molto più efficace dell’orecchio sempre tappato, molto più discreto dell’occhio
che si comporta da padrone, molto più raffinato del
gusto che gode solo quando consuma. Se vivessimo ai
suoi ordini, il naso farebbe di noi degli aristocratici.
Imparai a vibrare per odori ancora non connotati: il
catrame bollente delle carreggiate rifatte, il peduncolo
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dei pomodori, la pietra grezza, la linfa degli alberi tagliati di fresco, il pane raffermo, la carta india, le rose
morte da lungo tempo, il vinile e le gomme vergini divennero per me fonte di voluttà senza confini.
Quando mi sentivo di umore un po’ snob, andavo
da questi nuovi profumieri seduti nella loro bottega
che creano, a richiesta, fragranze inedite. Ne uscivo incantato dalle loro dimostrazioni e odiato dai venditori
che si erano dati tanto da fare senza che io comprassi
nulla. Non era colpa mia se erano così cari.
Nonostante queste orge olfattive, o grazie a esse, il mio
sesso finì per mettersi a protestare.
Da mesi, più niente, nemmeno in solitaria. Inutile
affannarsi a spremere le meningi, immaginare l’impensabile, no, davvero, nessuna possibilità mi attraeva. Le
più piccanti letture consacrate alla zona sottostante la
cintura mi lasciavano di pietra. Scoppiavo a ridere davanti ai film porno.
Ne parlai al mio amico Mohamed, che mi disse:
– Sarà pure una stronzata, ma sai, innamorarsi
aiuta.
Ma non mi dire. Di tutti i miei sensi, quello che
rendeva misteriosamente capaci di cristallizzarsi attorno a un altro essere era il più morto. Me la presi
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con lui perché non riusciva a capire la mia infelicità e
borbottai:
– Non hanno più pane? Dategli delle brioches.
– E da quanto tempo? – mi chiese.
– Almeno cinque mesi.
Mi guardò e vidi la commiserazione mutarsi in
disprezzo. Non avrei dovuto precisargli che anche la
mano era in sciopero. La cosa mi ricordò l’episodio del
Ventre di Parigi in cui il povero confessa alla bella macellaia di non mangiare da tre giorni, cosa che trasforma subito la pietà della donna grassoccia in disdegno
astioso perché, insomma, bisogna appartenere a una
specie inferiore per sopravvivere a una simile abiezione.
Un prete mi disse che si poteva rimanere casti all’infinito. I membri del clero che rispettano davvero
questo voto sono la pubblicità migliore perché si pratichi l’una o l’altra forma di sessualità: è gente spaventosa. Ero pronto a tutto per non diventare come loro.
L’orecchio è un punto debole. L’assenza di palpebre ne
aggrava una deficienza: sentiamo sempre quello che
vorremmo evitare di sentire, e non sentiamo quello che
ci serve. Siamo tutti duri d’orecchi, perfino chi ha l’orecchio assoluto. La musica ha anche la funzione di illuderci di dominare il più sgangherato dei sensi.
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Il tatto e l’udito divennero per me il cieco e il paralitico: stranamente, cominciai a compensare le mie carenze sessuali con una specie di continuità musicale. Il
mio lavoro vi si adattò: ormai attraversavo Parigi con
gli auricolari ficcati nelle orecchie a sventola, e la moto
elettrizzata dai decibel.
Successe quello che doveva succedere: travolsi un
vecchio. Niente di grave. Il mio principale non fu di
questo avviso e mi licenziò in tronco. Avvertì i suoi colleghi di non assumermi, bollandomi come pericolo
pubblico.
Mi ritrovai senza sesso e senza lavoro: troppe menomazioni per un solo uomo.
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Pericolo pubblico, aveva detto il mio ex capo. Mi
chiesi se non potesse essere un mestiere.
Al bar, feci una partita a biliardo con un russo parecchio in gamba. Aveva una mira infallibile, così gli
domandai come avesse affinato quel talento.
– Sono abituato ai bersagli – rispose con sobrietà
professionale.
Avevo capito. Affinché sapesse con chi aveva a che
fare, smisi di lasciarlo vincere. Fece un fischio di ammirazione. Gli dissi che ero il suo uomo. Mi condusse
dall’altro capo di Parigi e mi presentò al boss, nascosto dietro uno specchio scuro.
La mia assunzione fu talmente facile da rendermi
favorevole all’entrata della Russia in Europa. Neanche
una scartoffia, niente. Un test di tiro, qualche domanda. Non mi chiesero nemmeno la carta d’identità:
diedi il nome che volevo. Urbano, il mio sogno in fatto di nomi. Gli bastò. Oltre a un numero di cellulare,
per motivi ben comprensibili.
Vidi che avevano scritto sulla mia scheda “tiratore
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scelto”. La cosa mi lusingò. Per la prima volta mi veniva attribuita un’alta qualifica e mi piaceva che fosse stato un criterio oggettivo a stabilirla. Le fate che si erano
chinate sulla mia culla mi avevano concesso soltanto
questo dono: la capacità di sparare. Da bambino, sentivo negli occhi e nel corpo questa misteriosa facoltà di
mirare, ancora prima di possedere lo strumento ad hoc.
Strana sensazione, avere un miracolo di sicurezza nel
prolungamento del braccio. Da una fiera all’altra, potei
esercitare, o meglio constatare il prodigio: colpivo sempre il centro del bersaglio, accumulando miriadi di peluches giganti.
La vittoria era a un tiro di schioppo, salvo il fatto
che io uno schioppo non ce l’avevo e non c’era niente
da vincere. Pativo per quel talento inutile, come un
commentatore sportivo col pollice verde, o un monaco
tibetano che inutilmente non soffre il mal di mare.
L’incontro con quel russo fu la rivelazione del mio
destino. Contemplò i miei dieci bersagli di cartone e
disse:
– Pochi uomini sparano come te. E di certo nessuna donna.
Tacqui, prudente, non senza domandarmi dove
mai sarebbe riuscito ancora ad annidarsi il machismo.
Riprese:
– Non c’è cosa più virile del mirare giusto.
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Non commentai questa affermazione che proprio
non reggeva. Il mio destino sembrava amare gli aforismi di bassa lega.
– Complimenti – disse un’altra volta mettendo
giù i miei effimeri bersagli. – Devo avvisarti però che
non ti servirà a molto. I nostri killer hanno l’incarico
di sparare a bruciapelo. E non sperare di utilizzare armi diverse dalla pistola. Ma non si sa mai, magari ti
capita un cliente con buoni riflessi… Noi ti assumiamo come un’équipe di scienziati non si farebbe sfuggire un esperto nel settore: non sappiamo se ci frutterai qualcosa, sappiamo solo che un tipo come te deve
lavorare per noi, non per la concorrenza.
Mi domandai se per concorrenza intendesse la polizia. Credo però che fossero le bande rivali.
Il mio è un dono che sfugge a ogni logica. Il tiratore scelto innato ha una vista da pilota di linea, una
mano fermissima e una certa disinvoltura nell’evitare
il rinculo. Ma molta gente, che pure possiede queste
virtù, mancherebbe un elefante in un corridoio. Il tiratore scelto è in grado di stabilire un punto d’intersezione stupefacente tra quello che il suo occhio vede e
quello che il suo gesto compie.
Attesi con impazienza la mia prima missione. Cominciai a controllare la segreteria telefonica venti
volte al giorno. L’angoscia mi attanagliava lo stoma18
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co: non l’angoscia per il lavoro, del quale ancora non
sapevo niente, quanto l’angoscia di non essere chiamato.
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