4 > bernardetta e la vita di comunione fraterna

Transcript

4 > bernardetta e la vita di comunione fraterna
BERNARDETTA E LA VITA
DI COMUNIONE FRATERNA
Rm 12,1-2.9-16
Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio
vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2 Non conformatevi alla
mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter
discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
9 La
carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; 10 amatevi gli
uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11 Non siate pigri nello zelo;
siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. 12 Siate lieti nella speranza, forti nella
tribolazione, perseveranti nella preghiera, 13 solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi
nell’ospitalità.
14 Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15 Rallegratevi con
quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. 16 Abbiate i medesimi
sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle
umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
Col 3,12-17
12 Rivestitevi
dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà,
di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; 13 sopportandovi a vicenda e perdonandovi
scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il
Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il
vincolo di perfezione. 15 E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati
chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!
16 La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con
ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. 17 E
tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù,
rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.
La vita di comunione fraterna (Rom 12,1-2.9-16; Col 3,12-17)
Nei versetti immediatamente (cfr Rom 11,33-36) precedenti, Paolo ha rivolto
un inno a Dio, celebrando la sua misericordia e il suo amore; ora, in 12,1-2,
esorta i Romani a calare nella vita le verità di rivelazione da lui comunicate. Il
tono con cui l’Apostolo si rivolge ai credenti è vario: si passa da una voce di
accompagnamento, calda, mite, suadente ed invitante ad un suono acceso e
vibrante, che mette in evidenza la serietà dell’impegno e di quanto viene
proposto, fino ad assumere la forma dell’aut aut, della alternanza inevitabile di
vita o di morte, di felicità e di disgrazia. Paolo mostra di voler ora esortare i
Romani alla coerenza della fede. La vita dei credenti, presentata qui nella
concretezza e nella unità-totalità personale della visione antropologica biblica
con l’espressione “i vostri corpi”, è ciò che è gradito, quale unico sacrificio e
culto che stabilisce la comunione con Dio. Questo culto spirituale richiede
l’impegno di tutto l’uomo: corpo, intelligenza, coscienza, e richiede
l’assunzione di schemi di vita non allineati al comune sentire, per essere così
capaci di aderire alla volontà di Dio.
Nei vv. 9-16, sempre del c. 12, si passa poi a verificare il retto
comportamento della vita in corrispondenza al culto, secondo quanto appena
richiesto, e su questa linea si muove anche il brano di Col 3,12-17.
A. VITA COME CULTO GRADITO A DIO (Rom 12,1-2)
v. 1 Esorto, perciò, voi, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i
vostri corpi (voi stessi) come sacrificio vivente, santo gradito a Dio,
come il vostro culto spirituale (razionale).
Vi esorto, perciò, fratelli: Paolo non vuole ammonire o imporre delle norme
morali fredde e asettiche, esprime invece il suo affetto di padre e, dall’interno
di questa relazione, presenta la serietà e la necessità di una vita che non si
ferma ad ascoltare il mistero dell’agire di Dio, ma vi entra dentro seguendone
le dinamiche di salvezza. Perciò: è conclusivo di quanto è stato detto in tutta
la lettera e soprattutto dell’aver annunciato la profondità della ricchezza e della
sapienza di Dio (cfr 11,33-36). Voi, fratelli: il termine ha perso per noi
l’intensità che aveva per i credenti di allora, i quali erano certi che il nuovo
rapporto in Cristo li rendeva davvero figli dell’unico Padre. Paolo fa ora leva su
questa verità, non si distanzia in nome del suo apostolato, ma ancor più si
inserisce dentro la loro vita, nell’unica comunione di figlio di Dio. Per la
misericordia di Dio: l’Apostolo si preoccupa di fondare, su una base
autorevole e certa, le sue esortazioni che non partono da se stesso, ma da
qualcosa di più grande di lui, cioè dalla misericordia di Dio, di cui egli stesso è
stato oggetto e che gli ha dato la forza di essere ministro del vangelo. Di per
sé il testo greco ha il plurale, “le misericordie” (oiktirmoi) di Dio, e il vocabolo
originale rimanda a quello ebraico (rahamim) che descrive le viscere di
misericordia di una madre che si commuove di fronte al pianto del suo
bambino. Il plurale “misericordie” si riferisce alle continue manifestazioni di
tenerezza che Jahwéh ha riservato per il suo popolo: la premura, l’amore di
accoglienza, di perdono e di sostegno che Dio ha avuto per Israele, ed ora
anche per i pagani, è l’unica realtà che può far sciogliere e far sì che i credenti
corrispondano all’amore con amore. Ad offrire i vostri corpi (voi stessi): si
esorta a presentare a Dio i propri corpi nel senso figurato di un’offerta cultuale.
Il tempo del verbo “offrire” è all’aoristo che comunemente conferisce all’azione
richiesta un aspetto puntuale ed unico, ma qui non significa “una volta per
tutte”, ha infatti un valore ingressivo e complessivo-distributivo: i cristiani
vengono esortati a cominciare a vivere l’offerta di sé come un atteggiamento
globale di tutta la loro vita e declinata in ogni aspetto di essa. I vostri corpi:
per la mentalità comune il corpo indica “il fisico” della persona, ma per la
mentalità biblica si riferisce alla totalità della persona che entra in relazione.
Seguendo poi l’uso che la lettera fa del sostantivo corpo ci accorgiamo che, con
esso, si designa l’uomo stesso dominato dalla tendenza del peccato che lo
conduce verso la morte. Anzi, se egli è abbandonato da Dio a se stesso, è
capace di disonorare il proprio corpo con comportamenti gravemente immorali.
Solo l’opera di Dio può riportarlo alla vita e all’onore che gli spetta.
Quest’opera è stata realizzata per mezzo di Gesù, grazie all’offerta al Padre del
suo corpo sulla croce. Il credente battezzato, unito profondamente a Lui e alla
sua morte e resurrezione, ricevuto il dono dello Spirito, viene liberato nel
proprio corpo dalla condizione di peccato e di morte, ed è così chiamato ad una
nuova vita in cui prestare il proprio corpo, cioè la propria storia in tutta la sua
concretezza, a servizio del suo nuovo Signore e portare frutti secondo la sua
volontà. Come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: attraverso l’offerta
dei propri corpi a Dio, i cristiani, secondo l’Apostolo, partecipano al nuovo culto
che Cristo ha iniziato. Il credente viene esortato a stare davanti a Dio come
vittima sacrificale, offrendo se stesso, la propria esistenza e non una vittima
esterna alla propria vita. Questa offerta sacrificale ha come radice, ragion
d’essere e modello il sacrificio con cui Cristo si è donato a Dio per noi. Per
capire questo possiamo vedere quello che Paolo dice in Ef 5,2: “camminate
nell’amore, come anche Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi come
offerta e sacrificio a Dio”. Per Paolo il cammino della vita cristiana consiste
essenzialmente nel vivere l’amore (cfr Rom 13,8-10), avendo come ideale
l’amore espresso da Cristo nell’offerta di sé a Dio sulla croce. Di conseguenza,
nella vita del cristiano, culto a Dio e dono di sé agli altri sono la stessa cosa,
l’adorazione a Dio consiste nella carità. Vivente: non indica solo la vitalità
fisica, distinguendosi così dai sacrifici antichi (cfr 1Pt 2,4s), ma l’avere la vita
dello Spirito che ci ha rigenerati (cfr 8,13), il credente si presenta vivo,
vitalizzato dallo Spirito, capace di fare così l’offerta di sé. Santo: era questa
una delle richieste della vittima sacrificale (cfr Lv 22,17-33; 10,16-18) e
consisteva nell’essere maschio, nel non avere nessun difetto fisico, nell’
“essere messo a parte” per Dio. La santità di cui parla l’Apostolo non è qui
soltanto etica, ama anche ontologica: il credente, cioè, è agito dallo Spirito e
quindi reso santo; l’impegno umano raggiunge la sua efficacia perché la
potenza dello Spirito è all’opera. Gradito a Dio: se l’offerta deve trovare
corrispondenza in colui al quale si offre, si assicura che il dono di se stessi, dei
propri corpi, ha il beneplacito di Dio; sincerato da questo gradimento, il
credente sa di compiere l’unica cosa giusta che rallegra Dio stesso. Come il
vostro culto spirituale (razionale): l’aggettivo greco logikê oscilla tra due
significati di base, cioè spirituale e razionale, ed entrambi si addicono al testo.
L’offrire i propri corpi come offerta a Dio è un servizio ragionevole, in quanto
contrariamente a quello irragionevole e insano dell’idolatria pagana, scaturisce
da un giusto rapporto tra l’uomo e la divinità; tuttavia esso è, nello stesso
tempo, “spirituale” in quanto non richiede più un sacrificio cruento di un corpo
fisico, ma l’offerta a Dio dell’intera e quotidiana esistenza cristiana. Il nuovo
culto proposto da Paolo fa capire che la sacralità non è più nelle cose, negli
oggetti o nei luoghi: è l’uomo stesso che è mistero sacro di Dio e lo è non per
una azione esteriore, bensì per l’offerta che fa di se stesso e che lo configura a
Cristo, secondo scelte etiche precise e qualificate che il credente è capace di
fare mediante l’opera di discernimento.
v. 2 e non lasciatevi conformare al secolo presente, ma lasciatevi
trasformare quanto al rinnovamento della vostra mente per poter voi
discernere qual (è) la volontà di Dio, ciò che è bene gradito e perfetto.
Questo versetto esplicita e indirizza prima in forma negativa, poi in forma
positiva le affermazioni precedenti, suggerendo cosa non fare e fare per
trasformare la vita in culto gradito a Dio.
e non lasciatevi conformare (syschêmatizesthe), al secolo presente: i
fedeli non possono assumere lo schema di vita di questo mondo presente, che
si esprime in atteggiamenti, comportamenti, che non si addicono più alla loro
nuova esistenza, in quanto appartengono ad un modo di essere ormai del
passato (cfr 1Pt 1,14), proprio di un mondo che sta scomparendo: “passa lo
schema di questo mondo” (1Cor 7,31). I credenti mediante il battesimo sono
immersi nella realtà futura, “si sono ormai rivestiti di una vita nuova in Cristo,
sono chiamati ad essere conformi a lui “ (Rom 8,29) e non possono più
uniformarsi agli atteggiamenti del “presente secolo malvagio” (cfr Gal 1,4),
sono degli anticonformisti! L’affermazione non è la svalutazione del mondo
umano o della natura, ma la considerazione teologica secondo la quale Gesù
ha strappato l’uomo dall’ignoranza di Dio, dalla paura della morte con cui il
nemico teneva schiavi gli uomini, chiusi nell’egoismo di una esistenza tutta
sacrificata alla brama di avere, potere, apparire, per far vivere i credenti, qui e
ora, da creature nuove, da figli e da fratelli. Il mondo presente con le sue
valutazioni e considerazioni è superato dal mondo nuovo introdotto da Cristo,
anche se certamente i credenti sono sempre esposti al fascino degli pseudo
valori, basta vedere cosa succedeva tra i Corinti nelle loro valutazioni dei
carismi o degli apostoli di riferimento.
ma lasciatevi trasformare: il verbo è un imperativo presente passivo:
come imperativo l’azione è imposta e l’esecuzione spetta al soggetto; l’aspetto
del presente indica che l’azione non avviene una volta per tutte ma è continua,
è la dinamica del vivere; ma in quanto passiva, l’azione viene subita. È una
delle forme intraducibile, tipicamente paolina con la quale si esprime l’azione
gratuita di Dio sull’uomo (passivo) e al tempo stesso la collaborazione e
l’impegno dovuto a scelte (imperativo). La trasformazione alla quale Paolo si
riferisce non è un compito affidato semplicemente alla libertà umana, come se
la scelta etica fosse completamente dovuta al credente. Sulla base di quello
che è stato detto nei precedenti capitoli della lettera, la metamorfosi alla quale
ci si riferisce è un’esperienza vissuta come dono operato da Dio e dal suo
Spirito (cfr Rom cc. 7-8); quella del credente non è una vita guidata
dall’impegno di essere più buoni o fare meglio, ma anzitutto un lasciarsi
trasformare dallo Spirito, un lasciare che lo Spirito del Risorto entri nella nostra
vita, dandole una nuova qualità, un nuovo modo di essere. Certo lo Spirito
richiede la disponibilità ed impegna la nostra libertà; è l’uomo che pone la
condizione e sceglie di accogliere il mistero di Dio, decide di nutrirsi della
Parola, di partecipare alla mensa eucaristica, di ricevere la grazia del perdono
di vivere in comunione fraterna…
Quanto al rinnovamento della vostra mente: la trasformazione riguarda
in modo particolare la “mente” (in greco nous). Tale termine si riferisce, non
genericamente alla sede di pensieri e fantasie, ma alla capacità di percepire la
realtà sotto il profilo di valore e di senso, di giudicare il reale e di cogliere il
significato delle cose. Paolo non dice che lamente dell’uomo deve essere
sostituita; essa mantiene la sua naturale capacità di giudizio, ma deve essere
rinnovata, cioè affinarsi nella crescita della propria fede che fornisce nuovi
criteri di discernimento. Comprendiamo così che la trasformazione non avviene
per automatismo o rivelazioni misteriche; il mistero di Dio passa attraverso
l’intelligenza e obbliga il credente a un lavoro di discernimento.
Per poter voi discernere qual (è) la volontà di Dio, ciò che è bene
gradito e perfetto. Il discernimento è richiesto dalla ambivalenza della
esistenza e delle cose: zizzania e grano buono, bene e male coesistono a livello
personale e storico. Ognuno deve partire dall’interno del proprio cuore e
imparare a dare un giudizio di valore riguardante il bene, a cui poi far seguire
l’atto di volerlo fare proprio e realizzarlo. Il discernimento sollecita
direttamente la responsabilità personale, e il credente, mosso dallo Spirito, può
valutare dal di dentro tutte le cose, distinguendo quanto è riconducibile allo
Spirito con la maiuscola da quanto, imputabile alla libertà umana, rifiuta
l’appello dello Spirito e si traveste ordinariamente sotto forme di bene. Paolo,
da grande pastore, sa che c’è nell’uomo l’inclinazione a sottrarsi alla continua
fatica dell’analisi e ad affidarsi a giudizi precostituiti o sommari, sbrigativi e
riduttivi; si preferiscono soluzioni immediate e pratiche al pensare e al voler
affrontare la realtà. Per usare un’immagine biblica, la via larga sembra meglio
di quella stretta per raggiungere il successo e la felicità, ma si tratta soltanto di
una pia illusione. L’oggetto del discernimento è capire la volontà di Dio, quale è
il disegno di Dio sulla propria vita, sapendo che solo questo può saziare la fame
e la sete della gioia e del senso delle cose. Nella specifica personalizzazione
della volontà di Dio resta comunque evidente per l’Apostolo, che essa trae con
sé tre caratteristiche: anzitutto essa coincide con il bene, che non è una realtà
emotiva e di convenienza, ma il benessere della creatura come figlio di Dio. La
seconda caratteristica è quella della compiacenza a Dio: infatti nel ricercare la
volontà divina il credente deve essere giunto talmente a conoscere Dio da
sapere i suoi gusti, ciò che gli è gradito. Infine “ciò che è perfetto”; l’idea della
perfezione non è il perfezionismo umano, poiché essa trae con sé l’aspetto di
integrità e di totalità; la volontà di Dio non frammenta né sminuisce il fedele
ma lo esalta nella semplicità e nella pienezza, nella misura del divino.
B. L’AMORE DEI FRATELLI QUALE COERENZA CULTUALE (Rom 9-16)
Parlando della perfezione Paolo vuole far prendere coscienza della parzialità di
quello che ciascuno si trova ad avere: nessuno ha tutti i doni e la totalità del
corpo supera il singolo membro (cfr 12,3-8). Da qui la necessità di mettere in
comune, di donare con gioia quello che ciascuno ha ricevuto. Ora Paolo vuole
offrire il criterio valutativo che permette di discernere l’appartenenza alla unità
della fraternità ecclesiale e la capacità di saper offrire la vita come culto gradito
a Dio. Non è facile distinguere una strutturazione di questo brano che sembra
articolarsi in una serie interminabile di imperativi, tenendo però presente che
quelli che noi traduciamo con imperativi rispondono a forme diverse del verbo
greco, cioè participi presenti o gerundi o aggettivi. Possiamo così suddividere il
testo:
a) Esortazione generale
v. 9 l’amore sia senza ipocrisia.
b) L’amore nelle relazioni fraterne
Aborrite il male, attaccatevi saldamente al bene,
v. 10 amatevi cordialmente con l’amore di fratelli, prevenitevi vicendevolmente
nella stima,
v. 11 siate solleciti e non pigri ferventi nello spirito, servite il Signore,
c) Le circostanze del vissuto di amore
v. 12 siate gioiosi nella speranza, nella tribolazione pazienti, perseveranti nella
preghiera,
v. 13 solleciti nel condividere i bisogni dei fratelli, premurosi nell’ospitalità
d) Situazioni particolarmente difficili che provano l’amore
v. 14 benedite chi vi perseguita, benedite e non maledite
v. 15 prendete parte alla gioia di chi gioisce e al pianto di chi piange
v. 16 abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, non aspirate a cose
eccelse, ma lasciatevi attrarre dalle cose umili. Non stimatevi saggi da voi
stessi.
v. 9 l’amore sia senza ipocrisia: è il principio generale che guida la vita del
credente, l’amore è incompatibile con l’egocentrismo, con l’affermazione
narcisistica di se stessi, con il proprio tornaconto. Come dirà in 1Cor 13, Paolo
sa che si possono compiere gesti di amore e non avere il cuore dell’amore.
Prima di ogni cosa, si invita dunque a non scherzare con l’amore; l’invito forte
e fermo è a gettare via la maschera della simulazione, poiché l’amore è
anzitutto un fatto interiore di verità e non solo una sdolcinatura esterna.
Aborrite il male, attaccatevi saldamente al bene: l’amore non va a
braccetto con il male; il primo moto e quello di separazione da ogni trama
iniqua, non per paura di sporcarsi ma perché il male avvelena e uccide.
All’azione negativa corrisponde armonicamente la positiva, non si resiste al
male se non si è uniti al bene, e per esprimere l’unione al bene si usa un verbo
(kollaô) del quale Paolo si serve per indicare l’unione profonda e sacramentale
dello sposo con la sposa. Con il bene è richiesta una unione nuziale che
produce frutti di pace, gioia …
v. 10 amatevi cordialmente con l’amore di fratelli, prevenitevi
vicendevolmente nella stima: si trasferisce la naturalità dell’amore del
sangue alla nuova fraternità di fede; l’amore tra credenti è chiamato ad essere
segno di appartenenza alla famiglia di Dio e questo amore non è possibile se
non nasce dalla stima dell’altro. La stima non è una concessione che uno fa
partendo da se stesso, dalla propria valutazione, da una medaglia conquistata
sul campo, ma dal riconoscere nell’altro la dignità di figlio di Dio; la stima,
quindi, non è condizionata, ma anticipata, perché coglie l’altro nella più
profonda verità di se stesso.
v. 11 siate solleciti e non pigri, ferventi nello spirito, servite il Signore:
prendersi cura dell’altro è il linguaggio dell’amore; chi non trova mai tempo per
il fratello e non è premuroso in realtà non ama, perché l’amore ha occhi vigili,
mani tese e piedi pronti. Nel proprio interno il credente, mosso anche dal fuoco
dello Spirito, vive un calore travolgente che lo smuove contro ogni torpore e
rilassatezza, contro ogni ristagno mefitico e mortifero. Per l’Apostolo chi ama in
questo modo non regola solo correttamente i propri rapporti col suo prossimo,
ma di fatto si trova a servire il Signore. L’imperativo “servite il Signore”, non è
un impegno che si aggiunge a quelli appena presentati, ma la loro
interpretazione: muovendosi a favore del fratello in realtà si serve lo stesso
Signore.
v. 12 siate gioiosi nella speranza, nella tribolazione pazienti,
perseveranti nella preghiera; v. 13 solleciti nel condividere i bisogni
dei fratelli, premurosi nell’ospitalità: il linguaggio dell’amore non
appartiene solo ai giorni di festa o alle circostanze positive della giornata, esso
abbraccia la quotidianità della vita in tutte le sue componenti. Il credente è
chiamato ad un comportamento di fatto contrario alla naturalità umana:
quando il futuro non ha prospettive la speranza si fa triste, nella difficoltà
nasce lo scoraggiamento, nel dubbio la rivendicazione; se la preghiera si fa
pesante e non luminosa si preferisce lasciarla, nel farsi carico del bisogno
dell’altro si misura e si condiziona, persino l’ospitalità non sempre è generata
dall’attenzione e dalla premura del cuore. Ora il fedele è chiamato ad agire alla
maniera divina, superando quello che è il peso della fatica, del disgusto, la noia
della preghiera, la stanchezza che si prova verso il fratello o la sorella.
Si comincia a delineare così la figura di Gesù. È Lui che non ci ha scaricato
sulla strada, è Lui che ci ha accolto, è Lui che ha perseverato nella preghiera
nell'orto del Getzemani, è Lui che, nella tribolazione della croce, non è stato
schiacciato, ma ha perdonato.
v. 14 benedite chi vi perseguita, benedite e non maledite: l’Apostolo
interpreta le parole del Signore che aveva detto: “se amate coloro che vi
amano che merito ne avete”. L’amore non è paritetico o di rimessa; quello di
Gesù, e quindi quello del credente, si colloca nella linea dell’anticipo e del
credito, è capace così di ribaltare le situazioni: chi è perseguitato e maledetto
trova la sua gioia nel benedire e sente che questo uccide in sé il sentimento di
rivendicazione e di rabbia, perché è una benedizione di perdono.
v. 15 prendete parte alla gioia di chi gioisce e al pianto di chi piange: è
più facile dare qualcosa a qualcuno che dare il proprio cuore. Dare questo
significa entrare nel mondo dell’altro e fare propria la sua gioia e la sua
sofferenza come se fosse carne della nostra carne, significa anche che la
relazione con il fratello non è dall’alto, come di un benefattore che si compiace
nel suo dare, ma un farsi accanto, prossimo, una condivisione che è vero
sollievo dell’altro, non tanto perché risolve i problemi, ma perché si è in
comunione di gioia e di dolore.
v. 16 abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, non aspirate a
cose eccelse, ma lasciatevi attrarre dalle cose umili. Non stimatevi
saggi da voi stessi. In questo versetto si esplicita e si allarga la dimensione
dell’amore come comunione e condivisione. L’amore comporta un mettersi nei
panni dell’altro, un sentire dall’interno che genera una circolarità di amore che
nutre e fa crescere. Tuttavia perché tutto questo divenga possibile è necessaria
la via della semplicità, della umiltà, della correzione del fratello. Paolo non
vuole frustrare la legittima aspirazione a crescere, vuole disilludere che siano
“le cose eccelse” a rendere grandi le persone: solo l’amore che si fa piccolo e
trasparente compie la cosa eccelsa. Infine, nessuno può avere una giusta stima
di se stesso, l’amore umile e sincero chiede al fratello luce e si lascia da lui
stimare: chi ama se stesso si difende e si isola, chi si lascia amare non
pretende nulla e vive in comunione. L’umiltà vince la presunzione e
l’ossessione di poter fare da soli, donando l’energia vitale che si trasforma in
costanza e passione di amore per i fratelli.
LA VITA DEI CREDENTI CRISTIANI (Col 3,12-17)
Paolo ha appena ricordato ai Colossesi che si sono svestiti dell’uomo vecchio e
del suo agire e che hanno rivestito l’uomo nuovo (cfr Col 3,9s); ora l’invito è
alla coerenza, a vivere e ad agire in conformità a quell’abito che hanno appena
indossato (vv. 12-15), consentendo così di mantenere e costruire l’armonia tra
i membri dell’unico corpo (vv. 16-17).
a) l’abito del cristiano (Col 3,12-15)
v. 12 rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di viscere di
misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mitezza e di larghezza di
cuore. Nel linguaggio biblico l’abito è simbolo delle opere che manifestano
all’esterno le disposizioni interiori, le scelte del cuore. Si può dire che, per la
Bibbia, valga l’opposto del proverbiale “l’abito non fa il monaco”. L’ingiunzione
a rivestirsi si fonda non su un principio di volontà, ma sul fatto che i credenti
sono gratuitamente eletti, santi e amati. L’elezione svela l’amore di Dio e non
la qualità più o meno eccelsa dell’eletto; la santità allude alla vocazione
battesimale, alla dignità di figli di Dio; l’essere amati è il primo passo di Dio nei
confronti dell’uomo, al quale seguono, in concomitanza, la santità e l’elezione.
Il tessuto dell’abito del credente è dello stesso materiale di quello di Dio, fatto
di cinque pregiate stoffe: “viscere di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di
mitezza e di larghezza di cuore”. Queste sono tutte qualità specifiche
dell’amore di Dio e di Cristo. Di fatto, dunque, Paolo invita a rivestirsi di Cristo
che è misericordioso, benevolente, umile, mite, largo di cuore; questa ultima
caratteristica va oltre la pazienza e manifesta un cuore che è sempre aperto e
sa accogliere l’altro.
v. 13 sopportandovi a vicenda e perdonandovi se qualcuno ha qualche
motivo di rimprovero nei confronti di un altro: come il Signore vi ha
perdonato, così (fate) anche voi. Rivestirsi di Cristo, di quelle qualità di
amore appena presentate, significa “sopportarsi e perdonarsi a vicenda”.
Dietro il concetto di sopportazione non c’è solo la tolleranza della diversità e
l’educazione per un civile rispetto di convivenza, esso va ben oltre e comporta
il “sostenersi e il portare i pesi l’uno dell’altro”, un farsi carico del fratello
affidato alla mia custodia, contrariamente all’atteggiamento di Caino che non
vuole rendere ragione del fratello. Il perdono, poi, è la forza più grande
dell’amore, non è un mettere i paraocchi o far finta di niente, il perdono è forza
rigenerante proprio perché è quello che Gesù ha fatto: da morti che eravamo ci
ha fatto rivivere per il suo amore. L’invito a guardare al Signore, “come vi ha
perdonato”, non è un riferimento di esemplarità, ma il conferimento di una
reale possibilità: il credente può perdonare, perché è stato per primo
perdonato.
v. 14 soprattutto (rivestitevi) dell’amore: esso è il vincolo della
perfezione: se la sopportazione e il perdono possono sembrare un andare in
retromarcia o vivere in una situazione di stallo, l’Apostolo ricorda che il collante
di tutto, il propulsore che fa crescere nella comunione con Dio e con i fratelli è
l’amore, esso non è un vago sentimento, ma si manifesta in un costante
atteggiamento di servizio al fratello, di disponibilità ad amare nella pienezza
del dono di se stessi (di questo tratterà la scheda successiva, cfr 1Cor 13).
v. 15 e regni nei vostri cuori la pace di Cristo alla quale siete stati
chiamati, in un solo corpo, e siate eucaristici!
Spesso le esortazioni di Paolo terminano con il riferimento alla pace (cfr Rom
15,13.33; 2Cor 13,11; Fil 4,7.9 ecc.), perché essa è il loro frutto. La pace è
detta di Cristo, cioè egli è l’origine, anzi non solo la produce, ma si identifica
con essa (genitivo epesegetico). C’è un nesso temporale tra Cristo e la pace, la
sua pace è per sempre. La parola “pace” racchiude un senso profondo:
riassume tutti i valori salvifici e, nella tradizione biblica, viene connessa alle
aspettative escatologiche e alla figura del Messia. Pace è uno dei nomi di cui
egli si riveste, essendo appunto definito “principe della pace” (Is 9,5; Mi 5,5;
Ez 34,25). I beni compresi nel termine “pace” sono un godimento di tutti, essi
sono offerti a chiunque si riveste di Cristo. I credenti hanno per vocazione la
pace, sono chiamati al benessere salvifico. Ciò non avviene in modo
individualistico, poiché la pace è data all’interno dell’unità fraterna, “in un solo
corpo”; anzi nella misura in cui la Chiesa e suoi membri si impegnano a vivere
secondo l’abito nuovo, la pace si manifesterà in pienezza. “Siate eucaristici”: la
riconoscenza è il linguaggio del cuore, di chi sa quanto e quale è il dono del
Signore, non si può dire “grazie” una volta per tutte, ma occorre essere
eucaristici sempre, perché costanti sono la benevolenza e il favore di Dio. Solo
chi vive nella gratitudine sa leggere l’amore divino e desidera corrispondervi.
b) la via della pace (vv. 16s)
v. 16 La parola di Cristo abiti abbondantemente in voi, istruendovi e
ammonendovi a vicenda in ogni sapienza con salmi, inni, e canti
spirituali, cantando a Dio con tutto il cuore nell’azione di grazie.
Paolo considera l’accoglienza della Parola nelle propria vita la condizione
affinché la Pace regni sovrana nei singoli cuori e nell’intero corpo della Chiesa.
La parola di Cristo è Cristo stesso come rivelazione e comunicazione di Dio,
piuttosto che una istruzione avente per contenuto Lui. La Parola di Cristo non
può essere solo un ospite di passaggio o saltuario, deve, per Paolo, trovare
stabile dimora, facendo sì che ogni fedele, a sua volta, dimori in essa.
L’Apostolo traccia anche il percorso di come la parola può dimorare: anzitutto
mediante l’istruzione e l’ammonizione vicendevole. Si tratta di stimolarsi a
vicenda in tutti i modi offerti dalla sapienza umana, prendendo sul serio e
facendosi carico della crescita spirituale e morale del fratello. Tutti sono
chiamati a svolgere questo servizio e, al tempo stesso, ad accettarlo dall’altro.
Il terzo modo con cui la parola prende dimora è la preghiera, qui ricordata
nella forma dell’innologia ebraica e cristiana che si manifesta negli inni, nei
cantici, nei vari salmi, una preghiera non solo verbale, ma che parta invece dal
cuore e diventi segno di ringraziamento dei benefici di Dio.
v. 17 tutto quello che fate, in parola e azione, (fatelo) nel nome del
Signore Gesù, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui.
Alla fine di tutto il fedele è invitato, se ancora non l’ha compreso, a centrare la
sua vita in Cristo, Lui è il respiro del vivere, lui è lo spazio mistico di ogni
movimento. Parola e azione esprimono la totalità della relazione umana, il
mondo interiore si fa comunicazione e operatività. Per il credente, ogni parola
e ogni azione è vissuta in Cristo e questo modo di agire libera da ogni
protagonismo e divisione, dando la certezza di contribuire alla crescita del
corpo di Cristo, la sua Chiesa.
PER LA RIFLESSIONE PERSONALE E COMUNITARIA
“Offrire
i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a
Dio”: tante volte pensiamo e ci preoccupiamo di dover fare delle cose
particolari o chissà quali sacrifici e penitenze, per essere graditi a Dio, ma
ci dimentichiamo della cosa più importante capace davvero di donargli
gioia: il nostro essere, la nostra stessa vita. Così avviene del resto anche
nelle nostre relazioni umane: come genitori pensiamo di dover riempire i
nostri figli di beni e di cose materiali, assecondando i loro desideri per
conquistare il loro favore, il loro affetto; come sposi o spose (mariti e
mogli o anche fidanzati) pensiamo di dover riempire l’altro o l’altra di
regali per dimostrare il nostro amore e tanto più è prezioso il dono tanto
più grande pare sia il sentimento che proviamo. Paolo ci ricorda qui che
nel rapporto con gli altri come con il Signore, ciò che più vale per dare
gioia all’altro è la presenza, il dono di se stessi, della propria vita, così
come siamo e così come essa è. È questo ciò che ha fatto Gesù offrendosi
sulla croce al Padre e donando il suo corpo a noi “Questo è il mio corpo
che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). Chiediamoci
allora quante volte ci preoccupiamo e ci affanniamo per presentarci al
Signore con le mani piene di belle azioni, di grandi somme date in
beneficenza, di lunghe preghiere e digiuni, ma incapaci di mettere lì
davanti a Lui, nelle sue mani, la nostra vita reale, fatta di fragilità,
insuccessi, preoccupazioni, sofferenze fisiche o spirituali, scoraggiamenti,
delusioni, tradimenti. Cerchiamo piuttosto di conoscere realmente ciò che
è gradito a Dio e di realizzarlo nella nostra esistenza quotidiana, questa
sarà l’offerta più bella e preziosa che Egli possa desiderare.
“Non
lasciatevi conformare al secolo presente, ma lasciatevi
trasformare”: Il momento storico che stiamo vivendo è pieno di insidie e
di false seduzioni anche per noi credenti che spesso, senza accorgercene,
lasciamo che il pensiero del mondo si insinui nella nostra mente, che “il
tutti fanno così” trasformi il nostro modo di essere e di agire. Non si tratta
di denigrare il mondo né di ergersi a suoi giudici implacabili, tuttavia se
davvero Cristo ha conquistato il nostro cuore, non possiamo più vivere
come coloro che non lo hanno incontrato nella loro vita, né possiamo
permettere di annacquare il suo messaggio a seconda dei vantaggi e dei
tornaconti del momento. Si dice che si diventa ciò che si ama, in quanto a
poco a poco l’amore trasforma il cuore di colui che ama così che,
desiderando di compiacere il più possibile l’amato, comincia a ad
assimilarsi a lui, a desiderare ciò che egli desidera, a fare ciò che egli
ama, a parlare come egli parla. Così avviene con il Signore e, all’opposto
con il mondo. Se noi cominciamo ad amare le cose del mondo, a poco a
poco i nostri desideri, le nostre parole, i nostri atteggiamenti e le nostre
azioni cominceranno ad assimilarsi a ciò che il mondo richiede, desidera,
si aspetta, diventando così dei “conformati al secolo presente”, cioè
persone che rientrano perfettamente nei suoi schemi. Ma se guardiamo a
Cristo, se ascoltiamo la sua Parola, se frequentiamo luoghi, spazi e
persone in cui Lui è presente, abbandonandoci docilmente all’azione del
suo Spirito, a poco a poco, verremo trasformati dal suo amore, non ci
assuefaremo ad uno schema, ma lasceremo a Lui la possibilità di rendere
la nostra “forma” sempre più come la sua, di essere cioè “cristianizzati”,
uomini e donne nei quali si può davvero vedere ancora Cristo parlare,
agire, pregare, amare. Chiediamoci dunque a che punto siamo e
soprattutto quali sono i nostri punti di riferimento a cui di fatto lasciamo
che il nostro cuore si attacchi. In che direzione vanno i nostri desideri?
Quanto subiamo il fascino delle cose del mondo e quanto delle cose di
Dio? Da che cosa lasciamo, consapevolmente o inconsapevolmente, che il
nostro cuore, la nostra mente, la nostra persona tutta si lasci
trasformare?
In Rom 12,9-16 Paolo ci dà delle indicazioni concrete per verificare a che
punto siamo nell’amore per i fratelli. Fra i tanti spunti che a livello
personale possiamo seguire per un esame di coscienza su questo aspetto,
qui ci soffermiamo soltanto su alcuni: “attaccatevi saldamente al
bene”: come uno sposo è unito in modo profondo e indissolubile alla
sposa, così il credente deve restare attaccato, incollato al bene.
Chiediamoci allora quante volte nella nostra vita ci capita di tradire questo
bene, di staccarsene in certe parti, magari seguendo la tentazione del
“che male c’è se faccio questo, lo fanno tutti” o del “non faccio mica
niente di male, non uccido, non rubo … ”. Non essere incollati al bene non
è solo fare il male, ma anche non fare il bene che si può fare.
“Prevenitevi vicendevolmente nella stima”: su che cosa baso la mia
stima dell’altro? Sul suo conto in banca, sulle sue idee politiche, sul peso
che ha la sua famiglia, sul lavoro che fa? Sull’auto che possiede? Penso
mai che l’altro è prima di tutto figlio di Dio da Lui amato in quanto tale,
sapendo cogliere in questo la sua grande dignità, indipendentemente da
quello che ha, fa, dice? “Prendete parte alla gioia di chi gioisce e al
pianto di chi piange”: Oggi per certi aspetti sembra quasi più facile
poter realizzare questo. La televisione e i mass media in generale ci
abituano a vedere e a prendere parte emotivamente al dolore dei Paesi,
anche lontani, colpiti da improvvise catastrofi naturali, a piangere con i
genitori a cui hanno rapito o trucidato un figlio, a rattristarci per i bambini
che muoiono di fame o che sono costretti ad imbracciare un fucile e a
sparare sui loro coetanei. Anche la gioia degli altri sembra più facile da
condividersi oggi, come quella di una squadra per la vittoria ad un
mondiale di calcio o di un divo dello spettacolo per il suo matrimonio.
Eppure, nonostante tutto, il nostro cuore rimane incapace di farsi carico
della sofferenza di un nostro familiare, della tristezza del collega di lavoro,
della solitudine del vicino di casa. Così come rimane incapace di
condividerne fino in fondo la gioia, perché c’è sempre un po’ di invidia che
ci accompagna, un po’ di gelosia, un po’ di scontento, dal momento che
tale gioia non è capitata a noi. Chiediamoci allora quanto ci impegniamo
nel farci seriamente accanto ai nostri fratelli, soprattutto quelli che
incontriamo ogni giorno nella nostra vita, semplicemente condividendone
la gioia e il dolore, magari anche accettando umilmente di non poter far
nient’altro che essere lì presenti con loro, come Maria sotto la croce di suo
Figlio.
“Siate
eucaristici”: Come è difficile dire grazie! Dire grazie alla
mamma per quanto fa per noi dalla mattina alla sera; dire grazie al marito
o alla moglie per il suo bene, spesso dato per scontato; dire grazie al
Signore per il dono della vita rinnovato ogni mattina che apro gli occhi e
per la fede in Lui che mi sostiene in ogni momento. Chiediamoci allora
quanto il nostro vivere è all’insegna dell’attenzione e della capacità di
saper cogliere gli innumerevoli doni che costellano la nostra esistenza,
doni che ci vengono dagli altri e doni che in ultima istanza ci vengono
sempre e comunque da Dio? Quanto viviamo in questo atteggiamento di
costante gratitudine al Signore e ai fratelli per tutto quello che abbiamo,
siamo, viviamo, desideriamo?
TESTI PER LA RIFLESSIONE
1. Dal “Quaderno di note intime” di S. Bernardetta Soubirous
Quando l’occasione si presenterà, versare l’olio e il vino nelle piaghe, come Gesù, e non l’aceto,
senza preferenza per nessuno, o come Gesù, attaccandomi di preferenza ai più poveri, ai più
sofferenti, ai più umili, ai più abbandonati … Essere più caritatevole in avvenire per il prossimo, per
le miserie corporali e spirituali. Per amore verso Gesù, accetterò generosamente le privazioni, le
sofferenze, le umiliazioni, come Gesù, Maria, per glorificare Dio.
2. Piattino rotto
Suor Marie-Bernard sapeva, all’occorrenza, evitare un rimprovero alle compagne. Avendo una
suora commesso un gesto maldestro rompendo un piattino, non osava confessarlo alla suora
economa: “ Datemelo “ le disse suo Marie-Bernard. Lo portò alla suora economa e ricevette
l’osservazione che sarebbe stata fatta alla compagna.
(Madre Marie-Therese Bordenave)
3. Vi prego non alzatevi
Non poteva sopportare che ci si disturbasse per lei. La suora, che dormiva nella sua stanza, quando
la sentiva che aveva le crisi di asma, si alzava per darle aiuto. “ Vi prego – diceva - , non alzatevi,
mi contrariate assai. Se non dormo durante la notte, posso recuperare dopo. Non è lo stesso per voi,
riposate tranquillamente “.
(Religiosa anonima)
4. L’ho dimenticato
La venerabile non ha mai serbato il minimo risentimento nei confronti di persone che abbiano
potuto causarle qualche dolore. Quando le si rammentava che qualcuno aveva potuto esserle
contrario, procurarle dolore, diceva: “ L’ho dimenticato “. Lo stato abituale della sua anima era di
non ricordarsi delle contrarietà di cui aveva potuto essere l’oggetto.
(Jouin)
5. Vi domando perdono
I miei rapporti con suor Marie-Bernard erano sempre pieni di cordialità, scrive una suora. Tuttavia,
in giorno che le era stato portato un oggetto del suo corredo lacerato in seguito a una negligenza o a
un incidente che si era prodotto durante il lavaggio, mi espresse il suo malcontento, e, siccome ero
incaricata della biancheria, mi disse con vivacità che avrei dovuto mettere più cura nella mia
sorveglianza. “ Adesso – aggiunse - , bisogna riaggiustare “. Suor Marie-Bernard aveva molta cura
del suo vestiario e di quanto le era affidato. Ma non mi lasciò partire senza farmi delle scuse molto
accentuate: “ Vi domando perdono – mi disse -, per avervi parlato in questo modo; pregate per la
mia conversione “.
(Madre Marie-Therese Bordenave)
6. Sono stata molto viziata
Il suo amore e la sua dedizione per tutte le compagne erano senza limiti; con una semplicità e un
candore ammirabili si faceva “ tutta a tutti “. E? soprattutto all’infermeria che eccelleva in bontà per
le care compagne malate. Con quale delicatezza prestava loro le sue cure assidue e come sapeva
incoraggiarle nelle loro sofferenze! Un giorno che mi trovavo all’infermeria, un nostra consorella
molto affaticata, che era stata incoraggiata da lei, le disse: “ E’ molto facile per voi invitare alla
pazienza e alla rassegnazione, dopo tutte le grazie e i favori che avete ricevuto dalla Vergine Santa”.
Allora, levando gli occhi verso il cielo, con quel suo sguardo celestiale, ci rispose: “ E’ verissimo,
sono stata molto viziata e molto privilegiata; ma anche, sarei ingrata e colpevole se non
corrispondessi a tanti favori “. Le sue parole, e soprattutto il tono con il quale le pronunciò, ci
toccarono profondamente.
(Suor Hélène Sutra)
7. La forza dell’amore
All’origine di ogni uomo sta l’amore. L’amore genera alla vita e alla coscienza di sé, è chiamata
alla crescita nella libertà. La capacità d’amare è legata all’esperienza dell’amore. Chi non è stato
amato o non è oggetto d’amore conosce la solitudine, il risentimento, la ribellione, l’aggressività,
l’odio. Chi non si apre all’amore si chiude alla vita. L’avventura umana e il suo destino si giocano
sul filo dell’apertura o del rifiuto dell’amore. Sul significato e sul contenuto di questo termine esiste
una inesauribile letteratura, a testimonianza del suo fascino e della sua forza vitale. Nei rapporti
interpersonali l’amore è la realtà più esaltante, ma anche la più soggetta ad ambiguità e
fraintendimenti. Nell’espressione così intensa e così semplice: “ Ti amo “, può racchiudersi la
totalità del dono o la brama della ossessività, la gioia della comunione liberante o l’ebbrezza del
piacere effimero, la meraviglia o l’abitudine, la storia di una fedeltà o la maschera di un inganno.
L’amore maturo è frutto di pazienza e di sofferenza, di gesti concreti più di retorica. La sua verità
ultima, la sua verifica suprema, sta nel dono totale di sé all’altro.
(Gianfranco Venturi)
8. Vivere da riconciliati
Entrati nel terzo millennio, capiamo abbastanza che, duemila anni fa, il Cristo è venuto sulla terra
non per creare una nuova religione, ma per offrire una comunione in Dio ad ogni essere umano?
Dopo la sua risurrezione, la presenza del Cristo si fa concreta attraverso una comunione di amore
che è la Chiesa. I cristiani avranno il cuore così ampio, l’immaginazione così aperta, l’amore così
ardente da scoprire questa via del vangelo: senza ritardo, vivere da riconciliati? Quando i cristiani
permangono in una grande semplicità e in un’infinita bontà del cuore, quando sono attenti a scoprire
la bellezza profonda dell’animo umano, sono portati ad essere in comunione gli uni con gli altri nel
Cristo. … Sì, il Cristo chiama noi poveri del Vangelo a realizzare la speranza di una comunione.
Anche il più semplice dei più semplici può riuscirci. … Durante la sua visita a Taizè nel 1986, Papa
Giovanni Paolo II ha risvegliato nella nostra comunità una presa di coscienza che sostiene la nostra
vocazione accanto ai giovani. Il Papa ci ha detto in particolare: “ Volendo voi stessi essere una
parabola di comunità, aiuterete tutti quelli che incontrerete ad essere fedeli alla loro appartenenza
ecclesiale, ma anche ad entrare sempre più profondamente nel mistero di comunione che è la Chiesa
nel disegno di Dio “. Parole simili preparano un cammino per chi cerca con tutta la sua anima di
vivere in comunione.
(Frère Roger Schutz)