Michaud c. Francia

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Michaud c. Francia
© Traduzione eseguita da Eduardo De Cunto
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Michaud c. Francia
Non costituisce violazione dell’art. 8 della Convenzione (Diritto al rispetto
della vita privata e familiare), l’obbligo imposto agli avvocati di segnalare
alle autorità le operazioni dei propri clienti che si sospettino finalizzate al
riciclaggio di capitali, giacché tale misura non lede eccessivamente il
principio del segreto professionale. Nel caso presente, su tale soluzione
pesa in maniera determinante la circostanza che a detto obbligo non si dia
applicazione in caso di attività difensiva in giudizio o di consulenza legale,
ma solo in caso di sostituzione o supporto del cliente nella gestione di
determinati affari.
Perché possa darsi applicazione alla cd. “presunzione di protezione
equivalente”[1], e di conseguenza presumere, senza procedere ad esame
nel merito da parte della Corte Edu, che una normativa di derivazione eurounitaria sia conforme alla Convenzione, è necessario che al ricorrente sia
stato consentito l’accesso alla giurisdizione della Corte di Giustizia del
Lussemburgo.
Può considerarsi “vittima” ai sensi dell’art. 34 colui il quale, a causa
dell’esistenza di una normativa che si contesta essere in contrasto con la
Convenzione, è costretto a modificare la propria condotta pena il rischio di
sanzioni, anche qualora tali sanzioni non siano state comminate.
Fatto
La presente vicenda riguarda il sig. Patrick Michaud (il ricorrente), un avvocato parigino ritenutosi leso nelle proprie
prerogative professionali dalla legislazione europea in materia di anti-riciclaggio. L’Unione Europea interviene in tale
settore legislativo sin dai primi anni 90, emanando direttive volte all’approntamento di una disciplina comune di contrasto
all’utilizzo dei sistemi finanziari per il riciclo di capitali (ultima in ordine di tempo la direttiva n. 2005/60/CE del 26 ottobre
2005).
Dal diritto dell’Unione recepito all’interno dell’ordinamento francese derivano specifici obblighi nei confronti degli avvocati
che si trovino a gestire situazioni “sospette”. In particolare, qualora un legale si trovi ad assistere un proprio cliente nella
redazione o nella realizzazione di transazioni finanziarie o immobiliari, o quando agisca in qualità di fiduciario, egli è
tenuto a segnalare le operazioni di dubbia liceità al presidente dell’ordine degli avvocati presso il Consiglio di Stato e
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presso la Corte di Cassazione, oppure al presidente dell’ordine degli avvocati di appartenenza. Questi ultimi,
sussistendone i requisiti di legge, inoltrano le segnalazioni all’autorità denominata “Tracfin” (Unità di Informazione
Finanziaria Nazionale). Gli avvocati non sono tenuti all’obbligo di segnalazione in caso di mera consulenza legale o di
attività difensiva in senso stretto, cioè quando prestino assistenza legale all’interno di un procedimento giurisdizionale.
Nel luglio del 2007 il Consiglio Nazionale Forense francese emanò un regolamento professionale che, in sintonia con la
disciplina di legge, istituiva per gli avvocati una serie di obblighi e di procedure volti all’adempimento del dovere di
segnalazione delle situazioni sospette, prevedendo sanzioni disciplinari in caso di mancata osservanza delle prescrizioni.
Nell’ottobre dello stesso anno, il ricorrente adì il Consiglio di Stato chiedendo l’annullamento di tale regolamento, a suo
parere eccessivamente lesivo delle prerogative professionali dei singoli avvocati. Il sig. Michaud contestava l’eccessiva
vaghezza del concetto di “operazioni sospette”, con la conseguenza di un difetto di tassatività e determinatezza delle
fattispecie che avrebbero potuto condurre a sanzione disciplinare. In secondo luogo considerava violato il principio del
segreto professionale e della riservatezza delle comunicazioni tra l’avvocato e il suo assistito. Egli chiedeva inoltre
all’autorità giudiziaria nazionale di sollevare questione pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
per valutare se la disciplina in questione fosse compatibile con il principio del rispetto della vita privata enunciato
dall’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, cui l’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea fa espresso
rinvio.
Nel luglio del 2010, il Consiglio di Stato rigettò il ricorso del sig. Michaud decidendo la questione nel merito senza
ritenere di dover proporre questione pregiudiziale innanzi alla Corte del Lussemburgo. Ad avviso dei giudici la normativa
vigente, giustificata da esigenze di pubblica rilevanza quali la lotta al riciclaggio di capitali, non determinava un’eccessiva
e sproporzionata compressione del principio della segretezza delle comunicazioni professionali, anche in considerazione
della disapplicazione dell’obbligo di segnalazione in caso di svolgimento di attività giurisdizionale.
Il sig. Michaud si rivolse dunque alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lamentando l’avvenuta violazione dell’art. 8 della
Convenzione, che tutela il diritto dei singoli a non subire indebite ingerenze del potere pubblico nella propria vita privata,
e dunque anche professionale.
Sulla ricevibilità
Il Governo francese convenuto eccepisce innanzitutto che al ricorrente non possa essere riconosciuto lo status di
“vittima” ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, e che pertanto il ricorso sia irricevibile. Il sig. Michaud – argomenta il
governo – non ha in concreto sofferto le conseguenze dell’applicazione di provvedimenti emanati in base alla disciplina
contestata, ma si limita a lamentare, in astratto, l’incompatibilità tra la normativa anti-riciclaggio e i dettami della
Convenzione.
Il ricorrente, richiamando la pregressa giurisprudenza della Cedu, controbatte che, ai sensi dell’art. 34, possa
considerarsi “vittima” colui il quale, a causa dell’esistenza di una normativa che si contesta essere in contrasto con la
Convenzione, è costretto a modificare la propria condotta pena il rischio di sanzioni.
La Corte, condividendo le argomentazioni del sig. Michaud e considerando come effettivamente la normativa contestata
abbia influito sullo svolgimento dell’attività professionale di quest’ultimo, riconosce il suo status di “vittima” e dichiara il
ricorso ricevibile.
Diritto
Sulla presunta violazione dell’art. 8 della Convenzione – Diritto al rispetto della vita privata e familiare
La Corte osserva innanzitutto che nell’ambito applicativo dell’art. 8 della Convenzione rientra senza dubbio il diritto alla
segretezza della corrispondenza tra privati. La tutela della riservatezza degli scambi di comunicazioni tra individui
rappresenta, per esplicita previsione convenzionale, uno degli ambiti ricompresi nel più generico concetto di “tutela della
vita privata”. Sempre a parere della Corte, l’obbligo pendente in capo agli avvocati di segnalare all’autorità
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amministrativa situazioni “sospette” di cui si venga a conoscenza in virtù del rapporto costituitosi con la propria clientela
costituisce effettivamente un’ingerenza del potere pubblico nella corrispondenza tra privati cittadini.
Il divieto di ingerenza nella vita dei singoli contenuto nell’art. 8 della Convenzione, tuttavia, non è un divieto assoluto: la
Corte ricorda che esso sussiste «a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una
società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese,
alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e
delle libertà altrui» (art. 8, co. 2, Cedu). Nel caso di specie si è in presenza sì di un’ingerenza, ma tale ingerenza trova
giustificazione in una previsione legislativa e, costituendo una misura di contrasto al fenomeno del riciclaggio di capitali,
persegue una delle finalità menzionate dal comma 2 dell’art. 8: la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati.
Resta dunque da stabilire se tale interferenza del potere pubblico nell’esplicazione dell’attività professionale del
ricorrente possa definirsi “necessaria”, come pretende il testo dell’art. 8 ai fini della sua legittimità, oppure se altre
misure, meno invasive e dunque meno lesive delle prerogative de singoli, avrebbero potuto essere messe in campo
altrettanto efficacemente contro il fenomeno del riciclaggio.
La Corte dichiara di dover procedere all’esame nel merito di tale questione, nonostante l’adozione di una simile disciplina
fosse imposta allo Stato francese dall’esistenza di obblighi comunitari. I giudici strasburghesi, rigettando le
argomentazioni del governo convenuto, non ritengono infatti applicabile al caso di specie la regola giurisprudenziale
della cd. “presunzione di protezione equivalentte”. Occorre soffermarsi brevemente su questa regola. Nel
precedenteBosphorus Hava Jollari Turizm ve Ticaret c. Irlanda (ric. n. 45036/98), la Grande Camera, con sentenza del
30.6.2005, aveva elaborato tale importante principio riguardante il rapporto tra l’ordinamento dell’Unione Europea e
quello derivante dalla Convenzione Edu; esso è così riassumibile: non è invocabile la responsabilità delle singole autorità
nazionali per violazione della Convenzione qualora esse non dispongano di discrezionalità decisionale nell’applicare
normative comunitarie,giacché si presume che l’ordinamento comunitario offra un livello di protezione dei diritti
umani equivalente a quello proprio del sistema Cedu (per un più dettagliato esame di tale importantissimo e
interessantissimo precedente giurisprudenziale si rimanda alla relativa nota a sentenza consultabile su questo stessa
rivista all’indirizzo internethttp://www.duitbase.it/index.php/database-cedu/bosphorus-c-irlanda.html).
Il ragionamento che spinge la Corte a non applicare al caso di specie la presunzione di protezione equivalente, e dunque
a procedere all’esame nel merito delle responsabilità della Francia, è il seguente: il sistema giuridico euro-unitario può
considerarsi posto a garanzia dei diritti umani e può giustificare una presunzione di rispetto degli stessi solo avendo
considerazione del ruolo di garanzia svolto dai suoi organismi giurisdizionali. Qualora il ricorso pregiudiziale alla Corte di
Giustizia, nel corso di procedimenti nazionali, sia inibito, come accaduto nel caso de quo, il sistema di protezione
predisposto dalla Ue viene reso monco di una sua componente essenziale. Ciò non consente di supporre che un vaglio
di conformità circa il rispetto dei dettami convenzionali da parte della legge nazionale – anche qualora essa derivi dal
diritto dell’Unione – sia già stato effettuato da un organismo giurisdizionale internazionale adeguato allo svolgimento di
un così delicato ruolo.
Procedendo dunque al vaglio nel merito circa la necessità dell’ingerenza e l’equo bilanciamento operato dalla
normativa antiriciclaggio tra le contrapposte esigenze della lotta alla criminalità e della tutela del segreto professionale, la
Corte osserva che la disciplina francese non omette di attribuire adeguata considerazione al principio della riservatezza
delle comunicazioni, che costituisce uno strumento essenziale per lo svolgimento di quel ruolo di primaria importanza
interpretato dall’avvocato nel difendere in giudizio i diritti dei cittadini. L’obbligo di segnalazione, così come formulato,
non lede l’essenza del diritto di difesa. Secondo la legge francese, infatti, l’attività avvocatizia propriamente
giurisdizionale è resa immune dall’obbligo di comunicazione in questione, che è posto in essere solo nelle situazioni in
cui il legale si sostituisce o si affianca al proprio cliente nella gestione di affari in odore di illiceità. In queste ultime
situazioni la necessità dell’ingerenza pubblica nell’attività professionale degli avvocati è determinata da un bisogno
sociale imperativo e non appare sproporzionata allo scopo perseguito. La legge offre inoltre un’ulteriore garanzia al
segreto professionale costituita dal filtro operato dai presidenti dei consigli degli ordini degli avvocati: le segnalazioni,
infatti, non pervengono direttamente alla Tracfin, ma sono innanzitutto indirizzati a organi elettivi, espressione della
categoria professionale, incaricati di vagliare sulla sussistenza delle condizioni previste dalla legge ai fini della
trasmissione delle segnalazioni all’autorità amministrativa.
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In virtù di tali considerazioni, la Corte, ritenendo non sproporzionata l’ingerenza posta in essere dall’Autorità francese
rispetto ai fini perseguiti, dichiara all’unanimità che non vi è stata violazione dell’art. 8 della Convenzione.
Informazioni aggiuntive
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Tipo di decisione:Sentenza (Merito)
Emessa da:Camera
Stato convenuto:Francia
Numero ricorso:12323/11
Data:06.12.2012
Articoli:8 - 34
Op. separate:No
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