CARATTERISTICHE FARMACOLOGICHE E ATTIVITA` CLINICA

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CARATTERISTICHE FARMACOLOGICHE E ATTIVITA` CLINICA
Caratteristiche farmacologiche e
attività clinica dell’anticorpo monoclonale
anti-CD20 umanizzato rituximab
Riccardo Varaldo, Marco Gobbi
(Ann Ital Med Int 2003; 18: 182-187)
Nonostante siano trascorsi 50 anni dalla prima dimostrazione che gli anticorpi possono colpire le cellule tumorali1 e più di 25 anni dalla messa a punto, ad opera di
Kohler e Milstein della tecnica di produzione di anticorpi monoclonali2, solo in anni recenti l’immunoterapia
passiva è diventata parte integrante delle nuove strategie
terapeutiche adottate in campo emato-oncologico.
Il salto di qualità è stato reso possibile, in primo luogo,
da una migliore caratterizzazione immunologica delle
neoplasie ematologiche (in particolare linfoidi), con l’identificazione di diversi potenziali bersagli di trattamento; in
secondo luogo, un importante apporto è stato dato dall’introduzione di anticorpi chimerici/umanizzati: i primi anticorpi monoclonali, infatti, erano di origine murina, quindi proteine xenogeniche, altamente immunogene, capaci
di determinare, nel ricevente, la comparsa di anticorpi
antimurini, in grado di alterare la farmacocinetica dell’anticorpo monoclonale (rapida clearance) e di impedire, allo stesso tempo, la possibilità di ritrattare i pazienti.
Il rituximab è stato il primo anticorpo monoclonale approvato dalla Food and Drug Administration per il trattamento dei linfomi non Hodgkin (LNH). Questa molecola è una IgG1/k di origine murina nella porzione variabile
e umana nelle regioni costanti della catena leggera e di
quella pesante3. L’anticorpo è diretto contro la molecola
CD20, una fosfoproteina non glicosilata di circa 35 kDa
di peso molecolare, espressa sulla superficie cellulare di
oltre il 95% dei LNH a cellule B, sulle cellule pre-B ed i
linfociti B maturi normali, ma non sulle cellule staminali emopoietiche, sulle cellule pro-B, sulle plasmacellule o
su altri tessuti normali4,5. L’esatta funzione del CD20 rimane ancora sconosciuta: vi sono evidenze che sia coinvolto nella regolazione del ciclo cellulare e nell’attivazione
delle cellule B, attraverso il controllo del flusso di ioni calcio6.
La molecola CD20 rappresenta un target ideale per
l’immunoterapia oltre che per il particolare pattern di
espressione sulle cellule B anche perché non viene rilasciato dalla membrana cellulare e non viene modulato
(internalizzato) dopo interazione con l’anticorpo.
Meccanismo d’azione del rituximab
Studi in vitro hanno consentito di evidenziare almeno
tre possibili meccanismi d’azione del rituximab7-9:
1) citotossicità mediata dall’attivazione del complemento (CDC), attraverso il legame con la frazione C1q;
2) citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC) mediata dai recettori Fc espressi sulla superficie di granulociti, macrofagi, cellule “natural killer”;
3) induzione di apoptosi.
Al momento non è ancora stato evidenziato quale sia,
in vivo, il meccanismo dominante; così come non si hanno ancora dati precisi sui meccanismi di resistenza all’azione dell’anticorpo monoclonale. Alcuni recenti studi hanno sottolineato l’importanza dei livelli di espressione del
CD2010, mentre altri hanno messo in luce il ruolo dei polimorfismi nei recettori Fc, quale possibile causa della variabilità della risposta ADCC in differenti pazienti. Infine,
alcuni esperimenti condotti su linee di LNH follicolare,
hanno evidenziato il possibile ruolo di inibitori del complemento quali il CD55 ed il CD59, espressi sulla superficie cellulare, nell’eventuale blocco della CDC11.
Tossicità
Il rituximab è un farmaco complessivamente ben tollerato in particolar modo per quanto concerne l’incidenza
degli eventi avversi ematologici e delle infezioni opportunistiche. Sebbene l’80% dei pazienti manifesti eventi avversi correlati al trattamento (febbre, tremori, orticaria,
mialgie), questi sono, in oltre il 90% dei casi, classificati tra il grado 1 e 2 della scala World Health Organization;
tali eventi, inoltre, si manifestano nel corso delle prime ore
Clinica Ematologica (Direttore: Prof. Marco Gobbi), Dipartimento
di Medicina Interna e Specialità Mediche, Università degli Studi di
Genova
© 2003 CEPI Srl
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Riccardo Varaldo - Marco Gobbi
• l’elevata percentuale di risposte molecolari ottenute con
rituximab in pazienti con low-tumor burden.
Da qui derivano due possibili schedule di somministrazione di rituximab e chemioterapici convenzionali:
1) simultanea: in cui l’obiettivo è il raggiungimento di un
più potente effetto citotossico;
2) sequenziale: in cui l’obiettivo è, invece, la riduzione o
l’eliminazione della malattia minima residua.
di infusione e tendono a non manifestarsi alle successive
somministrazioni. Reazioni severe correlate all’infusione
avvengono in circa il 10% dei pazienti e sono caratterizzate da broncospasmo, ipotensione, angioedema e/o ipossia, ma nella maggior parte dei casi sono reversibili con
l’interruzione, la somministrazione e l’adozione di misure di supporto.
Rituximab nei linfomi indolenti
Risultati clinici in terapia di associazione
Inizialmente, il rituximab è stato impiegato in monoterapia (dosaggio di 375 mg/m2/settimana) nei LNH indolenti ricaduti o refrattari con percentuali di risposta complessiva tra il 40 ed il 60% (remissioni complete tra il 3
ed il 23%). Il tempo medio alla progressione è risultato
compreso tra 11 e 13 mesi12-14.
Sulla scorta di questi risultati, il farmaco è stato oggetto di numerosi altri studi di fase II condotti su pazienti in
prima linea di terapia, in cui le risposte complessive sono
risultate comprese tra il 50 ed il 70% con remissioni complete tra il 7 ed il 37%15,16. Di particolare rilievo in questo contesto, in un particolare subset di pazienti cosiddetti a basso carico di malattia (low-tumor burden), lo studio
di Colombat et al.17, i quali, utilizzando la schedula di
somministrazione convenzionale, hanno registrato 40%
di remissioni complete in gran parte molecolari: su 32 pazienti valutabili, 17 sono risultati negativi per i riarrangiamenti Bcl2/Jh. La durata media della risposta per i pazienti con PCR- dopo il trattamento, è risultata maggiore
rispetto ai pazienti rimasti PCR+ (25 vs 13 mesi, p < 0.01).
Da segnalare, infine la dimostrazione di efficacia del
rituximab quando utilizzato nel ritrattamento di pazienti
già trattati, nei quali si è osservata una seconda risposta
clinica in circa il 40%18.
Dall’uso di rituximab in monoterapia emerge, in sostanza, che l’anticorpo monoclonale è in grado di indurre elevate percentuali di risposte in pazienti con LNH indolente (in particolare LNH follicolare); la percentuale di
remissione completa e di sopravvivenza libera da eventi
è maggiore in pazienti precedentemente non trattati.
Tuttavia, la maggior parte dei pazienti ricade. Nel tentativo, quindi, di migliorare i dati in monoterapia, il rituximab è stato impiegato anche in terapia di associazione con
farmaci chemioterapici convenzionali.
Il primo studio di associazione rituximab-chemioterapia risale al 199919. In questo studio di fase II CHOP-rituximab, in pazienti alla diagnosi con LNH indolente, si
sono registrate 95% di risposte (55% di remissione completa e 40% di remissione parziale). Al momento della pubblicazione la mediana di durata della remissione non era
ancora stata raggiunta dopo circa 2.5 anni di follow-up. Ad
un’ulteriore rivalutazione di questi dati, con un follow-up
di circa 5 anni, più del 60% dei pazienti è rimasto in remissione completa. Studi successivi20-22, pur con differenze
nella schedula di somministrazione e nella durata di terapia,
hanno di fatto confermato questi dati, con risposte complessive tra l’82 ed il 100% (remissione completa 5788%; remissione parziale 12-40%).
Più recentemente, sono comparsi in letteratura lavori preliminari sull’uso di rituximab in associazione con altri farmaci quali fludarabina o combinazioni di fludarabina con
mitoxantrone, ciclofosfamide e steroidi. I primi dati, sempre in prima linea, sembrano di estremo interesse: le risposte complessive variano tra l’88 ed il 97% con 85-90%
di remissione completa23,24.
Al momento, le uniche conclusioni che è possibile trarre sono:
• il rituximab non aggiunge tossicità alla chemioterapia
convenzionale;
• le percentuali di risposta così come la durata delle risposte
sembrano maggiori di quelle garantite dalla chemioterapia da sola.
Trial randomizzati sono necessari per confermare queste “impressioni” e per indirizzare verso la migliore associazione sia in termini di regime chemioterapico che di
collocazione del rituximab (simultanea? sequenziale?)
(dati preliminari di uno studio di Zinzani25: fludarabina con
mitoxantrone vs CHOP con o senza rituximab sembrano
dimostrare una tendenza in favore della combinazione di
fludarabina, 87 vs 76% di remissione completa).
Oltremodo significativi risultano gli studi di combinazione rituximab + chemioterapia (riportati al momento solo come abstracts o brief reports) in pazienti in ricaduta o
con malattia refrattaria: le risposte complessive variano tra
l’81 ed il 97% in relazione al ciclo chemioterapico utilizzato (CVP, combinazioni di fludarabina, CHOP)26,27.
Razionale dell’associazione rituximab-chemioterapia
Sono essenzialmente due gli elementi che rendono, in
linea teorica, utile la terapia di associazione:
• la dimostrazione in numerosi studi in vitro che il rituximab ha un’azione sinergica con alcuni farmaci citostatici nell’induzione di apoptosi;
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Ann Ital Med Int Vol 18, N 3 Luglio-Settembre 2003
Il buon profilo di tossicità del farmaco e, soprattutto, considerazioni di tipo farmacocinetico associate ai risultati raggiunti in alcuni studi che hanno suggerito l’impiego di più
cicli di rituximab rispetto alle quattro somministrazioni
standard, hanno portato ad ipotizzare l’impiego del rituximab nel contesto di una terapia di mantenimento.
Ghielmini et al.28 hanno trattato 202 pazienti con LNH indolente, alla diagnosi o con malattia refrattaria in ricaduta, con rituximab secondo la schedula convenzionale, seguita da una randomizzazione tra rituximab ogni 2 mesi
(per ulteriori 4 cicli) e la semplice osservazione, nei pazienti in risposta o con malattia stabile dopo il primo ciclo di terapia. I risultati preliminari dimostrano un netto
vantaggio in termini di mediana della sopravvivenza libera
da eventi (22.4 mesi per la terapia di mantenimento vs 13.4
mesi per l’osservazione). Rimane peraltro ancora incerto
se il trattamento alla progressione possa essere equivalente
al mantenimento in termini di sopravvivenza globale. Il
trial prevedeva, infatti, l’uscita dallo studio e non il ritrattamento con rituximab, per i pazienti randomizzati al
braccio osservazione in progressione di malattia. Uno
studio del gruppo cooperatore Nord Americano, con questa variazione nel disegno del protocollo, è attualmente in
corso.
bera da eventi (57 vs 38%) e sopravvivenza totale (70 vs
57%). Altri studi, a carattere non comparativo30, hanno
confermato l’efficacia dell’associazione anche con l’impiego di soli 6 cicli di rituximab a differenza degli 8 previsti dallo studio originale di Coiffier et al.31; ciò ha portato lo schema CHOP + rituximab a diventare, almeno in
Europa, la terapia di riferimento nei LNH a grandi cellule B diffusi.
Rituximab ed autotrapianto
Nel setting dell’autotrapianto il rituximab appare un
farmaco ben tollerato, senza sostanziali effetti negativi
sull’attecchimento delle cellule staminali e può trovare varie possibili collocazioni:
• prima della mobilizzazione/raccolta di cellule staminali (per tentare un effetto purging in vivo);
• dopo l’autotrapianto (per trattare la malattia minima residua).
Ma il rituximab può avere un ruolo anche nella stessa
terapia di induzione o di salvataggio per la riduzione della “massa tumorale” al momento del trapianto, come potenziale chemiosensibilizzante in sinergia con la restante
terapia, senza che questo si traduca in ulteriore tossicità
per il paziente.
I risultati degli studi fino ad ora pubblicati (se confrontati con i controlli storici) appaiano favorevoli, sia per
i LNH indolenti che aggressivi32. In particolare, nell’ambito dei LNH indolenti si sono ottenute remissioni complete comprese tra 75 ed 88%, la maggior parte delle
quali anche molecolari e sostenute nel tempo, con un follow-up medio di oltre 2 anni33,34. Altrettanto significativi, appaiono, poi, i recenti risultati pubblicati da Gianni
et al.35 nel linfoma mantellare (neoplasia altamente aggressiva e ritenuta raramente curabile con la terapia convenzionale), con il rituximab usato come purging in vivo.
Lo studio ha fatto registrare una sopravvivenza globale ed
una sopravvivenza libera da eventi a 54 mesi pari rispettivamente a 89 e 79% (a dispetto del 42% di sopravvivenza
globale e 18% di sopravvivenza libera da eventi nei controlli storici).
Riassumendo, i dati fino ad ora ottenuti sembrano certamente di particolare interesse, ma le casistiche sono
comunque troppo limitate ed eterogenee per poter trarre
conclusioni definitive. Sono, pertanto, necessari studi
randomizzati per poter capire quale debba essere il ruolo
del rituximab (purging in vivo o consolidamento postautotrapianto) oltre che per dimostrare il reale vantaggio
del suo apporto, soprattutto in termini di sopravvivenza
globale.
Rituximab nei linfomi aggressivi
Il primo studio in monoterapia nei LNH ad alto grado,
è stato condotto in Europa circa 4 anni fa in pazienti ricaduti/refrattari29. I pazienti sono stati randomizzati per ricevere due diverse dosi di rituximab (375 mg/m2 ogni settimana vs 375 mg/m2 la prima settimana seguiti da 500
mg/m2 le successive 7 settimane). Dei 54 pazienti arruolati, 5 hanno raggiunto la remissione completa e 12 una
remissione parziale, senza differenza tra i due dosaggi.
I risultati di maggior rilievo sono derivati dagli studi di
associazione rituximab + chemioterapia convenzionale
secondo lo schema CHOP, in pazienti in prima linea di terapia. Tra i più significativi lo studio di Vose et al.30 (studio di fase II CHOP + rituximab al giorno – 2 di ogni ciclo: 94% di risposte complessive, remissione completa
61%, remissione parziale 33%) a cui ha fatto seguito un
importante studio randomizzato del Gruppo GELA in pazienti anziani (60-80 anni) in prima linea di terapia31. In
questo trial sono stati arruolati 399 pazienti di cui 328 valutabili; alla fine del trattamento il 76% dei pazienti nel
braccio rituximab-CHOP ha raggiunto una remissione
completa vs 60% dei pazienti del braccio CHOP. Con una
mediana di follow-up di 2 anni sono risultate, inoltre,
statisticamente significative, a favore del braccio rituximab-CHOP, le differenze in termini di sopravvivenza li-
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Riccardo Varaldo - Marco Gobbi
Rituximab in combinazione con immunoadiuvanti
Bibliografia
Il peculiare meccanismo d’azione del rituximab ha portato al suo impiego in associazione con altre molecole ad
azione “immunostimolante”. I risultati più significativi sono stati ottenuti impiegando interferone (IFN)-α-2a e interleuchina (IL)-2. L’IFN-α aumenta l’espressione in superficie dell’antigene CD20, aumentando quindi in linea
teorica, l’attività ADCC indotta da rituximab. Due dei tre
principali studi fino ad ora condotti36,37 in pazienti con
LNH indolente in ricaduta o refrattario non hanno evidenziato un vantaggio significativo per la combinazione
con rituximab mentre un terzo studio di Sacchi et al.38 ha
fatto registrare una percentuale di risposte complessive e
di risposte complete (70 e 33% rispettivamente) superiori rispetto al rituximab da solo.
Anche l’IL-2 è in grado di incrementare l’ADCC.
Risultati preliminari in combinazione con rituximab mostrano un 55% di risposte complessive con 5% di risposte complete39. Dati particolarmente interessanti sono stati ottenuti, infine, con IL-12, una citochina che interviene nell’attività delle cellule T e delle cellule “natural killer” e ne stimola la secrezione di IFN-γ. In uno studio di
fase I su 43 pazienti con LNH l’immunoterapia di combinazione IL-12 + rituximab ha fatto registrare 69% di risposte complessive con 26% di remissione completa40.
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meccanismi di regolazione propri del sistema immunitario che portano ad un’espansione del sistema B linfocitario monoclonale o policlonale. Sulla scorta di queste implicazioni patogenetiche è stato tentato l’uso del rituximab
anche in questo tipo di malattie, con l’obiettivo di ridurre la componente B linfocitaria e di interferire, quindi, in
ultima istanza, con la produzione di autoanticorpi.
Esistono ormai numerose esperienze, sia in campo ematologico che non ematologico seppur caratterizzate da
numeri limitati di pazienti.
In campo ematologico risultati interessanti si sono registrati nell’ambito dell’anemia emolitica autoimmune, nella porpora trombocitopenica idiopatica41,42 ed in condizioni
più rare quali il deficit acquisito di fattore VIII43.
In ambito non ematologico risultati di un qualche rilievo sono stati evidenziati per l’artrite reumatoide, la miastenia gravis, il lupus eritematoso sistemico44.
I risultati osservati appaiono particolarmente rilevanti
in quanto derivano comunque da una coorte di pazienti,
in entrambi i casi, selezionata negativamente per resistenza a numerose linee di terapia.
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Per la corrispondenza:
Prof. Marco Gobbi, Clinica Ematologica, Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche, Università degli Studi, Viale Benedetto XV
6, 16132 Genova.
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Riccardo Varaldo - Marco Gobbi
QUIZ A RISPOSTA MULTIPLA
1.
Il linfoma di Hodgkin a localizzazione mediastinica:
A) è presente in una esigua minoranza dei casi
B) si accompagna ad una prognosi sfavorevole
C) è presente in circa 3 casi su 4
2. La presenza di localizzazione mediastinica “bulky” nel linfoma di Hodgkin:
A) richiede un intervento chirurgico ablativo
B) aumenta il rischio di ricaduta
C) annulla la possibilità di guarigione
3. Il linfoma a grandi cellule B con sclerosi del mediastinico:
A) produce con frequenza una “sindrome mediastinica”
B) deve essere trattato solo con radioterapia
C) può guarire con trapianto allogenico di cellule staminali
4. L’anticorpo monoclonale “umanizzato” anti-CD20 “rituximab”:
A) aumenta la percentuale di risposte e la sopravvivenza libera da malattia nei linfomi follicolari
B) non è attivo nei linfomi a grandi cellule B
C) è particolarmente attivo sulle espansioni di LGL
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