Seconda Navigazione

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Seconda Navigazione
Seconda navigazione
In un passo del Fedone (XLVII, d) Socrate parla, con un’immagine metaforica, della sua “seconda
navigazione”: la nuova prospettiva che lo ha portato a scoprire la vera essenza delle cose. Il termine
“seconda navigazione” è desunto dal linguaggio marinaresco, e indica (almeno per la maggioranza
degli interpreti) le operazioni che s’intraprendono quando cadono i venti e la nave resta ferma: in
tali casi, per uscire dalla situazione di stallo prodotta dalla bonaccia, si deve metter mano ai remi.
La “prima navigazione”, condotta con le vele al vento, corrisponde al tragitto fatto sulla scia
dei naturalisti, che lascia appunto in situazione di stallo. La “seconda navigazione”, ben più faticosa
e impegnativa, porta al trascendimento della sfera sensibile ed alla conquista del soprasensibile.
È un passo decisivo nella storia del pensiero occidentale: esso pone al centro della riflessione
filosofica una realtà sovra-sensibile, consegnando quella sensibile alla precaria sfera dell’opinione,
e soprattutto al continuo annientamento prodotto dal tempo. Un tema essenziale della filosofia, in
Platone e dopo di lui, riguarda infatti la generazione e la corruzione delle cose terrene, ed il loro
esistere senza necessità (la loro contingenza): ciò che non è sempre, non è neanche necessario.
Platone dice dunque, tramite Socrate, di aver seguito dapprima le tesi dei “naturalisti”. Ma le
indagini sviluppate da questi filosofi rendono impossibile approdare ad una realtà immutabile,
omogenea (e quindi accessibile) al nostro pensiero. Vita e ragione, al contrario, sembrano dipendere
qui da elementi e processi fisici mutevoli, come il gioco del caldo e del freddo, i moti di contrazione
ed espansione dell’aria, la circolazione del sangue o l’assetto del cervello. Ma ciò induce sfiducia
nella ragione, e porta appunto a quella posizione di stallo da cui non si riesce più a progredire.
Tra i filosofi “naturalisti”, almeno uno sembrava indicare, è vero, una qualche via d’uscita
dall’impasse: Anassagora, con la sua dottrina del Noûs, la mente che ordina e regge tutte le cose.
Ma Anassagora non ha poi dato sbocchi adeguati alla sua intuizione: una mente divina che dà
armonia ed equilibrio al mondo deve avere una relazione essenziale con il Bene, con l’eterno ordine
sovrasensibile. Continuando però ad assegnare agli elementi fisici un ruolo di causa determinante (e
non già “ausiliare”), Anassagora ha perso di vista il Bene stesso, cioè la vera causa.
Per chiarire questo pensiero, Platone fa sviluppare a Socrate un ragionamento poi divenuto
celebre: la causa per cui Socrate è entrato in carcere e vi è rimasto, non può ridursi ad un concorso
di elementi fisici (come le sue membra, le sue ossa, i suoi nervi etc.). L’essenziale è la scelta da lui
fatta, in base all’intelligenza del giusto e del meglio. Certo, se non avesse avuto un corpo fisico,
Socrate non avrebbe potuto fare ciò che ha scelto di fare; ma egli non ha agito a causa dei propri
organi corporei, ma solo mediante essi, rispondendo ad una causa superiore1.
Il mondo conosciuto attraverso le sensazioni va dunque trasceso, guardando nella direzione
indicata dal “lógos”: solo tramite quest’ultimo si può giungere a cogliere la verità delle cose. Tale
verità sta nelle eterne forme intelligibili che Platone chiama “Idee”: di esse, le cose sensibili non
rappresentano che un’imitazione, o un riflesso secondario. Per capire le cose belle, non possiamo ad
es. riferirci agli elementi fisici da cui sono costituite (il materiale di cui son fatte, il colore, la figura
fisica etc.): dobbiamo invece cogliere la forma sovrasensibile che raccoglie tali elementi in
un’unità. Il senso ultimo di ciò che appare bello è l’Idea del bello, ossia la Bellezza in sé.
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Resta il problema di chiarire la relazione tra i due livelli: di spiegare come una realtà intelligibile ne possa mettere in
moto una fisica. Anche all’Intelligibile va intanto attribuita potenza produttiva: la mente muove il corpo. “Decidere”
non è dunque solo scorgere, esser certi che qualcosa accadrà, ma attivare causalmente tale accadere. Eppure Socrate
aveva in qualche modo indicato una diversa prospettiva – anche se, insieme, aveva contribuito a nasconderla.
In questa fase del suo pensiero, Platone non fa ancora i conti col padre, con Parmenide, che
pure è stato il primo a indicare esplicitamente il senso dell’eternità, cioè di quel non poter essere
altro da ciò che si è (e quindi, anzitutto, del non poter essere un niente) che nel Fedone viene
riferito all’anima – e all’Idea.
Il passo in avanti costituito dalla “seconda navigazione”, nei confronti di quei pensatori
(indicati poi come “fisici”) che non spingevano a fondo la riflessione ontologica, mantenendo
l’accento sugli aspetti visibili del mondo, avvia anche un’interpretazione riduttiva del loro pensiero:
separando l’eterno dal mondo sensibile, si sminuisce l’importanza delle cose presenti nell’apparire
immediato della terra, in cui tali pensatori coglievano pur sempre l’essere.
Platone proporrà un primo confronto con il pensiero di Parmenide nel dialogo omonimo, in
cui il filosofo eleate metterà in difficoltà il giovane Socrate, osservando che tutte le cose materiali, e
non soltanto quelle comunemente considerate “positive” e “nobili”, devono avere (per il loro stesso
essere enti) un aspetto eterno – e dunque una qualche corrispondenza nel mondo ideale2.
Tale confronto culminerà infine col “parricidio” compiuto nel Sofista, cioè con la definitiva
conquista della determinatezza dell’ente, attraverso la positività significante della differenza (cioè
di quel non essere che è – e che va quindi distinto dal nulla).
Un ulteriore passo, compiuto da Aristotele, ricondurrà poi la determinatezza dell’ente alla
sua individualità (è il concetto di “sostanza”). Ma ormai l’ente così determinato e individuato è
l’ente che può anche non essere: “sostanze” sono gli enti eterni e necessari, che (come per Platone)
stanno al di là del mondo “fisico”, e “sostanze” sono gli enti materiali, destinati alla corruzione, nei
quali si realizza una precaria unione di “materia” e “forma”.
Tutti i grandi “passi avanti” dell’ontologia – greca, e più tardi europea – da Parmenide in
poi, sono anche passi che si allontanano gradualmente dal Sentiero del Giorno.
L’ente è il determinato, e si determina appunto come identico a sé (e diverso da ogni altro
ente): ogni ente è appunto proprio quell’ente che esso è. Questi gli approdi concettuali di Platone
prima e di Aristotele poi. Ma, allo stesso tempo, l’ente viene progressivamente ed irrevocabilmente
separato dal senso profondo del suo tì estin, della sua quidditas, della sua concreta determinatezza.
Quest’albero verde è, per Platone, una manifestazione di determinazioni eterne: “albero” e
“verde” sono significati necessariamente ed eternamente identici a sé, che respingono quindi da sé
l’assoluto non-significare del nulla. Ma che cosa ne è del “questo”? che ne è della concreta, attuale
determinatezza di quest’albero [verde] – di questa realtà materiale che, proprio lei, costituisce la
piena identità, l’effettivo significare di quest’ente? Per Platone ed Aristotele quest’albero verde
non è abbastanza “ente” da escludere il suo essere-nulla (e non è abbastanza “albero verde” da
escludere il suo essere-giallo, il suo essere-secco, il suo ridursi a un mucchio di legna o di cenere).
Si vuol dire, qui, che il vero tì estin di un ente non può consistere in un’essenza-altra che se
ne stia, eterna, separata dall’ente di cui è predicata: l’essenza di un ente è la sua determinatezza
concreta. Quest’ultima è inseparabile dalla proprietà di essere identico a sé e diverso da ogni altro
ente, dalla sua proprietà di essere così com’è e di apparire così come appare (e, prima di tutto, dal
suo non potersi identificare col nulla). L’essenza di un ente non è altro dall’ente: è l’ente stesso.
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Si profila così il grande tema, poi sviluppato tra gli altri da Sant’Agostino, della non-sostanzialità del male: ciò che noi
chiamiamo “negativo” non sarebbe tale per il suo essere un ente, ma per il suo mancare di quelle ulteriori proprietà,
ossia di quelle qualità positive, che lo renderebbero completo (= conforme alla propria essenza).
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