4 > bernardetta e la vita di comunione fraterna
Transcript
4 > bernardetta e la vita di comunione fraterna
BERNARDETTA E LA VITA DI COMUNIONE FRATERNA Rm 12,1-2.9-16 Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. 2 Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. 9 La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; 10 amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11 Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. 12 Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, 13 solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. 14 Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15 Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. 16 Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi. Col 3,12-17 12 Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; 13 sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. 15 E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! 16 La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. 17 E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre. La vita di comunione fraterna (Rom 12,1-2.9-16; Col 3,12-17) Nei versetti immediatamente (cfr Rom 11,33-36) precedenti, Paolo ha rivolto un inno a Dio, celebrando la sua misericordia e il suo amore; ora, in 12,1-2, esorta i Romani a calare nella vita le verità di rivelazione da lui comunicate. Il tono con cui l’Apostolo si rivolge ai credenti è vario: si passa da una voce di accompagnamento, calda, mite, suadente ed invitante ad un suono acceso e vibrante, che mette in evidenza la serietà dell’impegno e di quanto viene proposto, fino ad assumere la forma dell’aut aut, della alternanza inevitabile di vita o di morte, di felicità e di disgrazia. Paolo mostra di voler ora esortare i Romani alla coerenza della fede. La vita dei credenti, presentata qui nella concretezza e nella unità-totalità personale della visione antropologica biblica con l’espressione “i vostri corpi”, è ciò che è gradito, quale unico sacrificio e culto che stabilisce la comunione con Dio. Questo culto spirituale richiede l’impegno di tutto l’uomo: corpo, intelligenza, coscienza, e richiede l’assunzione di schemi di vita non allineati al comune sentire, per essere così capaci di aderire alla volontà di Dio. Nei vv. 9-16, sempre del c. 12, si passa poi a verificare il retto comportamento della vita in corrispondenza al culto, secondo quanto appena richiesto, e su questa linea si muove anche il brano di Col 3,12-17. A. VITA COME CULTO GRADITO A DIO (Rom 12,1-2) v. 1 Esorto, perciò, voi, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi (voi stessi) come sacrificio vivente, santo gradito a Dio, come il vostro culto spirituale (razionale). Vi esorto, perciò, fratelli: Paolo non vuole ammonire o imporre delle norme morali fredde e asettiche, esprime invece il suo affetto di padre e, dall’interno di questa relazione, presenta la serietà e la necessità di una vita che non si ferma ad ascoltare il mistero dell’agire di Dio, ma vi entra dentro seguendone le dinamiche di salvezza. Perciò: è conclusivo di quanto è stato detto in tutta la lettera e soprattutto dell’aver annunciato la profondità della ricchezza e della sapienza di Dio (cfr 11,33-36). Voi, fratelli: il termine ha perso per noi l’intensità che aveva per i credenti di allora, i quali erano certi che il nuovo rapporto in Cristo li rendeva davvero figli dell’unico Padre. Paolo fa ora leva su questa verità, non si distanzia in nome del suo apostolato, ma ancor più si inserisce dentro la loro vita, nell’unica comunione di figlio di Dio. Per la misericordia di Dio: l’Apostolo si preoccupa di fondare, su una base autorevole e certa, le sue esortazioni che non partono da se stesso, ma da qualcosa di più grande di lui, cioè dalla misericordia di Dio, di cui egli stesso è stato oggetto e che gli ha dato la forza di essere ministro del vangelo. Di per sé il testo greco ha il plurale, “le misericordie” (oiktirmoi) di Dio, e il vocabolo originale rimanda a quello ebraico (rahamim) che descrive le viscere di misericordia di una madre che si commuove di fronte al pianto del suo bambino. Il plurale “misericordie” si riferisce alle continue manifestazioni di tenerezza che Jahwéh ha riservato per il suo popolo: la premura, l’amore di accoglienza, di perdono e di sostegno che Dio ha avuto per Israele, ed ora anche per i pagani, è l’unica realtà che può far sciogliere e far sì che i credenti corrispondano all’amore con amore. Ad offrire i vostri corpi (voi stessi): si esorta a presentare a Dio i propri corpi nel senso figurato di un’offerta cultuale. Il tempo del verbo “offrire” è all’aoristo che comunemente conferisce all’azione richiesta un aspetto puntuale ed unico, ma qui non significa “una volta per tutte”, ha infatti un valore ingressivo e complessivo-distributivo: i cristiani vengono esortati a cominciare a vivere l’offerta di sé come un atteggiamento globale di tutta la loro vita e declinata in ogni aspetto di essa. I vostri corpi: per la mentalità comune il corpo indica “il fisico” della persona, ma per la mentalità biblica si riferisce alla totalità della persona che entra in relazione. Seguendo poi l’uso che la lettera fa del sostantivo corpo ci accorgiamo che, con esso, si designa l’uomo stesso dominato dalla tendenza del peccato che lo conduce verso la morte. Anzi, se egli è abbandonato da Dio a se stesso, è capace di disonorare il proprio corpo con comportamenti gravemente immorali. Solo l’opera di Dio può riportarlo alla vita e all’onore che gli spetta. Quest’opera è stata realizzata per mezzo di Gesù, grazie all’offerta al Padre del suo corpo sulla croce. Il credente battezzato, unito profondamente a Lui e alla sua morte e resurrezione, ricevuto il dono dello Spirito, viene liberato nel proprio corpo dalla condizione di peccato e di morte, ed è così chiamato ad una nuova vita in cui prestare il proprio corpo, cioè la propria storia in tutta la sua concretezza, a servizio del suo nuovo Signore e portare frutti secondo la sua volontà. Come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: attraverso l’offerta dei propri corpi a Dio, i cristiani, secondo l’Apostolo, partecipano al nuovo culto che Cristo ha iniziato. Il credente viene esortato a stare davanti a Dio come vittima sacrificale, offrendo se stesso, la propria esistenza e non una vittima esterna alla propria vita. Questa offerta sacrificale ha come radice, ragion d’essere e modello il sacrificio con cui Cristo si è donato a Dio per noi. Per capire questo possiamo vedere quello che Paolo dice in Ef 5,2: “camminate nell’amore, come anche Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi come offerta e sacrificio a Dio”. Per Paolo il cammino della vita cristiana consiste essenzialmente nel vivere l’amore (cfr Rom 13,8-10), avendo come ideale l’amore espresso da Cristo nell’offerta di sé a Dio sulla croce. Di conseguenza, nella vita del cristiano, culto a Dio e dono di sé agli altri sono la stessa cosa, l’adorazione a Dio consiste nella carità. Vivente: non indica solo la vitalità fisica, distinguendosi così dai sacrifici antichi (cfr 1Pt 2,4s), ma l’avere la vita dello Spirito che ci ha rigenerati (cfr 8,13), il credente si presenta vivo, vitalizzato dallo Spirito, capace di fare così l’offerta di sé. Santo: era questa una delle richieste della vittima sacrificale (cfr Lv 22,17-33; 10,16-18) e consisteva nell’essere maschio, nel non avere nessun difetto fisico, nell’ “essere messo a parte” per Dio. La santità di cui parla l’Apostolo non è qui soltanto etica, ama anche ontologica: il credente, cioè, è agito dallo Spirito e quindi reso santo; l’impegno umano raggiunge la sua efficacia perché la potenza dello Spirito è all’opera. Gradito a Dio: se l’offerta deve trovare corrispondenza in colui al quale si offre, si assicura che il dono di se stessi, dei propri corpi, ha il beneplacito di Dio; sincerato da questo gradimento, il credente sa di compiere l’unica cosa giusta che rallegra Dio stesso. Come il vostro culto spirituale (razionale): l’aggettivo greco logikê oscilla tra due significati di base, cioè spirituale e razionale, ed entrambi si addicono al testo. L’offrire i propri corpi come offerta a Dio è un servizio ragionevole, in quanto contrariamente a quello irragionevole e insano dell’idolatria pagana, scaturisce da un giusto rapporto tra l’uomo e la divinità; tuttavia esso è, nello stesso tempo, “spirituale” in quanto non richiede più un sacrificio cruento di un corpo fisico, ma l’offerta a Dio dell’intera e quotidiana esistenza cristiana. Il nuovo culto proposto da Paolo fa capire che la sacralità non è più nelle cose, negli oggetti o nei luoghi: è l’uomo stesso che è mistero sacro di Dio e lo è non per una azione esteriore, bensì per l’offerta che fa di se stesso e che lo configura a Cristo, secondo scelte etiche precise e qualificate che il credente è capace di fare mediante l’opera di discernimento. v. 2 e non lasciatevi conformare al secolo presente, ma lasciatevi trasformare quanto al rinnovamento della vostra mente per poter voi discernere qual (è) la volontà di Dio, ciò che è bene gradito e perfetto. Questo versetto esplicita e indirizza prima in forma negativa, poi in forma positiva le affermazioni precedenti, suggerendo cosa non fare e fare per trasformare la vita in culto gradito a Dio. e non lasciatevi conformare (syschêmatizesthe), al secolo presente: i fedeli non possono assumere lo schema di vita di questo mondo presente, che si esprime in atteggiamenti, comportamenti, che non si addicono più alla loro nuova esistenza, in quanto appartengono ad un modo di essere ormai del passato (cfr 1Pt 1,14), proprio di un mondo che sta scomparendo: “passa lo schema di questo mondo” (1Cor 7,31). I credenti mediante il battesimo sono immersi nella realtà futura, “si sono ormai rivestiti di una vita nuova in Cristo, sono chiamati ad essere conformi a lui “ (Rom 8,29) e non possono più uniformarsi agli atteggiamenti del “presente secolo malvagio” (cfr Gal 1,4), sono degli anticonformisti! L’affermazione non è la svalutazione del mondo umano o della natura, ma la considerazione teologica secondo la quale Gesù ha strappato l’uomo dall’ignoranza di Dio, dalla paura della morte con cui il nemico teneva schiavi gli uomini, chiusi nell’egoismo di una esistenza tutta sacrificata alla brama di avere, potere, apparire, per far vivere i credenti, qui e ora, da creature nuove, da figli e da fratelli. Il mondo presente con le sue valutazioni e considerazioni è superato dal mondo nuovo introdotto da Cristo, anche se certamente i credenti sono sempre esposti al fascino degli pseudo valori, basta vedere cosa succedeva tra i Corinti nelle loro valutazioni dei carismi o degli apostoli di riferimento. ma lasciatevi trasformare: il verbo è un imperativo presente passivo: come imperativo l’azione è imposta e l’esecuzione spetta al soggetto; l’aspetto del presente indica che l’azione non avviene una volta per tutte ma è continua, è la dinamica del vivere; ma in quanto passiva, l’azione viene subita. È una delle forme intraducibile, tipicamente paolina con la quale si esprime l’azione gratuita di Dio sull’uomo (passivo) e al tempo stesso la collaborazione e l’impegno dovuto a scelte (imperativo). La trasformazione alla quale Paolo si riferisce non è un compito affidato semplicemente alla libertà umana, come se la scelta etica fosse completamente dovuta al credente. Sulla base di quello che è stato detto nei precedenti capitoli della lettera, la metamorfosi alla quale ci si riferisce è un’esperienza vissuta come dono operato da Dio e dal suo Spirito (cfr Rom cc. 7-8); quella del credente non è una vita guidata dall’impegno di essere più buoni o fare meglio, ma anzitutto un lasciarsi trasformare dallo Spirito, un lasciare che lo Spirito del Risorto entri nella nostra vita, dandole una nuova qualità, un nuovo modo di essere. Certo lo Spirito richiede la disponibilità ed impegna la nostra libertà; è l’uomo che pone la condizione e sceglie di accogliere il mistero di Dio, decide di nutrirsi della Parola, di partecipare alla mensa eucaristica, di ricevere la grazia del perdono di vivere in comunione fraterna… Quanto al rinnovamento della vostra mente: la trasformazione riguarda in modo particolare la “mente” (in greco nous). Tale termine si riferisce, non genericamente alla sede di pensieri e fantasie, ma alla capacità di percepire la realtà sotto il profilo di valore e di senso, di giudicare il reale e di cogliere il significato delle cose. Paolo non dice che lamente dell’uomo deve essere sostituita; essa mantiene la sua naturale capacità di giudizio, ma deve essere rinnovata, cioè affinarsi nella crescita della propria fede che fornisce nuovi criteri di discernimento. Comprendiamo così che la trasformazione non avviene per automatismo o rivelazioni misteriche; il mistero di Dio passa attraverso l’intelligenza e obbliga il credente a un lavoro di discernimento. Per poter voi discernere qual (è) la volontà di Dio, ciò che è bene gradito e perfetto. Il discernimento è richiesto dalla ambivalenza della esistenza e delle cose: zizzania e grano buono, bene e male coesistono a livello personale e storico. Ognuno deve partire dall’interno del proprio cuore e imparare a dare un giudizio di valore riguardante il bene, a cui poi far seguire l’atto di volerlo fare proprio e realizzarlo. Il discernimento sollecita direttamente la responsabilità personale, e il credente, mosso dallo Spirito, può valutare dal di dentro tutte le cose, distinguendo quanto è riconducibile allo Spirito con la maiuscola da quanto, imputabile alla libertà umana, rifiuta l’appello dello Spirito e si traveste ordinariamente sotto forme di bene. Paolo, da grande pastore, sa che c’è nell’uomo l’inclinazione a sottrarsi alla continua fatica dell’analisi e ad affidarsi a giudizi precostituiti o sommari, sbrigativi e riduttivi; si preferiscono soluzioni immediate e pratiche al pensare e al voler affrontare la realtà. Per usare un’immagine biblica, la via larga sembra meglio di quella stretta per raggiungere il successo e la felicità, ma si tratta soltanto di una pia illusione. L’oggetto del discernimento è capire la volontà di Dio, quale è il disegno di Dio sulla propria vita, sapendo che solo questo può saziare la fame e la sete della gioia e del senso delle cose. Nella specifica personalizzazione della volontà di Dio resta comunque evidente per l’Apostolo, che essa trae con sé tre caratteristiche: anzitutto essa coincide con il bene, che non è una realtà emotiva e di convenienza, ma il benessere della creatura come figlio di Dio. La seconda caratteristica è quella della compiacenza a Dio: infatti nel ricercare la volontà divina il credente deve essere giunto talmente a conoscere Dio da sapere i suoi gusti, ciò che gli è gradito. Infine “ciò che è perfetto”; l’idea della perfezione non è il perfezionismo umano, poiché essa trae con sé l’aspetto di integrità e di totalità; la volontà di Dio non frammenta né sminuisce il fedele ma lo esalta nella semplicità e nella pienezza, nella misura del divino. B. L’AMORE DEI FRATELLI QUALE COERENZA CULTUALE (Rom 9-16) Parlando della perfezione Paolo vuole far prendere coscienza della parzialità di quello che ciascuno si trova ad avere: nessuno ha tutti i doni e la totalità del corpo supera il singolo membro (cfr 12,3-8). Da qui la necessità di mettere in comune, di donare con gioia quello che ciascuno ha ricevuto. Ora Paolo vuole offrire il criterio valutativo che permette di discernere l’appartenenza alla unità della fraternità ecclesiale e la capacità di saper offrire la vita come culto gradito a Dio. Non è facile distinguere una strutturazione di questo brano che sembra articolarsi in una serie interminabile di imperativi, tenendo però presente che quelli che noi traduciamo con imperativi rispondono a forme diverse del verbo greco, cioè participi presenti o gerundi o aggettivi. Possiamo così suddividere il testo: a) Esortazione generale v. 9 l’amore sia senza ipocrisia. b) L’amore nelle relazioni fraterne Aborrite il male, attaccatevi saldamente al bene, v. 10 amatevi cordialmente con l’amore di fratelli, prevenitevi vicendevolmente nella stima, v. 11 siate solleciti e non pigri ferventi nello spirito, servite il Signore, c) Le circostanze del vissuto di amore v. 12 siate gioiosi nella speranza, nella tribolazione pazienti, perseveranti nella preghiera, v. 13 solleciti nel condividere i bisogni dei fratelli, premurosi nell’ospitalità d) Situazioni particolarmente difficili che provano l’amore v. 14 benedite chi vi perseguita, benedite e non maledite v. 15 prendete parte alla gioia di chi gioisce e al pianto di chi piange v. 16 abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, non aspirate a cose eccelse, ma lasciatevi attrarre dalle cose umili. Non stimatevi saggi da voi stessi. v. 9 l’amore sia senza ipocrisia: è il principio generale che guida la vita del credente, l’amore è incompatibile con l’egocentrismo, con l’affermazione narcisistica di se stessi, con il proprio tornaconto. Come dirà in 1Cor 13, Paolo sa che si possono compiere gesti di amore e non avere il cuore dell’amore. Prima di ogni cosa, si invita dunque a non scherzare con l’amore; l’invito forte e fermo è a gettare via la maschera della simulazione, poiché l’amore è anzitutto un fatto interiore di verità e non solo una sdolcinatura esterna. Aborrite il male, attaccatevi saldamente al bene: l’amore non va a braccetto con il male; il primo moto e quello di separazione da ogni trama iniqua, non per paura di sporcarsi ma perché il male avvelena e uccide. All’azione negativa corrisponde armonicamente la positiva, non si resiste al male se non si è uniti al bene, e per esprimere l’unione al bene si usa un verbo (kollaô) del quale Paolo si serve per indicare l’unione profonda e sacramentale dello sposo con la sposa. Con il bene è richiesta una unione nuziale che produce frutti di pace, gioia … v. 10 amatevi cordialmente con l’amore di fratelli, prevenitevi vicendevolmente nella stima: si trasferisce la naturalità dell’amore del sangue alla nuova fraternità di fede; l’amore tra credenti è chiamato ad essere segno di appartenenza alla famiglia di Dio e questo amore non è possibile se non nasce dalla stima dell’altro. La stima non è una concessione che uno fa partendo da se stesso, dalla propria valutazione, da una medaglia conquistata sul campo, ma dal riconoscere nell’altro la dignità di figlio di Dio; la stima, quindi, non è condizionata, ma anticipata, perché coglie l’altro nella più profonda verità di se stesso. v. 11 siate solleciti e non pigri, ferventi nello spirito, servite il Signore: prendersi cura dell’altro è il linguaggio dell’amore; chi non trova mai tempo per il fratello e non è premuroso in realtà non ama, perché l’amore ha occhi vigili, mani tese e piedi pronti. Nel proprio interno il credente, mosso anche dal fuoco dello Spirito, vive un calore travolgente che lo smuove contro ogni torpore e rilassatezza, contro ogni ristagno mefitico e mortifero. Per l’Apostolo chi ama in questo modo non regola solo correttamente i propri rapporti col suo prossimo, ma di fatto si trova a servire il Signore. L’imperativo “servite il Signore”, non è un impegno che si aggiunge a quelli appena presentati, ma la loro interpretazione: muovendosi a favore del fratello in realtà si serve lo stesso Signore. v. 12 siate gioiosi nella speranza, nella tribolazione pazienti, perseveranti nella preghiera; v. 13 solleciti nel condividere i bisogni dei fratelli, premurosi nell’ospitalità: il linguaggio dell’amore non appartiene solo ai giorni di festa o alle circostanze positive della giornata, esso abbraccia la quotidianità della vita in tutte le sue componenti. Il credente è chiamato ad un comportamento di fatto contrario alla naturalità umana: quando il futuro non ha prospettive la speranza si fa triste, nella difficoltà nasce lo scoraggiamento, nel dubbio la rivendicazione; se la preghiera si fa pesante e non luminosa si preferisce lasciarla, nel farsi carico del bisogno dell’altro si misura e si condiziona, persino l’ospitalità non sempre è generata dall’attenzione e dalla premura del cuore. Ora il fedele è chiamato ad agire alla maniera divina, superando quello che è il peso della fatica, del disgusto, la noia della preghiera, la stanchezza che si prova verso il fratello o la sorella. Si comincia a delineare così la figura di Gesù. È Lui che non ci ha scaricato sulla strada, è Lui che ci ha accolto, è Lui che ha perseverato nella preghiera nell'orto del Getzemani, è Lui che, nella tribolazione della croce, non è stato schiacciato, ma ha perdonato. v. 14 benedite chi vi perseguita, benedite e non maledite: l’Apostolo interpreta le parole del Signore che aveva detto: “se amate coloro che vi amano che merito ne avete”. L’amore non è paritetico o di rimessa; quello di Gesù, e quindi quello del credente, si colloca nella linea dell’anticipo e del credito, è capace così di ribaltare le situazioni: chi è perseguitato e maledetto trova la sua gioia nel benedire e sente che questo uccide in sé il sentimento di rivendicazione e di rabbia, perché è una benedizione di perdono. v. 15 prendete parte alla gioia di chi gioisce e al pianto di chi piange: è più facile dare qualcosa a qualcuno che dare il proprio cuore. Dare questo significa entrare nel mondo dell’altro e fare propria la sua gioia e la sua sofferenza come se fosse carne della nostra carne, significa anche che la relazione con il fratello non è dall’alto, come di un benefattore che si compiace nel suo dare, ma un farsi accanto, prossimo, una condivisione che è vero sollievo dell’altro, non tanto perché risolve i problemi, ma perché si è in comunione di gioia e di dolore. v. 16 abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, non aspirate a cose eccelse, ma lasciatevi attrarre dalle cose umili. Non stimatevi saggi da voi stessi. In questo versetto si esplicita e si allarga la dimensione dell’amore come comunione e condivisione. L’amore comporta un mettersi nei panni dell’altro, un sentire dall’interno che genera una circolarità di amore che nutre e fa crescere. Tuttavia perché tutto questo divenga possibile è necessaria la via della semplicità, della umiltà, della correzione del fratello. Paolo non vuole frustrare la legittima aspirazione a crescere, vuole disilludere che siano “le cose eccelse” a rendere grandi le persone: solo l’amore che si fa piccolo e trasparente compie la cosa eccelsa. Infine, nessuno può avere una giusta stima di se stesso, l’amore umile e sincero chiede al fratello luce e si lascia da lui stimare: chi ama se stesso si difende e si isola, chi si lascia amare non pretende nulla e vive in comunione. L’umiltà vince la presunzione e l’ossessione di poter fare da soli, donando l’energia vitale che si trasforma in costanza e passione di amore per i fratelli. LA VITA DEI CREDENTI CRISTIANI (Col 3,12-17) Paolo ha appena ricordato ai Colossesi che si sono svestiti dell’uomo vecchio e del suo agire e che hanno rivestito l’uomo nuovo (cfr Col 3,9s); ora l’invito è alla coerenza, a vivere e ad agire in conformità a quell’abito che hanno appena indossato (vv. 12-15), consentendo così di mantenere e costruire l’armonia tra i membri dell’unico corpo (vv. 16-17). a) l’abito del cristiano (Col 3,12-15) v. 12 rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di viscere di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mitezza e di larghezza di cuore. Nel linguaggio biblico l’abito è simbolo delle opere che manifestano all’esterno le disposizioni interiori, le scelte del cuore. Si può dire che, per la Bibbia, valga l’opposto del proverbiale “l’abito non fa il monaco”. L’ingiunzione a rivestirsi si fonda non su un principio di volontà, ma sul fatto che i credenti sono gratuitamente eletti, santi e amati. L’elezione svela l’amore di Dio e non la qualità più o meno eccelsa dell’eletto; la santità allude alla vocazione battesimale, alla dignità di figli di Dio; l’essere amati è il primo passo di Dio nei confronti dell’uomo, al quale seguono, in concomitanza, la santità e l’elezione. Il tessuto dell’abito del credente è dello stesso materiale di quello di Dio, fatto di cinque pregiate stoffe: “viscere di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mitezza e di larghezza di cuore”. Queste sono tutte qualità specifiche dell’amore di Dio e di Cristo. Di fatto, dunque, Paolo invita a rivestirsi di Cristo che è misericordioso, benevolente, umile, mite, largo di cuore; questa ultima caratteristica va oltre la pazienza e manifesta un cuore che è sempre aperto e sa accogliere l’altro. v. 13 sopportandovi a vicenda e perdonandovi se qualcuno ha qualche motivo di rimprovero nei confronti di un altro: come il Signore vi ha perdonato, così (fate) anche voi. Rivestirsi di Cristo, di quelle qualità di amore appena presentate, significa “sopportarsi e perdonarsi a vicenda”. Dietro il concetto di sopportazione non c’è solo la tolleranza della diversità e l’educazione per un civile rispetto di convivenza, esso va ben oltre e comporta il “sostenersi e il portare i pesi l’uno dell’altro”, un farsi carico del fratello affidato alla mia custodia, contrariamente all’atteggiamento di Caino che non vuole rendere ragione del fratello. Il perdono, poi, è la forza più grande dell’amore, non è un mettere i paraocchi o far finta di niente, il perdono è forza rigenerante proprio perché è quello che Gesù ha fatto: da morti che eravamo ci ha fatto rivivere per il suo amore. L’invito a guardare al Signore, “come vi ha perdonato”, non è un riferimento di esemplarità, ma il conferimento di una reale possibilità: il credente può perdonare, perché è stato per primo perdonato. v. 14 soprattutto (rivestitevi) dell’amore: esso è il vincolo della perfezione: se la sopportazione e il perdono possono sembrare un andare in retromarcia o vivere in una situazione di stallo, l’Apostolo ricorda che il collante di tutto, il propulsore che fa crescere nella comunione con Dio e con i fratelli è l’amore, esso non è un vago sentimento, ma si manifesta in un costante atteggiamento di servizio al fratello, di disponibilità ad amare nella pienezza del dono di se stessi (di questo tratterà la scheda successiva, cfr 1Cor 13). v. 15 e regni nei vostri cuori la pace di Cristo alla quale siete stati chiamati, in un solo corpo, e siate eucaristici! Spesso le esortazioni di Paolo terminano con il riferimento alla pace (cfr Rom 15,13.33; 2Cor 13,11; Fil 4,7.9 ecc.), perché essa è il loro frutto. La pace è detta di Cristo, cioè egli è l’origine, anzi non solo la produce, ma si identifica con essa (genitivo epesegetico). C’è un nesso temporale tra Cristo e la pace, la sua pace è per sempre. La parola “pace” racchiude un senso profondo: riassume tutti i valori salvifici e, nella tradizione biblica, viene connessa alle aspettative escatologiche e alla figura del Messia. Pace è uno dei nomi di cui egli si riveste, essendo appunto definito “principe della pace” (Is 9,5; Mi 5,5; Ez 34,25). I beni compresi nel termine “pace” sono un godimento di tutti, essi sono offerti a chiunque si riveste di Cristo. I credenti hanno per vocazione la pace, sono chiamati al benessere salvifico. Ciò non avviene in modo individualistico, poiché la pace è data all’interno dell’unità fraterna, “in un solo corpo”; anzi nella misura in cui la Chiesa e suoi membri si impegnano a vivere secondo l’abito nuovo, la pace si manifesterà in pienezza. “Siate eucaristici”: la riconoscenza è il linguaggio del cuore, di chi sa quanto e quale è il dono del Signore, non si può dire “grazie” una volta per tutte, ma occorre essere eucaristici sempre, perché costanti sono la benevolenza e il favore di Dio. Solo chi vive nella gratitudine sa leggere l’amore divino e desidera corrispondervi. b) la via della pace (vv. 16s) v. 16 La parola di Cristo abiti abbondantemente in voi, istruendovi e ammonendovi a vicenda in ogni sapienza con salmi, inni, e canti spirituali, cantando a Dio con tutto il cuore nell’azione di grazie. Paolo considera l’accoglienza della Parola nelle propria vita la condizione affinché la Pace regni sovrana nei singoli cuori e nell’intero corpo della Chiesa. La parola di Cristo è Cristo stesso come rivelazione e comunicazione di Dio, piuttosto che una istruzione avente per contenuto Lui. La Parola di Cristo non può essere solo un ospite di passaggio o saltuario, deve, per Paolo, trovare stabile dimora, facendo sì che ogni fedele, a sua volta, dimori in essa. L’Apostolo traccia anche il percorso di come la parola può dimorare: anzitutto mediante l’istruzione e l’ammonizione vicendevole. Si tratta di stimolarsi a vicenda in tutti i modi offerti dalla sapienza umana, prendendo sul serio e facendosi carico della crescita spirituale e morale del fratello. Tutti sono chiamati a svolgere questo servizio e, al tempo stesso, ad accettarlo dall’altro. Il terzo modo con cui la parola prende dimora è la preghiera, qui ricordata nella forma dell’innologia ebraica e cristiana che si manifesta negli inni, nei cantici, nei vari salmi, una preghiera non solo verbale, ma che parta invece dal cuore e diventi segno di ringraziamento dei benefici di Dio. v. 17 tutto quello che fate, in parola e azione, (fatelo) nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui. Alla fine di tutto il fedele è invitato, se ancora non l’ha compreso, a centrare la sua vita in Cristo, Lui è il respiro del vivere, lui è lo spazio mistico di ogni movimento. Parola e azione esprimono la totalità della relazione umana, il mondo interiore si fa comunicazione e operatività. Per il credente, ogni parola e ogni azione è vissuta in Cristo e questo modo di agire libera da ogni protagonismo e divisione, dando la certezza di contribuire alla crescita del corpo di Cristo, la sua Chiesa. PER LA RIFLESSIONE PERSONALE E COMUNITARIA “Offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio”: tante volte pensiamo e ci preoccupiamo di dover fare delle cose particolari o chissà quali sacrifici e penitenze, per essere graditi a Dio, ma ci dimentichiamo della cosa più importante capace davvero di donargli gioia: il nostro essere, la nostra stessa vita. Così avviene del resto anche nelle nostre relazioni umane: come genitori pensiamo di dover riempire i nostri figli di beni e di cose materiali, assecondando i loro desideri per conquistare il loro favore, il loro affetto; come sposi o spose (mariti e mogli o anche fidanzati) pensiamo di dover riempire l’altro o l’altra di regali per dimostrare il nostro amore e tanto più è prezioso il dono tanto più grande pare sia il sentimento che proviamo. Paolo ci ricorda qui che nel rapporto con gli altri come con il Signore, ciò che più vale per dare gioia all’altro è la presenza, il dono di se stessi, della propria vita, così come siamo e così come essa è. È questo ciò che ha fatto Gesù offrendosi sulla croce al Padre e donando il suo corpo a noi “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). Chiediamoci allora quante volte ci preoccupiamo e ci affanniamo per presentarci al Signore con le mani piene di belle azioni, di grandi somme date in beneficenza, di lunghe preghiere e digiuni, ma incapaci di mettere lì davanti a Lui, nelle sue mani, la nostra vita reale, fatta di fragilità, insuccessi, preoccupazioni, sofferenze fisiche o spirituali, scoraggiamenti, delusioni, tradimenti. Cerchiamo piuttosto di conoscere realmente ciò che è gradito a Dio e di realizzarlo nella nostra esistenza quotidiana, questa sarà l’offerta più bella e preziosa che Egli possa desiderare. “Non lasciatevi conformare al secolo presente, ma lasciatevi trasformare”: Il momento storico che stiamo vivendo è pieno di insidie e di false seduzioni anche per noi credenti che spesso, senza accorgercene, lasciamo che il pensiero del mondo si insinui nella nostra mente, che “il tutti fanno così” trasformi il nostro modo di essere e di agire. Non si tratta di denigrare il mondo né di ergersi a suoi giudici implacabili, tuttavia se davvero Cristo ha conquistato il nostro cuore, non possiamo più vivere come coloro che non lo hanno incontrato nella loro vita, né possiamo permettere di annacquare il suo messaggio a seconda dei vantaggi e dei tornaconti del momento. Si dice che si diventa ciò che si ama, in quanto a poco a poco l’amore trasforma il cuore di colui che ama così che, desiderando di compiacere il più possibile l’amato, comincia a ad assimilarsi a lui, a desiderare ciò che egli desidera, a fare ciò che egli ama, a parlare come egli parla. Così avviene con il Signore e, all’opposto con il mondo. Se noi cominciamo ad amare le cose del mondo, a poco a poco i nostri desideri, le nostre parole, i nostri atteggiamenti e le nostre azioni cominceranno ad assimilarsi a ciò che il mondo richiede, desidera, si aspetta, diventando così dei “conformati al secolo presente”, cioè persone che rientrano perfettamente nei suoi schemi. Ma se guardiamo a Cristo, se ascoltiamo la sua Parola, se frequentiamo luoghi, spazi e persone in cui Lui è presente, abbandonandoci docilmente all’azione del suo Spirito, a poco a poco, verremo trasformati dal suo amore, non ci assuefaremo ad uno schema, ma lasceremo a Lui la possibilità di rendere la nostra “forma” sempre più come la sua, di essere cioè “cristianizzati”, uomini e donne nei quali si può davvero vedere ancora Cristo parlare, agire, pregare, amare. Chiediamoci dunque a che punto siamo e soprattutto quali sono i nostri punti di riferimento a cui di fatto lasciamo che il nostro cuore si attacchi. In che direzione vanno i nostri desideri? Quanto subiamo il fascino delle cose del mondo e quanto delle cose di Dio? Da che cosa lasciamo, consapevolmente o inconsapevolmente, che il nostro cuore, la nostra mente, la nostra persona tutta si lasci trasformare? In Rom 12,9-16 Paolo ci dà delle indicazioni concrete per verificare a che punto siamo nell’amore per i fratelli. Fra i tanti spunti che a livello personale possiamo seguire per un esame di coscienza su questo aspetto, qui ci soffermiamo soltanto su alcuni: “attaccatevi saldamente al bene”: come uno sposo è unito in modo profondo e indissolubile alla sposa, così il credente deve restare attaccato, incollato al bene. Chiediamoci allora quante volte nella nostra vita ci capita di tradire questo bene, di staccarsene in certe parti, magari seguendo la tentazione del “che male c’è se faccio questo, lo fanno tutti” o del “non faccio mica niente di male, non uccido, non rubo … ”. Non essere incollati al bene non è solo fare il male, ma anche non fare il bene che si può fare. “Prevenitevi vicendevolmente nella stima”: su che cosa baso la mia stima dell’altro? Sul suo conto in banca, sulle sue idee politiche, sul peso che ha la sua famiglia, sul lavoro che fa? Sull’auto che possiede? Penso mai che l’altro è prima di tutto figlio di Dio da Lui amato in quanto tale, sapendo cogliere in questo la sua grande dignità, indipendentemente da quello che ha, fa, dice? “Prendete parte alla gioia di chi gioisce e al pianto di chi piange”: Oggi per certi aspetti sembra quasi più facile poter realizzare questo. La televisione e i mass media in generale ci abituano a vedere e a prendere parte emotivamente al dolore dei Paesi, anche lontani, colpiti da improvvise catastrofi naturali, a piangere con i genitori a cui hanno rapito o trucidato un figlio, a rattristarci per i bambini che muoiono di fame o che sono costretti ad imbracciare un fucile e a sparare sui loro coetanei. Anche la gioia degli altri sembra più facile da condividersi oggi, come quella di una squadra per la vittoria ad un mondiale di calcio o di un divo dello spettacolo per il suo matrimonio. Eppure, nonostante tutto, il nostro cuore rimane incapace di farsi carico della sofferenza di un nostro familiare, della tristezza del collega di lavoro, della solitudine del vicino di casa. Così come rimane incapace di condividerne fino in fondo la gioia, perché c’è sempre un po’ di invidia che ci accompagna, un po’ di gelosia, un po’ di scontento, dal momento che tale gioia non è capitata a noi. Chiediamoci allora quanto ci impegniamo nel farci seriamente accanto ai nostri fratelli, soprattutto quelli che incontriamo ogni giorno nella nostra vita, semplicemente condividendone la gioia e il dolore, magari anche accettando umilmente di non poter far nient’altro che essere lì presenti con loro, come Maria sotto la croce di suo Figlio. “Siate eucaristici”: Come è difficile dire grazie! Dire grazie alla mamma per quanto fa per noi dalla mattina alla sera; dire grazie al marito o alla moglie per il suo bene, spesso dato per scontato; dire grazie al Signore per il dono della vita rinnovato ogni mattina che apro gli occhi e per la fede in Lui che mi sostiene in ogni momento. Chiediamoci allora quanto il nostro vivere è all’insegna dell’attenzione e della capacità di saper cogliere gli innumerevoli doni che costellano la nostra esistenza, doni che ci vengono dagli altri e doni che in ultima istanza ci vengono sempre e comunque da Dio? Quanto viviamo in questo atteggiamento di costante gratitudine al Signore e ai fratelli per tutto quello che abbiamo, siamo, viviamo, desideriamo? TESTI PER LA RIFLESSIONE 1. Dal “Quaderno di note intime” di S. Bernardetta Soubirous Quando l’occasione si presenterà, versare l’olio e il vino nelle piaghe, come Gesù, e non l’aceto, senza preferenza per nessuno, o come Gesù, attaccandomi di preferenza ai più poveri, ai più sofferenti, ai più umili, ai più abbandonati … Essere più caritatevole in avvenire per il prossimo, per le miserie corporali e spirituali. Per amore verso Gesù, accetterò generosamente le privazioni, le sofferenze, le umiliazioni, come Gesù, Maria, per glorificare Dio. 2. Piattino rotto Suor Marie-Bernard sapeva, all’occorrenza, evitare un rimprovero alle compagne. Avendo una suora commesso un gesto maldestro rompendo un piattino, non osava confessarlo alla suora economa: “ Datemelo “ le disse suo Marie-Bernard. Lo portò alla suora economa e ricevette l’osservazione che sarebbe stata fatta alla compagna. (Madre Marie-Therese Bordenave) 3. Vi prego non alzatevi Non poteva sopportare che ci si disturbasse per lei. La suora, che dormiva nella sua stanza, quando la sentiva che aveva le crisi di asma, si alzava per darle aiuto. “ Vi prego – diceva - , non alzatevi, mi contrariate assai. Se non dormo durante la notte, posso recuperare dopo. Non è lo stesso per voi, riposate tranquillamente “. (Religiosa anonima) 4. L’ho dimenticato La venerabile non ha mai serbato il minimo risentimento nei confronti di persone che abbiano potuto causarle qualche dolore. Quando le si rammentava che qualcuno aveva potuto esserle contrario, procurarle dolore, diceva: “ L’ho dimenticato “. Lo stato abituale della sua anima era di non ricordarsi delle contrarietà di cui aveva potuto essere l’oggetto. (Jouin) 5. Vi domando perdono I miei rapporti con suor Marie-Bernard erano sempre pieni di cordialità, scrive una suora. Tuttavia, in giorno che le era stato portato un oggetto del suo corredo lacerato in seguito a una negligenza o a un incidente che si era prodotto durante il lavaggio, mi espresse il suo malcontento, e, siccome ero incaricata della biancheria, mi disse con vivacità che avrei dovuto mettere più cura nella mia sorveglianza. “ Adesso – aggiunse - , bisogna riaggiustare “. Suor Marie-Bernard aveva molta cura del suo vestiario e di quanto le era affidato. Ma non mi lasciò partire senza farmi delle scuse molto accentuate: “ Vi domando perdono – mi disse -, per avervi parlato in questo modo; pregate per la mia conversione “. (Madre Marie-Therese Bordenave) 6. Sono stata molto viziata Il suo amore e la sua dedizione per tutte le compagne erano senza limiti; con una semplicità e un candore ammirabili si faceva “ tutta a tutti “. E? soprattutto all’infermeria che eccelleva in bontà per le care compagne malate. Con quale delicatezza prestava loro le sue cure assidue e come sapeva incoraggiarle nelle loro sofferenze! Un giorno che mi trovavo all’infermeria, un nostra consorella molto affaticata, che era stata incoraggiata da lei, le disse: “ E’ molto facile per voi invitare alla pazienza e alla rassegnazione, dopo tutte le grazie e i favori che avete ricevuto dalla Vergine Santa”. Allora, levando gli occhi verso il cielo, con quel suo sguardo celestiale, ci rispose: “ E’ verissimo, sono stata molto viziata e molto privilegiata; ma anche, sarei ingrata e colpevole se non corrispondessi a tanti favori “. Le sue parole, e soprattutto il tono con il quale le pronunciò, ci toccarono profondamente. (Suor Hélène Sutra) 7. La forza dell’amore All’origine di ogni uomo sta l’amore. L’amore genera alla vita e alla coscienza di sé, è chiamata alla crescita nella libertà. La capacità d’amare è legata all’esperienza dell’amore. Chi non è stato amato o non è oggetto d’amore conosce la solitudine, il risentimento, la ribellione, l’aggressività, l’odio. Chi non si apre all’amore si chiude alla vita. L’avventura umana e il suo destino si giocano sul filo dell’apertura o del rifiuto dell’amore. Sul significato e sul contenuto di questo termine esiste una inesauribile letteratura, a testimonianza del suo fascino e della sua forza vitale. Nei rapporti interpersonali l’amore è la realtà più esaltante, ma anche la più soggetta ad ambiguità e fraintendimenti. Nell’espressione così intensa e così semplice: “ Ti amo “, può racchiudersi la totalità del dono o la brama della ossessività, la gioia della comunione liberante o l’ebbrezza del piacere effimero, la meraviglia o l’abitudine, la storia di una fedeltà o la maschera di un inganno. L’amore maturo è frutto di pazienza e di sofferenza, di gesti concreti più di retorica. La sua verità ultima, la sua verifica suprema, sta nel dono totale di sé all’altro. (Gianfranco Venturi) 8. Vivere da riconciliati Entrati nel terzo millennio, capiamo abbastanza che, duemila anni fa, il Cristo è venuto sulla terra non per creare una nuova religione, ma per offrire una comunione in Dio ad ogni essere umano? Dopo la sua risurrezione, la presenza del Cristo si fa concreta attraverso una comunione di amore che è la Chiesa. I cristiani avranno il cuore così ampio, l’immaginazione così aperta, l’amore così ardente da scoprire questa via del vangelo: senza ritardo, vivere da riconciliati? Quando i cristiani permangono in una grande semplicità e in un’infinita bontà del cuore, quando sono attenti a scoprire la bellezza profonda dell’animo umano, sono portati ad essere in comunione gli uni con gli altri nel Cristo. … Sì, il Cristo chiama noi poveri del Vangelo a realizzare la speranza di una comunione. Anche il più semplice dei più semplici può riuscirci. … Durante la sua visita a Taizè nel 1986, Papa Giovanni Paolo II ha risvegliato nella nostra comunità una presa di coscienza che sostiene la nostra vocazione accanto ai giovani. Il Papa ci ha detto in particolare: “ Volendo voi stessi essere una parabola di comunità, aiuterete tutti quelli che incontrerete ad essere fedeli alla loro appartenenza ecclesiale, ma anche ad entrare sempre più profondamente nel mistero di comunione che è la Chiesa nel disegno di Dio “. Parole simili preparano un cammino per chi cerca con tutta la sua anima di vivere in comunione. (Frère Roger Schutz)