Tunisia 2011

Transcript

Tunisia 2011
Tunisia 2011
Antefatti e testimonianze
a cura di DARIA SETTINERI
con la collaborazione di Abderrazek Dridi
ACHAB
Tunisia 2011
Antefatti e testimonianze
a cura di DARIA SETTINERI
con la collaborazione di Abderrazek Dridi
ACHAB
D. Settinieri (a cura di), Tunisia 2011. Antefatti e testimonianze, con la
collaborazione di A. Dridi, Achab - Rivista di Antropologia, testo reperibile
sul sito: www.achabrivista.it, Milano, 2011.
Le immagini in prima e quarta di copertina sono di Abderrazek Dridi.
2
Indice
Premessa di Daria Settinieri ........................................................................................................................ 6
Cronologia di un mese di tensioni a esiti imprevedibili............................................................................. 12
Questioni di Abderrazek Dridi ................................................................................................................... 13
Il 7 novembre 1987 ................................................................................................................................. 14
L’elezione del 1989 e il primo mandato ................................................................................................. 17
L’ elezione del 1994 e il secondo mandato ............................................................................................. 18
L’ elezione del 1999 e il terzo mandato .................................................................................................. 19
L’elezione del 2004 e il quarto mandato ................................................................................................ 20
Le elezioni 2009 e il quinto mandato ..................................................................................................... 21
Apertura economica e chiusura politica di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri. .................................... 22
Il matrimonio che ha cambiato il destino di un Paese .......................................................................... 27
Chi è Leila Trabelsi................................................................................................................................. 29
Il sistema e la sua faglia ......................................................................................................................... 32
Ma cos’è successo quel giorno? di Abderrazek Dridi ............................................................................... 39
TESTIMONIANZE................................................................................................................................... 45
Sognando la rivoluzione di Noaman Beji ............................................................................................... 45
I doveri della rivoluzione di Hager Daly................................................................................................ 66
E ho pianto di Nidal Khef ....................................................................................................................... 71
Finalmente giornalista! di Nabila Abid ................................................................................................. 79
La rivoluzione a distanza di Hamza Dridi e Hela Gaieb........................................................................ 85
Eppur si parte di Daria Settinieri ............................................................................................................... 93
Qualche osservazione ............................................................................................................................. 96
E ora? di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri............................................................................................ 99
L’Egitto come la Tunisia? .................................................................................................................... 102
E gli altri Paesi nordafricani?.............................................................................................................. 103
Metà marzo 2011, considerazioni parte prima: rompere con il passato, investire nella democrazia di
Abderrazek Dridi ....................................................................................................................................... 106
Ultimi giorni di aprile 2011, considerazioni parte seconda: Sviluppi prevedibili? di Abderrazek Dridi e
Daria Settinieri.......................................................................................................................................... 109
Suggerimenti per un approfondimento.....................................................................................................114
3
L’idea da cui è nato questo libro è semplice: raccogliere storie di vita,
pensieri, riflessioni di quanti hanno partecipato, in prima persona o da
lontano, ai giorni della rivoluzione tunisina e di quanti ne hanno beneficiato.
Queste memorie personali occupano, nel testo, l'intera seconda parte,
chiamata appunto Testimonianze. Nella prima parte, invece, tento di
delineare il quadro politico, sociale ed economico della Tunisia dal 7
novembre 1987 a oggi. La terza e ultima parte, infine, è occupata da una
riflessione sulla rivoluzione alla luce dei recenti fatti avvenuti in Tunisia ma
anche in Europa, per la conseguente recrudescenza degli sbarchi sull'isola di
Lampedusa.
Ho vissuto con particolare trepidazione i giorni in cui scoppiavano i
moti in Tunisia1. Sapendo dei rischi che avrebbero corso i miei amici
qualora, nelle nostre conversazioni telefoniche, avessi chiesto informazioni
precise sull’andamento delle cose, mi sono limitata a chiedere se stessero
bene in salute2. Sapevo bene che le mie preoccupazioni non erano eccessive.
C’è da dire che, anche in questi giorni di teorica libertà post-dittatura,
quando, al telefono, si arrivava a parlare troppo nello specifico con alcune
persone particolarmente coinvolte, talvolta la comunicazione stranamente si
interrompeva e i telefoni diventavano improvvisamente irraggiungibili. Il
dubbio che ancora qualcosa tramasse credo sia lecito.
Ad alcuni degli autori di queste testimonianze sono legata da lunga
amicizia e l’idea che potessero raccontare la propria storia, finalmente ad
alta
voce
e
senza
timore,
direttamente
dalla
Tunisia,
mi
ha
reso
1 Non sono stata, in questi mesi, in Tunisia e, dunque, gli scambi con le persone che mi
hanno aiutato a elaborare questo testo, sono avvenuti grazie alla posta elettronica e a skype.
Soltanto con due autori delle testimonianze mi sono incontrata di presenza in questi mesi. Si
tratta di Noamen Beji, che abita a Palermo, e di Nabila Abid, con cui sono andata a
Lampedusa. Conosco la Tunisia perché a lungo vi ho svolto le mie ricerche etnografiche.
2 Il regime ha sempre tenuto sotto controllo sia le linee telefoniche sia la rete e molti erano i
siti oscurati.
4
particolarmente amato questo progetto. Mi è sembrato un bel modo per
ricucire i fili interrotti nel tempo, ma che, per mille ragioni, mi legano ancora
alla Tunisia.
Spesso nei racconti si noteranno toni enfatici e retorici che a noi
potrebbero stridere. Credo, però, che anch’essi siano un’interessante
testimonianza di atteggiamenti e aspettative. Sarà importante notare come i
giornalisti tunisini, non abituati al nuovo tipo di informazione che si trovano
a poter fare, gestiscano le loro competenze, soprattutto in campagna
elettorale.
Un instant book. Nessuna pretesa di completezza d’argomentazione, né
di sufficiente analisi. Una voce, una testimonianza immediata di quella che è
stata ribattezzata in occidente la “rivoluzione del gelsomino” e chiamata dai
suoi artefici “rivoluzione per l’indipendenza”.
Un ringraziamento particolare va ad Abderrazek Dridi, amico fraterno,
che in un momento storico particolarmente impegnativo ha trovato il tempo
di curare con me un testo che fosse comprensibile a un pubblico non esperto
di storia della Tunisia. Ringrazio anche Noaman Beji per aver voluto
ricostruire con me anni dolorosi della sua militanza politica di cui aveva
deciso di non parlare più. Un ringraziamento a tutti gli altri autori per aver
voluto condividere la loro dolorosa e gioiosa esperienza mettendo a nudo
anche le proprie responsabilità.
Ho tradotto quasi sempre molto fedelmente il testo e laddove
(raramente) alcuni periodi o espressioni idiomatiche non rendevano in
italiano quanto si sarebbe voluto esprimere, ho discusso con gli autori della
possibilità di modificare il testo francese. L'ultima delle testimonianze (“La
rivoluzione a distanza”) di Hamza Dridi e Hela Gaieb è stata tradotta
dall'inglese. Ho inserito in nota l’esplicazione di tutte quelle informazioni
storiche e sociali che potrebbero risultare poco chiare a un lettore non
avvezzo alla questione nordafricana.
D. S.
5
Premessa3
Avrò avuto cinque o sei anni quando sentii parlare per la prima volta
della Tunisia. Era d’estate e trascorrevo i miei giorni felici su uno di quei
lembi di costa siciliana tanto vicini all’Africa da sembrare Africa essi stessi.
La curiosità bambina di saper come si abitasse al di là del mare mi induceva
a incantarmi nell’ascolto, seppur incomprensibile, di una lingua che
pescatori del mediterraneo avevano forgiato in secoli di scambi. Cosa fosse
una colonia, una guerra d'indipendenza, un presidente a vita che stava
invecchiando, non erano concetti di facile comprensione per la bambina
d’allora. La quale preferiva sognare i luoghi di ambientazione delle sue favole
piuttosto che capirne qualcosa. Ma alla conclusione dell’anno 1987 ero meno
bambina e qualche infarcimento di storia e geografia ormai l’avevo.
Succedeva, nella vita al di là del mare, quello che ormai intuivo dai banchi di
scuola. Felice che accadessero cose nel significato delle quali ormai mi
orientavo, nell’estate successiva ascoltavo con più gusto i commenti dei
pescatori tunisini e siciliani nonché degli adulti che mi circondavano. Ma
ben altre erano le urgenze dell’età, e il proposito di capire di politica fu
soppiantato da più imminenti e allettanti avvenimenti. La Tunisia al di là del
mare rimase un pensiero lontano cui di tanto in tanto tornavo. Quand’ebbi,
però, la possibilità di trascorrere nei luoghi dei miei sogni di bambina il
tempo della mia prima esperienza di campo etnografico, la cosa mi emozionò
non poco. Era l’alba del nuovo millennio e il presidente del colpo di stato del
1987 continuava ancora a essere lo stesso. Seppur le mie ricerche
etnografiche riguardassero diverse istanze, le vicissitudini delle persone che
incontravo erano talmente legate alla storia politica del Paese che fu
inevitabile che anch’io finissi col farvi i conti nel dettaglio. E non fu cosa
facile. Allo stordimento emotivo per il fatto che il paesaggio in cui mi
muovevo era connotato dalla presenza orwelliana delle immagini del
3
Di Daria Settinieri.
6
presidente, si aggiungeva lo sgomento di respirare un’aria pregna di terrore,
in cui si calibrava anche il peso del non detto. Le pratiche del terrore hanno
ripercussioni sulle politiche di (auto)gestione del corpo. Cercando di tornare
indietro con la memoria, mi pare di ricordare che fosse questo l’aspetto che
più mi colpiva della dittatura. Le posture che i corpi assumevano quando si
trattavano certi argomenti; i modi in cui ci si muoveva negli spazi, caffè o
negozi, in cui troneggiava la gigantografia del presidente che, il volto
disegnato in un benevolo sorriso, guardava chi si spingeva attorno al suo
simulacro.
Le scelte di resistenza attraverso il corpo si praticavano spesso
nell’intimità domestica. Penso allo stupore che inizialmente provavo quando
alcune ragazze che a scuola andavano a capo scoperto, si velavano poi in
casa, da sole. Una rivalsa che in qualche modo si sentiva la necessità di
perpetuare. A monito, affinché si conservasse il ricordo di una possibilità di
autonomia. In questa direzione ho sempre pensato si potesse leggere l’uso
che, in alcuni contesti, si faceva del velo. Una lotta su basi ideologiche,
profondamente antitetiche a quelle apparentemente immaginabili, si celava
dietro la scelta di indossare, negli spazi intimi, quel velo per cui si era
perseguitati in quelli pubblici e dietro quella di indossare, in questi ultimi,
alcuni tipi di copricapo4. D’altronde, il memento dei diktat stava in tutte
quelle fotografie che ricordavano la presenza costante di occhi giudicanti su
ogni cittadino. Come dimenticherò mai la sensazione suscitatami, lungo la
4 Mi rendo conto che liquidare la questione sul velo in così poche battute può sembrare
quantomeno riduttivo. Il velo ha un valore polifunzionale rappresentativo di più ambiti
simbolici Per quanto riguarda la Tunisia, il velo oggi portato da molte ragazze che ho incontrato
si differenzia notevolmente da quello portato dalle loro nonne (e che aveva un corrispettivo
nella chechia, copricapo maschile) che già nella seconda metà del Novecento però il movimento
femminista, nato subito dopo l’indipendenza, iniziò a contestare. Il tipo di velo di cui parlo è
quello utilizzato in Tunisia a partire dagli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, legato,
dunque, alla nascita del primo movimento integralista strutturato di radice wahabista e che
dovrebbe rappresentare (e per alcune rappresenta) l’adesione a tale movimento. Molte sono
però le donne con cui ho parlato per le quali il velo, a prescindere dalla sua origine, ha
rappresentato un veicolo di resistenza al regime. Così come ha rappresentato, e rappresenta,
una rivendicazione sociale rispetto a una globalizzazione che tende a non tener conto delle
istanze dei Paesi arabi.
7
strada che collega Tunisi a La Goulette5, da quell'immensa immagine, la
prima che saltava alla vista, che occupava buona parte del panorama? O
come dimenticherò lo sgomento, entrando in un locale, per il fatto che la
prima persona a ricevermi fosse ogni qual volta il presidente, la cui foto
troneggiava sempre, spesso a mo’ di altarino, all’ingresso? Come non aver la
sensazione che le sue orecchie e i suoi occhi accompagnassero in ogni
momento le mie parole, i miei gesti? Come non immaginare di dover tenere
sempre un posto vacante e stoviglie pulite per l’uomo davanti alla cui
immagine mangiavo e bevevo? Come non pensare alle teorie sullo stato
assoluto dei filosofi studiati a scuola o a quelle di più recente storia? Che lo
stato capitalista neoliberista si fondasse su principî di violenza strutturale e
di bio (e thanato) potere mi era sufficientemente chiaro6. Vivere in uno spazio
in cui questi principî fossero gli unici praticati, uno spazio-nazione di
matrice dittatoriale a ispirazione neoliberista, è stato ancor più difficile da
praticare. La mancanza di margini per la negoziazione può diventare
asfissiante. Non sto qui sostenendo che il modello democratico occidentale
sia l’unico perseguibile o, men che mai, che esso vada esportato a forza.
Sostengo certamente che l’impossibilità di creare degli interstizi di pubblica
fruizione in cui manifestare il proprio dissenso, ancor più di provocare
sacche di resistenza attiva, può mettere in moto strategie di resistenza
passiva il cui peso poietico non è prevedibile. Questo è stato uno degli
elementi che certamente hanno portato il regime tunisino al punto di non
ritorno. Le “linee di fuga” di cui parlavano Gilles Deleuze e Félix Guattarì7
hanno creato fughe di immaginazione e fughe reali. Spesso verso quell’Italia
che, da un lato, ha sostenuto e appoggiato il governo tunisino e dall’altro ha
cacciato o sfruttato i suoi esuli. Ma le linee di fuga sono state anche quelle
delle voci dissonanti che hanno accettato le persecuzioni, il carcere, la
5 Cittadina costiera a breve distanza da Tunisi di cui costituisce l’avamposto. Per la
consistente presenza degli immigrati siciliani, fu ribattezzata a inizio secolo XX la Petite Sicilia,
nome con cui ancor oggi viene da taluni rammentata.
6
Il riferimento è al filosofo francese Michel Foucault.
7
G. Deleuze e F. Guattarì, 1980, Mille plateaux, Paris, Éditions de Minuit.
8
tortura. Però se, ragionando ancora con Deleuze8, resistere è anche creare,
possiamo affermare che in Tunisia si è continuato a creare. Lontano dalla
politica, dai modelli imposti, nella quotidianità dell’esistenza, la gente
comune ha immaginato, forse sognato, una vita fatta di libertà di pensiero e
d’espressione. La fuga, reale o virtuale, ha aiutato a resistere. Il sabato sera,
gli internet point sono pieni di giovani in cerca di coetanei europei con cui
chattare su msn o su facebook. A casa, i meno giovani guardano Rai Uno. I
social network e i media performano l’immaginazione e creano presenze
senza corpo che alimentano il desiderio di cambiamento. Si creano reti di
persone che questo cambiamento lo auspicano al di là del mare, diventando
preda facile di chi organizza i viaggi clandestini oppure tentando di intessere
il più possibile rapporti con gli europei che si trovano in Tunisia. Diventare
l’amante etero o omosessuale di un occidentale viene vissuto come un
possibile viatico. Ma la fuga può anche essere all’interno delle istituzioni. Lo
sforzo di chi si è inserito nei circuiti ammessi dal regime tentando una sottile
ma costante attività riformatrice che puntava sulla formazione della capacità
critica dei giovani con l’organizzazione di progetti con partner occidentali e
che coinvolgeva ragazzi in età scolare e universitaria, probabilmente ha
contribuito a forgiare l’immaginario di qualcuno. Un’attività del genere,
peraltro, puntava anche a dar lustro fuori dalla Tunisia e, dunque, non solo
non veniva osteggiata ma addirittura era sostenuta. Nella convinzione di
poter tenere sempre tutto sotto controllo, Ben Alì e consorte hanno creduto
che la propaganda di stampo orwelliano potesse risultare bastevole.
Altro discorso va fatto per quanti hanno tentato la lotta clandestina o
aperta pagandone le conseguenze. È il caso, a esempio, di Radhia Nasraoui,
attivista e avvocato per i diritti umani, tra i fondatori e presidente
dell'Associazione per la Lotta alla Tortura in Tunisia (ALTT), di cui si può
leggere la testimonianza sul sito di Amnesty International. Tutti questi
elementi hanno contribuito alla creazione di ampie sacche di dissenso,
8 Questo tema attraversa gran parte dell'opera di Deleuze. Può essere interessante ascoltare
la registrazione dei corsi tenuti all'Università Paris VIII registrandosi al sito http://gallica.bnf.fr
9
anche passivo, pronte a rendersi partecipi del cambiamento. È inevitabile,
però, una considerazione: questa rivolta trasformatasi in rivoluzione, non è
stata l’unica della Tunisia, né la più significativa. Quella avvenuta nella
regione mineraria di Gafsa, nel 2008, conteneva certamente tutti i
presupposti per sfociare in una rivoluzione. La Tunisia è il quarto produttore
al mondo di fosfati proprio grazie alle miniere di Gafsa che, invece, è una
delle regioni più povere del Paese. Per più di otto mesi, operai, studenti e
famiglie hanno protestato e scioperato, eppure le autorità sono riuscite a
mantenere il riserbo sulla questione, la polizia ha perseguito i contestatori e
mantenuto lontano i giornalisti. Qual è stata la novità stavolta? Come mai
l’informazione è riuscita a circolare così liberamente su Facebook e Twitter al
punto da poter affermare che il motore della rivoluzione sia stato proprio il
social network fondato da Mark Zuckerberg? Come mai non sono stati
oscurati i siti web come tante altre volte era successo?
Quando, nelle testimonianze presenti in questo libro, compare il
termine ancien régime, ho deciso di non tradurlo. Si definisce il regime Ben
Alì ancien régime in contrapposizione al fervore di questi ultimi mesi. Non c’è
ancora un nuovo ordine, in Tunisia, ma certamente non ce ne sarà uno
ispirato al modello della presidenza Ben Alì. L’ancien régime di memoria
occidentale aveva, fra i propri tratti caratteristici, l’esaltazione della necessità
di infliggere all’attore criminale (rispetto al sistema) una pena che fosse
esemplare. Leggendo la testimonianza di Noaman Beji, che svolgeva la sua
militanza politica all’interno dell’università, si potranno facilmente cogliere
interessanti connessioni tra il modus operandi punitivo dell' ancien régime di
memoria francese e quello della Tunisia di Ben Alì. Le modalità di gestione
della politica del terrore sono state ulteriormente sofisticate in Tunisia
perché non più rivolte soltanto alla punizione del corpo o alla gestione dello
spazio pubblico, ma anche (e tanto) alla mente9. Gestione dei mezzi di
informazione, oscuramento di siti web, organizzazione dei programmi
scolastici,
9
qualsiasi
cosa
insomma,
aveva
il
preciso
Anche qui è utile far riferimento al filosofo francese Michel Foucault.
10
scopo
di
fare
propaganda, di forgiare l’immaginario collettivo, e creare consenso. Non dare,
però, alcuno spazio al dissenso ha creato quelle sacche di resistenza di cui
scrivevo prima e che, tramite la rete stavolta non oscurata, hanno saputo di
poter rappresentare una grande maggioranza.
Non è questo lo spazio, né è adesso il tempo, per tentare un’analisi
approfondita e verosimile di quanto sia accaduto dietro le quinte durante i
giorni di gennaio. Quale ruolo abbiano giocato i servizi segreti, considerando
non remota l'ipotesi di un loro coinvolgimento. D’altronde, ad esempio, i
documenti comprovanti la partecipazione dell’Italia al colpo di stato del 1987
sono emersi parecchi anni dopo l’accaduto (Fulvio Martini, ex capo del sismi,
lo dichiara nel 1999 sulla Repubblica dell’11 ottobre10). Certo, il dubbio che
l’impero costruito da Leila Trabelsi, moglie di Ben Alì, e dalla sua famiglia
fosse arrivato a un punto tale da disturbare gli equilibri euromediterranei del
mercato ufficiale e non, rimane lecito: il controllo del narcotraffico, delle rotte
dei migranti… i Trabelsi non subappaltavano nulla se non in cambio di
grosse percentuali. E, più la loro potenza cresceva, più la fetta chiesta
risultava grossa. Forse l’elemento vincente di questa rivoluzione è stato
proprio quello di lasciarla fare, senza alcun intervento11.
10 L’articolo è tuttora consultabile sul sito:
http://www.repubblica.it/online/fatti/afri/nigro/nigro.html
11 Volontariamente ipotizzo e accenno soltanto al coinvolgimento di servizi segreti e non faccio
riferimento al dibattito che vi ruota attorno perché ciò implicherebbe una lunga analisi
comparativa con altre rivoluzioni avvenute dopo la caduta del muro di Berlino. Per un
approfondimento rimando al sito della rivista di studi geopolotici «Eurasia»
http://www.eurasia-rivista.org/le-rivoluzioni-colorate-in-eurasia/8540/.
Per
riferimenti
specifici alla Tunisia, vedi invece http://www.eurasia-rivista.org/cecchini-e-rivoluzionicolorate-rassegna-storica-e-analisi/12522/.
11
Cronologia di un mese di tensioni a esiti imprevedibili
Cronologia di un mese di tensioni a esiti imprevedibili
17 dicembre 2010: Mohamed Bouazizi, un giovane disoccupato, si dà fuoco. Morirà il 5
gennaio.
22 dicembre: Houcine Neji si suicida davanti alla folla di Menzel Bouzayane. La polizia spara e
uccide un contestatore.
25 e 26 dicembre: gli eventi dilagano nel resto del Paese.
28 dicembre: primo discorso di Ben Alì alla nazione.
8 e 9 gennaio 2011: la rivolta di Kasserine, nel centro del Paese, degenera in violenti scontri.
Si contano almeno 21 morti.
10 gennaio: Ben Alì condanna gli atti terroristici che destabilizzano il Paese e promette la
creazione di nuovi posti di lavoro: 300.000 entro il 2012.
11 gennaio: i tumulti guadagnano la capitale e i suoi sobborghi. Nelle grandi città si impone il
coprifuoco.
13 gennaio: secondo intervento di Ben Alì che, senza un preciso discorso politico, si impegna
a non candidarsi alle elezioni del 2014.
14 gennaio: lo sciopero generale organizzato a Tunisi si trasforma in sommossa. Il governo
cade ed è dichiarato lo stato di emergenza. Ben Alì lascia il Paese. Il primo ministro Mohamed
Ghannouchi annuncia, in ottemperanza all’articolo 5612 della costituzione13, di assumere
temporaneamente le prerogative di capo dello stato.
15 gennaio: il presidente della corte costituzionale annuncia che il posto di capo di stato è
nuovamente vacante. Ne consegue l’applicazione dell’articolo 5714 della Costituzione. Il presidente
della camera dei deputati diventa capo di stato per un massimo di 60 giorni entro i quali si
dovrebbero organizzare elezioni presidenziali.
12 L’articolo 56 recita che in caso di vacanza temporanea del capo dello stato, il primo
ministro ne assume la carica.
13 La Costituzione tunisina è stata varata il primo giugno del 1959. Il primo articolo recita: “La
Tunisia è uno stato libero, indipendente e sovrano. L’islam è la sua religione, l’arabo è la sua
lingua ufficiale”. L’articolo 5 garantisce le libertà fondamentali e i diritti dell’uomo e la loro
accettazione universale e globale. Libertà di culto, di stampa e di parola sono espressamente
garantite.
14 L’articolo 57 recita che, in caso di vacanza definitiva del capo dello stato, il presidente della
camera dei deputati ne assume la carica per un massimo di sessanta giorni entro i quali vanno
indette nuove elezioni.
12
Questioni15
…E ora che ho accettato di scrivere sulla rivoluzione in Tunisia, o meglio,
sulla prima rivoluzione di questo nuovo secolo, mi rendo conto di quanto ciò
costituisca un esercizio pericoloso. Come si fa a parlare di un sogno avverato
senza cadere nella retorica? Come si fa a non ricordare fatti importanti che
forse hanno determinato la riuscita di questa rivoluzione? E ancora, qual è la
“vera” storia e quali i personaggi chiave? Si può parlare di rivoluzione senza
essere contestati dai rivoluzionari del secolo scorso?16
Tutti questi interrogativi mi fanno temere il peggio al punto che, di
tanto in tanto – e direi anche spesso –, mi viene voglia di alzare la cornetta
del telefono e disdire l’impegno preso. Ma la grandezza dell’opera di quei
giovani che tutti pensavamo senza coscienza politica, lontani mille miglia
dall’avere il coraggio di contestare, o anche di alzar la voce, per chiedere un
futuro dignitoso fatto di libertà, di lavoro e di partecipazione effettiva alla vita
del Paese, mi ha dato la spinta che mi mancava per scrivere, nonostante
tutto. Allora cominciamo dall’ultimo atto.
Venerdì 14 gennaio. Una marea umana si sta recando all’avenue Habib
Bourguiba, più precisamente al ministero dell’interno, simbolo cardine di
uno stato poliziesco. Giovani, adulti e anche bambini (evidentemente
qualcuno
confidava
nell’aspetto
non
violento
della
manifestazione)
confluiscono da ogni parte della città e dai sobborghi per gridare la propria
rabbia. Già dal giorno precedente, ovvero dalla reazione al discorso di Ben
Alì, si percepiva che qualcosa di importante stesse per accadere: cosa?
Nessuno si azzardava a rispondere a questa domanda anche perché,
prendendo l’impegno preciso di non presentarsi per un nuovo mandato nel
2014, il presidente aveva abdicato alla dittatura. Si sarebbe potuto supporre,
15 Di Abderrazek Dridi.
16 La rivoluzione tunisina non ha avuto i tratti delle grandi rivoluzioni del secolo scorso. Si
parla, infatti, di una rivoluzione moderna, che non attacca l’istituzione ma soltanto il sistema.
13
di conseguenza, l’inizio di una maggiore libertà e democrazia e la fine della
corruzione: Ben Alì aveva dimostrato di aver ascoltato ed esaudito le
principali richieste avanzate dai manifestanti attraverso i loro slogan.
Allora c’è da chiedersi: perché mai il popolo tunisino nega al proprio
leader una ulteriore chance? Perché mai decide che sia arrivato il momento
di cambiare regime e che non ci sia motivo per credere a questo presidente?
Per rispondere a queste domande è necessario fare un passo indietro per
esaminare la storia recente di questo Paese.
Il 7 novembre 1987
È la mattina del 7 novembre 1987. C’è una temperatura ancora estiva e
la Tunisia inizia lentamente a svegliarsi quando un annuncio importante,
letto con tono ufficiale e seguito dall’inno nazionale, catalizza l’attenzione di
tutti. Ci si ritrova ben presto incollati alla radio, a tentar di capire meglio
cosa stia accadendo. Le parole di quella che è ormai conosciuta come la
“dichiarazione del 7 novembre” si succedono alternamente a canzoni di
connotazione patriottica, canzoni simili a quelle che si sentono in occasioni
importanti quali la festa nazionale del 20 marzo17. È così che il popolo
tunisino apprende che il proprio leader carismatico, l’uomo che ha condotto
la lotta nazionale per l’indipendenza, il liberatore della donna, colui che ha
fatto conoscere la Tunisia in tutto il mondo, è stato destituito dal suo primo
ministro Zine El-Abidine Ben Alì. Un colpo di stato bianco, senza versare
neanche una goccia di sangue, in ottemperanza all’articolo 56 della
costituzione nel quale si sancisce che, nell’ipotesi di vacanza di potere al
vertice dello stato, il primo ministro debba assumerne la carica per 60 giorni
entro i quali organizzare nuove elezioni18. La notte tra il 6 e il 7 novembre
1987, il presidente Habib Bourguiba viene destituito sulla base di un
rapporto firmato da sette medici che ne attestano l’incapacità a svolgere le
funzioni presidenziali per sopraggiunta senilità. Ben Alì ne diventa il
17 È la ricorrenza dell’indipendenza ottenuta il 20 marzo 1956.
18 Cfr. nota 12.
14
successore costituzionale, presidente e comandante in capo delle forze
armate.
La dichiarazione
diffusa dai network nazionali annuncia: “[…]
nell’epoca in cui viviamo non è più possibile concepire né presidenza a vita
né una automatica successione del capo dello stato con l’esclusione della
volontà del popolo […] La nostra gente – recita ancora la dichiarazione – è
degna di una vita politica avanzata e istituzionalizzata, basata realmente su
un sistema multipartitico e sulla pluralità delle organizzazioni di massa
[…]”19. La necessità della scelta di destituire urgentemente il presidente
Bourguiba sarà successivamente giustificata con la scusa che i movimenti
fondamentalisti erano in procinto di preparare un colpo di stato sanguinario
in cui sarebbero morti diversi leader politici.
È importante notare che la destituzione è accolta dalla gente con molto
entusiasmo perché giunta in un momento storico delicato, segnato da un
grande interrogativo sulla successione di Bourguiba da una lato, e da una
rapida ascesa di un violento fondamentalismo religioso dall’altro, il tutto in
un contesto di profonda crisi economica e valoriale20. È da notare anche il
19 È possibile leggere il testo integrale del discorso sul sito www.samibenabdallah.rsfblog.org
20 Gli anni Settanta sono caratterizzati dapprima dall’esperienza del collettivismo, ovvero di un
socialismo adattato alle caratteristiche dell’economia rurale del periodo; fallita tale esperienza,
si è successivamente scelto di adottare un sistema ultraliberale che ha dato il via al processo di
industrializzazione del Paese. Questo processo ne ha innescato a catena diversi altri. Si sono
riformulati, infatti, i concetti di educazione e di cultura. Industrializzazione (ovvero
incentivazione all'imprenditoria privata), educazione e cultura vivono dunque una nuova era,
mentre lo stesso non può dirsi per la politica, la quale rimane ancorata alla vecchia struttura
monopartitica che continua a negare le libertà fondamentali. Questo crea una discrasia che
esita negli eventi del 26 gennaio del 1978, quando la popolazione si riversa in strada per urlare
il proprio dissenso al potere. La politica decide di cambiare nuovamente strategia. Dopo
l’esperienza socialista-rurale e quella liberale-industriale, si passa a una scelta mista: un
liberalismo con un sistema di ammortizzazione sociale. Sul piano politico, si imbocca la via del
multipartitismo (alcuni partiti, in questo periodo, escono dalla clandestinità in cui erano stati
relegati seppur con la garanzia di un raggio d'azione limitato). Gli anni Ottanta sono
caratterizzati da un cambiamento strategico anche dal punto di vista culturale. Si propaganda
il ritorno a un ideale periodo panarabista che sarebbe stato osteggiato dagli eventi degli anni
Settanta e che deve arginare una sinistra laica che continua a vivere nella clandestinità, ma
che rappresenta la vera opposizione. Tutto questo crea un profondo disagio sociale e una crisi
di valori nella popolazione.
15
contrastante, ambiguo sentimento generato dal sollievo per l’avvenuta
successione e il rammarico per un leader la cui opera era unanimemente
riconosciuta, ma che non ha saputo uscire di scena al momento giusto e
dalla porta principale, facendo così precipitare il Paese in uno stato di
incertezza permanente.
Superato il ricordo del “combattente supremo”, il Paese guarda ormai
verso il futuro con più serenità e soprattutto con più voglia di vincere la sfida
di entrare a far parte dei piccoli grandi stati della moderna civiltà, contando
anche su quel capitale umano formatosi dagli inizi degli anni Sessanta e
sempre più proiettato verso l’intellighenzia dei suoi membri e l’uso sapiente
della tecnologia. Bisogna però assicurare il passaggio delicato, ma ormai
scontato, verso la democrazia, il pluralismo politico e la libertà di
espressione. Principî per i quali ha lottato la gioventù degli anni Settanta e
promessi nella dichiarazione del 7 novembre.
Il primo atto strategico del nuovo capo di stato è quello di ereditare
anche il posto di Bourguiba al vertice del Parti Socialiste Déstourien,
garantendosi l’acquisizione di questo fondamentale strumento politico al
servizio del potere sin dal 195621. Compiuto tale atto, si prende forse la
decisione più importante nella storia del Paese: dare un altro nome al PSD
che diventa RCD, Rassemblement Constitutionnel Démocratique. Questo
permette di salvaguardare il soggetto politico con la propria legittimità
storica, la propria tradizione di lotta contro i vecchi avversari ed eventuali
nuovi, la propria presenza sul territorio con possibilità di aggregare nuove
forze tra i democratici, avendo però una conformità diversa che fa
riferimento non più al vecchio ma, piuttosto, al nuovo regime.
21 Il PSD è attivo già dal 1934, all’inizio della formazione di quella coscienza nazionale
necessaria per avviare il processo di lotta per l’indipendenza che ha attraversato la storia del
Paese conducendo la Tunisia ad acquisire la propria sovranità.
16
L’elezione del 1989 e il primo mandato
Definita la questione nodale del soggetto politico, si cerca di avviare le
riforme promesse nella dichiarazione del 7 novembre, in primis la modifica
della Costituzione per rimuovere la presidenza a vita e limitare il numero dei
mandati presidenziali a tre. Si passa, quindi, all’adozione di una legge sui
partiti
politici
e
al
riconoscimento
di
nuove
formazioni
partitiche
contestualmente alla rimozione di tribunali speciali e dell'ufficio del
procuratore generale. Il nuovo presidente cerca di creare un clima politico
disteso aprendo il dialogo con le associazioni, tra cui la Ligue Tunisienne des
Droits de l’Homme (LTDH)22, e stabilendo contatti con i partiti di opposizione.
Il risultato di questa nuova strategia è la firma, il 7 novembre 1988, di un
patto nazionale23 che riunisce le varie formazioni politiche e sociali del Paese,
eccezion fatta per gli islamisti24. Tale patto vuole essere l’espressione di un
impegno comune a rispettare l'uguaglianza tra i cittadini di entrambi i sessi,
sancita dal Code du Statut Personnel25, i principi repubblicani, nonché il
rifiuto di usare l’islam per scopi politici.
Nelle legislative del 2 aprile 1989, i candidati dell'opposizione, tra cui
gli islamisti (che si presentano come indipendenti), ottengono circa il 14% dei
voti, e addirittura il 30% in alcuni quartieri popolari di Tunisi. All’elezione
22 La Lega Tunisina per i Diritti Umani nasce nel 1976 ed è la prima associazione di diritti
dell’uomo in Africa e nel mondo arabo.
23 Il
testo
integrale
del
patto
è
consultabile
al
sito:
www.droitsdelhomme.
org.tn/.../LE%20Pacte%20National%20du%20%207%20Novembre%201988.pdf
24 All’inizio del 1988 vengono liberati tutti i prigionieri politici, islamisti compresi, che però
non vengono riconosciuti mai formalmente come partito politico. Il leader Ghannouchi espatria
in Inghilterra dove continua e intensifica la sua attività politica. Ritorna in Tunisia nel febbraio
2011 a capo di Ennadha, uno dei centodieci partiti attualmente presenti sul territorio. Si tratta
di un movimento islamico derivato (come tutti) dal movimento dei “fratelli musulmani” egiziani,
diventato poi Movimento Ennadha. Il gruppo si formò alla fine degli anni Settanta con il favore
del futuro primo ministro Mazali che considerava i fratelli musulmani un valido baluardo alle
forze di sinistra presenti nell’università e, in genere, nel Paese. Nel mese di febbraio 2011 il
movimento, che sta vivendo un periodo di spaccature interne, è stato riconosciuto come
partito. Uno dei fondatori e leader è Ghannouchi.
25 Il codice dello statuto personale tende all’unificazione dei diritti di genere pur mantenendo
differenze sostanziali sui diritti di eredità che si rifanno tuttora alla Sharī’a.
17
presidenziale, tenutasi lo stesso giorno, essendo l'unico candidato, Ben Alì è
eletto con il 99.27% dei voti26.
Gli anni del primo mandato sono segnati anche dall’annuncio, nel 28
settembre 1991, della scoperta di un “piano preparato dagli islamisti che
mirava alla conquista del potere” e dall’indizione dei relativi processi durante
l’estate del 1992. Alcune organizzazioni non governative accusano la giustizia
tunisina di non rispettare tutti i diritti delle persone condannate, mentre le
autorità parlano del dovere del governo di garantire la tranquillità e la
sicurezza delle persone e dei loro beni e di garantire la pace sociale e la
stabilità delle istituzioni, condizioni necessarie per la riuscita del processo
democratico. Incriminato per aperta opposizione ai principi di uno stato
repubblicano, e al Codice dello Statuto Personale per aver perorato uno stato
islamico, il partito islamista non viene riconosciuto e, accusato di aver
violato anche il codice dei partiti politici, sceglie la via della clandestinità.
Altro evento di questo mandato, a carattere personale ma non per questo
meno importante, sono le nozze che Ben Alì celebra con Leila Trabelsi, un’ex
amante che diventa adesso moglie del presidente e prémiere dame.
L’ elezione del 1994 e il secondo mandato
La scelta del principale movimento fondamentalista di passare
all’azione
violenta
permette
a
Ben Alì
di
rallentare il
processo di
democratizzazione e di normalizzazione della vita politica. Si forma un
consiglio costituzionale e il codice elettorale è modificato in diverse occasioni
“per assicurare la trasparenza delle elezioni e aumentare la partecipazione
dei cittadini e la rappresentatività dei partiti politici”. Viene stabilita la quota
minima del 20% dei seggi alla camera dei deputati per le opposizioni
riconosciute affinché venga assicurata la loro presenza in parlamento. Il 20
26 Stima ufficiale del ministero degli interni.
18
marzo 1994, Ben Alì è nuovamente unico candidato alla propria successione
ed è rieletto con il 99.91% dei voti27.
Conclusasi l’elezione del 1994, si pensa già alla successiva e si
annunciano nuove riforme atte a garantire il pluralismo politico. È
presentato, e adottato all’unanimità, un emendamento
costituzionale
speciale che esenta i candidati alla presidenza dall'obbligo costituzionale di
sponsorizzazione da parte di rappresentanti eletti. Questa fondamentale
riforma politica nasconde però la tendenza a restringere gli spazi di libertà e
a sindacare sulle attività delle organizzazioni della società civile, prima fra
tutte la Ligue Tunisienne des Droits de l’Homme. Sul piano economico-sociale
si cominciano a intravedere le prime strategie d’azione di un clan familiare il
cui obiettivo è estendere il proprio dominio sulle attività economiche più
redditizie. A tal scopo, la famiglia in ascesa usufruisce delle agevolazioni di
accesso al credito concesse dalle banche su ordine esplicito di Ben Alì. Si
tratta dei Trabelsi, i cui singoli componenti, da illustri sconosciuti,
assurgono a ricchissimi cittadini grazie a mere ragioni di parentela.
L’ elezione del 1999 e il terzo mandato
Il 24 ottobre 1999, alle prime elezioni presidenziali pluraliste,
concorrono Ben Alì e due altri candidati, Mohamed Belhaj Amor e
Abderrahmane Tlili28. Ciononostante, il presidente uscente è rieletto
nuovamente con il 99.45% dei voti rispetto allo 0.31% per Belhaj Amor e lo
0.23% per Tlili.29 Finite le elezioni, si torna di nuovo a modificare la
Costituzione e, su iniziativa del presidente e con la scusa di “far progredire la
vita politica”, nel 2002 si decide di modificare metà degli articoli della carta
costituzionale con l’obiettivo dichiarato di andare verso un più moderno
stato definito République de demain. Ma le modifiche puntano a tutt’altro
27 Stima ufficiale del ministero degli interni.
28 Facendo parte dell’opposizione tollerata, sono funzionali alla legittimazione della pluralità
paventata.
29 Stima ufficiale del ministero degli interni.
19
poiché la riforma, sostanzialmente, rimuove il limite di mandati presidenziali
introdotto nel 1988 e allunga l'età massima permettendo, in tal modo, ai
settantacinquenni di candidarsi alla carica suprema. Convalidata il 26
maggio con un punteggio di 99.52%30 nel primo referendum della storia del
Paese, la riforma consente a Ben Alì di candidarsi ancora due volte per
completare il suo mandato nel 2014.
La riforma amplia inoltre i poteri del consiglio costituzionale in materia
elettorale e introduce anche il bicameralismo; si costituisce, dunque, la
camera dei consiglieri nella quale però non è rappresentata l’opposizione e
ciò spiega il fatto che il partito del presidente, oltre alle organizzazioni
professionali, è l’unico rappresentato in questa sede. Il presidente della
repubblica, inoltre, può nominare sette dei nove membri del consiglio
costituzionale, il quale deve garantire la validità delle candidature per le
elezioni presidenziali. Gli altri due sono nominati dal presidente della camera
dei deputati, egli stesso membro del partito RCD.
L’elezione del 2004 e il quarto mandato
Per le elezioni del 24 ottobre 2004, oltre a Ben Alì si presentano al voto,
grazie all’emendamento costituzionale che dispensa loro dalla condizione di
sponsorizzazione, Mohamed Bouchiha, Mohamed Ali Halouani e Mounir Béji.
Il voto, descritto come una simulazione di democrazia da ONG quali Human
Rights Watch o Amnesty International, viene boicottato da diversi partiti di
opposizione. Nell’agosto 2003, nuove restrizioni del codice elettorale vietano
all’opposizione, durante la campagna in vista delle elezioni, di utilizzare
network visibili all’estero. Il presidente in carica è però onnipresente nei
media nazionali. Il risultato dello scrutinio vede nuovamente rieletto Ben Alì
con il 94.49% dei voti contro lo 0.95% di Bouchiha, il 3.78% di Halouani e lo
0.79% di Béji31.
30 Stima ufficiale del ministero degli interni.
31 Stima ufficiale del ministero degli interni.
20
Per completare il quadro, una legge votata nel settembre del 2005
concede al capo dello stato l’immunità permanente per qualsiasi atto
compiuto nell’esercizio dei suoi obblighi istituzionali.
Le elezioni 2009 e il quinto mandato
Alla fine del 2006, varie organizzazioni filogovernative lanciano appelli
al presidente affinché si ricandidi alle elezioni del 2009. Il che avviene il 30
luglio 2008, in occasione del discorso di apertura del quinto congresso
ordinario del Rassemblement Constitutionnel Démocratique. A queste ultime
elezioni, Ben Alì si presenta nuovamente contro tre avversari ed è rieletto per
il quinto mandato consecutivo con l’89.62% dei voti, contro il 5.01% ottenuto
da Mohamed Bouchiha, il 3.80% da Ahmed Inoubli e l’1.57% da Ahmed
Brahim32.
Anche stavolta, trascorsi alcuni mesi, i sostenitori di Ben Alì ne
chiedono la ricandidatura per le presidenziali del 2014.
32 Stima ufficiale del ministero degli interni.
21
Apertura economica e chiusura politica33
Ben Alì inaugura una politica di privatizzazione che riguarda il settore
turistico, edile, tessile, agro-alimentare, ittico; e ancora quello della
meccanica e dell’ingegneria elettrica. L'incoraggiamento degli investimenti e
l'introduzione di una flessibilità legislativa e fiscale rinforza l'economia dopo
un inizio anni Novanta contrassegnato dalla recessione dovuta alla crisi del
turismo a causa della guerra del Golfo.
Il settore turistico entra nuovamente in crisi nel 2002-2003 dopo
l'attacco alla Ghriba di Djerba34. Ma, nonostante queste difficoltà, gli
investitori stranieri si insediano gradualmente e il prodotto interno lordo
torna a crescere raggiungendo quote tra il 5 e il 5.5%. Il governo favorisce
anche
l'industria
manifatturiera,
che
produce
soltanto
per
l’export,
concedendo l'opportunità agli investitori di stabilirsi in tutto il Paese senza
perdere il beneficio delle zone di libero scambio.35
Un accordo di associazione siglato con l’Unione Europea il 17 luglio
1995 ed entrato in vigore il primo marzo 1998, permette il progressivo
smantellamento delle barriere commerciali entro il primo gennaio 2008. In
questo contesto, lo stato si impegna a diversificare l'economia con l’aumento
della quota dell'industria e con il rafforzamento dei settori tradizionali
dell’agricoltura e del turismo. Viene svolta dal governo, dunque, una politica
di incentivazione alla creazione di aziende e una serie di manovre volte a
favorire la moltiplicazione di micro-imprese e l'estensione di tecnologie
dell'informazione.
33 Di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri.
34 Si tratta di una sinagoga dove si riunisce un'importante comunità di tunisini di religione
ebraica che vivono sull’isola di Djerba. L’attacco è un atto terroristico a firma di Al Qaeda in cui
sono rimaste vittime, oltre ai molti tunisini, anche turisti in visita alla sinagoga, soprattutto
tedeschi.
35 Sono le stime del nono piano economico. Ogni cinque anni si prepara un’agenda economica
in cui si tracciano le ipotesi di sviluppo per il quinquennio successivo basandosi sulle cifre
dell’Istituto Nazionale di Statistica.
22
La natura della politica di apertura condotta dallo stato tunisino
permette di mantenere una capacità di risposta significativa nonché lo
sviluppo di nuovi settori (quali l'industria meccanica) e delle nuove
tecnologie nelle quali un ingegnere tunisino, a parità di competenze, è
remunerato meno di un collega europeo. Tuttavia, un rapporto della banca
mondiale di giugno 2004 denuncia gli “interventi discrezionali del governo”
che, secondo i relatori, danneggiano il clima degli affari e aumentano i rischi
di eventuali investitori stranieri.
Per riassumere, la politica economica è un successo. La Tunisia è il
primo Paese extra europeo a siglare un accordo di associazione con l’Unione
Europea intraprendendo uno sforzo senza precedenti per modernizzare la
propria economia. In poco tempo si progettano e realizzano opere e
infrastrutture di straordinaria importanza: viadotti, autostrade e strade, ma
anche una moderna rete di telecomunicazione. Gli investitori europei
apprezzano questo Paese moderno e soprattutto tranquillo dove il lavoro è a
buon mercato e la manodopera qualificata. Ben Alì si assicura il sostegno
della classe media imponendo un negoziato tra le parti sociali ogni tre anni e
ottenendo dai datori di lavoro un costante aumento del salario minimo.
Viene promosso il credito al consumo e ne viene facilitato l’accesso. È
istituito un fondo di solidarietà di impronta paternalistica per sviluppare le
zone rurali. Anche il turismo a basso costo si sviluppa a un ritmo sostenuto.
In sostanza, un quadro economico e sociale dinamico che favorisce l’arrivo di
capitali esteri sul mercato nazionale.
Ma la disoccupazione costituisce una minaccia molto seria per gli
equilibri economici e sociali del Paese ed è aggravata da un popolazione
attiva in crescita. Essa colpisce non solo le fasce sociali più vulnerabili, ma
anche i laureati: il tasso di disoccupazione di questa categoria è in aumento
da diversi anni. Da un sondaggio della banca mondiale risulta che esso
passa dallo 0.7% nel 1984, al 4% nel 1997 e che, in questi anni, impenna al
23
20% contro una media nazionale del 14%, con punte persino del 60% in
alcuni settori36.
Sul piano politico, il regime di Zine El-Abidine Ben Alì crea dissensi
all’interno della classe politica e nella società civile. Gli islamisti, riuniti nel
partito Ennadha, non sono riconosciuti e sono soggetti a significative
repressioni: molti leader e attivisti vengono arrestati e condannati a lunghe
pene. I partiti politici non riconosciuti tentano di svolgere le proprie attività,
spesso in esilio, nonostante il divieto imposto. È il caso del Parti Communiste
des Ouvriers de Tunisie (PCOT) e del partito Tunisie Verte37. Infine, le
organizzazioni in difesa dei diritti umani cercano di denunciare le violazioni
delle libertà e di opporsi alla retorica ufficiale. Tra queste: la Ligue
Tunisienne des Droits de l'Homme (LTHD), l’Association de Lutte contre la
Torture en Tunisie (ALTT), o ancora, il Centre pour l'Indépendance de la
Justice et des Avocats (CIJA)38. Ma la loro opera viene sistematicamente
attaccata
e
ridotta
a
semplice
espressione
di
forze
politiche
di
fondamentalisti o di sinistra estrema, ostili alla Tunisia e contrarie
all’interesse nazionale.
In Tunisia ci sono diversi partiti politici riconosciuti sin dagli anni
Ottanta: il Mouvement des Démocrates Socialistes (MDS, social-democratici),
il Parti de l'Unité Populaire (PUP, panarabista socialista), il Parti Démocrat
Progressiste (PDP, post-marxista), il Parti Social-Libéral (PSL, liberale), l’Union
Démocratique Unioniste (UDU, panarabista), il Mouvement Ettajdid (sinistra
laica39), il Forum Démocratique pour le Travail et les Libertés (FDTL, socialista)
e il Parti des Verts pour le Progrès (PVP)40 Ma queste formazioni esistono
36 Molto utile, per la consultazione di queste statistiche, è il sito della banca mondiale.
37 Entrambi i partiti hanno avuto riconoscimento ufficiale nel febbraio 2011.
38 Tutte queste associazioni sono emanazioni di ONG internazionali, ovviamente non
riconosciute e puntualmente perseguitate.
39 Si osservi che nel mondo arabo esiste una sinistra cosiddetta nazionalista con una certa
connotazione religiosa in opposizione a quella laica.
40 Questi partiti, riconosciuti agli inizi degli anni Ottanta da Bourguiba e alcuni dallo stesso
Ben Alì, sono tutt’ora presenti. In certi casi, i leader (quelli appartenenti alla cosiddetta
24
formalmente
poiché,
in
realtà,
sono
molto
deboli
sul
piano
della
rappresentatività. Tranne il partito del presidente, difatti, nessun altra
formazione ha la possibilità di agire liberamente per ottenere consenso
popolare. Tutte le riunioni, le manifestazioni e le altre iniziative simili sono
soggette ad autorizzazioni specifiche rilasciate dall’amministrazione che può
negarle in qualsiasi momento per motivi di ordine pubblico. Si esercitano,
inoltre, pressioni di varia natura sui privati affinché non cedano i propri
locali per l’organizzazione di eventi dietro cui si possano celare incontri
politici.
La propaganda supporta massicciamente questo clima di repressione
per fornire l’immagine positiva di un regime popolare al servizio dell’interesse
generale. Così il 7 diventa il simbolo della presidenza di Ben Alì, segno
tangibile di un nuovo ciclo politico o, meglio, di una nuova era iniziata il 7
novembre 1987. Questo giorno diventa ricorrenza festiva e occasione di
grandi celebrazioni tant’è che entra a far parte del programma filatelico delle
posta tunisina con l’emissione di una serie di francobolli il cui elemento
visivo principale altro non è che la cifra 7 stilizzata.
L’immagine onnipresente del presidente Ben Alì viene affiancata quasi
sempre al sette: amministrazioni, caffè, negozi, viali, scuole, mezzi di
trasporto sono obbligati ad averla. La compagnia aerea Tuninter viene
ribattezzata Sevenair il 7 luglio 2007, cioè il settimo giorno del settimo mese
dell'anno 2007. 7 novembre è anche il nome attribuito a un aereo di linea
della Tunisair, allo stadio di calcio di Radès, all'aeroporto internazionale di
Tabarka. Il simbolo è utilizzato anche nel campo dei media controllati dal
regime, in particolare in televisione: il primo canale nazionale viene
dapprima nominato TV7, poi rinominato Tunis 7 e ancora Tunisie 7. Il sette
viene, inoltre, utilizzato come prefisso dei numeri di telefono: i numeri del
governatorato di Tunisi iniziano con il 71, quelli del governatorato del Sahel
con il 73 e così per tutti i distretti; il numero per gli SMS utilizzato nei giochi
opposizione ufficiale) sono stati destituiti e sono in corso congressi per eleggere la nuova
leadership.
25
televisivi è 87 ed è sempre accompagnato da un altro sette. Infine, sulla carta
d’identità tunisina, sette bandiere sono presenti su un lato e sette colombe
sull’altro. Il passo successivo è quello di intitolare un nuovo aeroporto
internazionale a Zine El Abidine Ben Alì, inaugurato nel 2010.
Varie organizzazioni di diritti umani e di difesa delle libertà accusano il
presidente Ben Alì di essere un dittatore e il regime tunisino viene
regolarmente accusato di violazione dei diritti umani. Stando al Comité pour
la Protection des Journalistes (CPJ), Ben Alì è, nel 1998, uno dei “dieci
peggiori nemici della stampa”, e Reporter senza frontiere lo indica come
“predatore della libertà di stampa”41.
Molti i prigionieri frequentemente torturati; i difensori dei diritti
umani, tra cui gli avvocati, sono vittime di intimidazioni e vessazioni e le loro
denunce non vengono mai accettate dalla giustizia tunisina. Alcuni carcerati
sono sottoposti a maltrattamenti e a condizioni di detenzione molto dure,
anche con lunghi periodi di isolamento. La legge antiterrorismo votata nel
2003 viene utilizzata per reprimere gli avversari politici. Uno dei casi più
eclatanti si ha nel 2004 quando, con il pretesto di preparare un attacco
terroristico, alcuni studenti di Zarzis vengono arrestati con il loro insegnante
perché utilizzavano la rete per compiere ricerche compromettenti per il
regime. Questi studenti sono poi rilasciati nel febbraio 2006.
Dall’anno 2000 assistiamo, dunque, a un soffocamento delle libertà
senza precedenti, a una censura della stampa e di internet intollerabile in un
Paese nel quale i giovani sono incoraggiati a studiare sempre di più e a
ottenere livelli di eccellenza in tutti i campi. L'intera popolazione è
monitorata da un ministero dell'interno sempre più potente e da un partito
di governo dislocato ovunque sul territorio, che può vantare 2.500.000
aderenti. Le critiche per la carenza di democrazia sono costantemente
respinte nel nome della cosiddetta “mancata maturità del popolo”.
41 Si confrontino i siti delle rispettive associazioni.
26
Un mistificante inno alla gloria dello sviluppo, della democrazia
“ammorbidita”, dei diritti umani, pervade la vita quotidiana dei tunisini. Il
“cambiamento” e il numerale 7 sono i titoli di una ammaliante propaganda
delle formule oscure. Il regime di Ben Alì inventa un nuovo linguaggio
orwelliano-politichese.
La crisi economica europea e la fine dell'accordo multifibre42 iniziano a
intaccare il modello tunisino. Nello stesso tempo, Ben Alì pone fine a tutti
quei meccanismi legislativi atti a ostacolare quella presidenza a vita che, nel
1987, aveva promesso di non esercitare. Nonostante le voci di cancro alla
prostata, il presidente va oltre il limite del terzo mandato e si fa rieleggere
per i due successivi con un punteggio superiore al 90%43. Come se non
bastasse, l’avidità della famiglia della seconda moglie, Leila Trabelsi, è tale
da risultare intollerabile alla maggior parte dei tunisini e degli uomini d’affari
che non hanno possibilità di manovra alcuna senza interpellare i Trabelsi. I
diplomatici americani parlano, nei telegrammi rivelati da WikiLeaks, di uno
stato di “quasi mafia”. I comportamenti della famiglia Trabelsi sembra
abbiano contribuito a far precipitare il tiranno tunisino che, malato e isolato,
diventa ostaggio, per propria scelta, di una mafia insaziabile.
Il matrimonio che ha cambiato il destino di un Paese
Le prime elezioni presidenziali del 1989 sono un successo per
l’entusiasmo suscitato nel popolo tunisino che, in massa, si riversa ai seggi.
Tutta una nazione vuole testimoniare la propria riconoscenza all’uomo che
ha salvato il Paese. La Tunisia vive a un ritmo frenetico di riforme a tutto
campo e la gente sostiene un leader cui riconosce onestà, patriottismo,
volontà di compartecipazione alla vita quotidiana. Neanche un anno dopo,
però, fatti interni e internazionali determinano alcuni stravolgimenti. Sul
42 È l’accordo siglato nel 1974 tra Paesi in via di sviluppo e paesi Paesi avanzati. Secondo tale
accordo vi sono quote fisse di export di prodotto tessile per ogni Paese. La fine dell’accordo
avviene nel 2005. Alcune nazioni, tra cui la Tunisia, perdono quindi le quote fisse garantite
dall’accordo a vantaggio di potenze quali Cina e India. Si consulti www.wto.org
43 Stima ufficiale del ministero degli interni.
27
piano interno, gli integralisti passano all’attacco in modo violento: prima con
un attentato terroristico nella regione di Monastir, al fine di danneggiare il
florido settore turistico della zona, e, successivamente, utilizzando acido
nitrico44 contro i civili per spaventare la popolazione e imporre un clima di
paura nel Paese. Sul piano internazionale domina la scena la prima crisi del
Golfo e Saddam Hussein, per le sue posizione anti-israeliane e antiamericane, monopolizza l’attenzione di tutti gli arabi, tunisini compresi, che
sognano qualcuno capace di fermare l’arroganza di chi non vuole mettere
termine al martirio del popolo palestinese.
Approfittando di questo quadro, Ben Alì non esita a compiere un
imprevedibile giro di boa fermando il processo di democratizzazione della vita
politica a favore di un bisogno sempre più pressante di sicurezza. Ma il vero
cambiamento di rotta la Tunisia lo vive nel 1992, quando Ben Alì, dopo aver
divorziato dalla prima moglie, decide di ufficializzare il suo rapporto con Leila
Trabelsi, una parrucchiera nata nel 1957 e, dunque, molto più giovane di lui.
Nessuno, in questo momento, sospetta il ruolo che avrebbe giocato questa
nuova première dame che, invece, ritaglia per sé e per i suoi familiari spazi
sempre più importanti prima negli affari e poi in politica. In pochi anni Leila
riesce con ogni stratagemma a realizzare una vera ascesa, fino a diventare il
vero artefice della politica tunisina. Per prima cosa elimina tutti quei deficit
culturali che non si addicono a un leader. Intende creare attorno alla propria
figura un mito che non esita a costruire anche mentendo e isolando tutti
coloro che, con i loro interventi, avrebbero potuto fermare o anche rallentare
il suo cammino verso il potere (comprese le figlie nate dal primo matrimonio
del marito). Leila, madre di due figli avuti in un primo matrimonio, riesce a
conseguire la maturità e a condurre un cursus universitario di tutto rispetto
iscrivendosi a un corso di laurea in diritto a Tolosa, in Francia.
Casualmente, il professore che si occupa della sua preparazione diventa
ministro, e tale resterà sino alla fine del potentato Ben Alì. Si tratta di una
mossa tattica volta a far dimenticare le proprie origini non altolocate e per
44 Dopo queste azioni in Tunisia è stato proibito il commercio di questo tipo di acidi.
28
poter ambire, un giorno, al posto di capo di stato. Anno dopo anno Leila
conquista spazi sempre maggiori, riuscendo a diventare un fenomeno che
suscita l’interesse di diversi osservatori stranieri, fra i quali i più illustri sono
Nicolas Beau e Catherine Graciet. Attraverso un lungo lavoro di inchiesta e
la raccolta di una serie di testimonianze, i due giornalisti-cronisti francesi
scrivono e pubblicano la biografia della moglie del presidente dando ai lettori
la possibilità di scoprire “dettagli” scottanti che suscitano le ire della coppia
presidenziale, la quale tenta invano di impedire la diffusione del libro anche
fuori dalla Tunisia. La Regente de Carthage. Min basse sur la Tunisie45
diventa la biografia per eccellenza di Leila Trabelsi, moglie di Zine El Abidine
Ben Alì, secondo presidente della repubblica di Tunisia.
Chi è Leila Trabelsi
Leila nasce nel 1957 da una famiglia modesta, composta da 13
persone. Figlia di un venditore di frutta secca e di una madre casalinga,
frequenta una scuola per parrucchieri nel centro di Tunisi dove consegue un
diploma grazie al quale inizia a lavorare presso un salone della capitale. A
diciotto anni incontra un giovane direttore di un’agenzia di noleggio di
macchine e lo sposa, per poi divorziarne tre anni dopo.
Libera da questo primo rapporto, Leila viene assunta da un’agenzia di
viaggi il cui proprietario possiede anche un hotel al centro di Tunisi.
Lavorando in questa agenzia, la giovane impiegata entra in contatto con
personaggi importanti e, soprattutto, con uomini d’affari in giro per il
mondo. Donna indipendente, sempre disponibile ad andare in spiaggia o a
far festa, viene soprannominata Leila Gin, dalla sua passione per l’omonimo
superalcolico. Grazie al proprio impiego ha la possibilità di viaggiare e i suoi
spostamenti sono occasioni di piccoli traffici tra Parigi, Roma e Tunisi,
traffici che perpetua fino a quando viene colta in flagranza di reato. In
conseguenza di ciò, le viene ritirato il passaporto. La ricerca di qualcuno
45 Il libro è stato pubblicato nel 2009 in Francia dalla casa editrice La Découverte, ma ne è
stata proibita la vendita in Tunisia.
29
disposto ad aiutarla a risolvere il problema potrebbe essere stata l’occasione
per l’incontro con Ben Alì, allora direttore generale della sicurezza pubblica
(incarico che ricopre dal dicembre 1977 all’aprile 1980, data in cui è accusato
di negligenza in occasione degli eventi di Gafsa46 ed è relegato in Polonia
come ambasciatore).
Ma l'incontro che cambia davvero la vita di Leila Trabelsi è quello con
Farid Mokhtar, cognato del primo ministro Mohamed Mzali e presidente di
una grande impresa di stato. Farid fa assumere la sua amica, in qualità di
segretaria, presso un’azienda controllata dalla Societé tunisienne de banque
allora presieduta da Hassan Belkhodja, zio di Farid nonché compagno di
Bourguiba, il quale nomina il nipote primo ambasciatore a Parigi della
giovane Repubblica tunisina, e poi ministro e banchiere. È in compagnia di
Farid Mokhtar che Leila frequenta l’alta società di Tunisi.
Il loro rapporto dura tre o quattro anni, fino al ritorno di Ben Alì dalla
Polonia nel 1984. Quest’ultimo si scopre ancora molto innamorato di Leila e,
iniziata una relazione, le permette di trasferirsi in una confortevole villa alla
Soukra47. Da questo momento, Leila interrompe ogni attività e comincia a
vivere all'ombra del compagno che, nel frattempo, viene nominato ministro
degli interni dal primo ministro Mohamed Mzali.
Siamo agli inizi della vera lotta per la successione di Bourguiba e
l’entourage del primo ministro si divide in due fazioni rivali. Una è composta
da Fethia Mzali, moglie del primo ministro, nonché essa stessa ministro della
donna, dell’infanzia e degli anziani; dal fratello Ferid Mokthar; da alcuni altri
ministri, fra cui Frej Chedli, ministro dell’educazione. Della seconda fazione
fanno invece parte Mezri Chekir, stretto consigliere di Mzali nonché ministro
della funzione pubblica e oriundo di Monastir come Bourguiba; Ben Alì
46 Un gruppo armato di tunisini addestrati in Libia si era stabilito nel governatorato di Gafsa
da cui intendeva fare un golpe militare. Il 26 gennaio 1980 l’intenzione è scoperta e il golpe
sventato.
47 Quartiere periferico di Tunisi sulla strada per Cartagine.
30
ministro dell’interno; i fratelli Kamel, Raouf e Slaheddine Eltaief, cugini e
fedeli di quest’ultimo.
Farid Mokhtar avverte presto che Ben Alì rappresenta una minaccia,
sia per la sua appartenenza al clan opposto sia per il vecchio rapporto tra lui
e Leila che di Farid possiede molte informazioni. Cerca di fare presenti i
propri timori, senza suscitare, però, un apparente interesse per le proprie
preoccupazioni. Nel maggio del 1986 Farid muore in un incidente stradale e
Ben Alì ne informa il primo ministro. Tutti, ovviamente, sanno che l’incidente
non è casuale.
Nei primi anni dell'ascesa al potere di Ben Alì, gli affari più interessanti
della Tunisia vengono divisi fra le famiglie apparentate senza mai che
nessuna di essa pretenda di aver il monopolio su un qualunque settore o
tenti la scalata verso beni appartenenti all'altra famiglia. Tutti i fratelli e le
sorelle del presidente, le tre figlie del primo matrimonio e i fratelli Letaief
ricevono favori a tal punto che un documento circolante clandestinamente a
Tunisi nel 1997-98 attesta la presenza di sette famiglie che saccheggiano la
Tunisia. Il documento, molto dettagliato, descrive il funzionamento dei clan
familiari intorno a Ben Alì che condividono “amichevolmente” terreni,
contratti e altri affari. È chiaro che queste famiglie si oppongono più o meno
energicamente al progetto di unione tra il presidente e Leila, senza riuscire,
però, a impedire il matrimonio celebrato nel 1992. Da questa data inizia la
resa dei conti e il primo a pagare per questa opposizione è Kamel Letaief, i
cui locali a Tunisi vengono incendiati nel 1996 perché si sospetta vi tenesse
documenti segreti atti a compromettere la nuova sposa. Successivamente
vengono allontanati dal giro del presidente, uno dopo l’altro, i generi e dal
1996 Leila ha ormai campo libero per introdurre nel palazzo la propria
famiglia rimasta fino a questo momento nell’ombra.
Per prima cosa, proprio nel 1996, il primogenito e amato fratello di
Leila, Belhassen, utilizzando un accesso al credito più che agevolato presso
le
banche,
guadagnando
acquista
immobili,
cifre
spropositate.
alberghi
e
quant’altro
Immediatamente
rivendendoli
dopo
acquista
e
la
compagnia aerea che diventerà Karthago Airlines e diviene il perno della
politica finanziaria della famiglia. Da questo momento non vi è un settore
31
che sfugga ai Trabelsi; non una transazione con un gruppo straniero in cui
non siano parti coinvolte, non un terreno edificabile che si sottragga al loro
interesse. E nessuno, nel clan, viene dimenticato. Dopo Belhassen, Moncef,
ex fotografo di strada, diventa agricoltore grazie a un credito particolarmente
agevolato; il primo figlio di Belhassen, Houssem, organizza spettacoli
musicali senza, però, onorare i contratti; il secondo, Moez, e il terzo, Imed –
presunto figlio di Leila nato dal suo rapporto con Farid Mokhtar e affidato al
fratello – sono coinvolti, nel 2008, nel famoso giro di yacht rubati48 e
incorrono in seri guai con la giustizia francese. Una delle sorelle, Jalila,
diventa la regina dei bar, siano essi quelli della scuola IHEC di Cartagine o
quelli della scuola nazionale di architettura. Il marito, El Hadj, da impiegato
presso un distributore di benzina, diventa imprenditore nel settore
immobiliare; una delle sue proprietà è affittata al ministero dei trasporti che
stipula un contratto di locazione altissimo. E così si può dire di tutti gli altri
fratelli e sorelle, ma anche di nipoti e cognati. L’ultimo della lista degli
agevolati è il marito di una nipote che diventa in pochissimo tempo uno dei
più importanti proprietari di agenzie pubblicitarie cui viene assegnata, per
un valore di ventiquattro milioni di dinari, l’ultima campagna per la
promozione del turismo, organizzata dal ministero di competenza. È
importante osservare che questo contratto, valido per l’anno in corso, è stato
rescisso subito dopo lo scorso 14 di gennaio, e il nipote è stato costretto a
rimborsare tutta la somma anticipata dal ministero.
Il sistema e la sua faglia
Ma perché la capillarità del sistema sia completa e sostenibile, occorre
mettere le mani anche su altri settori, in primis stampa e organizzazioni
della società civile. Con la stampa si tratta di trovare il modo di mettere tutti
“in riga”; nessuna pubblicazione, peraltro, deve suscitare contestazioni
48 Durante la presidenza Chirac, a un amico del presidente fu rubato lo yacht a Nizza su
commissione di un nipote di Ben Alì. L’interpool riuscì a scoprire i mandanti del furto ma, in
virtù di un accordo internazionale tra Francia e Tunisia, si riuscì a spostare il processo a
Tunisi dove si costituirono due persone alle dipendenze del famiglia per scagionare il nipote di
Ben Alì.
32
esterne che potrebbero influire negativamente sui partner economici
occidentali. Si cerca, dunque, un referente cui affidare, fra l’altro, la gestione
del pacchetto pubblicitario del governo, degli enti locali, delle altre aziende
statali e parastatali. Un giro importante da cui dipende la vita stessa delle
varie testate presenti sul mercato. Sarebbe bastato privare una redazione
dagli introiti pubblicitari per condannarla a chiudere bottega in pochissimo
tempo. Ai direttori di quotidiani e riviste il messaggio suona subito lampante
e indiscutibile: per sopravvivere, possibilmente anche svilupparsi, bisogna
solo stare al gioco e non osare mai sfidare il sistema. A corollario, si
aggiunga che il pacchetto (repressivo) della legge sulla stampa rende difficile
(se non impossibile) esercitare la professione di giornalista senza incappare
in norme legali che, se applicate, stroncherebbero la carriera di chiunque e
lo condurrebbero direttamente in galera. Ma non basta: dal 2005 in poi
alcuni membri della famiglia diventano proprietari di stazioni radiofoniche
private, fondano mensili e settimanali specializzati, s’impadroniscono di due
quotidiani storici e si preparano a entrare nel mondo della televisione.
Neanche lo spazio tradizionalmente occupato dalla società civile è
risparmiato dal sistema Ben Alì. Si assiste, infatti, anno dopo anno, a un
capillare inserimento da parte di Leila e famiglia in questo settore: il nipote a
capo di una associazione culturale il cui scopo è organizzare spettacoli
musicali (spesso mancando di onorare i compensi pattuiti); il marito della
nipote alla guida di una organizzazione che recupera bambini abbandonati
per darli in affidamento, senza un organo a controllare che tali operazioni si
facciano nel rispetto delle leggi vigenti o meno; Leila stessa diventa madrina
di varie associazioni benefiche e si fa attribuire tutti i fondi disponibili (e
non). Dai terreni per costruire centri, all’acquisto di materiali e strumenti
sofisticati, tutto viene gestito utilizzando mezzi e personale pagati dallo stato,
senza che nessuno abbia il diritto di contestare o, semplicemente, di
criticare. Lo scopo di questa filantropia è doppio: da una lato, assicurarsi
una visibilità costante sui mass media che contribuisca a far entrare
nell’immaginario collettivo l’idea di un donna responsabile, competente e
umanamente molto vicina alla gente meno fortunata; dall’altro, profittare a
33
piene mani di ogni tipo di risorse locali e internazionali a disposizione per
questo tipo di programmi sociali dirottandole da altre urgenze.
E mentre la gestione di tutte le risorse e di tutti gli affari degli ultimi
quindici anni di storia della Tunisia subisce questo percorso standardizzato,
la militanza politica deve far tacere ogni voce dissonante rendendo
l’arroganza di questo sistema, repressione dopo repressione, sempre più
insopportabile. Ma in realtà qualche segnale di insofferenza che alla lunga
sarebbe stato difficile da gestire comincia a manifestarsi. La propaganda del
partito al potere, in apparenza enorme macchina, ma nella sostanza scatola
vuota, non è più capace di far presa sulla popolazione né, tantomeno, di
mobilitare le masse. Il consenso ottenuto con la forza non corrisponde a
quello reale. A questo proposito, il segretario del partito RCD afferma, in
un'intervista rilasciata al settimanale francese Jeune Afrique del 30 gennaio
2011, che il partito è morto, il sistema stesso l’ha ucciso: “Avevo tentato di
rianimarlo ma non rispondeva più”. Inoltre, i partiti dell’opposizione
cosiddetta ufficiale sono, in realtà, parte integrante del sistema e il loro
consenso è profumatamente pagato: dalle carte rinvenute nelle sedi di
governo si sono scoperte le tracce scritte di ingenti somme accettate dai
segretari di questi ultimi in occasione di incontri organizzati al palazzo. I
mass media parlavano allora di questi incontri periodici come di una
“opposizione responsabile” le cui vedute sui diversi problemi del Paese
convergevano con quelle del presidente Ben Alì. Adesso si capisce meglio
che, nel sistema messo a punto dalla coppia presidenziale, tutto si vendeva,
tutto si comprava. Anche le posizioni politiche.
In realtà, una cosa che la coppia non può riuscire a comprare c’è, ed è
il consenso della gente, quello vero, sussurrato nelle case e non sbandierato
forzatamente in piazza. Di questa dimenticanza non si fa scrupolo. Ma un
popolo, certo paziente, certo pacifista, certo non violento, non può accettare
che qualcuno, e soprattutto chi ha in mano il suo destino e quello dei suoi
figli, possa ingannarlo, sfruttarlo, umiliarlo, oltraggiarlo, violentarlo oltre i
limiti. E questa dimenticanza sarà fatale per Ben Alì, per Leila e per tutto il
sistema.
34
Atto primo. Il 17 dicembre, a Sidi Bouzid, paese al centro della Tunisia,
un giovane tunisino disoccupato con famiglia a carico comincia la sua solita
giornata spingendo il carretto carico di frutta e verdura e va a prendere posto
nella
piazza
vicino
alla
sede
del
governatorato,
per
lui
il
luogo
strategicamente migliore per riuscire a vendere la merce. Questo non è il
parere degli agenti municipali, che gli intimano di lasciare subito il posto;
Mohamed Bouazizi49, così si chiama il giovane, chiede di vedere il
governatore al fine di esporre il problema e trovare una soluzione, ma anche
l’incontro gli viene negato. A questo punto il giovane, esasperato e disperato,
decide di spargersi di benzina e di darsi fuoco nella piazza. Il fatto è di una
gravità tale da suscitare la reazione spontanea della gente del posto che
manifesta la propria rabbia davanti alla sede del governatorato, ma la
manifestazione
viene
duramente
contrastata
dalle
forze
dell’ordine.
Nonostante la sua drammaticità, la notizia non viene diffusa né dai
telegiornali della sera né dai quotidiani dei giorni successivi. Accade però
che, dopo poche ore, la notizia è su Facebook corredata di immagini e filmati
della repressione della manifestazione. Una mobilitazione generale si
organizza attorno a quello che sta succedendo a Sidi Bouzid e le notizie
vengono aggiornate minuto per minuto obbligando la televisione e gli altri
mezzi di comunicazione a parlare del fatto, ma a modo proprio e, cioè,
cercando di banalizzare e minimizzare l’incidente.
Atto primo bis. Il 22 dicembre un altro giovane, Houcine Neji, si dà la
morte di fronte a una folla incredula a Menzel Bouzaiene, a qualche
chilometro da Sidi Bouzid. L’emozione è grandissima, la rabbia anche. La
polizia reagisce e spara uccidendo un manifestante. La notizia arriva
istantaneamente sulla rete provocando una mobilitazione nella regione
vicina, Kasserine, altro governatorato abbandonato dallo “stato benefattore”.
Nei giorni successivi, le manifestazioni si estendono ad altre città e
internet è ufficialmente il mezzo di comunicazione più popolare in Tunisia; le
49 Sulla figura di questo ragazzo si confronti la nota 68.
35
notizie scorrono a una velocità tale da mettere in difficoltà il sistema da anni
collaudato.
Atto secondo. Il 28 dicembre Ben Alì interviene in televisione per la
prima volta. I tunisini sono tutti fissi davanti agli schermi aspettando di
capire come farà il presidente a superare la crisi, quale tattica adopererà.
Discorso deludente: Ben Alì parla del suicidio di un giovane disperato come
di un fatto di cronaca banale, sfruttato da “certe persone malintenzionate”
per farne un problema politico, promettendo di colpire duramente quelli che
stanno dietro alle manifestazioni. Analisi sbagliata e minacce inutili. La
rabbia è ancora più radicata nonostante la rimozione del governatore e di
qualche responsabile della regione. In questa prima settimana dell’inizio
dell’anno nuovo l’atmosfera è pesante, la rivolta continua in vari posti e gli
slogan dei cortei passano dalla rivendicazione di una vita migliore a una
richiesta espressa di più libertà, più democrazia.
Atto terzo. L’8 e 9 gennaio le manifestazioni pacifiche di Kasserine, nel
centro del Paese, degenerano in violenti scontri che contano almeno 21
morti. L’uso di armi da fuoco per disperdere una manifestazione pacifica è
un fatto gravissimo che ha come effetto quello di rendere la gente più
determinata e di far saltare l’ultima barriera che tiene ancora a freno la più
parte delle persone: la paura, dopo questi episodi, cambia ormai campo; non
più nelle file dei manifestanti, bensì in quelle del governo.
Atto secondo bis. Il 10 gennaio Ben Alì decide di intervenire in
televisione per la seconda volta per denunciare “atti di terrorismo” commessi
da alcuni manifestanti allo scopo di destabilizzare il Paese e promette la
creazione di trecentomila nuovi posti di lavoro entro il 2012. Discorso ancora
più deludente del primo. Ormai tutti hanno chiaro che Ben Alì ha deciso di
non dare ascolto alla gente in piazza che non chiede più solo lavoro, ma
dignità, libertà e democrazia. Alla risposta inadeguata del presidente
corrispondono
manifestanti
più
determinati
non
solo
nelle
città
dell’hinterland, ma anche nella capitale e nei suoi sobborghi. A questo
punto, il governo fa ricorso all’esercito e viene imposto il coprifuoco nelle
grandi città.
36
Atto secondo tris. Il 13 gennaio Ben Alì è di nuovo in televisione.
Dichiara che è stato ingannato, che alcuni consiglieri gli hanno nascosto la
verità e che per questo saranno puniti. “Mi rivolgo ora a voi tutti perché la
situazione impone profondi cambiamenti, […] cambiamenti profondi e
completi. […]. Io vi ho capito, si vi ho capito, ho capito voi tutti, i disoccupati,
i bisognosi e i politici, tutti quelli che rivendicano maggiore libertà. […] Vi ho
capito, vi ho capito bene […] sono stato mal consigliato, vorrei spiegare che
molte cose non hanno funzionato nel modo in cui speravo, specie quelle
riguardanti la democrazia e la libertà, […] qualcuno, intorno a me, mi ha
malconsigliato, qualcuno mi ha fuorviato nascondendomi la verità […]”50
Giura di aver dato ordine alla polizia di non sparare sui manifestanti.
Promette di abbassare il prezzo del pane e della farina. Dice anche che non si
candiderà alle elezioni del 2014 e che si impegna ad avviare riforme politiche
molto profonde dando più libertà e più democrazia. È la prima volta da
quando è iniziata la rivoluzione che Ben Alì fa un discorso squisitamente
politico dando l’impressione di aver ascoltato le rivendicazioni della piazza.
Ma ormai non basta più, la gente ha ancora in mente le promesse del
novembre 1987. A confermare la fondatezza di questo timore è l’effetto
prodotto dalla messa in onda delle manifestazioni di gioia organizzate subito
dopo la fine del discorso dai suoi fedeli, prontamente riprese dalla televisione
di stato, che, invece di ingannare l’opinione pubblica, inducono gran parte
dei cittadini a pensare che il sistema Ben Alì non cambierà mai. Risultato: lo
sciopero generale indetto dall’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT) è
mantenuto e si prevede una manifestazione sul viale principale della
capitale. Sarebbe interessante commentare anche i gesti e le espressioni con
cui Ben Alì ha accompagnato il proprio discorso: la postura del corpo, lo
sgomento nel viso per le cose che sono successe al “suo” popolo, il dolore
espresso con la mimica facciale per i tanti giovani disoccupati.
50 Questo discorso è stato oggetto di parodia da parte di un tunisino un pomeriggio (5 aprile
2011) a Lampedusa, in piazza. Il ragazzo, salito su un palchetto, è stato applaudito da un
nutrito gruppo di tunisini che lo incitava a continuare chiedendogli anche notizie di Leila.
Qualcuno, con il telefonino, riprendeva la scena.
37
Atto quarto. Il 14 gennaio decine di migliaia di giovani e meno giovani si
danno appuntamento di fronte al ministero dell’interno, simbolo della
repressione che ha caratterizzato il regime. A quelli che sono arrivati sin
dalle prime ore del mattino da ogni parte della città si aggiungono avvocati,
medici, insegnanti, impiegati statali, personale delle banche e delle
assicurazioni e altri ancora. Uno slogan unico viene subito adottato da tutti:
“dégage!”51, che riassume l’unica richiesta di un intero popolo. Tutta questa
folla non vuole altro che farla finita con Ben Alì e il suo regime. Per la prima
volta tutti sono uniti sotto un'unica bandiera, quella nazionale, difendendo
un solo slogan molto chiaro; ed è anche la prima volta che si arriva molto
vicini al ministero dell’interno, dove agenti di sicurezza e manifestanti si
fronteggiano senza scontri fino alle 14.45, ora nella quale la dimostrazione si
trasforma in sommossa. Tunisi brucia. Si cominciano a contare i morti e i
feriti. Alle 17.00, all’inizio del coprifuoco, si apprende che il governo si è
dimesso e si dichiara lo stato di emergenza. Ma la notizia più importante, e
che nessuno avrebbe sospettato, è quella che Ben Alì ha lasciato il Paese. Il
primo
ministro
dell’articolo
56
Mohamed
della
Ghannouchi,
Costituzione,
di
annuncia,
assumere
in
ottemperanza
temporaneamente
le
prerogative di capo dello stato.
Atto quarto bis. Epilogo provvisorio. Il 16 gennaio il presidente della
corte costituzionale annunzia la vacanza definitiva del posto di capo di stato
e l’applicazione dell’articolo 57 della Costituzione: il presidente della camera
dei deputati diventa capo di stato per un massimo di 60 giorni entro i quali si
dovrebbero organizzare elezioni presidenziali.
51 Vattene. É stata una delle parole chiave della rivoluzione. Gli slogan brevi e incisivi sono
tipici delle così dette rivoluzioni “colorate” di cui ho accennato alla nota 11. Tali rivoluzioni
sono state definite dagli stessi attori proponenti e dai media internazionali in base a un colore
(rivoluzione “porpora” in Iraq nel 2003 o “arancione” in Ucraina nel 2004) o a un fiore o pianta
(rivoluzione “delle rose” in Georgia nel 2003 o “dei cedri” in Libano nel 2005 o ancora “dello
zafferano” in Birmania nel 2007). Quella tunisina è stata definita dai media internazionali del
“gelsomino”, epiteto però che è stato rifiutato dai tunisini stessi che non vi si riconoscono.
38
Ma cos’è successo quel giorno?52
È prematuro sapere con esattezza cosa sia successo esattamente il 14
gennaio 2011 in Tunisia ma, grazie ad alcune dichiarazioni rilasciate da
personaggi chiave e a indiscrezioni credibili, disponiamo oggi di informazioni
frammentarie ma ugualmente utili per una lettura verosimile della realtà dei
fatti. La prima fonte interessante è Ridha Grira, ultimo ministro della difesa
del governo Ben Alì che, in un'intervista rilasciata a una radio privata, parla
degli avvenimenti del 13 e 14 di gennaio come fatti confusi in cui ogni minuto
avveniva un episodio nuovo o una decisione importante. Racconta il ministro
che la situazione ha cominciato ad assumere dimensioni drammatiche la
notte tra giovedì 6 e venerdì 7 gennaio, quando l'ex presidente Ben Alì aveva
ordinato il coinvolgimento militare per mantenere l'ordine nelle regioni
dell'interno, mentre questo tipo di missioni è ufficialmente ed esclusivamente
di competenza delle forze di sicurezza interna. Questa decisione è oggetto di
una riunione tenutasi presso la sede del ministero degli interni, domenica 9
gennaio, in presenza, cosa non abituale, di Alì Seriati, direttore della
sicurezza
della
presidenza,
il
quale
aveva
assunto
le
funzioni
di
coordinamento della sicurezza tra i due dipartimenti. La circostanza stupisce
molto Ridha Grira, sconvolto nel vedere il direttore di sicurezza della
presidenza dare ordini ai militari, una prerogativa che potrebbe assumere
solo il capo dello stato o il ministro della difesa. Inoltre, Alì Seriati chiama
giovedì sera, 13 gennaio 2011, il ministro della difesa per chiedere un
intervento più incisivo da parte dell’esercito, altrimenti, afferma, il giorno
dopo “non ci sarà più nessuno al palazzo presidenziale”.
Nel frattempo, giunge al ministro un'informativa secondo la quale
alcuni funzionari di polizia e della guardia nazionale avrebbero cominciato a
consegnare armi di servizio all'esercito. Il ministro chiede agli ufficiali di non
accettarne, onde evitare cospirazioni contro le forze militari, accusabili, in tal
52 Di Abderrazek Dridi.
39
caso, di aver tentato di disarmare le forze dell’ordine53. A seguito di una
comunicazione telefonica con il presidente, la procedura viene invalidata.
Il 14 gennaio, a mezzogiorno circa, Grira riceve una chiamata da Ben
Alì, il quale gli chiede ragguagli riguardo un elicottero pilotato da agenti di
sicurezza incappucciati che si sta dirigendo verso il Palazzo di Cartagine54.
Dopo averlo rassicurato sul fatto che tutti gli elicotteri erano sotto il controllo
dell'esercito, Grira afferma di aver sentito Ben Alì dire testualmente: “allora è
solo delirio di Seriati”, interpretandolo come un tentativo di intimidazione. A
questo punto, Ben Alì decide di affidare la missione di coordinamento tra i
due ministeri dell'interno e della difesa al generale Rachid Ammar, capo di
stato maggiore dell’esercito. Nella stessa giornata del 14 gennaio 2011, verso
le 17.30, aggiunge ancora Ridha Grira, il commando delle forze aeree lo
informa che Ben Alì ha lasciato il Paese a bordo dell'aereo presidenziale,
dall'aeroporto militare di El Aouina. È solo 5 minuti dopo il decollo che Grira
riceve una chiamata dal presidente deposto che lo informa di essere
sull'aereo. “La sua voce era strana e sonnolente, sembrava quella di un
drogato” dichiara ancora l'ex ministro. Secondo Grira, Alì Seriati si trova in
quel momento all'aeroporto di Tunisi-Cartagine, in compagnia del direttore
del protocollo ed è soltanto allora che chiede all’ufficiale che gli sta parlando
di bloccare Seriati e di isolarlo. L’arresto è immediato.
L'invito, esteso a quattro esponenti-simbolo55 del governo tunisino da
parte di alcuni membri della sicurezza presidenziale, desta stupore e
preoccupazione a Grira, che consiglia a Mohamed Ghannouchi di non
53 Le dinamiche che hanno portato alle valutazioni delle scelte fatte non sono ancora ben
definibili. È ipotizzabile che il ministro temesse un rafforzamento dell’esercito tale per cui il
generale Seriati avrebbe potuto organizzare un colpo di stato. Sarebbe interessante
comprendere quale posizione avrebbe assunto l’esercito qualora Ben Alì ne avesse chiesto l’
intervento.
54 Il palazzo presidenziale, abitato già da Bourguiba, non era più dimora della famiglia Ben Alì
da qualche anno. Il presidente si era fatto costruire un palazzo a Sidi Dhrif, nei pressi di Sidi
Bou Saïd. Si è poi appreso che il palazzo era stato affittato alla presidenza con un canone
mensile di cinquantamila dinari.
55 Si tratta di Abdallah Kallel (presidente della camera dei consiglieri) Foued Mebazaâ
(presidente della camera dei deputati), Mohamed Ghannouchi (primo ministro), Rachid Ammar
(capo di stato maggiore dell’esercito).
40
andare al palazzo di Cartagine. Il consiglio viene rifiutato. Solo il generale
Ammar non si presenta all’appuntamento. Gli altri, annunciata la vacanza
del potere, eleggono, ai sensi dell'articolo 56 della Costituzione, Mohamed
Ghannouchi nuovo presidente ad interim. Successivamente, prosegue Grira,
si decide di tenere una riunione urgente presso la sede del ministero degli
interni dove sono presenti cinque membri del consiglio superiore delle forze
armate: Ghannouchi, Friaâ (ministro degli interni) e alti funzionari del
ministero degli interni. Un incontro che dura fino alle 3 del mattino e che si
conclude con la decisione unanime di applicare l'articolo 57 della
Costituzione che fa di Foued Mebazaâ presidente ad interim del Paese.
A proposito delle insinuazioni che vorrebbero una presa di potere da
parte dell'esercito, l'ex ministro della difesa nega questa possibilità
sostenendo che le forze armate hanno categoricamente rifiutato di essere
l'unico corpo a portare le armi in un momento tanto delicato. Una smentita
categorica viene fatta anche sull’insinuazione di un intervento straniero
preparato dagli USA già da tempo.
Questi sono stati i punti cardini del racconto di uno degli attori
principali di quei giorni; punti confermati, peraltro, dall’ex ministro degli
interni nominato per due giorni con lo scopo di placare gli animi dei tunisini
in piazza e di iniziare un nuovo percorso politico.
Limitiamoci a questo racconto lasciando alla storia il compito di
chiarire le scelte adottate in questo contesto e confermando, però, che,
comunque sia avvenuto, resta il fatto che Ben Alì abbia lasciato il Paese
determinando una nuova pagina di storia per la Tunisia.
Il giorno successivo sarebbe dovuto essere un giorno di festa, ma così
non è. Tutto il Paese è sotto choc sia perché nessuno aveva previsto la fuga
del potente, arrogante, Ben Alì, sia per una serie di episodi molto inquietanti.
Ben Alì, infatti, ha lasciato cecchini che continuano a sparare, dai tetti, sulla
folla, nonché una milizia che sta provocando panico ovunque. Composta da
mercenari israeliani, polacchi, bulgari che hanno occupato il terreno lasciato
dalle forze di sicurezza interna, questa milizia è stata ingaggiata dal
presidente con l’intento di mettere in pratica una politica di “terra bruciata”
preparata da tempo da esperti per punire tutti i dissidenti. Sarà vero? I morti
41
sicuramente lo sono. Il compito di scoprire mandanti ed esecutori spetterà
alla giustizia. Difficile descrivere lo stato d’animo dominante di una
popolazione inerme, pacifica e che non chiede altro che vivere nella
tranquillità e nella dignità. In poche ore, però, e come per magia, si decide di
riprendere in mano la situazione mettendo in campo comitati popolari di
protezione e di difesa civile. E la sera stessa, su tutto il territorio e in ogni
quartiere, giovani e adulti armati di qualche bastone e di molto coraggio
assediano le città in difesa della rivoluzione: Ben Alì, Leila & co. non
passeranno mai.
Ormai una miscela di gioia e di paura, di orgoglio e di modestia, di
calma e di effervescenza, di euforia e di prudenza domina il Paese dal nord al
sud. Ma la caratteristica principale che salta fuori da subito è che i tunisini
sono ancora più determinati di prima. E questo si avverte dalla reazione alla
formazione del primo governo di transizione. Difatti, appena formato,
quest’ultimo cade sotto la pressione della gente a causa della presenza di
ministri che, in passato, erano stati membri del RCD o avevano fatto parte
dell’entourage di Ben Alì, anche se alcuni erano stati allontanati per dissensi
strutturali con lui. La forma di lotta scelta è il sit-in nella piazza del governo
con una rivendicazione principale: fuori tutti i ministri del RCD, compreso il
primo ministro. Ciò accade qualche giorno dopo senza, però, che cambiasse
l’opinione del “popolo sit-in” che torna di nuovo a occupare lo stesso posto
provocando la disperazione di molta gente. Ed è in quest’occasione che
assistiamo all’entrata in scena di alcuni partiti fondamentalisti quali
Ennadha ed Hezeb Ettahrir56, di estrema sinistra quali il Parti Communiste
des Ouvriers de Tunisie e il Mouvement des Démocrates Socialistes, che si
sono alleati all’Union Générale Tunisienne du Travail, all’associazione dei
magistrati, al consiglio dell’ordine degli avvocati e ad altri soggetti minori che
hanno formato una coalizione a sostegno del sit-in e quindi contro il governo
provvisorio. Il che non trova il sostegno di altri settori importanti della
56 Altro movimento fondamentalista nato negli ultimi anni che, però, non utilizza la stessa
retorica politica di Ennadha, proponendosi direttamente come centro propulsore della
diffusione della legge sciaraitica.
42
società che si sono decisi a scendere in piazza per esprimere il proprio
dissenso e dare appoggio al secondo governo Ghannouchi chiedendo che si
torni a lavorare per cercare di salvare una situazione economica già difficile e
che rischia di peggiorare rapidamente.
Da segnalare che questa prima spaccatura è motivo di preoccupazione
per molta gente non abituata a vivere in una società dove espressioni
politiche diverse convivono naturalmente. Ma il vento di libertà che ha
soffiato sulla Tunisia ha cambiato anche questo: la gente ormai si riunisce,
discute, manifesta in piazza. Ogni giorno diversi cortei sono organizzati per
le strade di Tunisi e anche in tutte le altre città: studenti, insegnanti,
avvocati, medici, operai specializzati e non, ma anche gente unita intorno a
una espressione culturale, politica, a un modello di società, comuni. A tal
proposito, sono organizzate manifestazioni per l’affermazione dei diritti della
donna
e
quelle
per
esprimere
preoccupazione
rispetto
ai
partiti
fondamentalisti nonché per segnalare la propria presenza come settore
importante della società civile determinato a lottare per il proprio modello
societario.
Allo stesso tempo, e mentre il sit-in continua con l’appoggio della
centrale sindacale, diverse categorie di lavoratori tirano fuori dal cassetto le
rivendicazioni che vi dormivano da anni e organizzano scioperi continui per
chiedere che vengano soddisfate subito le proprie richieste. Risultato: il
Paese è fermo e cominciano a mancare anche i prodotti di prima necessità.
E, come se non bastasse, giungono da diverse parti del Paese notizie di un
ritorno della violenza e di bande armate che cercano in tutti modi di
spaventare le popolazioni e di installare ovunque un clima di paura e di
sospetto. A conferma di tutto ciò, gli incidenti gravissimi che accadono nella
capitale il venerdì e che causano la morte di tre persone, provocando le
dimissioni del primo ministro e la nomina al suo posto di Béji Caïd Essebsi,
ex ministro durante il governo di Bourguiba, il quale riesce a ottenere la fine
del sit-in e il ritorno alla vita normale.
Vengono istituite anche tre commissioni speciali create dal primo
governo Ghannouchi al fine di stabilire la verità dei fatti, condurre il dibattito
e delineare le linee guide del futuro modello di società sul quale si accorda
43
una
larga
maggioranza.
Si
tratta
dell’alto
commissariato
per
il
raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, per la riforma politica e la
transizione democratica; della commissione nazionale per stabilire i fatti sui
casi di appropriazione indebita e corruzione; della commissione nazionale
per stabilire i fatti sugli abusi durante l'ultimo periodo.
44
TESTIMONIANZE
Sognando la rivoluzione57
Sin da adolescente, uno dei miei sogni più intimi è stato quello di far la
rivoluzione. Non saprei dare una motivazione esatta al perché di quest'idea
assillante, da dove venisse questo pensiero costante. Una convinzione
assoluta, la mia: per cambiare le cose, nel mio Paese sarebbe dovuta
avvenire una grande ribellione, una scossa che facesse svegliare le persone
dal lungo letargo in cui sembravano ormai vivere. Probabilmente la causa di
questa mia impellenza rivoluzionaria era insita già nel modo in cui appresi
gli avvenimenti che avevano portato al colpo di stato del 7 novembre 1987.
Quel giorno stavo rientrando a casa mia dopo la scuola (frequentavo il liceo)
quando, per strada, incontrai mio padre che, lapidariamente, mi disse:
“Auguri. Da oggi avete un nuovo presidente.” Non compresi le sue parole, ma
arrivato a casa avevo asceso la tv e… avevamo un nuovo presidente! Ma cosa
significava? Ero abituato da sempre a considerare inscindibile la Tunisia
dall’unico presidente che avesse mai avuto, il salvatore e capo della patria.
Quello di cui, da sempre, avevo sentito i discorsi. I suoi poster ovunque…
come potevo immaginare la Tunisia senza le sue gigantografie? Certo, si
sapeva che era diventato troppo vecchio per continuare a reggere le sorti del
nostro Paese, che la nazione era alla deriva, ma tutto avrei immaginato
tranne che qualcuno potesse avere il coraggio di destituirlo. E, come me, la
pensavano tanti altri tunisini.
57 Noaman Beji, autore di questa testimonianza, ha 39 anni, ed è mediatore culturale a
Palermo, dove vive. È arrivato in Italia alla fine del 2000. A Palermo ha partecipato al concorso
di dottorato in storia medievale e ha vinto. Si è addottorato nel 2007 con una tesi dal titolo
“Una relazione mediterranea: Sicilia e Tunisia nel confronto delle fonti cronachistiche (secoli
XII/ XIV)”. Attualmente lavora soprattutto con i minori non accompagnati. Ha da poco fondato
la cooperativa Unione Mediatori Interculturali Professionisti. La sua mail è [email protected]
45
Ma quel giorno successe una cosa molto strana: la maggior parte della
Tunisia era in strada a festeggiare il nuovo presidente. Una cosa incredibile,
pensando che la stessa gente il giorno prima inneggiava “Bourguiba con
l’anima e il sangue ci sacrifichiamo per te”. Ma quel 7 novembre lo slogan era
improvvisamente cambiato: “Ben Alì con l’anima e il sangue ci sacrifichiamo
per te”. Non riuscivo a comprendere cosa stesse succedendo attorno a me.
Tutto quello cui ero abituato era soltanto ipocrisia? Non era nient’altro? In
pochi giorni, una settimana al massimo, tutte le gigantografie di Bourguiba
vennero rimosse per dar spazio a quelle del nuovo presidente. Tutti in fila
per fare le congratulazioni e sancire atti di obbedienza: “siamo tutti con te”.
Avevamo un nuovo salvatore. Il discorso del suo insediamento al
potere raccontava, dopo un piccolo riconoscimento ai meriti dell’ex
presidente, della fine della presidenza a vita, del capo di stato che non deve
essere eletto più di due volte, della repubblica. Un elogio al popolo tunisino
che meritava una vita politica più moderna e più democratica. Un discorso
che apriva la via a un sogno di democrazia, un’apologia degna di una
repubblica realmente democratica. Parecchie persone si sono arruolate nelle
fila del “rinnovamento”. Molti hanno avuto l’illusione che da quel giorno si
potesse iniziare a scrivere una nuova storia del nostro Paese, una storia
diversa. Tanti hanno creduto nei suoi discorsi e nelle sue intenzioni. Troppi
si sono ingannati sul fatto che era arrivato il momento di godere, finalmente,
di un potere democratico.
Gli anni successivi mi scivolarono addosso. La scossa era passata e il
terremoto nel Paese non aveva lasciato dietro alcun segno, nessuna striscia
di sangue né di dolore. Assistevo al rinnovamento: nuove facce al governo,
nuovi poster che riempivano le strade e nuovi discorsi che saturavano la tv.
Le sue idee. Quelle giuste, quelle che servivano al Paese per superare tutte le
sue difficoltà. Non sbagliava in niente, lui, tutto quello che diceva o che
faceva era la cura miracolosa per i mali che affossavano il Paese. La
macchina si era messa in moto e niente la poteva arrestare. Mi sembrava
tutto tornato come era una volta. Abbiamo cambiato conducente ma non il
mezzo di locomozione. Bourguiba era tornato di nuovo ma con un’altra
faccia; avevamo di nuovo il salvatore della patria. Il presidente pensava per
46
tutti, risolveva tutti i nostri problemi, potevamo dormire sonni tranquilli.
C’era lui a vigilare su ogni cosa. Siamo un popolo beato, pensavamo, il nuovo
popolo eletto con la guida del nostro salvatore.
Avevo mosso i miei primi passi nella politica ad appena 12 anni e avevo
iniziato a frequentare i circoli dei fratelli musulmani tunisini58. Su di me era
iniziato il loro lavoro di indottrinamento, molto sottile e molto leggero, con un
inno alla rivoluzione islamica in Iran. Non capivo per quale motivo, ma quel
vecchio con quella barba lunga59 non mi piaceva affatto; l’idea della
rivoluzione, invece, mi attirava. Per parecchi anni avevo continuato a seguire
i miei fratelli: era una cosa che aveva il sapore dell’avventura. Talvolta,
quando si affrontava qualche argomento delicato, ci avvicinavamo l’uno
all’altro e si abbassava la voce: “State attenti ragazzi. Questa che vi sto
dicendo è una cosa pericolosa e non dovete dirla a nessuno”. In quei
momenti io mi sentivo una persona speciale e importante. Ero messo a parte
di verità segrete perché un fratello molto più grande di me mi reputava
all’altezza del ruolo. Si creava, in quei momenti, un’atmosfera particolare,
ricca di mistero. Mi sembrava di essere dentro un film d'azione nel quale
avevo un ruolo, minuscolo certamente, ma l’avevo! Con il tempo, e
continuando a crescere, si sviluppava anche la mia voglia di lettura.
Continuavo a divorare libri. Mi piaceva tanto leggere; una passione che avevo
scoperto non appena iniziai a sillabare in maniera autonoma e che nutriva la
mia piccola testa perché non c'erano per me testi proibiti, leggevo tutto
quello che le mie mani riuscivano ad agguantare. In questo ero testardo, non
accettavo le raccomandazione dei fratelli che volevano evitassimo di leggere
una certa letteratura, in particolare di quegli “atei marxisti”, che a leggerli
potevamo finire nell’inferno. Una raccomandazione che rifiutavo in silenzio:
più veniva ribadita, più cresceva in me la voglia di scoprire questi eretici.
Pian piano, la mia strada si stava allontanando da quella dei miei fratelli. La
mia mente era in continuo fermento: la sete di capire e di cercare delle
58 Poi movimento Ennadha. Cfr. nota 24.
59 Khomeini, il leader della rivoluzione iraniana.
47
risposte a ciò che avevo in testa non era soddisfatta dalle dichiarazioni dei
fratelli. Non mi bastavano e non mi soddisfacevano fino in fondo. In più,
l’esplosione ormonale che da buon adolescente vivevo, faceva il resto. Una
continua battaglia fra la mia religiosità, che avrei scoperto ben presto molto
fragile, la paura delle punizioni divine che mi avrebbero aspettato se non
avessi seguito i dettami dell’islam, e tutto quel che succedeva dentro di me, i
cambiamenti. Una battaglia che porta i suoi segni ancor oggi che sono
adulto. La voglia di trasgredire e la rivolta ormonale, entrambe silenziose ma
molto pregnanti, l’insoddisfazione intellettuale, mi hanno fatto allontanare
dalla sfera religioso-militante. Non accettavo di vivere nella paura di una
religione che non conosce che un Dio punitivo, nel terrore di finire
all’inferno, di bruciare nel fuoco eterno. Cambiar strada è stato questione di
un istante. Dovevo iniziare una nuova ricerca, un nuovo impegno.
Ho infranto il muro della paura a 17 anni. Non ho più fatto il ramadan,
ho rifiutato di fare il digiuno, disertato la moschea e abbandonato i fratelli
senza grossi rimpianti. La mia famiglia, quando ha saputo che non facevo
più il ramadan, mi ha cacciato da casa per una settimana. Un figlio ateo ed
eretico! I miei sono molto religiosi; soprattutto mia madre, la quale non
poteva accettare il fatto che il proprio figlio non fosse più il bravo
musulmano che era stato fino a quel momento. Ovviamente, dopo qualche
giorno, il sentimento materno prese il sopravvento e tornai a casa di nuovo
ma, mi fosse chiaro!, solo perché ero suo figlio.
Ho iniziato a scoprire la letteratura marxista, un nuovo mondo, un
nuova percezione delle cose, e mi sono buttato nelle mie letture come un
affamato, uno che aveva vissuto in un deserto e aveva trovato una fontana di
acqua fresca. Iniziò cosi una nuova fase della mia crescita: imparai a bere il
vino anche se non riuscivo a digerirlo. Ogni volta che lo bevevo finivo in un
fiume di vomito, ma non volevo e non potevo più tornare indietro. Tanto
avevo già prenotato un posto nell’inferno eterno! Bastava soltanto capire in
quale livello Allah mi avrebbe collocato anche se, allo stesso tempo, speravo
nel perdono divino: non ho fatto del male a nessuno, me la dovevo discutere
direttamente dopo con lui questa storia! La mia buona volontà nel cercare il
bene del mondo lo avrebbe impietosito e avrebbe perdonato i miei peccati.
48
Nell’attesa di discutermela direttamente con lui, iniziai a frequentare
gruppi di sinistra a essere più partecipe nelle discussioni che si animavano
all’interno del mio liceo fra le varie fazioni politiche, senza però schierarmi o
affiliarmi a nessuno. Ricordo alcune nostre discussioni in classe. Certe erano
anche molto accese, pur nel rispetto dei ruoli. I professori facevano da
mediatori e le lezioni si trasformavano in circoli di discussioni fra i ragazzi di
sinistra e gli islamisti. Erano anni molto belli anche se, piano piano e col
tempo, gli islamisti prendevano terreno e accoglievano molto consenso.
D’altronde, era prevedibile in una società ancora legata alla sua identità
religiosa malgrado (o forse proprio per) i venti del liberalismo economico nel
quale il Paese si era imbarcato, che provocavano scosse molto forti all’interno
della nostra società non ancora preparata a un tale cambiamento. L’anno
decisivo per le mie posizioni politiche, quello della svolta definitiva, fu il sesto
anno di liceo. Avevo un professore di francese molto colto e molto bravo, le
sue lezioni erano diventate l’appuntamento quotidiano per discutere
liberamente di ogni cosa. Con i miei compagni di classe iniziammo a
chiederci da che parte stesse il nostro prof, a chi appartenesse, quale il suo
gruppo politico di riferimento. Alla fine capimmo: apparteneva ai Patriotes
Démocratiques60, un gruppo politico di sinistra molto attivo all’interno delle
università. Io iniziai a nutrire simpatia per i membri di questo gruppo e
aspettavo il giorno in cui avrei iniziato a frequentare l’università per
conoscerli meglio e, forse, iniziare la mia militanza nelle loro file.
Erano gli inizi degli anni Novanta e il clima era disastroso per noi tutti
che eravamo abituati a vedere il mondo diviso in due blocchi: da una parte il
mondo liberale e imperialista nostro nemico, dall’altra parte il blocco
socialista, nostro alleato malgrado alcune critiche che muovevamo alla sua
politica, e sostenitore delle nostre lotte. Ma il muro di Berlino era caduto
lasciando un vuoto enorme dentro di noi. L’Unione Sovietica non esisteva
più, il nostro sogno di rivoluzione era svanito. Il Paese della rivoluzione di
60 Movimento a tendenza maoista-nazionalista nato alla fine degli anni Settanta dalla
scissione del Parti Communiste Tunisien.
49
ottobre, il Paese di Lenin… non era rimasto niente. Dopo è arrivata la
seconda guerra del Golfo contro l’Iraq. Ci siamo mobilitati tutti, il liceo era
diventato il nostro luogo di incontri e di organizzazione delle proteste.
All’inizio avevamo iniziato a manifestare all’interno delle mura del liceo, ma
poco dopo queste erano diventate troppo strette per noi. Tutto il Paese era in
fermento, tutti parlavano, tutti discutevano, ovunque raduni e cortei.
Restavamo incollati davanti alla tv per quasi tutta la notte, raccoglievamo
informazioni dappertutto. Ogni giorno, la mattina, ci trovavamo al liceo per
discutere sul da farsi. Eravamo un piccolo gruppo, ma eravamo riusciti a
trascinare tanti liceali della nostra e di altre scuole alle iniziative che
organizzavamo, pur restando sempre vigili per contrastare le infiltrazioni
degli islamisti e bloccare i loro slogan e i loro tentativi di orientare e
controllare le nostre manifestazioni. Ormai la maggior parte degli studenti
seguiva il nostro piccolo gruppo, guardava a noi come punto di riferimento,
ripeteva i nostri slogan. Un periodo molto bello nel quale eravamo padroni
delle strade della nostra città senza che la polizia intervenisse. Osservava e
lasciava correre. Ci sentivamo davvero liberi nel nuovo governo.
All’improvviso però tutto cambiò: il governo aveva dato il via alla
guerra contro gli islamisti che avevano iniziato la lotta al potere. Una
battaglia nella quale non avevamo alcun peso e che era al di là delle nostre
capacità. Non condividevo le posizioni filoislamiche assunte da molti miei
compagni di scuola, ma non si poteva permettere che subissero le atrocità
cui si sapeva fossero sottoposti coloro che venivano scoperti. Spesso questi
nostri compagni di scuola sparivano o venivano arrestati; amici con i quali
eravamo cresciuti erano costretti a nascondersi. Al liceo, nelle aule, sui
banchi, trovavamo manifesti di propaganda islamista. Li bruciavamo nei
bagni per evitare che arrivassero alla polizia che sarebbe facilmente risalita
agli autori. Non condividevamo le posizioni filoislamiche, ma non potevamo
farci complici del braccio armato del governo. Ci arrivavano le notizie sulle
atrocità che subivano le persone arrestate ma nessuno, per paura o
silenzioso compiacimento, osava denunciare gli abusi di potere. Nel silenzio
del terrore, il regime vinse la sua guerra contro gli islamisti. Forte della
complicità del connivente mondo liberale e democratico che applaudiva al
50
regime di Ben Alì nella battaglia contro i fondamentalisti islamici, allo stesso
tempo il regime aveva profittato di questa situazione per spazzare via tutte le
opposizioni e instaurare un potere saldo basato sulla repressione: non si
sarebbe accettata più alcuna voce di dissenso se non autorizzata dal potere
stesso.
Nell’ottobre del 1991, feci il mio ingresso all’università deciso a “far
qualcosa” e a essere politicamente attivo malgrado l’aria pesante che il Paese
respirava. Scoprire le condizioni dell’università fu un shock per me. La prima
cosa che notai, e con me gli altri nuovi scritti, furono le due macchine piene
di agenti di polizia antisommossa che sostavano tutto il giorno all’entrata
dell’ateneo: erano pronti a intervenire in qualsiasi momento. L’altra cosa era
il corpo di polizia universitaria che aveva la propria caserma al cancello di
ingresso e che controllava gli studenti che entravano per seguire le lezioni.
Ero cresciuto sentendo molte storie sulla vita all’università: un'oasi di
dissidenza e di opposizione al potere e al regime, un centro di discussione,
un laboratorio di idee con gruppi politici di ogni ispirazione e tendenza che si
confrontavano pubblicamente. Trovavo il vuoto. Avevo l’immagine di un
centro di lotta e di cultura allo stesso tempo, ma ero capitato nel momento
sbagliato. Forse le cose cambieranno, pensai. Volevo l’università che avevo
sognato, ma non c’era quasi niente. Una delusione che attivamente, con miei
amici, dovevamo superare. Rimboccarsi le mani era d’obbligo. Durante tutto
il primo anno eravamo riusciti a fare una sola manifestazione che, appena
iniziata, fu però repressa. Una scena da film di terza categoria: l’università
sembrava essere divenuta un teatro di guerra. Vedevo le persone che
scappavano e, a un certo punto, iniziai a scappare anch’io. Dietro a noi,
questi “superpoliziotti”, in divisa con manganelli e fucili, lanciavano bombe
lacrimogene. Quel giorno presi le mie prime manganellate.
Successivamente, i miei amici mi raccontarono che quello che avevo
vissuto sarebbe stato soltanto un piccolo assaggio se avessi voluto
partecipare anch’io alla vita politica dell’università. Già l’anno prima, ogni
giorno era la stessa storia: i poliziotti che caricavano gli studenti, gli islamisti
che contrattaccavano, gli altri studenti che assistevano passivi e impotenti a
queste scene di guerriglia quotidiana per una buona fetta dell’anno
51
universitario. Ho imparato a muovermi e a capire cosa fosse rimasto di
gruppi politici attivi all’interno dell’università. In realtà, al mio primo anno,
della vita politica nell’università non era rimasto granché. Gli episodi
dell’anno precedente avevano seminato in quasi tutti il panico, essere un
attivista politico sembrava una pazzia. Nessuno poteva proclamare la propria
appartenenza senza rischiare l’arresto e la possibile condanna davanti a un
tribunale manipolato dal governo. L’università rischiava di essere troppo
politicizzata per il potere, che doveva assolutamente sottometterla. Era una
spina nel fianco del governo, con cui lo stesso avrebbe dovuto fare i conti. Si
doveva abbattere l’ultimo baluardo del libero pensiero, di una reale
opposizione alle politiche del potere. La guerra agli islamisti aveva offerto
un'occasione d’oro per sottomettere anche l’università e spazzare via tutti i
gruppi politici attivi al suo interno. Questa era l’università che mi apprestavo
a frequentare. Ma rimaneva ancora un neo per il governo: la centrale
sindacale61, che aveva partecipato alla lotta per l’indipendenza del Paese e
che godeva di un certo prestigio e ancora di una certa indipendenza che
permetteva un piccolo spazio di manovra soprattutto ai gruppi di sinistra. A
quella mi rivolsi.
Nel 1972, quando i gruppi di sinistra che rappresentavano la
maggioranza si opposero all’egemonia del partito al potere, i lavori per la
preparazione del XVIII congresso furono interrotti e le attività della centrale
sindacale sospese. Si era aperta una lunga stagione di lotte politiche e
sindacali clandestine e, quando la situazione lo permetteva, pubbliche. Nel
1987, l’apparente apertura democratica del nuovo potere permise di
riprendere l’attività della centrale sindacale con l’inaugurazione, dopo
diciotto anni dalla sua interruzione, del XVIII congresso straordinario guidato
da forze di sinistra e progressisti e senza la presenza del partito al potere.
Col tempo il governo iniziò però a osteggiare l’attività del sindacato e diede il
61 Si tratta dell’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT).
52
via a un’opera di repressione sottile e paziente, ma efficace poiché riuscì a
corrompere una parte delle forze politiche presenti nella centrale62.
L’UGET63 rimaneva praticamente l’unico spazio d’azione per delle lotte
politiche e sindacali. L’altra alternativa erano l’anonimato e la clandestinità.
Se mi chiedessero ancora oggi di spiegare cosa sia la paura, direi che la
paura ha anche un odore, quello dell’aria che respiravo all’università della
Manouba. E tanti volti quanti erano quelli dei miei colleghi, la maggior parte,
che evitavano di parlare di politica pubblicamente. Ma avrebbe anche la voce
di quelli, pochi, che di politica parlavamo. Di questo sparuto gruppo, una
buona fetta era composta da quelli della generazione precedente alla mia,
quelli che erano già all’università quando nella mia classe c’erano le lezioni
del professore di francese. Abituati alle lotte e molto politicizzati, anche se
non più in prima fila, c’erano. Mi hanno legato amicizie molto profonde agli
studenti di questa generazione che la mia guardava con molto rispetto e
ammirazione per la loro storia, la loro formazione intellettuale e il loro
impegno; ci sembravano dei giganti alla cui grandezza non saremmo mai
arrivati, ma quantomeno da emulare. Ci raccontavano molte storie sulla vita
della facoltà che avevo scelto per studiare storia, la Manouba appunto.
L’università prende il nome da una piccola cittadina agricola alla
periferia di Tunisi. La prima volta che andai a conoscere la mia futura facoltà
rimasi frastornato: un ateneo sperduta nel nulla. Il centro urbano più vicino
distanziava 3 chilometri e attorno c’erano solo campi. Un modo, questo, per
tenere gli studenti lontani dai centri abitati e far passare le loro lotte
62 Dopo il XVIII congresso, nel maggio del 1988, che ha decretato il nuovo inizio delle attività
sindacali ci sono stati i congressi del 1989 (XIX), del 1991 (XX), del 1993 (XXI), del 1997 (XXII),
del 2000 (XXIII), del 2003 (XXIV). Da quest’ultimo congresso il sindacato si è spaccato in
diverse fazioni e non riesce a organizzarne uno nuovo anche se, per statuto, dovrebbe
rinnovare il suo ufficio direzionale ogni due anni proprio tramite un congresso.
63 Union Générale des Etudiants de Tunisie. È la scuola di tutte le generazioni di sinistra che
hanno lottato per la democratizzazione del Paese. Nel febbraio del 1972, durante il congresso di
Korba, ci fu una specie di golpe fomentato dal partito di Bourguiba che tentò di ridurre sotto il
proprio controllo il sindacato che divenne una sezione del partito. Nacque, a seguito di
quest’evento, una direzione clandestina parallela che avrebbe dovuto organizzare un congresso
straordinario.
53
nell’anonimato. Il resto del Paese non ne poteva essere informato. Il diktat
era di vietare ogni contatto diretto con la popolazione che vedeva negli
studenti la propria voce soppressa.
In questo luogo dovevo trascorrere quattro anni e dovevo prendere una
posizione: stare dalla parte di quelli che avevano scelto il silenzio e fare una
vita tranquilla, godendomi gli spazi di libertà lontano dalla famiglia che la
vita studentesca offriva, o mettermi in gioco? I primi tempi (un periodo molto
breve, in realtà) ho provato a fare lo studente modello: assistevo alle lezioni,
facevo i compiti, studiavo, continuavo a leggere un libro dopo l’altro,
stringevo amicizie, alcune molto belle, e mi ero anche fidanzato con una
bella ragazza. Ma, con il passare del tempo, andavo scoprendo che tutto
questo non mi sarebbe potuto bastare. Non mi soddisfaceva, mi mancava
qualcosa. Io non ero uno studente modello, avevo bisogno di agire. Di
buttarmi nella mischia, anche se in quel momento non esisteva alcuna
mischia. La dovevamo creare noi, io. Questi anni non potevano passare
senza provarci, volevo ritrovare l’università che avevo sempre sognato.
Un amico che conoscevo dai tempi del liceo, con il quale condividevo
anche la stanza nel dormitorio universitario, mi invitò a partecipare a un
segreto incontro politico. Non ebbi bisogno nemmeno di pensarci, diedi
subito la mia disponibilità. Con mia grande sorpresa e gioia, l’incontro si
sarebbe svolto proprio nella nostra stanza, quella che condividevo con questo
amico, ora divenuto compagno. Non riuscivo a crederci. Mi diceva che quella
sera avremmo avuto degli ospiti importanti e io avevo intuito che mi
aspettavano ore davvero speciali. Il primo ad arrivare fu il compagno Habib e
quando me lo vidi spuntare rimasi senza fiato. Lo conoscevo bene, Habib,
era uno dei leader rimasti ancora attivi e faceva parte del sindacato; e
conoscevo il suo gruppo politico che, di lì a poco, sarebbe diventato anche il
mio. Era molto bravo a tenere comizi e molto preparato ideologicamente e
intellettualmente. Io mi sentivo felice, e in qualche modo importante e degno
di fiducia. Gli infiltrati erano ovunque e bisognava stare molto attenti prima
di decidere di fidarsi di qualcuno. Malgrado chiacchierassimo su tutto,
parlavamo molto di politica e di università, il mio amico, infatti, non mi
aveva mai svelato prima di appartenere a un gruppo attivista. Dopo l’arrivo
54
di Habib iniziarono ad arrivare anche altri: eravamo in tutto una decina di
persone e, quando fummo tutti riuniti, uno dei compagni aprì il rubinetto del
piccolo lavandino che avevamo nella stanza. All’inizio non capì il senso di
quella mossa, poi, l’illuminazione: il dormitorio era un prefabbricato e si
riusciva a percepire il più piccolo rumore; il rubinetto aperto era un modo
molto semplice per coprire le voce cosicché i vicini non potessero sentire
niente. La riunione era segreta e i discorsi che dovevano essere affrontati
dovevano rimanere segreti. La soluzione del rubinetto era l’unico mezzo a
nostra portata, per il resto noi dovevamo stare attenti a parlare a voce bassa.
Il primo a prendere la parola fu proprio Habib che iniziò a parlare dei
Patriotes Démocratiques, di chi fossero, della loro storia, di quel che
predicavano, di come agivano all’interno dell’università e, terminati gli studi,
fuori. Spiegò che i Patriotes Démocratiques erano un movimento, una
corrente di pensiero, persone legate da un'idea comune e che quasi ogni
gruppo era indipendente, libero di decidere come muoversi autonomamente
nella propria facoltà. La cosa che mi colpì era l’attenzione rivolta alla
preparazione intellettuale e anche pratica dei compagni. Il ruolo dei Patriotes
Démocratiques era preparare l’élite che avrebbe dovuto guidare la rivoluzione
democratica nel Paese quando il momento sarebbe stato opportuno.
Che felicità! Si parlava dunque di formazione e di impegno reale per
costruire la rivoluzione nel Paese. La seduta durò molto a lungo, ma il tempo
per noi si era fermato e aveva perso qualsiasi importanza: avevamo fame di
sapere, di capire. Tante le domande da fare. Al momento del commiato,
guardai fuori dalla finestra. Cominciava a fare giorno, l’alba era già passata.
Da quella notte era iniziato il mio impegno diretto nella vita politica della mia
facoltà e avevo finalmente dei compagni sui quali potevo contare, e loro su di
me.
Pian piano, scoprii e capii che la mia facoltà ne nascondeva al suo
interno un’altra un po’ invisibile e un po’ sotterranea, una parte che non è
dato a molti conoscere. Imparai a comprendere le differenze fra le diverse
fazioni politiche che esistevano ancora, e quello che rimaneva di un’altra
epoca cosi vicina e nello stesso tempo molto lontana. Quando si parlava di
come fosse la mia facoltà e di come fosse piena di fazioni politiche attive
55
sulla piazza, avevo la sensazione che si stesse parlando di un passato
lontano anni luce dalla situazione nella quale vivevo io. Adesso la polizia
controllava tutto: qualsiasi cosa volessimo fare dovevamo chiedere un
permesso al preside e lui, prima di dare il consenso o di negarlo, doveva
chiedere l’approvazione del ministero dell’interno. Ogni iniziativa, anche la
più semplice, diventava un’impresa da compiere. Anche su questo piano
dovevo imparare a muovermi: come avere i permessi velocemente, come
trattare con il preside, come evitare situazioni che potessero suscitare
perplessità e molto altro. Potevo contare sempre sulla supervisione di Habib
e l’appoggio di compagni molto più esperti, ma anche di altri che se ne erano
aggiunti in seguito. Avevano imparato a muovermi in questo mondo nuovo,
per me molto affascinante; in più avevo il privilegio di far parte di una realtà
che molti ignorano tuttora. Altre amicizie, nuovi compagni che ho imparato
ad apprezzare e con cui affrontare certi argomenti culturali e politici. Ma se
io avevo imparato a conoscere le realtà sotterranee della mia università, a
loro volta, l’università prima, e la polizia dopo, avevano imparato a conoscere
me. E mi schedarono.
La fine dell’anno cominciava ad avvicinarsi e incombevano le elezioni
per il XXI64 congresso della centrale sindacale; dovevamo partecipare.
Iniziarono una serie di incontri e riunioni, di giorno e di sera, i tempi erano
molto stretti. La prima cosa che feci fu la campagna di iscrizione al sindacato
cercando di convincere amici e conoscenti, ma non era un'impresa facile
perché molti avevano paura. Superata comunque questa fase, inaugurammo
la seconda: si dovevano scegliere i compagni che avrebbero dovuto
rappresentarci al congresso, e iniziò un altro giro di riunioni e discussioni,
anche sull’utilità stessa di essere presenti all’evento. Fui scelto fra quelli che
si sarebbero dovuti presentare come candidati al congresso e, inoltre, per far
parte del gruppo che doveva comporre il bureau féderale, la sezione di base
del sindacato della mia facoltà. Non avevo nessuna intenzione di tirarmi
indietro, non eravamo tanti ed era quello che avevo sognato da molto tempo.
64 Era l’anno1993.
56
Tuttavia, molte angosce mi assillavano giorno e notte: la paura di essere
schedato immediatamente anche dal ministero dell’interno, mi faceva
prospettare
i
vari
scenari
che
sarebbero
seguiti.
Stava
iniziando
un'avventura per la quale non avevo garanzia alcuna se non quella di essere
poi arrestato, in qualsiasi momento. Ma sarei stato capace di affrontare tutto
questo? Ero pronto per una simile esperienza? Avrei avuto le capacità
necessarie per portare avanti questo compito? Sarei stato un buon
compagno? Avrei saputo resistere alle pressioni che avrei dovuto subire sia
dal potere sia dalla mia famiglia, ma anche dai miei amici? Nessuno aveva
condiviso questa mia scelta e tutti hanno provato a dissuadermi, ma senza
successo. Niente da fare, avevo deciso di buttarmi, “quel che sarà, sarà” era
il mio motto, certo di poter fare affidamento sempre sui miei compagni.
La campagna elettorale fu estenuante: discussioni giorno e notte,
dover convincere le persone a votare per la propria parte... un lavoro infinito
con mezzi rudimentali: avevamo soltanto i soldi che portavamo dalle nostre
famiglie per i nostri bisogni durante la settimana! Correre per tutto il giorno,
parlare, discutere, scrivere testi e dichiarazioni da affiggere l’indomani nelle
aule… passavamo notti in bianco e la mattina presto tappezzavamo la facoltà
con i nostri manifesti. Ma per due settimane la Manouba era tornata come
era una volta, quella dei miei sogni: il governo aveva lasciato spazio libero
alla campagna elettorale. Discussioni infinite con le altre fazioni politiche e
soprattutto con il PCOT, il Parti Comuniste des Ouvriers de Tunisie, con il
quale c'erano molte discordanze ideologiche, operando anche scelte politiche
differenti; PCOT che, invece di essere un alleato, ci faceva comunque
opposizione. Anche questo un avversario da battere, soprattutto per
arrestarne la volontà di egemonia sul sindacato al fine di renderlo una
sezione del partito. Paradossalmente, in questa battaglia ci trovammo sulla
stessa linea con il potere: per diversi motivi la finalità era la stessa.
Combattevamo da una parte contro il governo e le sue politiche e, dall’altra,
contro un partito organizzato, la lotta era ineguale su tutti i fronti. La nostra
unica forza era la nostra capacità di convincere gli altri della validità delle
nostre idee e delle nostre scelte e la nostra abilità a raccogliere consenso.
Alla fine la spuntammo nella mia facoltà, dove riuscimmo a ottenere la
57
maggioranza; ma nelle altre facoltà era stato il PCOT a vincere. Diventai
membro del bureau fédérale e anche congressista. Il congresso sarebbe stato
all’inizio dell’anno successivo, ma tante erano ancora le cose da fare. Erano
giorni molto intensi, che abbiamo vissuto con la massima dedizione; ci
eravamo scordati di essere studenti e di avere corsi da seguire e compiti da
fare (anche se, alla fine, la maggior parte di noi era riuscita lo stesso a
superare gli esami).
L’anno seguente si aprirono i lavori del congresso e la battaglia
divenne molto dura, perché tutto dipendeva dai voti. Ce la mettemmo tutta
per cercare di stemperare la brama di egemonia del PCOT ma fallimmo
clamorosamente. D’altronde il PCOT aveva i voti dei militanti che erano messi
lì non per dibattere e decidere insieme (per questo c’era la leadership) ma per
alzare la mano e dire di sì. Una situazione che mi sembrò surreale, tanto ero
abituato a discutere con i miei compagni su qualsiasi scelta dovessimo
operare. Ogni nostra idea era soggetta a dibattito, anche i nostri leader
facevano lo stesso. Eravamo stati abituati a un altro modo di fare e di
intendere la politica. Un modo basato sulla condivisione delle scelte e delle
tattiche da seguire. Ognuno di noi, dopo aver preso una decisione comune,
era
un
carro
armato
pronto
a
dare
battaglia
senza
aspettare
le
raccomandazione della propria leadership. Alla fine, alle elezioni per scegliere
i membri del comitato esecutivo ci esclusero. Era la prima volta che non
avevamo un membro nel comité exécutif. Ma andava bene lo stesso. Da quel
momento eravamo ufficialmente l’opposizione all’interno del sindacato. Alla
fine del congresso, prima di tornare alla città universitaria, venni arrestato
dalla polizia politica. Era il mio primo arresto, avevo paura, ma non avevo
niente da nascondere. Comunque loro sapevano già tutto quel che era
successo al congresso nei minimi dettagli. Volevano ancora informazioni che,
peraltro, io non possedevo. Avevo risposto di non saper nulla. E in quel
preciso momento arrivò il primo schiaffo. Poi qualche altra domanda. Con
chi sei? Sono con l’opposizione. Va bene puoi andare, ma sai che noi
sappiamo tutto vero? Sì. Ogni tua risposta è una cosa che già sappiamo.
Gli anni successivi furono più pesanti: tutta una generazione era
uscita dall’università, ci trovammo noi nuovi compagni, con la nostra piccola
58
esperienza, a gestire da soli la facoltà e a portare avanti le nostre lotte senza
punti di riferimento che ci rassicurassero, ci aiutassero, ci consigliassero.
Temevamo di non essere pronti a sostenere il peso di tutta questa
responsabilità. Ma non c’erano alternative. Eravamo soli e dovevamo andare
avanti.
La facoltà stessa, nel frattempo, era cambiata. La nuova generazione
era più proiettata al divertimento, a condurre la propria esistenza senza
scosse; non si parlava più di impegno politico, né di sindacato. Mi sembrava
una generazione appena scesa da un altro pianeta, mi sentivo a disagio in
mezzo a loro. Dove erano i miei compagni, i miei amici? Erano momenti di
panico e di disorientamento. Se gli insegnamenti dei nostri compagni
predecessori ci avevano dato una mano, il resto dovemmo impararlo da soli.
E commettemmo anche tanti errori. Ogni anno che finiva dicevo a me stesso
che sarebbe stato l’ultimo anno di impegno. Non ce la facevo più. Ero molto
stanco e i compagni si ritiravano l'uno dopo l’altro. Non volevano più parlare
di lotte e di oneri. Rimanemmo in pochi a provare ad andare avanti e a
continuare a difendere i nostri ideali.
Non mi arresi, ogni anno ricominciavo di nuovo, e così continuai. Fino
all’inizio dei preparativi del XXII congresso. Dopo una lunghissima attesa, si
era fissata la data del congresso65. Era arrivato il momento della
riorganizzazione. Questa volta ero chiamato io a fare da leader, a cercare i
compagni e a convincerli a partecipare al congresso. La sopravvivenza della
nostra fazione politica dipendeva ora da me. Mi toccava assicurare la
continuità della nostra esistenza all’interno della facoltà. L’ultimo anno alla
facoltà della Manouba mi rimanevano poche materie per completare la mia
laurea, avevo abbastanza tempo libero. Era un anno molto particolare per
me: conoscere nuovi compagni, impegnare attivamente quelli che ero riuscito
a reclutare anche se non erano molto pronti per un'esperienza del genere,
come lo ero io all’inizio, d’altronde. Alla fine riuscii a formare una lista di
compagni da presentare alle elezioni per il sindacato. Un’altra campagna
65 22 gennaio 1997.
59
elettorale, nella quale ero io il leader. Misi in campo tutto quello che avevo
imparato nei miei anni di militanza. Era una cosa bellissima e anche molto
stancante, come sempre. E, come sempre, fu una campagna elettorale
all’insegna della povertà e dei sacrifici. Ma anche questa volta la
spuntammo, anche perché l’ex partito PCOT si era diviso in due fazioni
intente a farsi la guerra fra loro e la repressione del governo aveva fatto il
resto. Ciononostante non avevamo campo libero per la nostra campagna
elettorale, il governo aveva scelto di usare le maniere forti con tutti. Ormai
era saldamente al potere e non accettava più compromessi con nessuno. Pur
essendo un gruppo minuscolo all’interno dell’università, risultavamo molto
fastidiosi per la nostra capacità di trainare gli studenti e, diciamolo, di
“combinare casini”. Anche il nostro intellettualismo non era ben visto perché
parlavamo
di
un
movimento
studentesco
capace
di
dotarsi
di
un'autocoscienza politica e ideologica lontana dalle ragioni del potere: una
coscienza alternativa comune, l’arma più difficile da combattere per qualsiasi
tipo di dittatura. Cambiare gli spiriti, agire sulla mente delle persone,
insegnare e imparare a riflettere autonomamente, sviluppare una coscienza
critica. Questo può far molta paura. Riuscimmo di nuovo ad essere,
malgrado i nostri ridicoli mezzi, una forza importante nella vita del sindacato
e all’interno dell’università. Al congresso66 ero riuscito a portare un bel
gruppo di giovani compagni, le discussioni erano accesissime, le forze in
campo erano quasi eguali, con qualche indeciso, ma alla fine si giunse a un
accordo per la rappresentanza nell’ufficio direzionale. Era passata la nostra
linea: tutti dovevano essere rappresentati in proporzione alle proprie forze e
al numero dei congressisti che si era riusciti a portare al congresso. Soltanto
una fazione voleva avere più rappresentanti di quel che si era stabilito e, alla
fine, scelse di abbandonare il congresso. Da quel momento iniziarono due
anni infiniti di lotte, sia all’interno della centrale sindacale sia all’interno
dell’università.
66 Dell’anno 1997.
60
La centrale sindacale. Era un altro passo che mai avrei immaginato di
fare. Pensavo di chiudere con il sindacato, ma i miei compagni avevano
un’altra idea: tu devi essere con noi nell’ufficio direzionale! Che emozione.
Non l’avrei mai immaginato. Certo, anche la paura era tanta. Da quel
momento ero sulla linea di fuoco: il minimo sbaglio e mi avrebbero messo
dentro. Le porte della prigione erano più vicine di quelle di casa mia. Ogni
giorno andavo all’università chiedendomi se la sera sarei ritornato a casa o
sarei stato ospite della galera.
Ma mi attendeva una sorpresa molto più amara della prigione.
All’indomani del congresso, il segretario generale e la sua fazione, a nome di
tutto
il
comitato
esecutivo,
avevano
mandato
un
telegramma
di
ringraziamento al presidente Ben Alì per il suo aiuto nello svolgimento del
congresso del sindacato. Un gesto che poteva sembrare banale, forse, ma per
noi era un'offesa, un atto imperdonabile che metteva a rischio l’indipendenza
del sindacato. Da quel momento, nel comitato esecutivo si formarono due
correnti. Una più radicale, la nostra, non intendeva accettare alcun
compromesso
col
potere:
scrivemmo
una
petizione
nella
quale
ci
dissociavamo dal telegramma e dal messaggio, esplicito e implicito, del testo.
Ovviamente, questa posizione ebbe non poche conseguenze per noi. La
prigione era ormai la nostra prima casa; l’altra parte, invece, aveva scelto di
essere più aperta a fare accordi con chi governava, ma non godette
comunque di alcun beneficio.
Per tutti quegli anni ero riuscito a tener fuori la mia famiglia. Non
avevo il coraggio di dire cosa facessi all’università, non avrebbero mai
accettato, né capito. Complici la lontananza e la mancanza di circolazione
delle notizie, vi riuscii. Ma ero troppo stanco, e l’ultimo anno era stato troppo
difficile. Era chiaro, ormai, che l’ambita specializzazione in storia moderna
(nel frattempo mi ero laureato) non mi sarebbe mai stata concessa. Né avevo
speranza di trovare un lavoro (le porte per me erano tutte chiuse) se non
qualche piccola cosa informale che mi avrebbe permesso neanche di
sopravvivere. In più, nutrivo l’ennesimo sogno che nel mio Paese mi era stato
proibito, quello di fare il mio dottorato di ricerca. Finita l’università, ero stato
tagliato fuori da tutto.
61
Così, alla fine del 2000 partii. Decisi che sarei andato in Italia, a
Palermo, per ricominciare. Mi sorpresi nel momento in cui, passando il
controllo della polizia di frontiera all’aeroporto di Cartagine, non mi
fermarono, non mi dissero niente e non mi rimandarono indietro. La mia
sorpresa svanì dopo quasi un mese, quando, chiamando casa mia, mi
diedero la notizia che mio padre era stato condannato a due settimane di
prigione, per una cosa di poco conto: aveva dato uno schiaffo all’ex marito di
mia sorella che lo denunciò. Seppur mio padre avesse fatto una
controdenuncia spiegando le motivazioni che l’avevano spinto a quel gesto, il
giudice aveva deciso che mio padre meritava la prigione. Lui che aveva quasi
settant'anni e che era sempre stato rispettato da tutti. Nessuno a casa mia
riusciva a comprendere il senso di quella che sembrava una decisione folle.
In quel momento, invece, per me fu tutto chiaro, lampante. Il messaggio era:
non ti abbiamo detto niente, sei scappato ma sappi che possiamo fare
qualsiasi cosa in ogni momento. Tieni la bocca chiusa.
Cosa che io ho fatto per 10 anni. Non è stato facile, ma ci sono
riuscito. Nel frattempo continuai a lavorare per dar una svolta alla mia vita.
Vinsi il concorso per accedere al dottorato di ricerca in storia medioevale
all’università di Palermo e, profittando della sanatoria del 2002, riuscii a
ottenere l’ambito permesso di soggiorno. Ebbene sì, partecipai al concorso
mostrando come documento di riconoscimento il mio passaporto ma,
scaduto il mio visto turistico, ero rimasto illegalmente.
Quando accaddero i primi eventi che portarono alla fine del regime di
Ben Alì, non vi diedi molto peso. Pensavo che si sarebbe risolto in un
tentativo di rivolta immediatamente repressa, come al solito. Sapevo che nel
mio
Paese
la
situazione
era
esplosiva.
Mi
sembrava
un
vulcano
apparentemente dormiente ma che sarebbe potuto saltare in aria in
qualsiasi momento. Con una scintilla in più. La famosa goccia che fa
traboccare il vaso. Non avrei mai immaginato, però, che il suicidio di un
giovane disoccupato sarebbe stata quella goccia. Ascoltavo le informazioni e
le notizie che arrivavano dal mio Paese con scetticismo. Altre volte la gente
era scesa per strada, altre volte aveva provato a cambiare le cose. Ma non
c’era mai riuscita. Tutti i tentativi erano stati evanescenti come bolle di
62
sapone. La polizia controllava qualsiasi cosa e non permetteva che una
rivolta locale potesse propagarsi in altri posti, meno che mai nella capitale.
Dopo ogni repressione tutti tornavano nelle loro case a medicare le proprie
ferite. Quante volte lo avevo fatto io!
Stavolta, invece, tutto era andato
diversamente. Gli eventi si
susseguivano e si amplificavano. La rivolta toccava altre zone. La polizia
sembrava impotente. La gente mostrava di non aver paura malgrado i primi
morti. Continuava a scendere per strada e a manifestare la rabbia taciuta. Il
potere ha tentato di contenerla, di controllarla, di reprimerla. Niente da fare,
la rivolta continuava a crescere e crescere. Dopo la prima settimana, mi sono
incollato davanti a internet, Facebook era diventata una finestra molto
importante per seguire quel che stava accadendo nel Paese. I video e le foto
dei morti, delle manifestazioni, erano a disposizione di tutti. Gli stessi
tunisini si sorprendevano di se stessi e nessuno era pronto a guidare la
rivolta, nessuno sospettava che questa volta le cose sarebbero andate
diversamente. Cercare l’informazione e capire cosa stesse succedendo in
Tunisia era diventato il mio pane quotidiano. Guardavo tutti i canali
satellitari arabi, e anche quelli francesi, in cerca di conferme. È veramente la
volta buona? Il Paese è davvero sulla strada giusta? La gente avrà la facoltà
di resistere senza cedere? Il potere saprà infine reagire, come aveva fatto già
tante volte?
Erano momenti pieni di emozioni, di paura, di speranze e di
malinconia e tristezza per me stesso. La rivoluzione che avevo sempre
sognato la stavo guardando da lontano, la stavo vivendo come spettatore.
Lontano, ma con la mente in Tunisia. Cosa succederà ora? Cosa faranno i
miei compagni? Domande infinite.
Chiamavo i miei familiari, mia madre mi diceva che le cose non
andavano bene, ma non si sapeva molto. Confusione. Chiamavo il mio
amico: “Ehi, ciao, come va? Come stai? Tutto bene? E tu? Cosa succede nel
Paese? Che notizie hai?”. Momenti di silenzio. “Sai che qua non sappiamo
molto, in tv non dicono niente, forse tu sei più informato di me, almeno hai
più accesso di noi all’informazione. In più non mi va di parlare di certi
argomenti al telefono.”
63
Sapevo che tutti i cellulari che chiamavo erano sotto controllo, anche
quelli dei miei familiari. E lo stesso i telefono fissi. Ma non riuscivo a
resistere. Telefonai a un altro compagno. “Ciao come va, tutto bene? Diciamo
di sì. Cosa succede nel Paese? Guardo Al Jazeera e so che quasi tutto il
Paese è in rivolta contro il governo.” “Noaman, stai certo che non so più di te,
qua come al solito tutto va bene, nessuno parla.”
La seconda settimana la situazione era diventata più chiara, quasi
tutto il Paese era in rivolta, anche le grandi città costiere ormai erano
coinvolte. Manifestazioni ogni giorno e molti morti che non facevano che
alimentarla. I miei amici e compagni continuavano ad avere paura nel
parlare liberamente con me al telefono, tutti avevano paura di quello che
poteva accadere, ma anche il coraggio di continuare. La macchina repressiva
del potere, pian piano, diventava impotente davanti alla rivolta popolare.
Varie tattiche si susseguivano, spesso improvvisate. Il presidente parlava al
“suo” popolo e discuteva di apertura, di cambiamenti. Nessun effetto. La
rivolta continuava, La gente era stanca e decisa questa volta a non fermarsi
davanti a niente. Telefonavo quasi ogni giorno per avere notizie e sapere
come stessero i miei familiari. Mia madre era la fonte principale di
informazioni sulla mia piccola città: hanno bruciato il posto di polizia e della
guardia nazionale, hanno buttato fuori i rappresentanti del partito al potere
dal comune, i poliziotti hanno abbandonato il Paese e non si vedono più, la
gente si è organizzata per formare comitati di autodifesa.
Erano giorni lunghissimi, bruciavo dalla voglia di esserci anch’io, ma
tutti mi dicevano che non era il momento, era una situazione di totale
confusione. La ricerca delle notizie era ormai la mia prima occupazione.
Sentivo
una
sete
incontenibile
di
sapere
nel
dettaglio
cosa
stesse
succedendo. La rivolta, all’inizio, aveva preso un carattere soprattutto
sociale: rivendicazioni, lavoro, giustizia sociale, opportunità uguali per
tutti… ma pian piano ha cominciato a radicalizzarsi, la gente aveva capito
che qualsiasi cambiamento sarebbe passato senz'altro dalla fine del regime e
si iniziarono a urlare slogan a carattere politico : “il popolo vuole abbattere il
regime.”
64
La notte del 14 gennaio vi fu l’annuncio che il presidente Ben Alì aveva
lasciato il Paese. Ma era vero? Le notizie si susseguivano con una rapidità
incredibile. Ero incollato davanti alla TV. Al Jazeera informava in tempo
reale. Non riuscivo a crederci, ma era fatta! Era vero quello che vedevo e
sentivo in TV… Eravamo rassegnati al fatto che Ben Alì fosse diventato parte
integrante del panorama del Paese. Sapevamo che era vecchio e malato, che
sua moglie si preparava alla successione, ma ora tutto stava cambiando. La
mattina, la prima telefonata. Mi rispose mio padre: “La gente è tutta fuori per
le strade a manifestare, tua mamma sta facendo la rivoluzionaria con i
manifestanti, richiama fra un po’ che la cerco.”
Seconda chiamata al mio amico: “Come va?” “Noaman, è una
situazione di totale confusione, l’unica certezza è che il presidente ha
lasciato il Paese, non farà più ritorno. La gente manifesta la sua felicità, ma
c’è una aria di insicurezza e di confusione, la polizia è sparita dal Paese, la
gente prova a difendersi dal caos come può… confusione dappertutto, ti
giuro che non so cosa stia realmente accadendo.”
La terza chiamata è diretta a un mio compagno: “Come va? Cosa
succede? Ho visto che il presidente è scappato.” “Noaman, c’è una situazione
irreale nel Paese, non si capisce niente. La rivolta ha colto tutti di sorpresa.
Regna il caos e la gente non sa se esaltarsi per la propria vittoria o cercare il
pane. C’è tutto chiuso da giorni. La gente fa ore di fila per un po’ di pane. Ho
appena sentito mia sorella che sta a Sousse: l’esercito con gli altoparlanti
avverte la gente di non bere l’acqua del rubinetto perché avvelenata, mentre
la radio nazionale dice il contrario, il direttore della rete idrica è apparso in
tv per dire che l’acqua è sana e non si corre alcun rischio, ma le persone non
sanno a chi credere. Altre telefonate fra amici e compagni, tutti ripetono la
stessa cosa: caos, totale confusione, anarchia. E lo stesso nei giorni
seguenti. Nessuno riusciva a capire granché di quello che era successo nel
Paese e il futuro era aperto a tutti gli scenari possibili e immaginabili. Tutti
noi eravamo stati colti di sorpresa.”
Per me è una agonia continuare a seguire quel che succede nel mio
Paese da lontano, stare a guardare senza esserci, da spettatore. Continuo a
chiamare i compagni per essere aggiornato sulla situazione politica. È giunto
65
il tempo delle grandi scelte e del cambiamento. Se dovesse passare questa
occasione senza che riesca a mutare tutto, non saprei quando potremmo
averne un’altra. L’evento per il quale mi sono preparato per tanto tempo…
essere un leader per una possibile rivoluzione in Tunisia. E, invece, è
successa la cosa più bella. Il popolo è stato il leader di se stesso e ha deciso
di fare la sua rivoluzione senza una guida e di emanciparsi da una dittatura
che lo soffocava. Non gli sono serviti i libri di Marx, né di tutti i rivoluzionari
di questo mondo. Ma adesso la gente sta cercando una guida che la traghetti
a un porto sicuro. So che i miei compagni sono dentro e hanno partecipato
attivamente, non sono loro i leader, ma ci sono, e almeno questo mi
rasserena e mi rincuora per la mia assenza. È difficile stare qua a guardare:
parlo con i compagni, faccio le mie considerazioni, cerco di pensare con loro i
passi da fare. Cerco di partecipare in qualche modo anch’io. Mi dico che
stando lontano ho la possibilità almeno di riflettere sugli eventi con mente
relativamente serena e tranquilla. La mia paura più grande, così come di
tutti quelli che hanno partecipato e fatto la rivoluzione, è che quel che
rimane dell’ancien régime riesca a controllare e orientare la rivoluzione. Se
così avvenisse avremmo realmente perso tutti questa occasione storica. Molti
sono vigili ma, poiché non c’è nessuno che guidi e orienti la rivolta, i rischi
sono grandi. Fare la rivoluzione forse non è il punto d’arrivo, l’impresa più
ardua è quella di proteggerla dai suoi nemici interni ed esterni. Intanto, a me
manca tanto la mia rivoluzione…
I doveri della rivoluzione67
…è vero che tutto è partito da uno schiaffo68. Ma per me Bouazizi non
è, e non sarà mai, il nostro Che Guevara, né una personalità eroica per tutti
67 Hager Daly, autrice di questa testimonianza, ha quarantasei anni, è professoressa di
italiano all’Università Manouba di Tunisi, dove abita. Scrive poesie e brevi racconti. La sua mail
è [email protected]
68 È lo schiaffo con cui è stato colpito il Mohamed Bouazizi. La poliziotta che ha schiaffeggiato
il ragazzo è tuttora in carcere in attesa del processo. Oggi, con più lucidità di analisi, molti
testimoni oculari dicono che l’episodio non è mai avvenuto. Anche sulla personalità del ragazzo
oggi si discute molto e i pareri sono contrastanti. C’è chi sostiene che non fosse assolutamente
66
i tempi a venire. Dopo il suo suicidio, che sarebbe potuto passare per un
fatto di cronaca come tanti altri, tutto il popolo tunisino si è ribellato per
salvare una dignità calpestata e negata per più di cinquant’anni. É stata una
rivoluzione giovane e spontanea, che ha permesso a tutti i paesi Paesi arabi
di trovare il coraggio di urlare l’esistenza della loro anima. I giovani tunisini
si sono ribellati spontaneamente contro la corruzione e il nepotismo
rampante che marcava la vita quotidiana. Non avevano alcun progetto
ideologico o di ambizione politica. Riguardava puramente una questione di
giustizia sociale, questione avvertita all’unanimità quasi assoluta dai
differenti gruppi e individui del Paese. É una rivoluzione che ha visto nascere
la sua prima scintilla a Sidi Bouzid per propagarsi poi in tutte le grandi città
tunisine. Quando Ben Alì ha fatto i nomi di questi giovani martiri disarmati
caduti sotto i colpi di fuoco delle milizie dei “terroristi” e ha minacciato quelli
che avrebbero avuto l’audacia di ribellarsi, in quel preciso istante uomini,
donne, bambini, giovani, e vecchi sono scesi nelle strade. Niente poteva
ormai arrestarli. Tutti quei tunisini uniti nella paura e sotto la dittatura per
ventitré lunghi anni hanno deciso, stavolta, di unirsi contro questa dittatura
alla ricerca della propria dignità umana.
Adesso non mi fermerei a discutere sui principi della rivoluzione, che
devono essere rispettati in tutti i casi. Ma, come una cittadina tunisina
responsabile, esigo soltanto il mio diritto d’essere libera e di decidere del mio
essere, pronta, come tutti i miei connazionali, a morire per i miei principi. La
nostra è una resurrezione collettiva, welcome to life!
La nostra rivoluzione non è stata programmata o inquadrata da leader
di una precisa dottrina. Queste parole, queste paure, queste grida soffocate
sono la nostra rivoluzione. Questa solidarietà, questa fraternità, i suoi
slogan, quest'ottimismo nascosto, questo pessimismo dichiarato, questo
odio, questo rancore che ci rode mischiato a questo amore per il nostro
intenzione del ragazzo darsi fuoco, ma che si fosse cosparso di benzina per fare un’azione
dimostrativa e che poi, scordandosene, si fosse acceso una sigaretta. Molti, inoltre, sostengono
che fosse un tipo arrogante. Ciononostante, questi tentativi di dissacrazione della figura del
ragazzo nulla tolgono a due fatti certi: tutto ha avuto inizio dopo il suo suicidio, volontario o
meno che sia stato, e per la maggior parte della gente è diventato un eroe nazionale.
67
Paese e i nostri fratelli martiri è la nostra rivoluzione. Unica come tutte le
rivoluzioni; e per questo nessuno può appropriarsene. È ormai la nostra
storia, la storia di noi tunisini. E la storia di tutti noi è la Tunisia.
E come la nostra rivoluzione è stata un atto spontaneo, il principio
della ricostruzione del nostro Paese lo sarà anche. Non ho mai visto tante
persone impegnate contemporaneamente per la propria terra.
Alcuni manifestano, altri analizzano, altri ancora fotografano i
manifestanti, altri commentano le fotografie, altri passano le informazioni
senza filtrarle. Altri verificano le fonti, altri contestano le fonti.
Alcuni scrivono delle petizioni, altri le firmano, altri riscrivono la
Costituzione, altri ancora cercano il marciume. Tutti difendono le proprie
idee con le parole, gli insulti, i proverbi, i link, gli iPhone. Alcuni medici
sostengono i manifestanti, altri vanno alla frontiera per aiutare i rifugiati. Gli
avvocati costituiscono commissioni per controllare altre commissioni e, nel
frattempo, la vita lentamente ricomincia: i fornai impastano il pane, i
professori vanno a insegnare, chi ha qualcosa da vendere la mette sul ciglio
del marciapiede; anche i controrivoluzionari ricominciano. Sempre senza
abbassare la guardia, e non si stancano mai, anche adesso che sembrano
predicare nel deserto. Se noi continuiamo così, non solo riusciremo a
costruire la democrazia, ma ricostruiremo il nostro Paese dalle fondamenta.
Oggi siamo in piena ebollizione, quello che stiamo chiedendo in questo
momento è ciò che in Europa è già un fatto consolidato ma che a noi è stato
negato costringendoci al silenzio con l’oppressione. Oggi questo silenzio che
si è rotto fa emergere la realtà. La storia non si potrà misurare mai
attraverso una vittoria o una sconfitta. La storia è la storia e basta. E noi
l’abbiamo fatta. “Popolo, io vi amo” disse Farhat Hached69 con la stessa
spontaneità che oggi questo grande piccolo popolo possiede e che la aiuterà a
69 Fondatore e segretario generale dell’UGTT, Union Générales des Travailleurs Tunisien, figura
carismatica e punto di riferimento della lotta per l’indipendenza della Tunisia, fu ucciso dalla
Main rouge francese il 5 dicembre 1952 a Radès. Probabilmente la decisione di eliminare il
sindacalista originario delle isole Kerkennah era strategicamente connessa alla volontà
francese di appoggiare l’ascesa di Bourguiba che al tempo godeva di un prestigio popolare
inferiore a quello di Hached che, invece, godeva di meno appoggio da parte dei francesi.
68
preservare per sempre la formidabile chiarezza della propria visione politica
malgrado qualsiasi complotto possibile e a prescindere da ogni difficoltà. Il
mio popolo è grande, la mia rivoluzione anche.
17 dicembre: all’inizio avevo la sensazione che fosse sicuramente un
atto di grandezza, ma isolato. Sapevo bene che le forze presenti sarebbero
state capaci di sedare questa manifestazione e di ammazzarci tutti con il loro
arsenale repressivo. É alla vista della propagazione degli scontri che ho
iniziato a cambiare opinione e dentro la mia anima è nato un sommovimento
molto particolare che non conoscerà inversione di marcia. Questo movimento
mi imponeva questioni sulle quali riflettere. La più importante delle quali è
che nessuna istituzione o formazione politica e sindacale era l’istigatrice di
questa
rivoluzione
né,
tantomeno,
era
preparata
all’eventualità
di
prendersela in carico. Avevo anche immaginato la peggiore delle paure, e cioè
che i fondamentalisti o gli islamisti radicali, che erano i più preparati,
potessero profittare di questa intifāda per imporre il loro elaborato e sempre
aggiornato programma politico. Ma, a prescindere dai miei timori, il popolo
tunisino ha potuto e ha saputo farsi carico del proprio destino senza tener
conto di nessuna istanza esterna. La particolarità è che tutto il mondo, pur
conoscendo la situazione della Tunisia, non è mai intervenuto: il popolo
tunisino ha vinto da solo la sua battaglia. Sicuramente alcuni dirigenti, in
Tunisia o all’estero, hanno profittato di questa opportunità per far sentire le
loro voci come dissonanti dalla maggior parte della classe reggente, tentando
così di accaparrarsi i meriti della rivolta e sperando di non essere deposti.
Ma il popolo tunisino ha cavalcato l’onda della contestazione dimostrando di
avere una coscienza politica e si è imposto su chi aveva tentato di mantenere
la propria poltrona fino a cacciare tutti, primo ministro in testa. Ma i tunisini
devono continuare a vigilare e ad andare avanti nella loro volontà
riformatrice.
Con manifestazioni, articoli, interventi pubblici, sit-in, scioperi e
quant’altro finalmente in nostro possesso, dobbiamo mantenere alto il livello
delle nostre aspettative. Per far questo dobbiamo altresì costituirci in
squadre di sorveglianza e vigilanza nei confronti dei partiti politici esistenti
imponendo loro il nostro punto di vista per una più efficace difesa degli
69
interessi della collettività. Dobbiamo, inoltre, smantellare l’attuale sindacato
UGTT che non gioca più bene il suo ruolo, né porta avanti strategie valide per
la difesa delle conquiste sociali dei lavoratori, attraverso l’organizzazione di
un congresso straordinario che deve avere come obiettivo la formazione di
nuovi quadri dirigenziali validi. Senza scordare non soltanto di pretendere le
dimissioni di Jrad70 ma anche, e soprattutto, di denunciarlo per i reati di
malversazione e abuso. Dobbiamo fare in modo che l’economia del Paese
venga fuori da questa crisi senza precedenti riprendendo a lavorare con
ordine e disciplina. I responsabili politici devono avere come compito di
chiedere agli organismi internazionali, finanziari in particolare, di aiutare la
nostra economia approvando un protocollo che garantisca la gestione chiara
e trasparente del denaro pubblico, tenendo a mente che le ricchezze
accumulate dai vecchi dirigenti e dalle loro famiglie devono essere restituite
integralmente alla Tunisia. In quanto lavoratori non dobbiamo avanzare
richieste di aumento dei salari in attesa del decollo della nostra economia.
Questo atto sarà considerato come una forma di militanza suprema.
Non dobbiamo mai scordarci che c’è chi ancora trama nell’ombra e
dobbiamo rimanere vigili nei confronti di chi potrebbe rendersi fautore di
azioni che potrebbero scuotere le buone prassi delle nostre istituzioni:
restano ancora dei casseurs che vorrebbero in ogni modo far fallire le azioni
costruttive e denigrare quanto portato avanti dalla popolazione. Inoltre,
dobbiamo pretendere che il nostro Paese si mantenga laico. E pretendere che
burocrazia e giustizia siano estranee alla logica dei favori. Potrei continuare
a lungo con a elencare “i doveri che abbiamo il diritto di portare avanti”, ma
tutti si possono riassumere in uno: la rivoluzione, quella della mente che
rompe gli opprimenti schematismi imposti dal potere costituito, non deve
interrompersi mai.
70 Si tratta dell’attuale segretario generale dell’UGTT.
70
E ho pianto71
Io non sono stata fra quelle che hanno fatto la rivoluzione. Non sono
scesa in piazza, non sono andata alla Kasba72 né alla Kobba73. Non ho fatto
nulla per la liberazione del mio Paese. Però oggi vivo anch’io nella Tunisia
liberata. E considero questa rivoluzione, questa nuova libertà, un dono che
mi è stato offerto dal mio popolo. E, come fosse il più prezioso dei regali,
intendo difenderlo. Perché anche se non ho partecipato alla rivoluzione ne
beneficio. Assaporo una libertà mai conosciuta prima. Libertà d’espressione
e d’azione. Il gusto della libertà non è lo stesso quando l’assapori altrove, in
uno dei cosiddetti Paesi liberi. Questo è il gusto della libertà del nostro Paese,
della nostra terra.
Evidentemente possiamo distinguere un “prima” e un “dopo” 14
gennaio 2011. Ognuno l’ha vissuto alla propria maniera, ciascuno ha dato
una sua lettura degli avvenimenti e degli atti. Quando mi hanno chiesto di
scrivere un commento su come ho vissuto la rivoluzione, non ho esitato a
dire di sì. Questo mi permette di fare il punto della situazione. Ne avevo
bisogno ma esitavo, certamente per stanchezza. Allora eccoci.
Nel momento in cui tutto è iniziato, io ero arrivata al capolinea di una
lunga lotta contro uno stato di letargo. Anche se interrotto, di tanto in tanto,
da qualche episodio di rivolta contro una realtà che vedevo e trovavo troppo
meschina nei confronti delle mie aspirazioni. Cercavo di tenere sotto
controllo il mio desiderio di annichilimento come potevo, con lo sport e la
pittura e soprattutto con la lettura. In quei giorni stavo leggendo Lire Lolita à
Téhéran74, una testimonianza pungente e toccante di una donna iraniana
esiliata negli Stati Uniti d’America. Finito il libro, ho pianto per tutte le
71 Nidal Khefi, autrice di questa testimonianza ha trentacinque anni, vive a Tunisi ed è una
manager. La sua mail è: [email protected]
72 La kasba è la piazza dove sorge il primo ministero.
73 Palazzetto dello sport situato nel quartiere el Menzah.
74 Romanzo del 2004 tradotto in italiano per i tipi dell’Adelphi con il titolo Leggere Lolita a
Teheran.
71
donne che si sono battute nel mondo per la difesa dei loro diritti elementari;
ma anche per la mia Tunisia, per la quale avevo paura.
Il solo mezzo che avevo trovato per resistere in questo Paese che non
riuscivo a lasciare era un ritmo di vita che non mi desse la possibilità di
confrontarmi con tutto il mio contesto. La sola dimensione alla quale non
potevo fuggire era quella lavorativa. Inoltre avevo pochi amici e, soprattutto,
non prendevo l’iniziativa in nulla per evitare non tanto di essere delusa,
quanto di trovarmi vittima di qualsiasi tipo di aberrazione o di dovermi
confrontare con l’ingiustizia o la corruzione. L’espressione della mia
cittadinanza si limitava a una condotta “corretta” e tentando di non
partecipare al deterioramento della situazione, cercando di inquadrare bene i
miei collaboratori per far di loro degli ottimi dirigenti-cittadini.
In questo guscio che mi ero creata non c’era posto per la vita pseudo
politica del Paese né per quella che si conduceva al di fuori della sfera
strettamente culturale che però era di breve respiro, troppo spesso ripiegata
in se stessa. Molte persone non riuscivano a credere che io, sino al 14
gennaio, non conoscevo il nome del primo ministro né di nessun altro al di
fuori di quelli che, a causa del mio lavoro, ero tenuta a conoscere, quali il
ministro delle finanze e quello dell’industria. Eccezion fatta per quella
economica, nessun’altra attualità del Paese mi interessava. Mi domandavo se
ci fosse veramente un’attualità degna di questo nome.
Il mio ambiente mi era completamente sconosciuto da tutti i punti di
vista, non mi riconoscevo né nella società né nei mass media che riflettevano
un’estrema ignoranza, pessimo gusto e decadenza intellettuale. Anche i
discorsi che sentivo qua e là per caso mi davano la sensazione di nuotare in
una sorta di mediocrità dell’ambiente. Mi sentivo straniera nel mio Paese e,
però, non riuscivo mai a lasciarlo. Mi legavano il profumo dell’aria, il colore
della terra, del cielo, del mare. Non riuscivo a immaginarmi lontano da
questa natura come se, al di fuori della mia Tunisia, potessero cambiare i
colori e gli odori. Quando mi parlavano di emigrazione verso il Canada, la
mia replica era anche questa: non avrei potuto vivere sotto un altro cielo per
quanto potesse essere bello. Non potevo vivere in un Paese dove sarei stata
72
per sempre una cittadina di serie B. Preferivo essere una suddita nel mio
Paese.
E, dunque, nel momento in cui “l’affaire Bouazizi” si è scatenato mi è
bastato essere un piccolo soggetto insignificante che camminava per la
propria strada evitando il più possibile le buche e accontentarmi di una vita
piccolo borghese fatta di lavoro, di piccoli piaceri semplici e solitari o in
compagnia dei pochi amici che apprezzavo. Un picnic in campagna di qua,
una visita a un sito archeologico di là, una cena vista mare, un viaggio
all’estero di tanto in tanto per “respirare”.
Una vita monotona fatta di piccoli riti rassicuranti. Una vita nella
quale non accadeva quasi nulla all’infuori della morte di un parente, il
matrimonio di una cugina, una nuova nascita... niente spazi di incontri,
nessuna possibilità di eventi straordinari che potessero scombussolarmi.
Tutte le mie emozioni erano focalizzate sull’arte, non perdevo nessun festival,
fosse il Musiquât75 o il festival della Medina76 dove lasciavo libero corso alle
mie emozioni ascoltando un verso di un monologo, o una rima irlandese che
mi trafiggesse e mi trasportasse lontano, o una rappresentazione teatrale
quando c’era. Altrimenti, come dice Felleg77, “il grande vuoto”.
Quando Bouazizi si è immolato, sono rimasta molto scossa: non osavo
immaginare quale disperazione potesse animare un atto del genere. Era un
suicidio disperato, ma non l’unico che avevamo conosciuto; non un atto
spettacolare, sorprendente. In nessun momento ho supposto che questa
morte potesse diventare un simbolo né, tanto meno, l’incipit di una
rivoluzione. Niente, invece, ha potuto arrestare la rabbia popolare che da sud
a nord attraversava il Paese. Avevo l’impressione d’aver perso un episodio,
quello in cui tutto era iniziato. Da molti mesi in realtà percepivo in me, ma
anche attorno a me, un’angoscia latente ma in crescita, una di quelle che ti
75 Festival annuale di musiche che si tiene ogni anno in primavera a Tunisi.
76 Festival che si tiene ogni anno a Tunisi durante il ramadan
77 Umorista algerino che vive in Francia.
73
prende lo stomaco quando non hai più alcuna visibilità, quando non sai più
cosa ti aspetta domani, quando senti che tutto può cambiare da un giorno
all’altro senza capirne il perché. Questa sensazione di incertezza, di
instabilità ormai mi era compagna anche in quei momenti in cui tutto poteva
sembrare tranquillo.
Una volta mi trovai a dire che la paura che provavo assomigliava,
stranamente, a quella che avevo durante gli ultimi anni del “regno” di
Bourguiba, anche se all’epoca ero molto giovane. Ricordo quel periodo come
un momento terribile e pauroso, molto pauroso; ma il vuoto politico che
questo regime ha creato lo è molto di più. Quasi tutti i rappresentanti di
qualsiasi tendenza politica che avevano osato uscire dall’anonimato avevano
avuto lo stesso destino: l’esilio e, dunque, la perdita della quotidianità del
Paese con i suoi drammi e i suoi controsensi, oppure la prigione con le sue
torture, o, ancora, la morte. Quelli che erano rimasti, non erano affidabili.
Avevano fatto un patto con il diavolo, in buona o in cattiva fede.
Le prime settimane non riuscivo a credere, tutto mi sembrava effimero,
mi dicevo che anche questo si sarebbe concluso come “l’affaire Rdaief” nel
200878. Credo di aver iniziato a capire che questa volta si stesse trattando di
una cosa seria quando, dopo l’annuncio dei primi morti negli scontri,
l’informazione esplose su Facebook. Non credevo ai miei occhi. I commenti, i
video, gli slogan risuonavano da una bacheca all’altra. Si deve dire anche
che tutto questo tam tam è partito dai tunisini che vivevano all’estero.
Potevamo pensare che un po’ se ne fregassero delle conseguenze di far
circolare tutti questi commenti ma, allo stesso tempo, ci dicevamo che
avrebbero dovuto comunque temere per i familiari rimasti in Tunisia poiché
il regime ha l’abitudine di non risparmiare nessuno, di distruggere intere
famiglie quando uno dei loro membri osa tenergli testa. Ma subito i tunisini
residenti in Tunisia iniziarono a scatenarsi. Commenti su commenti. In quel
78 Rdaief si trova nel bacino minerario della provincia di Gafsa, teatro degli scontri del 2008.
74
momento compresi che più nulla sarebbe stato come prima, con o senza
regime.
Questo fino al 13 gennaio. Non sospettavo che il 14 sarebbe stata la
data della fine e dell’inizio. Andai a lavorare il pomeriggio del 13 sapendo che
l’indomani ci sarebbe stato lo sciopero generale ma mai avrei sospettato che
quel giorno avrebbe decretato la fine di Ben Alì e l’inizio della fine di tutto un
regime.
Per tutto questo tempo, l’unico contatto con quel che stava accadendo
era Facebook, e lì constatavo di avere una lista di amici molto eterogenea:
controrivoluzionari, dirigenti, super ribelli, soprattutto dall’estero, ma anche
indifferenti. Ne avevo di tutte le categorie. Era molto interessante osservare i
cambiamenti di discorsi e di posizione lungo gli eventi e la loro evoluzione. E
continuano a cambiare sino a oggi.
Penso che se davvero Facebook abbia giocato un ruolo in questa
rivoluzione, il ruolo sia stato quello di aver legato la rivolta del sud e di
mobilitare una parte della popolazione, quella che non avrebbe sentito il
bisogno di urlare dégage il 14 gennaio se non avesse avuto l’occasione di
vedere le atrocità del regime, se non avesse potuto vedere la paura e il
disorientamento del popolo nel resto del Paese. Facebook non ha fatto la
rivoluzione ma sicuramente è stato un fattore decisivo. Grazie alla possibilità
della comunicazione istantanea, questa rivoluzione è stata straordinaria per
la solidarietà che è sorta nel popolo tunisino. Il 14 gennaio 2011 non c’era
una sola classe sociale o una comunità o una regione che manifestava. C’era
tutta la Tunisia con tutti i suoi figli: disoccupati, dirigenti, operai,
imprenditori, donne, uomini, vecchi, giovani…
Quando la televisione ha annunciato che un comunicato importante
sarebbe stato diffuso da lì a poco, mi aspettavo l’annuncio delle dimissioni di
Ben Alì, o al limite della sua morte o che fosse caduto in coma profondo. Mai
avrei
immaginato
che
sarebbe
stato
annunciata
la
sua
fuga
con
l’applicazione del famoso articolo 56 della Costituzione. Senza essere una
specialista
o
contraddizione
un’esperta
aberrante
di
che
diritto
costituzionale,
d’altronde
75
non
è
trovavo
fosse
una
stata indifferente
ai
facebookers, i quali hanno reagito ancor prima che il primo ministro finisse il
suo intervento. Questo annuncio ha avuto in me un effetto contraddittorio
nella misura in cui il sollievo si mescolava allo scetticismo. Era evidente che
il presidente fosse caduto, ma non il suo regime. Era anche evidente che
tutti quelli i cui interessi erano minacciati, non avrebbero lasciato le cose
scorrere senza intervenire.
Per me i momenti intensi, quelli dopo i quali mi sono attivata, sono
iniziati a partire dal 14 gennaio. Da questa data la rivolta diventa una
rivoluzione e inizia un lungo e convulso processo. È stato affascinante vedere
l’organizzazione spontanea del popolo in comitati di quartiere per proteggersi
dalle milizie controrivoluzionarie. La solidarietà con il sit-in Kasba 1 e Kasba
279, lo spontaneo assembramento al Kobba del quale possiamo dire qualsiasi
cosa si voglia tranne che sia stato l’espressione di una lotta di classe… tutto
era piuttosto la manifestazione della solidarietà inespugnabile del popolo che
ha fatto cadere il dittatore e che porterà avanti questa rivoluzione.
Questa rivoluzione ha imperversato, scombussolato, rivoltato le nostre
vite. Ha rimesso in moto le lancette di un orologio che da troppo tempo
segnava l’ora della nostra morte. Quello che sembra paradossalmente un
grande disordine per qualcuno, ha mostrato una faccia insospettabile del
popolo tunisino. Vergognati di aver subito il diktat di Ben Alì in silenzio,
adesso ci sentiamo orgogliosi di essere tunisini.
Quello che ho temuto di più, come accade in tutte le rivoluzioni, sono
stati gli eccessi. C’è stata sicuramente una specie di vendetta popolare e di
caccia alla streghe, ci sono state rivendicazioni in momenti sbagliati, delle
occupazioni illecite di beni privati e pubblici, ma sono state contenute molto
velocemente grazie a una coscienza collettiva più forte delle estremizzazioni
di alcuni gruppi.
79 È il nome dato ai due sit-in. Il primo inizia nei giorni successivi alla caduta del governo e si
conclude il 28 di gennaio; il secondo inizia il 20 di febbraio e prosegue fino al 5 di marzo.
76
Non ho sicuramente apprezzato che alcune fazioni si siano accaparrate
la rivoluzione del popolo pretendendo di gestirla in sua vece. E neanche il
ruolo che hanno giocato i mass media in questa rivoluzione, a mio avviso il
più maldestro, brutto, cattivo, sporco dopo quello dei controrivoluzionari.
Non mi sono piaciuti, qualche volta, neanche gli eccessi e le esaltazioni dei
giovani studenti all’estero che gettavano benzina sul fuoco formulando
richieste eccessive e infondate, senza preoccuparsi di quelli che erano in
prima linea nel Paese, delle loro esigenze e dei loro bisogni, e che subivano i
rovesci di tutti gli estremismi. Mi sembrava denotassero l’assenza di una
cultura politica, ma anche di strutture fondamentali. Ancora più sgradevole
era vedere alcuni partiti estremisti e anticostituzionali profittare della
rivoluzione per ottenere legittimità. Ma, in fondo, quale rivoluzione non ha
avuto i suoi eccessi? Io spererei soltanto che la rivoluzione della dignità resti
tale sino alla fine.
Sono stata anche affascinata e stupita dalla grandezze del mio popolo
e soprattutto dalla maniera con la quale ha gestito la crisi sulla frontiera
libica prima ancora che il governo transitorio e la comunità internazionale
reagissero. La storia scriverà per sempre della nostra capacità straordinaria
di organizzarci o di auto-organizzarci, della nostra disponibilità a dare del
nostro ai profughi provenienti dalla Libia nel momento stesso in cui vivevano
una situazione tanto complessa.
Ma il più grande acquisto personale, grazie a questa rivoluzione, è il
potere di esercitare appieno la mia cittadinanza. Inoltre, una grande
emozione è riscoprire i miei concittadini, molti dei quali come me erano
ripiegati su se stessi, nei loro gusci o all’estero! Il cittadino tunisino è nato il
14 gennaio ed è stata, e continua a essere, una gioia insperata quella di
incontrare della gente che non pensavo più di rivedere nella mia Tunisia,
persone piene di talento, di generosità e di genialità.
Grazie al processo rivoluzionario sto vivendo delle esperienze inedite,
vivo a un altro ritmo. Non mi alzo più la mattina sapendo già di cosa sarà
fatta la mia giornata. Sono nell’attesa, nel senso più bello del termine. Di
recente ho vissuto un’emozione forte durante un incontro in cui il dibattito
77
era di una qualità tale che per un momento ho avuto l’impressione di essere
in Europa, dove spesso mi sono rifugiata per dilettarmi di discussioni a
pranzo, dibattiti a cena… dovevo pur saziare la mia sete di incontri e di
apprendimento! Mai avrei creduto di poterla saziare un giorno nel mio Paese.
Per tutta la giornata dell’incontro ho bevuto le parole di relatori, filosofi e
ricercatori. Infatti, l’ancien régime mi aveva privato di questo dono/diritto.
Avevo molto bisogno dei maestri di pensiero in (e di) questo Paese, di tutto il
sapere che potevano trasmettere, del senso della storia. Quello che avevo
cercato a partire dalla mia adolescenza e non speravo più di trovare… la più
bella conquista di questa rivoluzione: incontrare uomini grandi come Youssef
Seddik80, Stéphane Hessel81 e tanti altri, e bere le loro parole. Avevo tanta
sete!
In occasione di una delle manifestazioni ho incontrato uno dei
partecipanti al sit-in di Kasba 1, un giovane ventenne di Meknessi82, in
buona salute, pieno d’energia che, però, a diciott’anni aveva smesso di
studiare, perché incapace di sognare il proprio futuro. Quale ambizione
poteva avere? Quest'incontro mi ha fatto comprendere che il più grave
crimine dell’ancien régime non è stato quello di aver rubato tutti quei
miliardi di dinari, ma quello di aver privato i giovani della possibilità di
sognare e di aver paralizzato quello che di più attivo abbiamo nella nostra
società, la sua principale ricchezza. E ho pianto.
Oggi faccio parte di quelli che restano apolitici ma che contano, allo
stesso tempo, di esercitare pienamente la loro cittadinanza come società
civile. Certo, non ho il privilegio di aver “fatto” questa rivoluzione, ma
intendo preservare le sue conquiste in memoria di tutti quelli che hanno
pagato con la loro vita perché oggi io potessi respirare a pieni polmoni
80 Filosofo e scrittore si è trasferito a Parigi nel 1988 dove ha continuato la sua attività
accademica. È autore di diversi testi su islam e modernismo.
81 Ex ambasciatore francese, studioso del mondo arabo mediterraneo e mediorientale.
82 Meknessi si trova nella Tunisia centrale, vicino Sidi Bouzid.
78
un’aria di libertà tunisina. Oggi ho il diritto di sognare, tutto è possibile
ormai.
Finalmente giornalista!
83
La Tunisia ha conosciuto nella sua storia moderna due presidenti: il
primo, Bourguiba, quello che ha lottato contro la colonizzazione e ha portato
il Paese all’indipendenza; il secondo, Ben Alì, quello che ha destituito il
vecchio Bourguiba orami incapace di continuare il proprio mandato. Sotto
questi due presidenti hanno vissuto undici milioni di persone per
sessantacinque anni. Chi è stato qui in vacanza ha avuto modo di conoscere
persone pacifiche e tranquille che vivevano nella pace assoluta. In realtà era
solo una pace superficiale, lucida come una bella vetrina. La verità era tetra.
Bisognava guardare questo popolo con la lente giusta. I tunisini vivevano
nella truffa, nell'ingiustizia, nella repressione e nella pressione, nella
violazione dei diritti umani... con tutte le umiliazioni possibili, all’interno di
un silenzio forzato e di una repressione imposta, i tunisini hanno trascorso
gli anni a tentar di nascondere il fuoco dell’opposizione e del malcontento.
Qualsiasi voce che avesse tentato di esprimersi diversamente è stata zittita.
Non c’era scelta: o con il partito RCD o non esisti!
14 gennaio 2011. Una data storica. Il giorno in cui una voce ha
squarciato il silenzio e le idee hanno preso il volo. La vera indipendenza
tunisina. Da oggi potrò essere sul serio una giornalista, una di quelle figure
che da ventitré anni non erano (non eravamo) altro che fantocci. Siamo stati
gli altoparlanti di un sistema corrotto. Tutto era falsificato: le storie che
raccontavamo, le emittenti, le nostre trasmissioni… c'era un solo obiettivo: le
persone al potere volevano e dovevano mantenere la loro posizione.
Contravvenire all’ordine significava pagare un prezzo troppo alto. Ho anche
pensato di farlo, però non ne ho mai avuto il coraggio. Ma il 14 gennaio le
83 Nabila Abid, autrice di questa testimonianza giornalista della radio nazionale tunisina, ha
trentatre anni ed è nata e lavora a Tunisi. È la prima giornalista tunisina che, dopo la caduta
del regime, è stata a Lampedusa a intervistare, in diretta radiofonica, i migranti. La sua mail è:
[email protected]
79
nostre voci sono state liberate e i nostri microfoni hanno lasciato per la
prima volta la sede della radio per andare in strada incontro alla gente.
Prima tappa è stata l’Avenue Habib Bourguiba84. Confluiscono lì
persone provenienti da dovunque, di tutte le età, di tutti gli i livelli sociali.
Tutti con bandiere e striscioni che inneggiano alla Tunisia libera: “Il popolo
vuole la fine del regime”, “Libertà per la Tunisia”, “L’occupazione è un diritto:
clan di ladri”. Il viale principale della capitale della Tunisia è colorato di
bianco e rosso. Le bandiere sono dappertutto. Bandiera e inno nazionale si
sono riappropriati dei propri valori. È toccante, emozionante, eccitante,
impressionante.
Che giorno! Tutti vogliono parlare, raccontare la propria esperienza,
quello che hanno sofferto. Possono farlo liberamente, senza un poliziotto
accanto pronto a denunciarli o a picchiarli insieme al giornalista che sta
svolgendo il proprio lavoro. Tutti a dire che la Tunisia ha sofferto
abbastanza, che ogni cosa andava alla rovescia, che la dittatura era
insopportabile. Hanno svuotato le nostre case, derubato il nostro Paese,
violato la nostra dignità, ci hanno impedito di respirare. Oggi siamo liberi.
Un giovane, il viso pallido e stanco, mi dice che per la prima volta si
sente tunisino ed è fiero di esserlo: “Zaba85 ha dichiarato che il 2010 era
l’anno mondiale della gioventù. Ecco, davvero lo è stato. Ha preso un
giovane, l’ha represso, strangolato. Non siamo stupidi come pensava. Siamo
educati, colti e molto consapevoli di quello che avrebbe voluto fare di noi. La
maggior parte dei laureati è disoccupata. Nel nome della globalizzazione
abbiamo aperto locali e discoteche che sono nelle mani della sua bella
famiglia, che ci ha allontanato dalla politica. I giovani tunisini oggi non ti
vogliono più. Zaba, non ti vogliamo più. Non ci fai più paura. Sei come un
vecchio clown che non fa ridere nessuno.” Gli fa eco un vecchio che, con
franchezza e orgoglio, dice: “I giovani tunisini che a lungo abbiamo
84 Si tratta della strada principale della capitale.
85 É l'acronimo di “Zine El-Abidine Ben Alì”.
80
sottovalutato hanno realizzato il nostro sogno. Quei giovani che trovavamo
egoisti, superficiali, ignoranti e ingenui hanno liberato la Tunisia e ce
l’hanno restituita dalle mani del suo tiranno. I nostri ragazzi hanno fatto ciò
che noi non abbiamo saputo fare. Oggi li ringrazio tutti, questi giovani che
hanno combattuto, sofferto, urlato insieme “libertà!”. Non potrò dimenticare
quanti giovani in questi giorni hanno versato il proprio sangue e dato la
propria vita per la Tunisia”. Piange il vecchio dicendo queste parole, come un
bambino non riesce a trattenere le lacrime. E il giovane accanto a lui gliele
asciuga, lo carezza e gli bacia la fronte.
Non è retorico dire che la nostra rivoluzione è anche la nostra
rinascita. Abbiamo scoperto aspetti nascosti l’uno dell’altro e, soprattutto,
abbiamo scoperto di amare questo Paese. Gli adolescenti che sognavano di
emigrare in Europa hanno trascorso la notte nelle strade, per pattugliare i
quartieri cercando di individuare per tempo le truppe e i complici dell’ancien
régime.
Da quando tutto è iniziato, siamo stati uniti e abbiamo difeso con forza
e perseveranza la nostra bandiera ma soprattutto la nostra dignità. Certo,
abbiamo perso molto tempo, troppi anni, prima di riuscire a gridare ad alta
voce dégage.Ma oggi, finalmente, ci siamo riusciti e niente ci potrà fermare.
Per quel che mi riguarda, sia dal punto di vista personale sia come
giornalista, non sono mai stata così bene come oggi. Non ho mai apprezzato
tanto il mio lavoro. È importante sentirsi liberi, in grado di poter
testimoniare quel che accade, di poter criticare chiunque non si preoccupi
delle disgrazie del proprio popolo.
La Tunisia della dittatura usava slogan falsi, apertura, solidarietà,
diritti. Ma dove? Oggi noi ci riprendiamo questi slogan non per finta
propaganda, ma per riempirli di senso e dare le basi al nostro Paese verde,
sviluppato, democratico, laico, musulmano… libero!
I giovani della capitale, i primi giorni della rivoluzione, hanno
composto canzoni che raccontavano di tutto ciò che hanno sperimentato.
Tutti molto attivi sui social network, hanno creato blog e discusso di tutto, si
81
sono formati gruppi virtuali che hanno fatto analisi politica e hanno messo
in rete video e documenti di denuncia verso chiunque fosse implicato nel
sistema.
A due settimane dal 14 gennaio hanno organizzato la carovana della
gratitudine, un’iniziativa di solidarietà e sostegno di tutti i tunisini. Ogni
cosa è stato organizzata attraverso Facebook. Un giovane ha lanciato l’idea e
gli altri hanno risposto registrandosi.
La prima carovana è partita all’inizio di febbraio. Destinazione Sidi
Bouzid, il paese in cui il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, un giovane di
ventisei anni, si è ucciso davanti all’ufficio del governatore per protestare
contro i poliziotti che gli avevano sequestrato la bancarella di frutta e
verdura perché sprovvisto di licenza, ma con la quale dava sostentamento a
tutta la sua famiglia. Scopo: ringraziare la gente di Sidi Bouzid. Orario
dell’appuntamento: 6.00 del mattino. Tre autobus e centottanta macchine a
noleggio. Fiori e bandiere ornano l’intera carovana. Durante il percorso canti
e lacrime di gioia. Ci sono anch’io per scrivere dell’evento.
Molte persone, a Sidi Bouzid, ci dicono di non sentirsi più sole grazie
al nostro arrivo. Di aver sofferto la fame e la miseria, di essersi sentiti
dimenticati,
trascurati,
ai
margini
dello
sviluppo.
L’ingiustizia
del
regionalismo creato dalla cricca del presidente ha profondamente ferito
persone generose e accoglienti. Un gruppo di persone ci dice di non aver
festeggiato fino ad adesso per rispetto dei martiri ma che oggi, con noi, è
giunto il momento della gioia: “nessun funzionario giunto qui è stato accolto
così, voi siete i nostri fratelli nel coraggio e nella dignità e vogliamo dividere
con voi il nostro couscous”.
Qualcuno ha sgozzato le pecore, qualcun altro ha preparato il
couscous, altri ancora hanno intonato canti. Tutta una rete di solidarietà
82
senza la presenza di nessun potere costituito. Solidarietà senza i fondi 262686.
A Sidi Bouzid, “Place 7 novembre” è già diventata “Place Mohamed
Bouazizi” e i locali dell’ex RCD La maison du peuple dove tutti i senza tetto
possono trascorrere la notte.
Alla fine della giornata gli uomini, ci accompagnano alla periferia della
città scusandosi perché ci saremmo meritati un’accoglienza più lussuosa.
Un giovane dice: “Spero che tutti possano capire che non è la fame ad averci
spinto a ribellarci. Non stiamo morendo di fame. Abbiamo ancora pecore e
couscous. Avevamo un altro tipo di fame: fame di riconoscimento e di
libertà”.
A Tunisi, nel frattempo, c’è un altro importante appuntamento sempre
organizzato da giovani e sempre tramite la rete: ci si deve incontrare per
mettere ordine e pulire i luoghi in cui sono avvenuti gli scontri. Ovunque,
danze di uomini e donne che ripuliscono raccogliendo resti di vetrine, di
pannelli e di quant’altro ingombri la strada. Per una Tunisia elegante e
pulita come non lo è mai stata.
Anche se molti stranieri hanno lasciato di corsa la Tunisia, c’è anche
chi ha scelto di rimanere. Roberto, un italiano alla soglia dei sessant’anni,
mi dice: “Ciò che mi ha colpito innanzitutto é stata la maniera in cui un
popolo, che consideravo mite e ormai ridotto in schiavitù, sia riuscito a
imporsi in tempi brevissimi su un collaudato sistema poliziesco che è durato
per più di trent'anni. In seguito é stato molto bello vedere i tunisini acquisire
sicurezza e godere della libertà di espressione che era prima completamente
negata; devo darne atto, anche con molta sobrietà e dignità. Ci si sarebbe
aspettato l’inizio di una caccia alle streghe, che invece non é avvenuta. Sono
stati capaci di espellere dalla gestione dell’apparato governativo tutti i residui
del vecchio sistema: con tutti intendo dire a tutti i livelli, dai ministri, ai
86 Fondi di solidarietà finanziati in gran parte dai cittadini. Si tratta di una cassa per cui ogni
anno, l’8 dicembre, i cittadini hanno trattenuto una percentuale del proprio salario.
83
direttori fino ai sottoposti che avevano servito il vecchio presidente. E stata
in fondo una rivoluzione elegante, misurata ed estremamente efficace. Anche
il dopo rivoluzione non ha dato via a estremismi o rivendicazioni estreme.
Qualche sciopero o manifestazione tesa a riappropriarsi della dignità negata;
ora velocemente il Paese sta tornando alla normalità. Contrariamente a ciò
che si sente dire all’estero, é stata una rivoluzione di tunisini contro tunisini.
In nessun momento ho avuto l’impressione che, come straniero, potessi
essere strumentalizzato o marginalizzato; al contrario, erano tutti felici di
mostrarmi la loro civilissima forza con la quale hanno potuto abbattere un
regime dittatoriale che, per un motivo o un altro, era ben visto dalle nazioni
occidentali. Insomma, dopo aver vissuto molte rivolte e rivoluzioni in mezzo
mondo, sono contento di aver potuto assistere al riappropriarsi del loro
Paese da parte dei tunisini”.
Il 14 febbraio, a un mese dalla caduta del presidente, i tunisini
festeggiano San Valentino in modo speciale: gli uomini regalano rose alle
donne che le offrono ai soldati. Le famiglie comprano rose per la Tunisia
tutta: per i soldati che giorno e notte li hanno protetti, per i martiri, per
decorare il centro città… l’espressione più nobile dell’amore.
Un adolescente mi racconta: “Sono qui con i miei genitori. Mi hanno
detto che San Valentino non fa parte della nostra tradizione, ma oggi è un
giorno speciale. È trascorso un mese dalla rivoluzione e noi dobbiamo offrire
rose alla nostra cara Tunisia in segno d’amore e fedeltà. Io spero che questo
gesto diventi un’abitudine. Noi siamo innamorati del nostro Paese”.
Dal 14 gennaio ormai giro per la Tunisia per le mie interviste. Voglio
raccontare la nuova quotidianità del popolo. A Gafsa incontro i minatori che
lavorano nelle miniere di fosfato. Hanno sofferto enormemente sia durante la
presidenza Bourguiba sia durante il regime Ben Alì. A nome di tutti parla
Adnen, un sindacalista: “La rivoluzione da noi è iniziata nel 2008 ma è stata
repressa. Ben Alì ha ucciso i nostri figli, ha impedito ai giornalisti di
avvicinarsi, ha fatto imprigionare più di trecento persone che sono state
rilasciate dopo il 14 gennaio. È difficile pensare alla Tunisia di domani.
Sicuramente stiamo facendo la storia e i nostri figli e nipoti ne saranno fieri.
84
È vero che la Tunisia è il Paese dei gelsomini, ma questa non è la rivoluzione
del gelsomino. Questa è la rivoluzione della nostra dignità e della nostra
libertà”.
Per capire i nostri sentimenti odierni, bisogna immaginare un uccello
rimasto chiuso in una gabbia. Appena ne avrà la possibilità, vorrà volare in
alto il più possibile. Questa è l’unica immagine che mi sovviene pensando ai
tunisini di questi giorni. Non si può negare che ci siano disordini in tutti i
settori, ma penso sia normale per un popolo represso per decenni. La
democrazia non è solo un concetto e ci vuole formazione, pratica e tempo per
realizzarla. Ed è questo il tempo per insegnare ai nostri figli più piccoli cosa
significhi essere liberi e democratici. Ci vorrà del tempo, ma ci arriveremo.
Come siamo riusciti a scacciare il tiranno, così ricostruiremo il nostro bel
Paese con solide fondamenta.
Io però delle preoccupazioni le nutro. Da questo governo di transizione
sono stati legittimati cinquanta partiti. Da dove vengono? I loro leader non
saranno il sistema di proiezione di Ben Alì? Non staranno tentando di
accaparrarsi i benefici della rivoluzione? Lo chiedo spesso ai giovani per
strada: “Non potrà succedere, la rivoluzione non terminerà finché non
avremo la certezza che davvero il presente e il futuro di questo Paese sono
nelle mani di tutti”.
La rivoluzione a distanza87
Dicembre 2010. Tutta la famiglia è impaziente per l’imminente viaggio a
Saint Augustine, Florida. Ambita meta dopo mesi di intenso lavoro per
grandi e piccoli. Finalmente tutti insieme a godere un periodo di ferie.
87 Di Hamza Dridi e Hela Gaieb. Hamza Dridi ha trentanove anni, è ingegnere e vive in
America dove lavora come manager in una società di telecomunicazioni. La sua mail è:
[email protected]. Hela Gaieb, trentasette anni, è manager in una società di commercio,
la sua mail è: [email protected]. Hamza ed Hela sono sposati, hanno tre figli e da undici
anni vivono nel North Caroline.
85
Non avremmo mai immaginato che i giorni di Saint Augustine si
sarebbero trasformati nelle molte ore in cui noi due, ma talvolta anche i
bambini, saremmo stati nella hall dell'hotel a fissare il nostro laptop, sempre
connessi a Facebook per capire di più dell'ultima reazione a Sidi Bouzid o
dell’andamento della rivolta a Kasserine. Per la prima volta sentiamo
scorrere nelle nostre vene il sangue tunisino che ci riscalda menti e cuori
nelle notti buie e ventose. Siamo confusi come quando avvennero i fatti di
Mtalaoui e Om Laarayes88. I ricordi di quegli episodi iniziano a smorzare il
nostro entusiasmo… sarà questo un altro movimento nato morto, che il
regime soffocherà direttamente nel grembo dei suoi fautori insieme alle loro
vite?
Beh, qualcosa ci dice che questa volta è diverso… Abbiamo capito
subito che Facebook sarebbe stata la svolta! A differenza degli eventi della
miniera nel 2008, abbiamo una diretta continua su ciò che succede! E se
questa diretta ha fatto vibrare il nostro corpo, e bollire il nostro sangue, in
un modo talmente travolgente a migliaia di chilometri di distanza, di sicuro
sposterà anche le pietre là, in Tunisia!
Torniamo a casa a Raleigh, nel North Carolina, per festeggiare il
capodanno. Gli animi sempre con i nostri compatrioti, il cuore batte più
intensamente non appena arriva un aggiornamento su Facebook. I tunisini
continuano a sfidare il regime in molti luoghi della Tunisia. Il 2010 è stato
piuttosto brutto, abbiamo pensato, ma questi eventi ispirano speranza per il
2011.
Non ne avevamo più speranze per la nostra patria. Erano tutte
annegate nel nulla tunisino degli ultimi due decenni. Il nostro rientro in
Tunisia nel 1997, e i 3 anni che seguirono, furono una grande delusione.
Avevamo risolto definitivamente andando esuli nel 2000. Il nostro primo
esilio in Francia era stato diverso: questo secondo era stato più un esilio
88 Si riferiscono sempre ai fatti avvenuti nel 2008 nella regione di Gafsa. Metlaoui e Om
Laarayes sono altri due paesi che furono coinvolti nella rivolta.
86
"intellettuale", un esilio di dignità e di amarezza quando giungemmo alla
conclusione che la Tunisia di Ben Alì non era la nostra.
Impotenti, anno dopo anno, vedevamo il sistema di Ben Alì che
sistematicamente lavorava per cambiare il volto del Paese corrompendo
l'anima e l’identità tunisina. Le persone avevano perso ogni senso di
appartenenza o di cittadinanza. I valori fondamentali che avevano definito la
Tunisia per centinaia di anni erano stati barattati per la mediocrità, l'avidità,
la disattenzione, la resilienza. La confusione e la paura della gente era
diventata la piattaforma che il regime utilizzava per occupare il Paese e
saccheggiarlo.
Ma la gioventù della Tunisia, uscendo da un lungo silenzio, ha urlato
la propria rabbia e la propria frustrazione per esprimere il rifiuto di un
degradante e insultante status quo. Ha deciso che non si possono più
permettere ingiustizie, mediocrità e insulti. Bisogna eliminarli per riprendere
il Paese e recuperare orgoglio, dignità e diritti. Insieme, come un unico
corpo, in un movimento pacifico senza precedenti, hanno affrontato
coraggiosamente il pericolo della repressione e dell'oppressione delle forze di
sicurezza dello stato spietato e infame.
La Tunisia ha iniziato a far notizia nei media americani. Giornalisti,
analisti ed esperti di notizie sono alla scoperta di un fenomeno nuovo e
incalzante per il quale non hanno il tempo per la comprensione totale. La
loro analisi è a volte molto approssimativa e spesso goffa. Ma chi se ne frega!
Lo capiamo e siamo ugualmente felici!
La Radio NPR89, ben nota per i suoi ottimi notiziari e le brillanti analisi,
è l'eccezione nel panorama dei media U.S.A. e informa sulla Tunisia in modo
puntuale.
La prima cosa che facciamo è contattare Dish Network90 e ripristinare
immediatamente i canali di TV araba che avevamo sospeso per qualche
89 Acronimo per National Public Radio.
87
tempo. Abbiamo bisogno di Al Jazeera per comprendere pienamente cosa
avvenga in Tunisia e iniziare a dar senso agli eventi.
Amici e colleghi fanno capannello attorno a noi alla ricerca di
informazioni, cercando di capire cosa stia succedendo in Tunisia. Ci hanno
sentito,
nel
corso
degli
anni,
affermare
loro
quanto
preconcette
e
approssimative siano le notizie che trattano realtà quali il Medio Oriente.
Siamo diventati la loro fonte di notizie affidabili su qualunque cosa accada
nel mondo arabo-musulmano. Abbiamo potuto vedere, negli occhi del nostro
pubblico, l'ammirazione per la Tunisia e per i suoi cittadini, per il loro
coraggio e la loro bravura.
“Siamo tutti Bouazizi”, questo è lo slogan che inizia a risonare nella
nostra testa dal mattino alla sera. Anche qui, negli Stati Uniti, siamo
Bouazizi noi tanto quanto chiunque altro in Tunisia. La distanza non ha più
alcun significato; il sangue tunisino non conosce confini. Quell'immagine di
Bouazizi nel letto d'ospedale a fissare Ben Alì, che è andato in visita nel suo
ultimo gesto disperato, riassume tutta la storia: stiamo assistendo a una
vera scena di transizione di potere sotto gli occhi di tutti. L’uomo potente, in
piedi, sa che sta perdendo tutto perché il popolo si è ribellato. Il popolo
incarnato in questo ragazzo mezzo morto ma incredibilmente vivo. Non ci
sono stati più dubbi per noi: Ben Alì sta cedendo!
La prima settimana di gennaio è stata particolarmente frustrante. La
nostra vita è qui, non possiamo andare via, ci sono il lavoro, la scuola dei
figli… ma quanto avremmo voluto essere con amici e parenti, con tutti i
nostri compatrioti, in Tunisia, per prendere parte a questo evento storico,
fare la nostra parte nella rivoluzione. Sì! Diciamo le cose come stanno,
questa non è più una protesta o una rivolta, questa è ora una vera
rivoluzione. Di qualsiasi norma: sociale, politica o storica.
90 È il più grande pay tv provider degli Stati Uniti..
88
Così sia! Facebook è qui e noi saremo dei cyber rivoluzionari! Detto
fatto. Il salotto è rapidamente trasformato in “camera operativa della
rivoluzione”: Al Jazeera trasmette da un angolo della stanza, i computer
portatili sono impostati sulla scrivania nell'angolo opposto sintonizzati su
Facebook e altri siti di informazione. Tutta la casa è in stato di emergenza,
non c’è tempo per la cucina o per la pulizia! I bambini dovranno
accontentarsi: panini, uova, cereali, qualsiasi cosa è abbastanza buona per il
pranzo o la cena!
Dai computer arrivano in diretta nel nostro salotto gli eventi. Vediamo il
dispiegarsi dell’orrore! Giovani che muoiono come nelle esecuzioni, gli
ospedali sono in estremo stato di caos e scene di violenza urbana degne dei
tempi più bui di Gaza o Beirut si vedono in ogni dove.
I commenti su Facebook indicano chiaramente che l'oppressione del
governo sta alimentando la resistenza e la determinazione. Il popolo della
Tunisia ha deciso che onorerà i loro martiri continuando e diffondendo il
movimento in tutto il Paese. Questo è il punto di non ritorno, qualsiasi cosa
accada non si tornerà più indietro.
Quale ruolo abbiamo noi, dal nostro salotto, in tutto questo?
Naturalmente dobbiamo spiegare alla gente intorno a noi, negli Stati Uniti,
gli eventi della Tunisia. La gente qui è libera e, una volta abbracciata una
causa, la porta avanti, con il proprio pensiero può influenzare la politica
negli Stati Uniti. Ma questo non è sufficiente, abbiamo bisogno di contribuire
sul campo alla nostra rivoluzione. Facebook è il nostro strumento di
battaglia e tramite il social network possiamo fare qualcosa. Moltiplicare i
contatti cui inviare notizie, permettere al nostro mondo di vedere la
rivoluzione tunisina, commentare, e poi ancora incoraggiare, spingere, fare
arrivare la voce ai giovani sul campo che noi siamo con loro in ogni minuto
della loro lotta. E con noi le persone che ci circondano.
Il sistema oppressivo di Ben Alì ha tentato ridicolmente, con la solita
propaganda attraverso i mezzi di supporto disponibili, di screditare i
manifestanti chiamandoli delinquenti e terroristi e ha provato a ricondurre il
movimento a presunte radici economiche. No. non si tratta di fame o di
89
lavoro, questa è una rivoluzione della dignità e della libertà … e siamo pronti
a morire per esse!
Ben Alì appare in TV due volte. Brutale, arrogante, minaccioso … per
chi? Solo per se stesso, talmente è disconnesso dalla realtà della gente e
dagli eventi. Il popolo non ha più paura di Ben Alì e del suo regime, ogni
tentativo è inutile, il processo è irreversibile! Dopo questi interventi, abbiamo
chiaro che il regime di che Ben Alì sta soffocando e probabilmente la fine si
sta avvicinando.
Incredibile vedere su Facebook ogni giorno sempre più tunisini
prendere coraggio e commentare liberamente. Certo, alcuni hanno esitato
più a lungo: il clima di terrore di Ben Alì ha lavorato duramente per più due
decenni per soffocare qualsiasi alternativa politica… e ci parlava di lotta al
fondamentalismo!
Noi iniziamo la nostra opera di divulgazione la seconda settimana di
gennaio. La pressione ormai è al massimo e non riusciamo a concentrarci in
nulla. Ci siamo accampati nella nostra war room e iniziamo a dare il nostro
piccolo contributo. Anche i bambini si interessano sempre più attivamente
interrogandoci sulle ultime notizie e chiedendoci aggiornamenti ogni qual
volta ci vedano gesticolare ai computer.
Tutte le città, i villaggi intorno, tutto il Paese ora ha una sola voce:
dégage!
Ben Alì è ancora una volta in TV, e questa volta trema! Ha paura
adesso! Il suo tono di riconciliazione e la sua lista di promesse meritano solo
una sola risposta: troppo tardi, fuori!
Al suo discorso disperato fa immediatamente seguito una grottesca
orchestrazione di festa popolare prontamente divulgata dai media nazionali.
Un altro classico inganno di un regime dispotico.
Ma Facebook reagisce all'intervento di Ben Alì e alla falsa celebrazione
che ne segue. Chiaramente un certo effetto su alcuni cittadini questo
intervento l’ha sortito, diffondendo confusione e dubbi. L’ansia che questi
90
dubbi possano moltiplicarsi c’è… Salutiamo così quella notte: “Non
sottovalutiamo la nostra intelligenza e la nostra determinazione. Ben Alì
stasera ha dato spettacolo di un altro momento grottesco della sua
presidenza. Un altro insulto al suo popolo. La sua dichiarazione del 7
novembre 1987 era molto più interessante ma ha condotto a 23 anni di
dittatura. Ha solo bisogno di uscire in silenzio!”
Nelle ore successive i dubbi si dipanano. Facebook inizia a raccogliere
nuove adesioni con nostra grande soddisfazione. Altre registrazioni arrivano
a dimostrare l'orchestrazione della rivolta popolare. Ulteriori registrazioni
testimoniano che gli omicidi continuavano appena dopo il discorso del
presidente. L'anima della rivoluzione è ancora più infiammata!
Venerdì 14 gennaio sembra concludere la settimana surrealista della
rivoluzione. I video illustrano il raduno epico di migliaia di persone
all’Avenue Habib Bourguiba. Migliaia di persone riunite in una sola voce:
dégage! Guardando la grandezza di questa scena le lacrime cominciano a
inondare i nostri occhi. Siamo in qualche modo gelosi di non essere lì. Il
saluto della sera è “la fine è così vicina!” e abbiamo pregato. Poi la notizia.
Ben Alì è andato! Il Paese può respirare la libertà!
I tunisini hanno fatto la storia! E, per lo stesso motivo, hanno dato
una grande lezione al mondo intero. Il mondo ha scoperto che una nazione
araba è in grado di cambiare il corso della storia in un modo mai sospettato
prima: proteste pacifiche, civili, proteste durante le quali le persone che
lottano contro la risposta oppressiva del regime proteggono anche i beni
pubblici! Le immagini dei giovani intenti a spazzare i luoghi pubblici o quelli
dei gruppi di autosorveglianza per la custodia dell’incolumità risuonano in
tutta l'opinione pubblica qui, negli Stati Uniti. Alcuni si chiedono se qui
sarebbe mai stata possibile una cosa del genere…
I tunisini hanno posto la questione sui mezzi di comunicazione negli
Stati Uniti e politica: il grande dilemma della politica U.S.A. è ora parte del
dibattito. È ovvio che la politica mediorientale sta per essere rinnovata per
ospitare la nuova realtà, che è il crescente libero mondo arabo.
91
Finora li si conosceva attraverso i propri dirigenti ed è probabilmente
la ragione per cui non hanno mai goduto di rispetto. Ma i tunisini adesso
stanno mostrando chi sono e stanno guadagnandosi il rispetto di tutti.
Stanno ispirando i loro compagni arabi, i quali iniziano a seguirli. La
rivoluzione non finisce con la caduta del dittatore tunisino, questo è solo un
inizio!
Sì, tunisini. Ci avete reso così orgogliosi di appartenere a voi! Tunisini,
avete dato finalmente senso alla nostra cittadinanza! Grazie!
92
Eppur si parte91
Alla luce di quanto detto sinora, può sembrare incredibile, e per molti
aspetti lo è, quanto sta avvenendo a Lampedusa in questi mesi. Eppure il
dato di fatto è che si sta assistendo a un vero e proprio esodo dalla Tunisia.
Centosessantasette chilometri d'acqua separano Lampedusa dal porto più
vicino della Tunisia, duecentocinque da quello più vicino della Sicilia. La
profondità massima che il mare raggiunge nella rotta praticata in questi
ultimi mesi dai trafficanti d’uomini è di settanta metri. Pochi. D’altronde i
fari degli avamposti d’Europa, se la notte è quieta e il cielo limpido, si
riescono a intravedere dalle coste tunisine. E aiutano a sognare l’Eldorado.
L’incipit di Partire, il romanzo di Tahar Ben Jelloun, è l’incipit che ha spinto
un abnorme numero di tunisini, dal 15 gennaio a oggi, a tentare la fortuna:
“A Tangeri, d'inverno, il Caffè Hafa si trasforma in un osservatorio dei sogni e
delle loro conseguenze”. Cambiano i nomi del luogo ma le conseguenze di
questi sogni diventano i peggiori incubi tanto per i personaggi del romanzo
quanto per i tunisini a Lampedusa. Almeno per quelli che a Lampedusa sono
sbarcati. Molte imbarcazioni sono affondate a pochi chilometri dalla Tunisia,
altre sono disperse nel tratto di mare che divide i porti di partenza da quello
d’approdo, altre ancora sono arrivate con meno passeggeri. Chi non ce l’ha
fatta è stato gettato in mare. Che ancora una volta è diventato il cimitero di
troppi sogni infranti. Il 14 gennaio si dimette il presidente-dittatore della
Tunisia. C’è la rivoluzione. Non sono più pattugliate le coste. Si può partire. I
trafficanti sono già pronti. I più fortunati pagano 800 euro, i meno 2.000. La
maggior parte 1.500. Alcuni hanno fatto la colletta, altri avevano già messo i
soldi da parte attendendo di concretizzare il proprio sogno, altri ancora li
hanno rubati nei giorni della confusione per la rivolta. Mi racconta un
ragazzo di Ben Arous (zona limitrofa a Tunisi): “io ero in carcere […] mi
hanno preso davanti casa, per droga. […] la pena era di vent’anni […] Siamo
scappati tutti quando hanno dato fuoco […] ho rubato alla Jaguar di Tunisi
91 Di Daria Settinieri. Lampedusa marzo/aprile 2011.
93
[…] con me c’erano altre persone, anche poliziotti […] quando siamo usciti i
poliziotti volevano una parte dei soldi altrimenti mi avrebbero arrestato […] è
normale questo. Prima rubano con noi poi vogliono una parte per non
lasciarci liberi […] a me sono rimasti 1.500 dinari che ho usato per
imbarcarmi a Sfax […]”.
Arrivano da tutte le parti della Tunisia, dalla capitale alle città più a sud.
Ognuno ha una storia diversa da raccontare. Molti sono fuggiti perché,
essendo stati scagnozzi di Ben Alì, temono adesso per la loro incolumità.
Altri sono scappati dalla fame, per la voglia di lavorare, dalla paura di una
nuova dittatura, per la non comprensione dell’entità di quanto avvenuto nei
giorni della rivoluzione, per i familiari uccisi dai cecchini incaricati da Ben
Alì e dalla moglie di mettere a ferro e fuoco la Tunisia. E ancora carcerati,
donne e uomini desiderosi di riscatto sociale, bambini diventati grandi
anzitempo. Tutti convinti che Lampedusa fosse la porta d'accesso per una
nuova vita in Europa. Pochi vogliono restare in Italia. Alcuni hanno parenti o
amici a Brescia o a Catania, ma la maggior parte vuole raggiungere la
Francia. La mattina del 30 marzo, camminando tra tende improvvisate con
sacchetti e cartoni, mi imbatto in un uomo avvolto nel bournouss (mantello
di lana) che mi sembra di conoscere. Anche lui ha la stessa sensazione. Gli
chiedo da dove provenga. Lì la rivelazione: eravamo stati vicini di casa per un
periodo, nell’estate 2003, a Mednine. I quattro baci, un abbraccio. Riesco ad
avere notizie dei miei amici che non ero riuscita a rintracciare. Nessuno di
loro è morto durante i giorni della rivoluzione. Sono commossa. Khaled (a un
certo punto riesco a ricordare anche il suo nome) mi dice di aver voluto
provare anche lui a giocare la carta dell’Europa. Ha un caro amico italiano,
di Brescia, che ha conosciuto ai tempi in cui lavorava in un albergo a Djerba.
Lo vuole raggiungere. Mi dice, però, che se avesse immaginato quel che lo
avrebbe atteso a Lampedusa, non sarebbe mai partito. “Per fortuna che sono
furbo e che sapevo quanto freddo c’era in mare e in Italia e mi sono portato il
mio bournouss”. Con altri due o tre ragazzi che hanno assisto alla scena
improvvisiamo, in piedi, mani al cielo, un preghiera di ringraziamento.
Terminata la preghiera, continuano le chiacchiere. Qualcuno dice che è
disposto a pagare per sposarsi: non sa che dal 2009 per contrarre
94
matrimonio in Italia bisogna avere il permesso di soggiorno. Tutti chiedono,
soprattutto dopo le dichiarazioni del presidente del consiglio in visita giorno
29, quale sarà la loro sorte. “Tunisie lé”, Tunisia no, è il motivo di diversi cori
improvvisati. Qualcuno minaccia di fare come Bouazizi, il giovane che il 17
dicembre si è dato fuoco dando inizio alle rivolte: “tornare in Tunisia o
morire è la stessa cosa, io mi do fuoco. Qua o sulla nave…benzina o gasolio,
io mi do fuoco, inizierà una nuova rivoluzione”.
L’ennesimo sbarco della mattina del 29 è ritardato, forse per attendere il
presidente del consiglio e dargli la possibilità di assistere alla scena. Una
carretta con un’ottantina di persone è bloccata a pochi metri dalla costa.
Stipati da ventiquattro ore uno addosso all’altro senza potersi muovere per
non cadere in acqua, tra i loro stessi escrementi, senza poter né mangiare né
bere, attendono le operazioni di sbarco che vengono eseguite con insolita
lentezza. La dignità e il dolore di alcuni uomini evidentemente vale meno di
uno scoop mediatico. Che, per fortuna, non avviene. A un certo punto,
l’imbarcazione viene condotta al porto prima dell’arrivo delle autorità. Altre
ottanta persone cercano uno spazio dove accamparsi, un po’ d’ombra sotto
una macchina o dentro lo scafo di una barca rovesciata. Bisogna
allontanarsi dalle postazioni delle forze dell’ordine. Un poliziotto dice a un
gruppo: “da qui vi dovete allontanare: io sono costretto a stare qua a
piantonare, voi vi potete allontanare, perché non posso resistere a questo
puzzo”. I tunisini invece sì. Loro possono resistere dormendo, mangiando,
vivendo accanto alle loro deiezioni. Senza poter lavarsi o cambiare le
mutande. Proprio loro che, durante le abluzioni, sono obbligati a lavarsi le
mani fino ai polsi dopo aver urinato, a lavarsi, dopo aver dormito, per
eliminare qualsiasi impurità.
Gli
abitanti
di
Lampedusa
sono
stanchi.
I
tunisini
chiedono
continuamente di poter fare una doccia a casa delle persone e alcuni ci
riescono, di poter caricare i telefonini nei bar e molti lo fanno, di andar alla
posta insieme per ritirare con MoneyGram i soldi che i parenti in Europa
possono inviare. Ad alcuni sono stati rubati i jeans stesi, in casa di qualcun
altro sono entrati senza permesso per utilizzare il bagno e mangiare.
Nessuno ha fatto denunzie, eppure il governatore della regione Sicilia,
95
durante il comizio di giorno 29, prima di passare la parola al presidente del
consiglio, afferma: “Le madri di Lampedusa hanno paura per loro stesse e
per le loro figlie, perché cinque o seimila uomini che girano per le strade
sicuramente non le rassicurano. Questo signore (indicando un uomo) è stato
aggredito l’altra sera a casa sua, gli hanno portato via i beni più preziosi,
minacciavano di fargli del male”. Gli fa eco il presidente: “sgombero e
liberazione dai migranti […]. Con il governo tunisino misure, diciamo così,
imprenditoriali che, ve ne dico una variopinta, cioè che stiamo comprando
dei pescherecci che così non possono più essere usati. Vorrà dire che
quando mi ritirerò dalla politica li prenderò io e metterò su un’industria per
il pesce fresco”. Una misura variopinta come soluzione alla tragedia di
migliaia di persone provenienti da una nazione delle cui emittenti televisive è
in parte socio.
I commenti che da questi brevi stralci si potrebbero ricavare sono
molteplici: da una parte si potrebbero osservare quali siano, in Tunisia, le
nuove reti che i trafficanti di uomini hanno adottato in questi mesi, quali i
nuovi percorsi migratori e perché siano nati, quali le storie di vita che
conducono i tunisini alla scelta di scappare. Dall’altra, si potrebbero
analizzare le strategie praticate dagli abitanti dell’isola, quali ambiguità
nascondano, quali discrasie vi siano tra le retoriche con cui si rappresentano
e quali le loro azioni, quali disagi abbiano avuto e quali guadagni
considerando l’afflusso di gente (tra cooperanti, forze dell’ordine, giornalisti)
arrivata in questi mesi. Da un altro lato ancora, quali siano le strategie del
terrore e della paura messe in atto dall’amministrazione pubblica e dalla
politica e quali le soluzioni, quali diritti vengano calpestati e quali giochi
politici internazionali si stiano muovendo mentre migliaia di uomini
attendono di sapere se potranno ricominciare a sognare o se il loro incubo
continuerà.
Qualche osservazione
Sin dai primi giorni della rivoluzione in Tunisia, Italia e Francia hanno
mantenuto un atteggiamento ambiguo. Anche i mass media, in più
occasioni, non hanno affrontato la questione come ci si sarebbe potuto
96
aspettare. I governi dei due Paesi certamente hanno cercato di rimandare il
più possibile una presa di posizione netta rispetto agli eventi nel tentativo,
talvolta goffo, di guadagnare tempo per comprendere quale sarebbe stata
l’evoluzione dei fatti. Una diplomazia apparentemente incomprensibile, ma
facilmente riconducibile ai coinvolgimenti che entrambi i Paesi hanno avuto
nelle faccende interne della Tunisia, rendendosi complici di un regime
dittatoriale. Michele Alliot Marie, già ministro degli affari esteri al momento
della rivoluzione tunisina, ha dichiarato di aver proposto al governo di Tunisi
il savoir faire francese per la repressione delle manifestazioni, che, tradotto,
non può non rimandare al concetto di foucoultiano di “sorveglianza” atta a
rendere i corpi docili utilizzando violenze strutturali più raffinate di quelle
becere utilizzate in Tunisia. La diplomazia italiana, invece, è rimasta come
sopita fino all’”emergenza sbarchi”, peraltro prevedibilissima, ed è poi
intervenuta quasi esclusivamente per affrontare, in toni spesso apocalittici,
temi legati all’immigrazione, eludendo così il problema delle responsabilità
politiche per quanto nel frattempo stava succedendo a sud di Lampedusa. Il
peso dei legami con l’ex dittatore, il silenzio sotto cui si sono fatte passare
tante aberrazioni e ancora gli interessi economici immediati certamente
hanno contribuito a determinare questa strategia.
Credo sia di estrema importanza quanto afferma Edgar Morin
analizzando la vera ragione per la quale l’Italia, la Francia e l’Europa in
generale, abbiano mancato l’appuntamento con “la primavera araba”.
Secondo il filosofo, infatti, la “Primavera democratica araba è avvenuta in un
periodo in cui le democrazie europee sono in devitalizzazione, in un momento
di rischio di regressione. L’Europa, avendo più o meno tardivamente lodato
la primavera degli arabi, si è trovata inadempiente, divisa. Il solo timore di
fallimento democratico paralizza invece di incoraggiare ad agire per evitare il
dissesto. L’azione di sostegno non può essere la continuazione della
colonizzazione economica, essa deve elaborare un piano Marshall di stile
nuovo, superare l'idea di sviluppo in una concessione simbiotica dove ogni
cultura araba conserverebbe le sue virtù e il meglio di se stessa e
integrerebbe il meglio dell'occidente, tra cui i diritti umani e i diritti delle
donne.” E concludendo su questo argomento Edgar Morin afferma che “La
97
paura dell'emigrazione, la paura di una marea islamista può essere superata
solo supportando pienamente l'avventura democratica.92”
D’altronde le dichiarazioni sancite nella conferenza di Barcellona del
1995, e ribadite in tutti gli incontri che ne sono seguiti, ancora non hanno
mai trovato applicazione alcuna93. Scrive Tahar Ben Jelloun, sollecitato da
Michele Capasso94, a proposito di “mediterraneo”: “Oggi in molti congressi si
parla tanto di Mediterraneo, ma questo è per certi versi un fatto
preoccupante: da una parte vediamo che la parola Mediterraneo con le sue
sfumature di passione e di impegno ha qualche cosa di magico; ma dall'altra
se ci si preoccupa molto per il Mediterraneo è perché è malato: malato
soprattutto della sua storia, delle sue complessità, delle sue differenze, delle
sue passioni mal digerite. Questo lago di pace è, in realtà, un'ironia, perché è
stato anche un lago di sangue: si ha 1'impressione che quando la guerra
civile è finita in Spagna sia iniziata in Grecia, quindi in Libano, poi in
Algeria. In questo secolo il Mediterraneo è diventato un vero e proprio
cimitero di tutti i valori per i quali combattono i popoli95”.
92 In le monde 25 aprile 2011.
93 È la conferenza che aveva visto partecipare quindici ministri degli Esteri degli allora Stati
membri dell’Ue e quelli di Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco,
Siria, Tunisia, Turchia e Autorità palestinese che aveva condotto alla dichiarazione finale di:
“istituire un partenariato globale euromediterraneo al fine di trasformare il Mediterraneo in
uno spazio comune di pace, di stabilità e di prosperità attraverso il rafforzamento del dialogo
politico”.
94 Presidente della Fondazione Laboratorio Mediterraneo.
95 In AA. VV. , 1997, Voci del Mediterraneo, atti del convegno internazionale, Genova 16-17
febbraio 1996, Edizioni Magma.
98
E ora?96
Ben Alì è rimasto isolato, impotente di fronte a questo popolo che non
chiede altro che vivere degnamente, vittima di una schizofrenia politica che
gli ha impedito di vedere come stessero realmente le cose, di sentire il
desiderio della sua gente, di capire quali fossero le sue esigenze.
Il suicidio di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre, e la repressione che ne
è seguita, hanno spinto i tunisini in piazza. Né i gas lacrimogeni, né l’acqua
calda, né le pallottole sono bastate a fermare i manifestanti giovani e meno
giovani che si sono riversati nello spazio pubblico per chiedere il loro diritto
alla dignità, ricordando a chi li ha governati per ventitre anni, che la Tunisia
non appartiene a lui né al suo clan.
Questo piccolo Paese con meno di undici milioni di abitanti privo di
risorse naturali e che ha scelto di investire su quelle umane sin dai primi
anni dell’indipendenza, generalizzando l'istruzione e dando alla donna il
posto che le spetta, è pronto ad andare oltre. Le nuove generazioni di
laureati, privi di opportunità in un'economia essenzialmente creatrice di
lavori scarsamente qualificati (agroalimentare, turismo, subfornitura), sono
state in prima linea nella sfida (con la notevole presenza delle donne) sia
manifestando in piazza, sia utilizzando internet e i social network per
comunicare tra di essi e con il mondo esterno. La rete è stata determinante
in termine di mobilitazione contro il regime, mentre la gioventù, considerata
da tutti come priva di qualsiasi coscienza politica, si è fatta carico della
responsabilità di condurre una rivoluzione vera con slogan chiari e obiettivi
da sogno lontani da ogni schema tradizionale proprio di partiti, sindacati o
altre organizzazioni.
Ma il successo della rivolta tunisina è dovuto anche alla singolarità di
un esercito tunisino formato nelle migliori scuole repubblicane, fedele alla
patria e al popolo in ogni momento, qualunque siano le sue scelte.
96 Di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri.
99
Non dobbiamo dimenticare che la rivoluzione del popolo tunisino non è
stata organizzata né prevista. È stata una miscela di spontaneità, di rabbia,
di determinazione e di coraggio a rovesciare il regime e a scacciare più di
vent’anni anni di dispotismo. È normale, dunque, che ci si risvegli il giorno
dopo stupiti di se stessi e di quel che è successo. Si ha apprensione per quel
che avverrà. È molto probabile che il terribile episodio dei cecchini dislocati
in tutto il Paese con il compito di uccidere e le bande armate che hanno fatto
di tutto per creare una situazione di terrore e di panico sull'intero territorio,
siano all’origine di una coesione ritrovata di un popolo, di una volontà di
invalidare lo stratagemma previsto per far fallire una rivoluzione storica.
Passato il momento delle incertezze, la Tunisia è tornata a lavorare e i
tunisini a sognare un futuro migliore, pur coscienti che non sarà tutto facile.
La necessità di ricominciare a costruire è presente nella coscienza della
maggior parte della popolazione; ricominciare partendo dallo slogan della
rivoluzione: Lavoro, Libertà, Dignità.
Non sarà facile. La Tunisia ha una lunga lista di sfide per gestire una
rivoluzione giovanile e una nascente democrazia: un'economia fragile, lo
spettro del partito tentacolare di Ben Alì, la questione delicata degli islamisti,
l’elezione di un'assemblea costituente.
Sono tutti problemi con cui bisogna fare i conti in un'atmosfera non
sempre costruttiva, in cui il numero dei partiti politici autorizzati cresce di
giorno in giorno e ognuno di questi soggetti nuovi pensa di più al proprio
percorso anziché alla costruzione. Il che fa dire a Jean Daniel, cofondatore
del settimanale francese Le nouvel Observateur, nonché attento analista della
situazione della Tunisia, in occasione di una sua visita a Tunisi: “Tutti quelli
che hanno studiato la storia delle rivoluzioni sanno che non sempre succede
la cosa peggiore, ma niente impedisce a essa di arrivare per la disgrazia di
tutti.” E continua: “È necessario che i rivoluzionari di oggi tornino più verso
personaggi come Lech Walesa e Nelson Mandela. Insomma a tutte le
rivoluzioni di velluto piuttosto che ai violenti scontri di terrore rivoluzionario
100
del 1793 in Francia e del 1921 in Russia. Evitate le convulsioni, la vendetta e
la partizione tra eredi, come è accaduto in tutto il mondo arabo.”
97
Parlando del periodo Ben Alì, Daniel afferma: “Mi sentivo infelice
vedendo giornalisti umiliati e un'élite che si lasciava addomesticare da un
despota la cui famiglia si è comportata in modo oppressivo in nome della
lotta contro l'islamismo. Le grandi voci sono mancate o sono state soffocate,
ma la gente che è scesa in strada ha ridato dignità a un’élite.”98. Parole dure,
che riflettono la preoccupazione di ogni osservatore attento e che ha a cuore
il successo di una transizione storica in una terra il cui popolo, come ogni
altro, merita di vivere liberamente e degnamente.
Scuotere un'intera nazione con una rivoluzione pacifica non è dato a
qualsiasi Paese, eppure la Tunisia l’ha fatto. La nuova Tunisia è solo
all'inizio: “La rivoluzione non è democrazia – ripete il primo ministro Beji
Caied Essbsi – questa è la prima porta, dobbiamo faticare per arrivarci”.
Chiaramente c'è il rischio di abuso e gli "incidenti di percorso" non sono da
escludere: con i suoi due milioni di membri, il partito di Ben Alì potrebbe
costituire un ostacolo sulla strada verso la democrazia, e lo stesso si può
dire dei partiti islamici. Ma siamo in un Paese arabo-musulmano pioniere del
diritto delle donne, e sappiamo dalla nostra esperienza che queste correnti
possono essere combattute solo da un movimento di idee. Nonostante la
crescita "quasi zero", è noto che il futuro democratico del Paese si gioca, in
gran parte, sulla sua capacità di rispondere alle esigenze di milioni di
persone che versano nella disperazione sociale. "Intanto la Tunisia ha ripreso
il lavoro e le nostre esportazioni sono aumentate del 5% durante il periodo
della rivoluzione", affermava il primo ministro incentivando la gente a
continuare il proprio impegno civile per la crescita del Paese99.
97 http://tempsreel.nouvelobs.com/actualite/opinion/20110115.OBS6287/nous-sommestous-des-tunisiens-l-appel-de-jean-daniel.html
98 Ibidem.
99 Conference de presse, Carthage 04 mars 2011. In realtà non si è ancora in possesso di dati
certi.
101
L’Egitto come la Tunisia?
Saranno queste le caratteristiche delle rivoluzioni di questo secolo? La
non violenza, la determinazione, la chiarezza, la spontaneità e l’assenza di
ogni organizzazione saranno gli ingredienti vincenti di questa nuova era di
libertà? L’era delle masse in piazza è iniziata a Tunisi prima di raggiungere
l’Egitto e prossimamente altre terre, dove, forse, i popoli riusciranno a
costruire un futuro diverso lontano dagli attuali referenti ideologici o
spirituali. Questo è l’annuncio partito da Tunisi. Ma sarebbe interessante
fare un parallelo tra la Tunisia e l’Egitto, che ha seguito l’esempio tunisino
entrando in pieno in una nuova era. Preme, innanzitutto, segnalare che, pur
sembrando apparentemente due situazioni molto simili, le differenze sono
notevoli e possono avere delle conseguenze non indifferenti sul futuro di
ciascuna nazione. Mentre la Tunisia ha scelto la via costituzionale dando il
potere provvisoriamente al presidente della camera dei deputati come
prevede l’articolo 57 della Costituzione, l’Egitto ha adottato una strategia
molto diversa scegliendo di attribuire il potere a una giunta militare
incaricata di assicurare la transizione democratica del potere. Entrambe le
scelte stanno avendo delle conseguenze notevoli: mentre in Tunisia si sono
formati, in tre mesi, tre governi provvisori e si sono create tre commissioni
ad hoc nel tentativo di dare delle risposte alla gente affamata di verità e
manipolata da politici che non sempre hanno cercato di misurare la portata
di alcuni fatti, dichiarazioni e gesti, e la stesura di una carta costituzionale è
rimandata al dopo-elezioni, in Egitto l’esercito ha cercato la via breve
affidando il compito di riscrivere la Costituzione a una comitato di specialisti
che ha portato a termine l’opera, e il testo proposto ha già ottenuto il
consenso popolare attraverso un referendum. E questo è, senza alcun
dubbio, un passo decisivo verso il nuovo regime democratico e pluralista
tanto voluto dagli egiziani. Altro punto focale è che, mentre la Tunisia ha
fatto la scelta di autorizzare il partito integralista vietato dagli anni Ottanta e
colpevole di atti terroristici e di violenze sulle persone, l’Egitto ha interdetto
la formazione di partiti aventi qualsiasi connotazione religiosa, chiudendo
così le porte alla formazione integralista storica e più famosa del mondo
arabo, i fratelli musulmani. E anche se le conseguenze di tale scelta non son
102
misurabili nell'immediato, è ovvio che il potere provvisorio in Egitto ha
sciolto un nodo essenziale per il futuro del Paese, mentre in Tunisia si
confida in un'ipotetica affermazione di una forza democratica interna al
partito integralista, capace di pesare sulle scelte future di una formazione
politica che, se salisse al potere con la stessa configurazione di oggi,
porterebbe sicuramente verso una dittatura religiosa con conseguenze
drammatiche non solo sulle popolazioni locali ma anche su tutti i Paesi
limitrofi e mediterranei.
E gli altri Paesi nordafricani?
Non si può ovviamente far a meno di accennare alla situazione di altri
Paesi arabi toccati dall’ondata rivoluzionaria. Anche qui ritorniamo ad
affidarci allo studioso Edgar Morin, il quale sostiene che “la rapida caduta
del dispotismo in Tunisia e in Egitto ha spinto le altre dittature a prevenire o
reprimere l'ondata di libertà che poteva attraversare le loro nazioni. Sono
state prese misure per soffocare i moti in Algeria, annunci di concessioni di
governo a fronte di una repressione omicida in Yemen e Siria, l'intervento
repressivo dell'Arabia Saudita in Bahrain. Allo stesso tempo l'ondata,
allontanandosi dal suo epicentro, ha potuto includere una componente
etnico-religiosa come nel Bahrain, pur conservando il suo carattere
prevalentemente libertario ovunque.”
In Algeria si può parlare di un popolo stanco di una situazione bellica
che ha vissuto più di dieci anni di lotta contro i gruppi fanatici religiosi;
situazione dalla quale sta uscendo poco a poco, ragion per cui pare stia
preferendo dare al proprio governo un'altra chance anziché entrare di nuovo
in una lotta il cui esito rimarrebbe incerto a causa di un esercito forte e
implicato nella gestione del Paese.
In Libia la situazione è più che mai delicata sia sul piano strettamente
militare che diplomatico e politico. “Il caso della Libia – scrive Edgar Morin100
100
In le monde 25 aprile 2011.
103
– costituisce un complesso di paradossi, di contraddizioni e d’incertezze. Il
primo paradosso è rappresentato non solo dal passaggio dall’estrema
cooperazione tra il presidente francese e il despota libico al conflitto
dichiarato ma anche quello dell’intervento di ex potenze coloniali per aiutare
una rivolta popolare.” Comunque sia, l’intervento militare in Libia continua a
dividere l’opinione pubblica nel mondo arabo: accanto a chi pensa che la
soluzione adottata dalle Nazioni Unite costituisca la risposta più adatta alla
violenza della repressione, vi è chi continua a pensare che l’obiettivo
dell’Occidente sia solo quello di proteggere per poi sfruttare le risorse
naturali enormi di questo Paese, e chi contesta il fatto che siano stati
adoperati due pesi e due misure di fronte alle repressioni violente nello
Yemen e in Siria, per citar soltanto questi due Paesi. Le incertezze sono
quindi grandi e il “carattere di salvataggio” di popolazioni inermi potrebbe
diventare catastrofico a meno che le iniziative diplomatiche messe in atto
proprio in questo momento vengano accolte da entrambi le parti.
Il Marocco, per finire, presenta notevoli differenze con altre nazioni
arabe. La prima fra tutte è che la monarchia assume un carattere sacro
poiché discendente diretta dal Profeta Mohamed ed è radicata nella storia
della nazione. D’altro canto, il suo sovrano ha realizzato delle riforme
democratiche e liberali volte a stemperare il peso della monarchia assoluta e
sta manifestando di nuovo la volontà di riformare ancora il sistema politico
dando più spazio e libertà alla gente e alle organizzazioni della società civile.
Sul piano socio culturale c’è da notare che in Marocco il carattere
multietnico e multiculturale della nazione è stato pienamente riconosciuto.
Rimane presente, invece, il problema della disuguaglianza estrema fra classi
sociali e della corruzione.
E non possiamo concludere questo capitolo dedicato alla geopolitica
senza citare ancora una volta Morin il quale afferma che “questa enorme
ondata democratica non deve nulla alle democrazie occidentali che, al
contrario, hanno dato sostegno a un dispotismo che hanno voluto
perpetuare. Ma deve tutto alle idee democratiche nate in Occidente. Nel
cogliere le idee riguardo il ‘diritto dei popoli’ nate nell'Europa che li
opprimeva, gli arabi colonizzati hanno operato la loro decolonizzazione
104
politica. Nel cogliere le idee di libertà, gli arabi hanno operato la loro
decolonizzazione mentale. Rimane la decolonizzazione economica... ancora
tutta da fare”101.
101
In le monde 25 aprile 2011.
105
Metà marzo 2011, considerazioni parte prima:
rompere con il passato, investire nella democrazia102
Ammetto che tentare un bilancio sia azzardato, ma la tentazione è
proprio grande nonostante la distanza dagli avvenimenti sia molto breve.
La prima considerazione importante riguarda la sicurezza, fattore
indispensabile per ricominciare a vivere e per rilanciare l’attività economica.
In questo campo bisogna riconoscere che la Tunisia ha raggiunto risultati
ammirevoli in poco tempo grazie agli sforzi dei servizi di sicurezza interna e
la coordinazione perfetta tra esercito e polizia, i quali hanno saputo
coinvolgere positivamente la popolazione chiamata a collaborare.
Questo clima ha ridato fiducia alla gente e agli operatori turistici, che
si stanno interessando di nuovo al prodotto “Tunisia”.
Sul piano economico, la situazione in Libia sta avendo effetti negativi
su un quadro già preoccupante, ma tuttavia normale per un Paese che sta
uscendo da più di cinque mesi di tensione continua. In ogni caso, gli esperti
concordano nell’affermare che il governo stia lavorando in modo efficace sul
dossier della disoccupazione e si prevede che risultati tangibili si vedranno in
tempi ragionevoli. Sarà invece più complicato, per quanto riguarda il deficit
di gettito fiscale dello stato, il declino dell’attività delle imprese che influisce
sulla tesoreria, nonché sul problema della povertà. E qui gli economisti
suggeriscono percorsi che passano attraverso misure fiscali e sociali per le
aziende, esenzioni e carichi di differimento o il rimborso dell'imposta crediti
alle imprese. A livello macroeconomico, la rinegoziazione del debito, o
addirittura la cancellazione di una sua parte, è diventata una richiesta
popolare, senza perdere di vista l'appello ai donatori per sostenere l'economia
tunisina. Allo stesso tempo, uno sforzo immediato va dedicato a ristabilire
un equilibrio regionale, attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro,
102 Di Abderrazek Dridi.
106
investimenti
sull’infrastruttura
di
base,
sviluppando
i
governatorati
dell’hinterland e aumentando la loro attrattiva al fine di promuovere gli
investimenti futuri.
Politicamente, la libertà di espressione e di organizzazione è il dato
fondamentale di questo post-rivoluzione anche se la piazza chiede di più, in
particolare la revoca di alcuni responsabili dell’amministrazione pubblica
colpevoli di essere stati complici del regime che altri considerano, invece,
semplici esecutori della politica di Ben Alì.
In ogni caso, la rivendicazione principale rimane quella di rompere con
il passato in una maniera radicale per costruire una repubblica nuova. E per
realizzare questa rottura è importante che le tre commissioni riescano a
lavorare e a produrre risultati in tempi brevi. Ed è fondamentale che anche il
governo dia segnali positivi nell'attuazione delle riforme e nella preparazione
del futuro di questa nuova repubblica e faccia più sforzi in materia di
comunicazione perché la gente ha sete di sapere e il silenzio dall'alto può
risultare poco rassicurante.
Il governo provvisorio e le tre commissioni non devono perdere di vista
l’obiettivo importante di ridare fiducia alla politica e credibilità al governo,
condizione necessaria perché risulti efficace la fase di elezione della
costituente, tornata elettorale che deve assicurare un reale pluralismo nelle
votazioni promuovendo le candidature individuali, al fine di chiudere la porta
alle liste che favorirebbero i vecchi partiti più presenti sul territorio. Ed ecco
che produrre una legge elettorale permettendo una rappresentazione effettiva
diventa un compito rivoluzionario di primo ordine.
Infine, la classe politica, che sta dando di sé un'immagine di
immaturità frutto di tanti anni di frustrazione, non deve mai perdere di vista
il fatto che la rivoluzione tunisina non l’hanno condotta i partiti, né i
sindacati, né alcuna organizzazione, né tantomeno gli intellettuali. Anzi, tutti
debbono essere riconoscenti ai giovani scesi nelle piazze che hanno pagato
con la propria vita la dignità di popolo, e contribuire a questa fase
costruttiva pensando al bene generale e non a quello individualista di corto
respiro. Soprattutto, siamo entrati in una fase dove dobbiamo investire in
107
democrazia sapendo che abbiamo pagato un prezzo di sangue, e la morte di
ognuno di questi ragazzi è stata una morte di troppo, che ci sarà un prezzo
economico da pagare molto alto cui nessuno potrà sfuggire.
Concludo con questo messaggio inviatomi da un amico tunisino che
vive da più di trentacinque anni in Francia, in omaggio a tutti i tunisini che
vivono all’estero e che hanno vissuto il periodo rivoluzionario nell’ansia e
nell’orgoglio:
“Quasi 2 mesi sono passati dal giorno benedetto della fuga del dittatoreladro e l'emozione rimane la stessa. Se devo descrivere il sentimento mio, che
in definitiva è quello di tanti altri, direi che è la sensazione di una forte e
intensa comunione con la gente e con un Paese; mia gente! E mio Paese!
Sì. Rivendico questa comunione, e la grido forte, tanto l’attesa è stata
lunga e disperata per ritrovare finalmente la mia identità tunisina, che avevo
perso un certo 24 dicembre 1974 imbarcandomi sulla nave che lasciò La
Goulette verso la Francia; avevo 18 anni quando sono partito alla ricerca di
un mondo di libertà e di progresso. Sì, io sono tunisino e ora sono finalmente
orgoglioso di esserlo. Questa straordinaria rivoluzione innescata dai nostri
giovani valorosi e magnifici, seguendo il sacrificio di Mohamed Bouazizi, ha
aperto i cuori e le menti per costruire, finalmente, un destino comune di una
bella ed esemplare Tunisia di tolleranza, libertà e progresso. Tutte queste
parole che mi sembravano senza significato perché la nostra Tunisia ne era
orfana. Grazie per avermi dato l'opportunità di esprimere i miei sentimenti di
gratitudine a tutti coloro che hanno perso la vita: finalmente possiamo
essere orgogliosi di appartenere a questo bellissimo Paese e alla sua bella
gente. Hichem Azaiez”
108
Ultimi giorni di aprile 2011, considerazioni parte seconda:
Sviluppi prevedibili?103
Gli sviluppi delle ultime settimane fanno temere, anche ai più
ottimisti, tempi duri per la democrazia nascente. Che lo scioglimento del
partito RCD avvenisse senza conseguenze dirette sugli equilibri politici non
era immaginabile. La Tunisia ha vissuto sin dall’indipendenza nell’ombra di
un partito unico la cui presenza effettiva veniva spesso e volentieri confusa
con quella dello stato. Sciolto questo con una forzatura giuridica presentata
come una traduzione della volontà popolare, ci si è trovati in presenza di un
partito, quale Ennadha, molto forte, radicato sul territorio e, come non
bastasse, in grado di disporre di risorse finanziarie non indifferenti grazie ad
aiuti esteri provenienti soprattutto da Paesi islamici interessati a una presa
di potere da parte di un partito integralista in questa parte del mondo, anche
per “vendicare” il fallimento dell’esperienza algerina. Ed ecco che partiti di
sinistra che hanno sostenuto Ennadha ai tempi di Ben Alì (PDP e PCOT) o che
si sono alleati con lui in occasione dei sit-in post rivoluzione (PCOT e il
Mouvement des Nationalistes Démocrates, Al-Watad), per citare le circostanze
più conosciute, si sentono minacciati da un super-partito che non esita a
utilizzare le moschee per far propaganda politica o ad aiutare i meno
abbienti donando ingenti somme di denaro per mere ragioni clientelari; il che
si traduce in una vera e propria compravendita di appartenenza politica e,
quindi, di voti. È proprio di questi ultimi giorni il chiarimento di Nejib
Chebbi:
durante
l’intervento
davanti
all'associazione
dei
giovani
imprenditori, il leader del Parti Démocrate Progressiste, partito di sinistra
laica ma alleato di Ennadha nella lotta contro Ben Alì, ha messo in guardia
contro i pericoli di una strumentalizzazione delle moschee al servizio di
103
Di Abderrazek Dridi e Daria Settinieri.
109
disegni politici mirati “a esasperare i sentimenti religiosi” e “a favorire una
nuova forma di clientelismo politico in ambienti sociali vulnerabili”104.
“Siamo tutti i musulmani”, afferma ancora il leader, “e la religione
dovrebbe stare fuori dalla sfera politica”, alludendo chiaramente allo
sfruttamento, nel dibattito politico, della religione da parte dei sostenitori di
Ennadha. “In questo periodo di transizione, Ennadha cerca di prendere il
controllo dello stato, attraverso l'esasperazione del sentimento religioso e la
strumentalizzazione delle moschee”.
In ogni caso, le posizioni si vanno delineando man mano che cresce la
coscienza dell’esistenza del pericolo di una dittatura religiosa simile a quella
avvenuta in Iran dopo la rivoluzione del 1979, e si sta delineando un accordo
su come contrastare questo rischio. Le forze di sinistra, i centristi e i laici in
genere, infatti, propongono a tutti i partiti politici, alle associazioni e altre
organizzazioni della società civile, di trovare un accordo e di firmare quello
che viene chiamato “il patto repubblicano”, una piattaforma in cui vengano
annunciati i principi di base di una convivenza politica pacifica e costruttiva.
Questa viene considerata come una scelta ideale per evitare possibili errori e
garantire
la
realizzazione
delle
aspirazioni
del
popolo
tunisino
alla
modernità, alla democrazia, alla libertà e al pluralismo.
Il problema consiste nel fatto che l'adesione al principio della
proclamazione di una carta o di un patto repubblicano non ottiene
l’unanimità sopratutto per quanto riguarda il carattere che dovrebbe
assumere il documento: questo patto dovrebbe avere carattere cogente e
quindi una valenza giuridica? O invece dovrebbe limitarsi a una dimensione
morale ed etica?
La
prima
ipotesi
viene
difesa
dalla
maggioranza
dei
partiti
rappresentati nell'alta istanza per il raggiungimento degli obiettivi della
rivoluzione, la riforma politica e la transizione democratica e anche da coloro
104
Tutte le dichiarazioni di questo paragrafo, se non esplicitato diversamente, hanno come
fonte l' agenzia TAP (Tunis Afrique Presse) in data 25 aprile 2011.
110
che non sono rappresentati. Il primo segretario del movimento Ettajdid,
Ahmed Brahim, sostiene che la Tunisia abbia bisogno, nella fase attuale, di
un patto civile, repubblicano e democratico, che rafforzi l'esercizio della
democrazia, salvaguardi la componente modernista del popolo tunisino e
difenda il processo di transizione democratica. Questo patto, ha detto,
consentirebbe inoltre di creare una sana concorrenza politica tra i partiti,
garantendo il diritto alla differenza e il principio dell'alternanza pacifica al
potere. Per lui la “dichiarazione di principi” deve avere un carattere giuridico
che impegni tutti i partiti.
Questa opinione è condivisa dal rappresentante del Mouvement des
patriotes démocrates, Chokri Belaid, per il quale il “patto repubblicano di
base” deve affermare l’identità nazionale, assicurare la supremazia dei
principî della repubblica, proteggere il carattere modernista e civile della
società, garantire la separazione tra sfera religiosa e politica, la neutralità
delle moschee e il pluralismo.
Il movimento Baâth, nazionalista unionista, sostiene di essere stato tra
i primi partiti a proporre l'idea del patto repubblicano, ma di averlo definito
“la dichiarazione della rivoluzione tunisina”. Il segretario generale del
movimento, Othman Belhaj, ha sostenuto che questo patto deve avere una
dimensione
giuridica
vincolante,
che
dovrebbe
essere
approvato
dall'assemblea nazionale costituente nella prima riunione e incluso nella
Costituzione.
L’Union Générales des Travailleurs Tunisien (UGTT) difende l’idea di un
patto repubblicano il cui contenuto venga approvato da tutte le sensibilità
politiche e poi inserito nella nuova Costituzione.
Per Abdelmajid Charfi, noto studioso dell’islam, la rivoluzione tunisina
contro la dittatura e l'ambizione del popolo a un futuro migliore, richiedono
la proclamazione di una “dichiarazione tunisina di principî cittadini” che
definisca i fondamenti della cittadinanza e che impegni tutte le parti
politiche.
111
Sulla linea opposta, il movimento Ennadha è il primo fra i partiti
contrari al carattere vincolante del patto repubblicano e sostiene che
l'impegno morale sia sufficiente per rispondere alle preoccupazioni di alcuni
partiti. Noureddine Behiri, membro fondatore del movimento, ha indicato
che il patto voluto dal suo partito deve essere “morale impegnando solo i
firmatari e nessun altro […] e non deve imporre la volontà di una minoranza
a scapito di altre sensibilità politiche, strutture della società civile e
persone”.
“In linea di principio, e vista l'oppressione di cui è stato vittima sia
popolo tunisino sia il nostro movimento per anni, Ennadha si rifiuta di
parlare a nome dei partiti, associazioni e organizzazioni non rappresentate
nel comitato dell'alta istanza per il raggiungimento degli obiettivi della
rivoluzione o di quello del popolo tunisino che esprimerà la propria volontà
nelle elezioni di luglio”, ha detto il responsabile alla TAP, agenzia di stampa
ufficiale, spiegando che il suo movimento non si oppone all’elaborazione, in
seno alla commissione dell'alta istanza, di un patto repubblicano su una
base conciliante, che renda ai tunisini la fiducia persa e porti il Paese “a
buon porto”.
Il Congrès pour la république (CPR) si oppone anch’esso alla natura
giuridica vincolante del patto, motivando questa posizione con la mancata
legittimità costituzionale del comitato dell'alta istanza. “Le linee guida del
patto, che definirà il Comitato, impegnano solo i firmatari”, ha avvertito
Samir Ben Amor, membro del partito. “Un organo consultivo (l'alta istanza)
non può avere il diritto di vincolare il lavoro di un'istanza eletta (assemblea
costituente) con un documento firmato da partiti che non rappresentano
tutte le sensibilità politiche del Paese e non riflette le aspettative della gente”,
ha ancora sottolineato.
Da parte sua, Noura Borsali (indipendente) insiste sul problema
giuridico che genererebbe il carattere obbligatorio e vincolante del patto
repubblicano proposto prima dell'elezione dell’assemblea costituente e
dichiara che “l'unica via d’uscita sarebbe l'organizzazione di un referendum
sul Patto prima delle elezioni il 24 luglio”.
112
Molti analisti attribuiscono le divergenze tra le parti sul carattere
obbligatorio e vincolante del patto a differenze ideologiche e a obiettivi politici
dichiarati, e non, dai protagonisti della scena politica tunisina. Si fa notare
che simili divergenze, che intervengono in una fase in cui il peso elettorale di
ciascun gruppo non è ancora chiaro, vengono utilizzate solo come manovra
politica per influenzare una parte dell'opinione pubblica, tra cui le parti non
rappresentate al comitato dell'alta istanza per il raggiungimento degli
obiettivi della rivoluzione.
A tre mesi dalle prime elezioni post-rivoluzionarie, siamo in una
situazione più che mai confusa per quando riguarda le intenzioni delle parti
in campo. Certamente, però, il rischio di una deriva dittatoriale è ancora
presente. Si riuscirà a mantenere la lucidità e ad ascoltare i consigli di due
illustri personaggi, Abu Al Hassen Bani Sadr, già primo ministro della
repubblica iraniana dopo la rivoluzione, in esilio dopo la presa di potere degli
ayatollah, e Chirine Abadi, avvocato e premio nobel, anch’essa vittima della
repressione del potere in Iran, oppure ci si lascerà sedurre dalla forza
economica di chi possiede più potere contrattuale?
113
Suggerimenti per un approfondimento
Suggerimenti per un approfondimento
Interessanti riflessioni sono state fatte sugli avvenimenti di questi mesi da
politologi, economisti e sociologi. Oltre che nei testi citati nel corso del libro, chi
volesse potrebbe trovare interessanti spunti di riflessione sui numeri 2596 (10/16
ottobre 2010) e 2612 (30 gennaio/5 febbraio 2011) di Jeune Afrique; sul numero
3218 (20/26 gennaio 2011) di “Paris Macht”; sul numero 2412 (27 gennaio/ 2
febbraio 2011) di “Le nuovel observateur”; sui numeri 3108 (26 gennaio/1febbraio
2001) e 3113 (2 marzo/ 8 marzo 2011) dell’ “Express International”. È interessante
consultare anche Ben Alì le ripou di Béchir Turk. Quest’ultimo testo, ancora inedito,
è girato clandestinamente prima della caduta di Ben Ali.
Cruciali per comprendere alcuni aspetti economici della Tunisia, oltre ai
riferimenti dati nel corso del testo, sono i siti:
www.webmamagercenter.com
www.investirentunisie.com
www.businessnews.com.
114
Abderrazek Dridi (Kairouan1957) vive a Tunisi dove è interprete, consigliere della
Federazione Tunisina di Solidarietà Sociale, direttore del settimanale culturale bilingue
(arabo francese) El Akd. Membro attivo dell’opposizione studentesca al regime post
coloniale, nel 1978 viene arrestato e privato del passaporto. Ottenuto di nuovo il
passaporto nel 1980, si trasferisce in Francia dove completa i suoi studi in sociologia e poi
in Italia, a Reggio Calabria, dove studia sociologia della comunicazione fino al 1988,
quando inizia a lavorare al consolato tunisino di Palermo come responsabile degli affari
sociali e culturali. Nel 1993 fa ritorno a Tunisi.
Daria Settineri è dottoranda in antropologia della contemporaneità all’Università Milano
Bicocca. Ha vissuto alcuni anni in Tunisia dove si è occupata di riti matrimoniali in
contesti di emigrazione (in Sellerio 2006 e AAM - Archivio Antropologico Mediterraneo 2007/08) e di migrazioni dalla Sicilia al nord Africa contribuendo al progetto Funduq
finanziato dalla Fondazione Anna Lindh. Attualmente si occupa delle reti di immigrati
dall’Africa sub sahariana a Ballarò (Palermo) .