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TRIMESTRALE DELLE ACCADEMIE E DELLE ARTI, TESTIMONIANZE, PROGETTI, DIDATTICA, RECENSIONI, MOSTRE, NOVITÀ. ANNO 2012 - N° 14 - EURO 6,00
www.academy-of.eu
EMILIO TADINI - ECOLE NATIONALE SUPERIÉURE DES BEAUX-ARTS DI PARIGI NUOVI DIRETTORI: A BRERA FRANCO MARROCCO, A BARI BEPPE SYLOS LABINI,
A CATANZARO ANNA RUSSO, A CARRARA LUCILLA MELONI - P.N.A. ACCADEMIA
ALBERTINA DI TORINO - DOCUMENTA, KASSEL - NUOVA IMMAGINE NAPOLETANA - GERARDO LO RUSSO - PAOLA PEZZI - L’ABITAZIONE DELL’ARCHITETTO
ARBORE - ALBERTO GARUTTI AL PAC - RECENSIONI E TANTO ALTRO ANCORA.
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e la ricchezza dei suoi contenuti ogni volta che vorrai.
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IBAN: IT 70 Y 02008 41562 000102076192
Sommario ragionato
di Elisabetta Longari
ACADEMY OF FINE ARTS
Iscritta al Tribunale di Trani
n.3/09
Rivista fondata da Gaetano Grillo
NUMERO 14 anno 2012
errata corrige: Il numero precedente
portava erroneamente il n. 12 ma si
trattava del n. 13
SEDE
Viale Stelvio, 66
20159 Milano
tel. 02 392 9149654
fax 02 6072609
[email protected]
DIRETTORE RESPONSABILE
Gaetano Grillo
*Tutte le collaborazioni si intendono a titolo gratuito
In questo numero abbiamo scelto di ricordare Emilio
Tadini, scrittore di grande pregnanza dei “testi”
dell’arte e pittore anch’egli, figura di grande rilievo
nel panorama italiano e soprattutto nel contesto
milanese di cui è stato attivo animatore culturale
(tra le cariche che ha ricoperto ricordiamo anche
quella di Presidente dell’Accademia di Brera).
Ivo Bonacorsi, anch’egli artista e scrittore, ha
intervistato per Academy Nicolas Bourriaud, il
teorico dell’arte relazionale molto attento alle
dinamiche proprie dell’era della postproduzione
che è stato direttore del Palais de Tokyo di Parigi e
ora è alla guida dell’ENSBA, Ecole Superiéure des
Beaux Arts de Paris.
Questo numero ospita una sorta di ricognizione
sulle intenzioni dei nuovi direttori di Accademia che
sono stati raggiunti e intervistati: Lucilla Meloni per
Carrara, Beppe Sylos Labini per Bari, Anna Russo
per Catanzaro e Franco Marrocco per Milano.
Anche il direttore di Roma, Gerardo Lo Russo,
ha parlato con Barbara Tosi, illustrando attività e
progetti.
Mentre prosegue il colto discorso di Alfonso
DIRETTORE EDITORIALE
Gaetano Grillo
[email protected]
GRAFICA
Massimiliano Patriarca
[email protected]
EDITRICE
L’IMMAGINE SRL
Via Lucarelli 62/H
70124 BARI
tel. +39.0803381123
fax +39.0803381251
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SOMMARIO
1
04 Redazionale di Gaetano Grillo
08 Ecole Nationale Superiéure des Beaux-Arts, Parigi
14 Nuovi Direttori
18 Sulla Scultura
22 Academy Pride (Premio Nazionale delle Arti) Accademia Albertina di Torino
24 Nuova Immagine Napoletana
27 Documenta, Kassel
30 Gerardo Lo Russo
32 Paola Pezzi
VICE- DIRETTORE EDITORIALE
Elisabetta Longari
[email protected]
REDAZIONE
Gaetano Grillo
Elisabetta Longari
Cristina Valota
Melissa Provezza
Panzetta
sulla
scultura,
pubblichiamo
una
segnalazione di Laura Lombardi sull’ultima edizione
di Documenta a Kassel. Tra gli ex allievi abbiamo
focalizzato l’attenzione su Paola Pezzi che aveva
frequentato Brera con Luciano Fabro.
L’occhio indiscreto di Academy si insinua per la prima
volta in un interno privato, la casa dell’architetto
Arbore, inaugurando una sezione che si occuperà
di documentare alcuni luoghi dell’arte creati dai
collezionisti, luoghi che rivelano il gusto di chi ha
scelto e messo in scena determinati “oggetti”.
Intanto andiamo avanti a testimoniare gli eventi
straordinari, come l’apertura del Cantiere novecento
a Milano, straordinaria collezione la cui fruizione,
gratuita, è stata donata ai cittadini da un’istituzione
privata: una banca; e le altre mostre di rilievo tra cui
quella di Alberto Garutti al PAC.
Confidando nei vostri necessari contributi di
collaborazione e sostegno alla rivista, non possiamo
che esprimere i nostri ambiziosi propositi per l’anno
che verrà: fare di Academy uno specchio sempre
più veritiero della situazione collegata all’istruzione
artistica non solo italiana, ma mondiale.
34 L’abitazione dell’architetto Francesco Paolo Arbore
39 La mostra di Alberto Garutti al PAC di Milano
40 Recensioni
HANNO COLLABORATO*
Ivo Bonacorsi
Cristina Casero
Gaetano Centrone
Anna Comino
Guido Curto
Laura Lombardi
Massimo Melotti
Alfonso Panzetta
Melissa Provezza
Arturo Carlo Quintavalle
Rosanna Ruscio
Barbara Tosi
In copertina: Emilio Tadini, Città, 1987, acrilici
su tavola, 50 x 35 cm, foto di Gianni Ummarino,
Courtesy Fondazione Marconi.
L’UNICA RIVISTA PERIODICA RIVOLTA ALLE ACCADEMIE DI BELLE ARTI, AI DOCENTI, AGLI STUDENTI E A TUTTI GLI OPERATORI DEL SETTORE.
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Foto Ranuccio Bastoni
Ma
le Accademie vogliono
davvero uscire dall’AFAM
ed entrare nell’Università
si o no?
di Gaetano Grillo
Siamo arrivati vicinissimi ad una svolta, nonostante le manovre ostili
di alcuni ambienti interni all’AFAM e ai sindacati oltre ad un’area politica, quella del PD, che paradossalmente non capisce le nostre ragioni, ciò nonostante il peggior nemico era nascosto all’interno delle
accademie ed ha vinto!
La riforma universitaria delle Accademie statali italiane, così correttamente e tenacemente portata avanti dal relatore On. Giuseppe
Scalera presso la VII Commissione Cultura della Camera, si è arenata. Oggi potremmo dire che si sarebbe arenata in ogni caso, visto
che il Governo è caduto ma proviamo a capire le ragioni a favore
e contro questo passaggio che una volta per tutte avrebbe allineato la politica culturale e formativa italiana a quella degli altri Paesi
dell’Unione Europea.
La lotta per il riconoscimento del livello universitario della formazione
artistica svolta nelle Accademie statali italiane, risale ai primi anni
‘70, quando la mia generazione di studenti che dopo la maturità artistica passavano all’unico livello di formazione superiore possibile,
quello delle Accademie di Belle Arti, vedevano i loro studi e i loro titoli
discriminati rispetto agli altri compagni di strada che avevano invece
scelto di iscriversi per esempio alla Facoltà di Architettura.
Stessa formazione di provenienza stessa durata del corso, ma ai primi veniva rilasciato un Diploma di poco valore, ai secondi una Laurea
di valore molto più spendibile, quantunque la Facoltà di Architettura
fosse nata proprio staccandosi delle Accademie ed entrando nel sistema universitario.
La legge 508/99 e successivi decreti applicativi, dopo anni e anni di
lotte, finalmente riconosceva alle Accademie il ruolo di Alta Formazione Artistica post secondaria, ovvero terziaria, come tutte le università ma le faceva uscire dall’Ispettorato all’Istruzione Artistica per inserirle non nell’Università bensì in un recinto chiamato AFAM.
Sembrava che il provvedimento dovesse attribuire un particolare
valore alla formazione artistica, considerato che il nostro è il primo
Paese al mondo per l’arte e la cultura ma nei fatti aveva come obiettivo quello di posizionare l’AFAM in un livello intermedio fra la
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formazione secondaria e quella terziaria pur definendo per le accademie un percorso formativo simmetrico in tutto e per tutto a quello
dell’Università. Stesso schema del 3+2, stesso numero di crediti
formativi ma non chiamati cfu (crediti formativi universitari) bensì cfa
(crediti formativi accademici). Diploma di primo livello dopo il Triennio, Diploma di secondo livello dopo il Biennio Specialistico e possibilità di avviare Dottorati di Ricerca e Masters.
Meno male che l’Italia vuole valorizzare l’arte!
Nel frattempo il Ministero ha progressivamente tagliato i fondi per
l’istruzione pubblica costringendo le Accademie ad alzare le tasse
agli studenti per onorare l’incremento dell’offerta formativa, a sua
volta vincolante per il raggiungimento dei titoli.
In altre parole ha fatto una riforma a costo zero, utilizzando le
due fasce della docenza ma senza riconoscere a queste una corrispondenza giuridica ed economica parallela all’Università ma ancor più grave è che tale corrispondenza non è nenache intermedia
fra quella della docenza d’istruzione secondaria e quella terziaria
poichè i professori delle accademie guadagnano mediamente e
paradossalmente meno dei professori dei licei. I sindacati hanno
alimentato la discordia tra le due fasce spostando il problema dal
riconoscimento giuridico all’interno della categoria continuando essi
stessi a rappresentarla tenendola vincolata al pubblico impiego.
All’interno dell’AFAM fra accademie e conservatori non c’è dialogo,
se non nelle - talvolta forzate - convivenze messe in scena durante il
Premio Nazionale delle Arti.
In tredici anni non sono stati istituiti i Licei Musicali, così i Conservatori fanno la formazione anche dei minori confermando una percorrenza che è nella sostanza molto diversa da quella delle accademie.
Esiste un CNAM parallelo al CUN, ci si ostina a pensare (ma nei fatti
sarebbe più legittimo pensare che si tratta di una minaccia velata)
che non esistendo classi di laurea in Pittura, Scultura, Scenografia
ecc. tali indirizzi, passando all’università perderebbero identità. Ci si
ostina a far credere che poichè nell’università i tecnici di laboratorio
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non sono professori ordinari o associati, tutti gli attuali docenti di indirizzo e comunque tutti i professori di discipline laboratoriali sarebbero degradati. Si vuol far credere che nell’università non venga
salvaguardata la specificità dei percorsi formativi accademici, che le
discipline storiche vengano travolte, si vuole far credere che il patrimonio artistico vada a quel punto perduto.
Sicuramente l’AFAM è stato e resta un sogno bellissimo
nell’immaginazione del Direttore Generale che si è speso con ostinazione e perseveranza per realizzarlo, comprensibilmente convincendo di volta in volta i suoi diretti referenti sulla bontà del sogno.
Così è stato per tutti questi anni finchè un gruppo di docenti ha raggirato il riferimento istituzionale costituendo un Consiglio Nazionale
dei Professori delle Accademie di Belle Arti (Cnpaba) spontaneo per
una partecipazione diretta dei docenti.
Grazie a queste iniziative la rivendicazione del riconoscimento universitario delle accademie è tornato alla ribalta sia negli ambienti
politici e legislativi, sia nelle cronache della stampa e degli ambienti
dell’arte e della cultura con appelli a sostegno firmati da indubbie
personalità di altissimo profilo e prestigio nazionale e internazionale.
Il relatore del disegno di legge, l’Onorevole Scalera, ha dovuto
fronteggiare nella VII Commissione Cultura della Camera tutte le
manovre messe in atto per impedire che le accademie abbandonassero l’AFAM e transitassero nell’Università. Nel giro di alcuni mesi
sono stati apportati diversi emendamenti al disegno di legge, è stata
consultata la Conferenza dei Direttori e varie accademie giungendo
nel mese di novembre a documenti ufficiali uniformi soprattutto siglati
dalla Conferenza dei Direttori e dalle tre più grandi accademie italiane, quella di Milano, Roma e Napoli.
Questi documenti ufficiali e gli appelli firmati dagli intellettuali più
prestigiosi del nostro Paese, a nulla sono serviti perchè all’interno del
nostro sistema i tentennamenti, le posizioni opportunistiche di alcuni
direttori e l’assenteismo della maggior parte dei docenti hanno reso
fragile l’assetto rivendicativo che finalmente era giunto quasi a vedere compiuto l’iter legislativo.
Unico risultato raggiunto in tutti questi mesi di duro lavoro da parte di alcuni, pochissimi docenti che si sono
spesi per tutta la categoria, è stato il riconoscimento
dell’equipollenza dei titoli di Diploma Accademico di primo e secondo livello, nonchè di quelli ottenuti con il vecchio ordinamento, ai corrispettivi titoli di laurea di primo
e secondo livello e di laurea magistrale, soltanto nei casi
di partecipazione a concorsi pubblici che prevedano quel
requisito.
Naturalmente è un piccolo risultato a fronte di un grande lavoro, un
riconoscimento parziale dell’utilità del titolo accademico che aiuta in
parte i nostri studenti; dico in parte poichè non si tratta di una laurea ma di un’equipollenza riconosciuta solo per la partecipazione ai
concorsi pubblici, provvedimento che non affronta il problema la cui
soluzione ancora una volta viene rimandata soprattutto per non riconoscere la formazione universitaria che facciamo noi docenti, per
non riconoscere la nostra funzione sia giuridicamente che economicamente
.
Si tratta comunque di un piccolo passo in avanti che accredita
ulteriormente le ragioni delle nostre rivendicazioni. A questo
punto potremmo e dovremmo ricorrere alla Corte di Giustizia
della Comunità Europea per chiedere che ci venga riconosciuta
la nostra funzione di docenti universitari poichè rilasciamo titoli
che sono riconosciuti equipollenti alle lauree e perchè lo Stato
Italiano sta discriminando la nostra categoria contravvenendo ai
princìpi stessi della nostra Costituzione.
Fra tre mesi avremo un nuovo governo, un nuovo ministro e una
nuova VII Commissione Cultura, facciamo in modo che tutti gli sforzi
compiuti sino ad ora non vadano persi ma che costituiscano il terreno
per ripartire con forza.
Cari colleghi, questa rivista, con la sua edizione
online è uno strumento utilissimo per compattare il nostro sistema, usiamola!
Buon 2013!
foto qui sotto e a sinistra, lo scalone dell’Accademia di Belle Arti di Napoli
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Oltremare, 1991. Acrilici su tela cm. 80 x 65
profili:
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L
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EM
tadini
A dieci anni dalla scomparsa di Emilio Tadini, pittore, intellettuale e scrittore
che fu anche Presidente dell’Accademia di Brera dal 1997 al 2000, la
Fondazione Marconi di Milano lo ricorda con una importante retrospettiva
e con la pubblicazione di una monografia edita da Skira e curata da Arturo
Carlo Quintavalle.
ARTURO CARLO QUINTAVALLE
ricorda EMILIO TADINI
profili
in una conversazione con Cristina Casero
Da molti anni segui il lavoro di Emilio Tadini, cui sei stato legato
anche da una profonda amicizia. Nel catalogo della mostra
allestita a Parma, presso l’Istituto di Storia dell’Arte nel maggio
del 1975, se non sbaglio la prima mostra di Tadini che hai
curato, hai insistito molto sull’importanza del rapporto tra arte
e ideologia nel nostro autore; su questa lettura, poi, sei tornato
anche in seguito. La consideri ancora attuale?
Credo di si. La crisi che la pittura oggi sta attraversando, come del
resto la crisi della politica che è davanti agli occhi di tutti, nasce
proprio dalla mancanza di ideologie. Non sto parlando di una
ideologia in particolare, quella comunista, ma delle ideologie, quella
socialista, quella democristiana, quella liberale che, tutte, hanno
avuto – riconosciuti o meno – dei rappresentanti.
Tadini si forma su una matrice ideologica non tanto rigida, come
invece potrebbe sembrare: è un intellettuale di sinistra, certamente,
ma un intellettuale di sinistra che può essere vicino alla zona degli
extraparlamentari come vicino ai vecchi socialisti lombardiani o
ai comunisti che in quegli anni diventano una galassia. A questo
proposito, bisogna ricordare che alla fine degli anni Cinquanta non
essere ideologicamente legati a un modello è estremamente difficile,
come è estremamente difficile creare una pittura, un racconto,
ideologicamente non riferibili a modelli precisi. Perché dico questo?
Perché quando uno guarda le opere pittoriche di Tadini della fine degli
anni Cinquanta, non può non constatare che stanno tra Victor Brauner
e la ripresa di un surrealismo molto geometrizzato, molto bloccato, in
cui riconosciamo anche il peso di Max Ernst. È, insomma, evidente
la volontà di non fare del picassismo d’accatto ma anche di non fare
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l’informale. Infatti, quelli sono gli anni, pure in Italia, dell’informale e
non bisogna dimenticare che in quel periodo c’è Jean Paul Sartre
che propone una attenta riflessione sull’esistenzialismo, e quindi
si sviluppa una nuova riflessione sulle ideologie dell’informale. Per
Tadini l’informale era contemplazione estetizzante e lo rifiuta perché
la sua idea dell’arte è molto differente. Non ha mai combattuto contro
l’informale, ha piuttosto fatto vedere un’altra strada della pittura e a
Milano è sempre stato su questa linea molto solo: anche questa è
una prova della sua genialità.
Quali sono, dunque, i riferimenti culturali di Tadini tra la fine
degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio seguente? Quale la
sua idea di arte?
Il suo problema, secondo me, è sempre stato quello di riuscire a dar
vita ad una figurazione, e quindi ad un sistema della comunicazione,
che potesse essere efficace ma, nello stesso momento, aperto al
confronto con una serie di istanze culturali vive in quei primi anni
Sessanta. E questo è importante perché è sempre stato un artista
interdisciplinare, cioè Tadini ha scritto prima ancora di dipingere,
Tadini ha polemizzato prima e durante la sua attività di pittore, per
esempio attraverso gli interventi fatti, se non ricordo male per una
decina di anni, sul Corriere della Sera: interventi innervati da un chiaro
impegno civile, che egli scriveva sulle pagine milanesi del giornale.
Scriveva anche su quelle nazionali, ma per lui era più importante
la pagina locale, perché questo significava essere presente come
cittadino in un luogo, in un momento.
Un aspetto importante per Tadini negli anni Sessanta è la esperienza
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Profughi, 1986. Acrilici su tela cm. 150 x 200
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interessato al distacco dal racconto, anzi al “non racconto”. La sua
è una presentazione critica degli oggetti, visti appunto con l’occhio
dell’École du regard o con l’occhio della semiotica. Quindi gli oggetti
sono intesi come ritagliati, ricomposti, staccati. Ogni singolo oggetto
acquista senso dal rapporto con gli altri ed è tutto il sistema del
quadro che propone un significato, come in un puzzle in cui il senso
nasce dall’insieme. Questo significato è ragione -e qui sta l’ideologia
di Tadini- non certo sentimento o passione, che a Tadini non
interessano. A lui interessa un altro livello di consapevolezza: pensa,
per esempio, a Vita di Voltaire, che è una riflessione sull’illuminismo.
Ci sono poi altre cose su cui riflettere nei suoi quadri. Dejuner sur
l’erbe, che è una serie del 1969, è di nuovo interpretabile come il
processo di ricomposizione dei frammenti del reale. In questo
processo Tadini trova sempre il modo di riferirsi alla pittura, al tempo,
alla realtà. Emblematico è Viaggio in Italia del 1970, che è un viaggio
attraverso le memorie, con l’artista calato nel ruolo dell’esploratore,
che scopre il mondo: spesso nei suoi dipinti c’è la lampada, che è la
luce della ragione.
profili
della linguistica, la linguistica strutturale. È molto difficile fare capire
alla gente di oggi, che se ne è completamente dimenticata, cosa ha
voluto dire lo strutturalismo, cosa ha voluto dire la semiotica, cosa
ha voluto dire le Cours de Linguistique Générale di Ferdinand de
Saussure; cosa ha voluto dire l’antropologia strutturale, che per
Tadini è importantissima, e quindi Claude Lévi-Strauss.
Nel momento in cui tutto diventa immagine, ma immagine analizzabile
(è anche il momento della teoria della comunicazione, quindi anche
dell’interesse per le riflessioni di Rudolf Arnheim), una idea della
pittura come magma per Tadini è inaccettabile. Per lui, la pittura deve
essere un sistema di immagini frammentato, componibile, come lo è
il sistema della frase, che si forma dall’insieme di elementi discreti.
L’altro aspetto che a me interessa ricordare della cultura di questi
anni, importante soprattutto in relazione a Tadini, è l’influenza dell’
École du regard. Si tratta dell’idea di avere un occhio cinematografico,
o un occhio pittorico, come testimone “freddo” di quello che accade
attorno.
Tadini è un letterato e i suoi romanzi, agli inizi, sono molto più alla
Alain Robbe-Grillet che vicini a Luciano Bianciardi, per fare un
esempio. Il discorso di Tadini è incentrato sul problema di come
raccontare un intellettuale che si pone il problema dell’opera e quindi
che si guarda attorno, come fa lui, sia quando dipinge, sia quando
scrive, sia quando è impegnato nell’attività critica.
Quindi, le scelte di Tadini a me sembrano anche estremamente
originali e isolatissime nel suo contesto. E qui emerge un altro
elemento significativo: il rapporto di Tadini con la pop art. Lui è in
sintonia con la pop inglese e non con quella statunitense, cioè è
Come nel Picasso de Il pittore e la modella?
Non proprio. Infatti, a differenza di Picasso, Tadini la modella non
ce l’ha. Non è più il mito del pittore. E’ il mondo che l’artista deve
affrontare. Ma, per quanto sia importante la questione dell’ideologia,
non bisogna trasformare Tadini in un ideologo. Invece, bisogna
guardare a come lui ha dipinto: ci sono dei quadri, dei temi, delle
opere, per fare un esempio possiamo ricordare Profughi del 1989,
in cui ci sono, evidenti, i suoi riferimenti pittorici: George Grosz,
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Oltremare, 1991. Acrilici su tela cm. 150 x 200
profili
Otto Dix, Max Beckmann. Infatti, chiunque voglia raccontare in modo
consapevole e “impegnato” sceglie nel passato dei modelli che abbiano
un impegno comparabile al suo. Nel caso di Tadini, come punto di
riferimento, alla lontana vi è anche Hieronymus Bosch. Questi artisti
sono tutti parte di una medesima genealogia, che include anche lo
Chagall del primo decennio del Novecento. Ogni artista si trova i propri
antenati nella storia, che è un magma. Così ha fatto Tadini.
In che termini è fondamentale l’impegno civile, che sempre ha
innervato la ricerca di Tadini?
Diciamolo chiaramente: Tadini racconta sempre l’alienazione del
mondo e dei singoli personaggi dei suoi quadri. Quando vi sono le
maschere non sono le maschere negre, ma sono le maschere che
la gente alienata si pone sul viso. Tadini ha una capacità incredibile
di suggerire la scomposizione di ogni suo dipinto riconoscendone le
fonti e i modelli che però diventano diversi, assumono nuovo senso e
nuova forma.
Pensiamo alla serie dei trittici del Ballo dei Filosofi, che secondo me
rimarranno nella storia.
Chi sono i filosofi? Il ballo dei filosofi è il ballo degli intellettuali, è
l’opportunismo, è la trasformazione, è l’isolamento, è l’alienazione, son
figure deformi, sospese nello spazio.
Poi c’è anche una grande ironia: se uno ci pensa bene questa è
l’esasperazione, la trasformazione in macchina, della retorica dei dipinti
fascisti, però con dentro anche Max Beckmann, Max Ernst e cento
altre cose. Quello che mi colpisce in questi quadri, oltre al coraggio che
Tadini ha avuto nell’affrontare una impresa del genere, sapendo per
altro che sono opere non “vendibili”, ma certamente quadri da museo,
è l’idea di raccontare un modo di porsi. Il discorso di Tadini è quello
di un pittore che cerca la strada per scoprire la propria posizione e
funzione nel mondo.
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Dunque, è chiaro che la costruzione del racconto pittorico, per
Tadini, è una operazione complessa. Ma come procedeva?
Per capirlo bene ci sono i disegni, che sono importanti, proprio
perché lì vedi il processo di elaborazione dell’opera, il passaggio da
piccoli schizzi a bozzetti a grandi disegni che sono in rapporto uno
a uno col dipinto finale. Un altro elemento che dobbiamo ricordare
è che Tadini concepisce sempre i quadri come un grande racconto.
Lui aveva un progetto globale, che diventava dominante: per lui una
serie di quadri è come un romanzo.
Questo dimostra anche che in Tadini c’è una qualità, che è di
pochissimi: la capacità di gestire lo spazio. Tutti i pittori sono capaci
di fare un quadretto, ma pochissimi pittori sanno fare un grande
quadro. E pochissimi ancora sanno fare un quadro grande che
sia “grande”. Il nodo della questione è la capacità di dominio dello
spazio, che si coniuga con la volontà di riferirsi ad un pubblico più
ampio: Tadini fa molte volte dei quadri che difficilmente verranno
venduti, ma che piuttosto dovranno finire in una raccolta pubblica,
come Il Ballo dei Filosofi, evidentemente destinato ad un museo.
Bisogna riconoscere che Tadini, dalla metà degli anni Sessanta, ha
sempre costruito opere di grandi dimensioni, per di più affrontando
dei soggetti estremamente scomodi. Infatti, capire un quadro di
Tadini non è facile: non te lo puoi raccontare come un bel quadro.
E’ bello perché è importante, ma non è bello formalisticamente,
anche se è perfetto sul piano formale. Tadini va oltre l’idea del bello
cui siamo abituati, inteso come contemplazione, sogno, memoria
infantile, fantasia, evocazione.
Un ulteriore elemento di complessità nella lettura delle sue opere
è dato dal ruolo della psicanalisi. Tadini si è sempre occupato
di psicanalisi, rileggendo Freud attraverso Marx e pensando al
sistema del sognare come a un meccanismo linguistico. Quindi,
Marx da una parte, perché Freud interpreta un sogno borghese, e
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Itaca nera, 1986. Acrilici su tela cm. 150 x 200
la semiotica dall’altra. Se per capire qualsiasi artista ti basta un colpo
d’occhio, per lui un colpo d’occhio ti basta giusto per capire che non
capisci niente. La pittura di Tadini, insomma, non è una pittura bella
ma piuttosto una bella pittura, da capire in tutta la sua complessità.
Ho conosciuto Emilio nel 1974
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in occasione della mia prima personale alla galleria Solferino di
Milano. Erano tempi in cui le bottiglia di wisky animavano stupende
conversazioni nel piccolo retrogalleria di Giovanna Repetto fra Emilio
Tadini, Gianni Colombo, Alik Cavaliere, Mino Ceretti, Mario Perazzi,
Franco Pardi, Maria Mulas, Alberto Sandretti, Ottiero Ottieri, Gustavo
Bonora e tanti altri amici e collezionisti, fino ai più giovani artisti ma
ancora studenti d’Accademia come me e Davide Benati.
Emilio era istrionico affabulatore con il suo eclettismo e con il suo
occhio pungente, colto e sottile; personalità asciutta, attivo, girava in
bicicletta con quei pantaloni dalle tante tasche e tasconi, giacche e
sciarpe.
Non riusciva a parlare tenendo ferme le mani, gesticolava e disegnava
ma sapeva anche scrivere meravigliosamente. Era un pittore letterato,
irresistibile oratore, curioso, attento all’alimentazione, disciplinato e
razionale nel suo costume di vita.
Conosceva bene e amava la pittura in un momento in cui quest’ultima
non godeva di attenzione. Emilio è rimasto fedele alla specificità del
linguaggio e alle immagini nel loro manifestarsi per illustrare storie;
il suo pensiero sull’arte era profondo e in continua crescita e con la
pittura trattava temi spesso di carattere sociale per via di quel suo
essere intellettuale impegnato, attento alla politica e alle vicende
della quotidianeità.
Quella vita quotidiana che era sempre presente fra gli accumuli dei
suoi oggetti, dei personaggi che raccontavano il teatro dell’esistenza,
metafore continue ritagliate, sminuzzate e ricomposte come
frammenti di un grande collage.
L’atelier del pittore era il suo set preferito, zeppo di libri dalle copertine
coloratissime, pennelli, tubetti di colore, cavalletti, maschere, tele
e finestre dalle quali si intravedevono le sue città fatte di case e
casermoni grigi, lampadine, bandierine, giocattoli, strumenti musicali,
candele, cappelli e tantissime altre cose, le cose gli piacevano molto
e attraverso le cose raccontava il teatro della vita.
Le sue campitura terse e piatte degli anni ‘70 si erano gradualmente
scaldate per diventare sempre più vibranti e mosse sotto pennellate
nervose e decise che avevano reso la sua pittura più plastica nei due
decenni successivi.
Alcuni detrattori della sua opera artistica lo hanno accusato di aver
continuato ad usare un linguaggio che sembrava ormai obsoleto
dopo le sperimentazioni che dalle neo avanguardie in poi avevano
rotto il filo della continuità della pittura.
Su questa idea della pittura concepita solo come uno dei tanti linguaggi
e comunque, ormai, dei meno efficaci, si sta cominciando finalmente
a riflettere e non è detto che non si riconsiderino le specificità e che
non si rivedano posizioni che a molti sembrano indiscutibili.
Emilio è stato uno dei tanti che ha lavorato una vita per trovare dentro
il tessuto connettivo della pittura le ragioni del suo tempo, lo ha fatto
con cultura, con personalità e impegno.
Emilio Tadini è mancato alla vita culturale di Milano, la sua intelligenza
è stata una risorsa per tutti noi, così come è mancato anche
all’Accademia di Brera con la sua personalità e la sua umanità.
Il giudizio sulla sua opera è forse ancora prematuro.
Gaetano Grillo
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L’Ecole Nationalle Superiéure des Beaux-Arts
de Paris
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accademie europee
Conversazione tra Nicolas Bourriaud, direttore
della Scuola Superiore di Belle Arti di Parigi e
Ivo Bonacorsi
Nicolas Bourriaud lei é una personalità pubblica nella vita
culturale francese e dunque si ha l’impressione di conoscere
bene il suo percorso professionale. E ciò attraverso mostre,
scritti importanti per il dibattito sul contemporaneo come
L’estetica relazionale, Postproduction e Radicant e i suoi
successivi incarichi, la direzione (assieme a Jerôme Sans) del
Palais de Tokyo e la Triennale della Tate... davvero nessuno però
si aspettava di ritrovarla alla direzione della Scuola Superiore di
Belle Arti di Parigi, le prestigiose Beaux Arts.
Ebbene eccomi qui. Il vantaggio di dirigere questa scuola, è che
(ride divertito) da sempre è stata anche un centro di esposizione, fin
dai tempi dei famosi «concours» e «prix». Dunque ne ripristineremo
funzoni e fasti; inaugureremo un vero Palais des Beaux Arts del quale
mi sto già occupando. Riapriremo tutti gli spazi espositivi possibili e
non solo quelli odierni sul Quai des Malaquais. Questo all’interno di
un disegno pedagogico complesso che mira a riposizionare l’artista
al centro. La figura fondamentale per la comprensione delle arti nel
XXI secolo e mi auguro che la scuola possa divenire il centro d’arte
che permetta di godere dei lavori dei nuovi diplomati e di quelli di
ex-allievi che nel tempo ne hanno costruito e ne costruiranno la
reputazione. Parlando di ex mi riferisco anche ai giovani che sono
emersi in questi anni come Neil Beloufa, Isabel Cornaro, Ivan Argote
e la cui reputazione internazionale è decisamente indiscutibile.
Quindi Nicolas Bourriaud non ha perso il vizio di fare delle
mostre ?
Al contrario aumenteranno in modo esponenziale visto che la scuola
ha delle collezioni formidabili: 450.000 opere dalla Renaissance a
oggi che comprendono la seconda raccolta di disegni, inferiore per
numero solo al Louvre, accumulatesi nel tempo per le quali abbiamo
già pronti dei piani espositivi, davvero efficaci.
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Praticamente é seduto su di una miniera d’oro…
Piuttosto una bella addormentata, (lo dice vezzosamente in inglese la
lingua che Bourriaud intercala con piacere nella conversazione ndr.)
una vera sleeping beauty. Per la quale il risveglio e l’abbraccio del
pubblico si farà velocissimamente attraverso una serie di momenti
espositivi. Riapriremo il Palais de Beaux Arts già a fine aprile 2013.
…Una premiere, quindi.
Claro! Ci concentreremo su artisti della seconda metà del XX secolo
e su figure teoriche come George Kluber e il suo davvero illuminante,
«ultramodernismo» come lo hanno definito.
Dunque l’eccessivamente moderno, alla «ricerca di quelle
ricerche» intorno alla nostra contemporaneità che hanno
rivalorizzato il tempo come componente attiva nell’esperienza
artistica e non solo forma o spazio. Ora penso al suo nuovo
Radicant…
-(scherzando dice) Credo inaugurerò una forma di Google curating!
uno stretching dell’idea benjaminiana dell’angelo della storia, nel
quadro di Klee
Con meno rovine e più immagini ai suoi piedi…
È come partendo da una immagine su di un motore di ricerca si
procede automaticamente in diverse direzioni. Inviteremo a Parigi
artisti di grande qualità e organizzeremo mostre molto specifiche ma
con caratteristiche individuali. Dall’ ipercontemporaneità di Carol Bove
alle proposizioni di grandi artisti anche sconosciuti al pubblico come
Glauco Rodrigues, morto nel 2004 e da noi praticamente inedito. Io lo
definirei il Richard Hamilton brasiliano, incisore fuori dal comune con
un’opera post-coloniale stupefacente. Più in generale, ogni sezione
espositiva avrà una cospicua selezione di opere e grande attenzione
alle sinergie, visto che pubblicheremo molte monografie importanti.
Dunque lei vede il momento espositivo, come una questione
centrale anche nell’offerta pedagogica.
Io voglio costruire un programma culturale forte che ruoti attorno
alle esposizioni (tavole rotonde e convegni) ma soprattutto in grado
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Siete già una istituzione molto prestigiosa e soprattutto
pubblica, la vostra reputazione è solidissima e ora mi pare lei
cerchi un posizionamento internazionalmente molto più forte…
una visibilità in uno scenario globalizzato.
Vorrei creare un ecosistema, che possa integrare le potentizialità
degli artisti di fama che inviterà e che interverranno, lavorando nei
workshops con i nostri studenti.
Un poco come ha fatto Urs Fisher con la sua installazione per il
Festival D’Automne.
Sì esatto e tutti gli anni sui due ettari di spazio della scuola avremo
la possibilità di misurare questa sinergia tra artisti in carriera ed
affermati e giovani studenti.
Non vi mancherà certo lo spazio. Con quello che state riabilitando
e considerando spazi come la Chapelle e la Cour d’honneur,
prestigiosi e oramai entrati nella routine espositiva con la loro
carica storica ed il loro notevolissimo potenziale estetico.
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D’altra parte già al Palais de Tokyo quando era poco più che uno
squat inserito in un’architettura mozzafiato avevamo dimostrato,
andando controcorrente, che era possibile fare mostre un poco
dappertutto. Qui sarà forse più semplice. E, diciamolo, diventerà uno
spazio simbolico che va dal Louvre al Palais de Tokyo. I diplomati
delle Beaux Arts saranno sicuramente dopodomani al Palais de
Tokyo e sicuramente noi diventeremo dei players (giocatori) attivi in
relazione alla città di Parigi. Il nostro corpo insegnante è già molto
rappresentativo, da Thomas Hirchornn a Tania Brugeira , Boltansky,
Penone...
Penso alle nomine per chiara fama che sono la specificità delle
nostre accademie...
La nostra faculty è per l’appunto di primissimo ordine.
E a livello di budget, visto che con i tempi che corrono anche in
Francia i tagli sono stati abbastanza cospicui? Lei pensa di fare
entrare il privato, parlo di contributi e sponsorizzazioni…?
Credo proprio che è così che rientremo nella misura economica
dell’esercizio.
accademie europee
di connettere il momento espositivo all’apprendimento. Come dicevo
all’inizio della nostra conversazione, vorrei che la scuola diventasse
il primo e vero agente non solo nella formazione ma anche nel
passaggio nella società dei nostri giovani diplomati.
E chi pensa che siano, in termini di offerta, i grandi concorrenti
della sua scuola? le scuole tedesche, quelle inglesi o le
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accademie europee
prestigiose università private americane?
Per farle un esempio che può riassumere bene la situazione, noi
siamo sicuramente meglio del Goldsmith di Londra, con la differenza
che noi costiamo 500 euro l’anno e loro seimila. La Saint Martin’s
è più centrata sulla moda, ma noi abbiamo una miriade di progetti
esterni .Uno che le anticipo investirà la rue Beranger, la sede del
quotidiamo Liberation, in una direzione museale.
Una strategia ben sviluppata attorno alla centralità comunque
dei vostri splendidi ateliers.
Sì, per noi sono come dei templi di Shaolin, arti marziali dove si
apprende filosofia . E poi altri luoghi orientati alla tecnica in cui si
apprendono ovviamente dalla ceramica alle nuove tecnologie.
Stiamo investendo anche sull’estero dove esportiamo programmi e
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ateliers, come recentemente in Brasile.
Importante anche il rinnovamento del sito web e della nostra relazione
alla rete, lavoro che è solo cominciato. Delegheremo ad ogni atelier
una presa diretta sul loro programma. Ci si potrà collegare e attraverso
una webcam accedere alla vita e alle loro attività con aggiornamenti
in tempo reale.
E come vede in questo momento di crisi la sua relazione al
potere politico, in una scuola come la sua che nei secoli è stata
«diretta attraverso nomine dirette», fin dalla sua nascita, prima
regale e poi repubblicana? Si arriva alla sua posizione come?
Ovviamente per nomina della presidenza della repubblica…
dunque nominato da Sarkozy e ora alle prese con una gestione
socialista…
È ovvio che la politica, i politici vanno convinti con i fatti che si stia
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nominando la persona giusta, per lo meno questo è il mio caso. E
ora, proprio come era successo per il Palais de Tokyo, vorrei che le
Beaux Arts diventassero la referenza per l’educazione artistica e non
solo in Francia. E quindi inventare una veramente un nuovo tipo di
scuola.
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accademie europee
*Ivo Bonacorsi, artista e scrittore, è nato a Vergato (Bologna) nel 1960. Si
laurea in Fenomenologia degli Stili nel 1987 al D.A.M.S di Bologna. Dopo
avere vissuto a Milano, dal 1997 risiede a Parigi, dove insegna Drawing
concepts e tiene laboratori alla Parsons Paris School of Art & Design e alla
Paris College of Art; è corrispondente per l’arte per «Domus» e «il Manifesto».
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Franco Marrocco
nel palazzo di via Brera alla Pinacoteca solo quando
sarà pronta la nuova struttura di ventiseimila metri
quadri nell’area delle ex caserme Magenta e Mascheroni. Qual è la tua posizione a riguardo?
Io sono fra coloro che hanno condiviso sin dall’inizio
quell’accordo e cioè che il nostro ampliamento debba avvenire nel futuro nuovo campus universitario Brera che
consterà di una superficie utile coperta di circa ventiseimila metri e comunque mantenendo Il cuore in via Brera, 28. La nostra esigenza di ampliare gli spazi destinati
alla didattica dipende dal grande incremento d’iscritti che
abbiamo avuto negli ultimi anni, congiunto ad un fortissimo ampliamento dell’offerta formativa con nuovi Corsi, Scuole, Dipartimenti. Abbiamo bisogno certamente
di mettere a disposizione dei tanti studenti spazi idonei
affinché essi possano studiare e operare adeguatamente. E’ chiaro che l’Accademia di Brera non intende venir
meno all’impegno preso con l’accordo del 2010 benchè
negli ultimi tempi il direttore Mariani aveva assunto posizioni di arroccamento che sono apparse andare nella
direzione opposta.
La preoccupazione di molti è che l’attuale congiuntura economica e la fretta di realizzare il progetto Grande Brera, almeno in parte, per l’EXPO 2015, posso
portare come conseguenza a soluzioni affrettate e
ancor più gravemente frazionate. I fondi che recentemente ha stanziato il MIBAC, nella misura di ventitre
milioni in quote da dividere in parti ancora non esattamente definite fra Pinacoteca e Accademia certo
non sono minimamente sufficienti per pensare che in
meno di tre anni si possa portare a compimento l’accordo del 2010. Peraltro i finanziamenti del Ministero
dei Beni Culturali pare che non siano destinabili a
nuove costruzioni ma vincolati al recupero di beni
esistenti e ritenuti d’interesse artistico e culturale.
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La questione dell’allargamento e dell’accordo che fu fatto allora è da chiarire perché i termini erano che a noi
avrebbero dato spazi pari a ventiseimila metri quadri,
che questi potevano essere eventualmente modificati o
strutturati secondo le nostre esigenze, in cui noi avremmo potuto anche costruire qualcosa di nuovo e noi a tale
proposito vorremmo essere garantiti da un concorso internazionale.
nuovi direttori
Foto di Cosmo Laera
…vorrei che la nostra accademia torni a essere
un luogo in cui l’immaginazione e la creatività
corrispondano alla poesia. Che Brera torni a essere un luogo in cui si riscoprano i valori dell’umanità e dei sentimenti, che torni a essere un
grande laboratorio d’idee.
A cura di Gaetano Grillo
Chi è Franco Marrocco?
Io ho cominciato a studiare all’Accademia di Frosinone negli anni ’70, poi sono
passato a quella di Roma ed ho cominciato a insegnare come docente di pittura
nei primi anni ottanta in varie accademie come Frosinone, Bologna, Palermo,
Reggio Calabria e sono entrato in ruolo come assistente di Anatomia nel 1989 e
dal 1995 sono entrato sul mio ruolo di docente di Pittura.
Una nuova avventura in un momento storico molto delicato e importante
per l’Accademia di Brera per la coincidenza di più circostanze come l’imminente Expo e il progetto “Grande Brera”, già avviato da Franco Russoli
agli inizi degli anni ’70 ma che nel 2010 sembra essere giunto a un accordo
di massima. C’è la volontà del MIBAC di dare avvio al più presto alla realizzazione dell’ampliamento sia degli spazi della Pinacoteca sia degli spazi
dell’Accademia, prova ne è il primo concreto finanziamento disposto dal
Ministro Ornaghi. Tu sai bene che la posizione dell’ex direttore Gastone
Mariani è stata molto intransigente a proposito nel senso che ha affermato
sempre con molta fermezza che l’Accademia cederà parte dei suoi spazi
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Continuiamo a credere che ci sia lo spazio per indire un concorso internazionale per il grande campus
Brera, cosa che sicuramente stimolerebbe molti architetti, visto il prestigio di cui la nostra istituzione
continua a godere.
Certo noi dovremmo lasciare il Cortile Napoleonico, che
è uno dei più belli d’Italia e dovremmo avere in cambio
almeno spazi adeguati alla didattica dell’arte. Credo che
noi dobbiamo difendere il nome di Brera e la sua notorietà nel mondo. All’interno del palazzo di via Brera, 28
siamo il condomino con più millesimi ed è evidente che ci
deve essere corrisposto in cambio qualcosa d’importante
sia sul piano estetico che volumetrico
Giustamente hai fatto notare che all’interno dell’edificio storico l’Accademia è l’istituzione che ha più millesimi ma dovremmo anche dire che è l’Accademia a
dare storia e vita sia alla leggenda artistica che caratterizza l’intero famoso quartiere sia agli esercenti
che vi operano apportando non solo colore, energia
e se vuoi folclore, ma anche la presenza vera di ogni
giorno con circa quattromila persone fra studenti,
docenti, impiegati e ospiti continui; senza di noi molto probabilmente il quartiere di Brera imploderebbe
ma tutto ciò considerando anche la straordinaria
identità del Palazzo di Brera, forse unico al mondo
per l’idea illuminista che era quella di avere un’istituzione all’interno della quale dovessero convivere
i sapèri delle arti, delle scienze e delle lettere. Uno
straordinario luogo di polifonie culturali per il quale
si chiede appunto il riconoscimento di sito Unesco.
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Credo che noi non dobbiamo perdere questa identità e questa energia che poi si espande verso il quartiere e verso la città ma allo stesso tempo dobbiamo tenere presente due esempi straordinari di casi
che ci hanno preceduto: l’Accademia di Venezia e di Bologna. A Bologna l’Accademia in sostanza convive con la Pinacoteca, diventando
un tutt’uno anche dal punto di vista della gestione. Credo che sia una
soluzione felicissima. Mentre a Venezia l’Accademia dopo aver lasciato all’espansione della Galleria dell’Accademia (che porta ancora
il suo nome) i suoi spazi in cui svolgeva la didattica, si è trasferita
(questo caso è stato un vero trasferimento) nel vicino Ospedale degli
Incurabili (ex Lazzaretto) all’interno del quale ha potuto articolare la
sua funzione in spazi ben più ampi e luminosi di quelli storici. Questi
sono due esempi che dobbiamo tenere in considerazione. Ribadisco
comunque che l›espansione di Brera debba realizzarsi con un concorso di idee dove gli spazi assegnatoci possano essere rimodellati
con innesti di elementi architettonici nuovi (contemporanei) ridando
un nuovo aspetto estetico anche al quartiere.
L’Accademia di Brera è la più importante Accademia d’Europa
anche per un altro aspetto che spesso la gente non considera e che è in vece di rilevante valore, il suo patrimonio storicoartistico. Un patrimonio che si è accumulato durante oltre due
secoli, attualmente dislocato in più sedi, che costituisce il cuore
dell’Accademia. Oggi può apparire una questione che riguarda
il Ministero dei Beni Culturali ma il nostro patrimonio è nato da
e per la didattica ed io penso che ad essa debba continuare ad
essere indissolubilmente connesso. Cosa pensi a riguardo?
Per quanto riguarda il problema del patrimonio, noi forse abbiamo
quello più importante e interessante di tutte le accademie italiane,
dal neoclassicismo ai nostri giorni (opere dei maestri dell’Accademia
di Brera, dipinti, sculture, disegni, gabinetto delle fotografie ecc.) e
sappiamo che di recente il nostro Presidente è stato nominato responsabile amministrativo; proprio in questi giorni si stanno creando
dei gruppi di lavoro dove si dovranno segnalare i responsabili tecnici
di questo ingente valore. Naturalmente oltre a Brera c’è anche il patrimonio di altre accademie, quelle storiche (Napoli, Bologna, Firenze,
Venezia ecc.). Credo che dovremo adoperarci per avere al più presto
la catalogazione definitiva di tutti i pezzi che compongono il nostro
patrimonio.
Brera però è anche e soprattutto un’accademia ricca di patrimonio professionale perché nel passato ma anche oggi, vi hanno
insegnato e vi insegnano ancora artisti di valore, critici e storici
d’arte fra i più accreditati d’Italia, tanti intellettuali e tecnici di
sofisticata esperienza, senza citare la sua vocazione per l’innovazione e l’avanguardia, per la tecnologia ecc. Brera è una instancabile fucina d’iniziative culturali a tutto campo, di ricerca,
sede di convegni e lectio magistralis di figure di altissimo profilo
internazionale. Immagino che tu intenda potenziare questa attività ma soprattutto ti renda conto che debba essere considerata
e riconosciuta molto di più, specie dalla città.
Abbiamo parlato della sede, della “Grande Brera”, del suo Patrimonio, non ci resta che parlare del suo patrimonio umano e professionale. Quasi quattrocento professori di cui quasi la metà
in ruolo, migliaia di studenti ma, con tutte le sue enormi risorse
Brera non è considerata ancora Università e dopo ben tredici
anni dalla riforma i docenti sono ancora inquadrati in fasce stipendiali secondarie e gli studenti non hanno una vera e propria
laurea ma diplomi accademici equipollenti alle lauree solo nei
casi di concorsi pubblici. Perché i nostri studenti devono fare un
percorso di studi universitario con gli stessi costi di una qualsiasi Università Statale e non possono avere una laurea a tutti gli
effetti? Cosa pensi a riguardo?
Io credo che questo disegno di legge debba diventare esecutivo per
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I regolamenti attuativi per rendere ordinamentale il Biennio Specialistico non sono ancora stati emanati nonostante la riforma
sia partita con i Bienni prima ancora di attivare i Trienni e di
mandare ad esaurimento i Quadrienni, ti sembra normale? A
Brera poi bisogna aggiungere un requisito davvero rilevante e
cioè che il suo tasso d’internazionalizzazione degli studenti è il
più alto di qualsiasi università italiana. La sua fama nel mondo
è tale che ci giungono allievi da ogni nazione. Tante forze e interessi di parte agiscono dietro le quinte per rimandare sempre il
definitivo riconoscimento universitario delle Accademie; anche
gli stessi sindacati. Tu credi che noi docenti delle accademie
dobbiamo ancora essere rappresentati dai sindacati come nella
scuola secondaria? Credi che andremo a fare il prossimo contratto nel comparto scuola?
La questione dei sindacati è molto delicata perché nel momento in
cui un sindacato non riconosce la funzione di un lavoratore e ostacola il riconoscimento della sua funzione di formatore terziario è in
evidente paradosso. Io non sono contro i sindacati perché non sono
contro i lavoratori ma sono contro quei sindacati che ostacolano il
processo di riconoscimento dello status universitario che hanno raggiunto le Acccademie. Questo mi pare logico ma probabilmente dobbiamo prestare attenzione alle iniziative dei sindacati che diventano
troppo ingerenti.
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Io credo che l’istituzione dell’AFAM avrebbe potuto costituire
una specialità qualora fosse servita a potenziare quelle specificità artistiche costituendo un’eccellenza mondiale dell’Italia.
Poiché nei fatti l’AFAM ha confinato questi sapèri in un limbo
che è di fatto inferiore all’università, per i motivi che abbiamo già
trattato e non ultimo anche per l’anomalia del livello formativo
dei minori nei Conservatori di Musica, vuol dire che se quello
era il suo obiettivo non solo non è stato raggiunto ma ha bloccato le Accademie nella condizione ibrida in cui ancora si trovano.
Sono d’accordo con te sul fatto che l’AFAM avrebbe potuto costituire
un’eccellenza delle arti italiane ma se questo comparto ha congelato
le nostre istituzioni tenendole ferme al palo, vuol dire che ha svolto
un ruolo negativo. Noi dobbiamo domandarci se questo comparto,
così come è strutturato, è funzionale alle nostre esigenze, punto di
domanda.
Le cose da fare sono tante ma individuiamo una scala di priorità;
da dove inizierà il nuovo Direttore dell’Accademia di Brera?
Le priorità sono almeno tre: La “Grande Brera”, l’Università e la didattica. Noi siamo principalmente dei formatori e dobbiamo avere al
centro la didattica, dobbiamo ripartire da lì. Non per cancellare tutto
quello che è stato fatto fino ad ora perché è stato fatto tantissimo
ma dobbiamo riflettere su alcune questioni che abbiamo avuto modo
di sperimentare in tutti questi anni; probabilmente dobbiamo limare
alcune cose ma anche potenziarne altre per accreditarci sempre più
come un’istituzione di eccellenza.
Franco Marrocco dice che inizierà dalla didattica ma sicuramente a un artista non mancherà un sogno nel cassetto, c’è questo
sogno?
nuovi direttori
Noi abbiamo avuto e abbiamo ancora dei grandi maestri, come dicevi
tu, spero che ce ne siano ancora perché vorrebbe dire parlare di noi.
Brera nella sua eterogeneità ha figure rilevanti del mondo dell’arte;
è chiaro che è e sarà una mia responsabilità, ma anche di tutti noi,
potenziare questa nostra energia. Siamo un punto nevralgico del sistema ma la città, non sempre ci riconosce questo ruolo, anche se
per fare un esempio, uno dei nostri ex alunni famosi è proprio Dario
Fò che continua a sostenerci sempre come può. Inutile dire che io
avrò cura di sollecitare la pubblica amministrazione, stuzzicandola,
magari interessando lo stesso Sindaco. Spero di riuscirci e di far tornare Brera al centro.
mettere definitivamente ordine a questa paradossale situazione ed
è assolutamete ingiusto che i nostri studenti debbano ritrovarsi ad
avere un diploma triennale e uno magistrale con il percorso del 3+2
senza che sia una vera laurea penalizzando le loro future carriere. Io
penso che dobbiamo davvero portare a buon fine questo percorso
dopo ben tredici anni di attesa. Abbiamo dei progetti da attivare anche per le fasi successive al Diploma Accademico Magistrale, stiamo
facendo dei dottorati di ricerca con altre Università italiane e internazionali, anche in oriente e occidente, per cui noi abbiamo tutti i requisiti perché la nostra funzione di formatori venga riconosciuta come
assolutamente universitaria. Proprio in questi giorni alla VII Commissione, come tu sai benissimo, stanno discutendo gli emendamenti
dell’On. Scalera e noi dobbiamo fare di tutto per dare dei segnali in
questa direzione anche alla politica.
Più che un sogno si tratta di un’ambizione; vorrei che la nostra accademia torni a essere un luogo in cui l’immaginazione e la creatività
corrispondano alla poesia. Che Brera torni a essere un luogo in cui
si riscoprano i valori dell’umanità e anche dei sentimenti, che torni a
essere un grande laboratorio d’idee.
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foto: Giuseppe Fiorello
studenti con le proprie esperienze artistiche. Sono
cresciuto artisticamente con alcuni maestri che
hanno insegnato in accademia: Mimmo Conenna,
Michele De Palma, Roberto De Robertis, Fernando
De Filippi, Mario Colonna, Amerigo Tot, ecc. La mia
prima mostra personale è stata realizzata nel 1979
nella galleria Pino Pascali di Polignano a Mare. In
quell’anno ebbi l’incarico di assistente alla cattedra
di decorazione con il maestro Mimmo Conenna e
sempre in quel periodo fui assistente di artisti della
scuola napoletana (Augusto De Rose, Del Vecchio
Berlingieri, ecc.) che a loro volta erano stati assistenti
di grandi maestri come Brancaccio, Notte, Capogrossi.
Dal 1997 al 2000 ebbi l’incarico di docente della
cattedra di decorazione presso l’Accademia di Belle
Arti di Palermo, un’esperienza importante e parecchio
interessante per la mia formazione. Palermo era un
crocevia di artisti, giunti da tutta Italia, l’accademia era
il cuore pulsante della città. Tornai a Bari nel 2000 e
partecipai attivamente a tutte le iniziative artistiche di
grande rilievo organizzate con diverse gallerie d’arte.
Sono presente sulla scena artistica da più di trent’anni,
con mostre collettive e personali in Italia e all’estero.
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nuovi direttori
maestri
storici
Giuseppe Sylos Labini
L’Accademia di Bari deve partecipare alle
iniziative artistiche di maggior rilievo che si
svolgono a Bari. L’Accademia è l’Università
dell’arte e nessuno deve dimenticare o far
finta di dimenticare che a Bari c’è questa
realtà attiva.
A cura di Gaetano Grillo
Beppe Sylos Labini, da poco eletto alla direzione dell’Accademia di Bari, dopo
la lunga direzione di Pasquale Bellini; torna un artista a dirigere un’accademia
in una città molto importante nel sud, cosa può significare? Chi è Beppe
Sylos?
La condizione di artista è necessaria per guidare un’accademia di belle arti.
Ultimamente stiamo assistendo infatti ad un cambiamento di rotta in diverse città
dove l’artista docente riceve l’incarico per la direzione. Per un artista dirigere
un’accademia è un’esperienza nuova e importante; certo dovrei trovare la forza
e la determinazione per affermare le posizioni di tutti gli artisti che in qualche
modo rappresento. Appartengo alla generazione di artisti docenti, persone che
portano avanti le loro ricerche, che hanno dato molto alle accademie e ai tanti
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L’Accademia di Bari aveva avuto un affievolimento
della sua visibilità a causa dello spostamento nella
bella ma decentrata sede di Mola di Bari, voluta
diversi anni orsono dal precedente direttore Mario
Colonna. Ora che è tornata in città ha registrato un
nuovo incremento di studenti? Quanti ce ne sono
in questo anno accademico?
Per quanto riguarda lo spostamento dell’accademia
nella sede di Mola di Bari ritengo sia doveroso precisare
che nel 1996 ci fu la disdetta del contratto di affitto
della prima sede di Bari e l’amministrazione comunale
di allora voleva spostare l’accademia da quella sua
sede ad una estremamente periferica con locazione
molto disagevole per gli studenti. Si rese disponibile il
comune di Mola e l’allora direttore Colonna fu costretto
al trasferimento della sede operativa e dei laboratori in
una struttura storica (l’ex convento di Santa Chiara).
Dal 2007 siamo nuovamente a Bari, sulla via Re
David, in spazi didattici completamente ristrutturati e
utilizzati in un edificio al piano terra e un primo piano
per i corsi del triennio mentre nella struttura di Mola di
Bari ospitiamo i corsi del biennio con alcuni laboratori.
Naturalmente il ritorno a Bari ha registrato un notevole
incremento di studenti nonostante il disagio di una
sede di circa duemila metri quadri. Le attuali iscrizioni
contano circa settecento studenti.
Tu sei un artista e generalmente gli artisti non
amano la burocrazia, che purtroppo con la riforma
ha avuto un enorme aggravio di formalità, come
vivi questa doppia dimensione?
Riesco a far coincidere la direzione con il mio lavoro di
artista. Certo il numero di ore passate in studio si sono
ridotte e lavoro sui miei progetti che dopo sviluppo
con calma e riflessione. Ogni atto della progettualità
artistica ha bisogno di questo. In accademia tuttavia
c’è si concentrazione ma è un’attività convulsa da parte
di tutti, questa doppia dimensione è interessante, una
sorta di sdoppiamento della personalità. Sono pochi
ormai gli amanti della burocrazia o quelli che sono
costretti ad amarla, io preferisco la fantasia al potere.
La città di Bari da molti anni avrebbe l’esigenza di
avere un’accademia di alto profilo anche perché
Bari è il capoluogo di una regione bellissima,
vivacissima e terra di tanti artisti e intellettuali,
di collezionisti d’arte, editori, imprenditori di
successo ecc. Cosa pensi di fare per rilanciare la
vostra istituzione?
Si deve fare di più, chiederò a tutti gli organi competenti
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della città la massima collaborazione e determinazione affinché si
realizzino sinergie con l’università e con altre istituzioni pubbliche e
private.
Di recente vi è stata assegnata una grande area centrale per
costruire la nuova sede dell’Accademia, ce ne vuoi parlare nei
dettagli?
Nel mese di agosto 2012 è stato firmato un protocollo d’intesa tra il
comune di Bari e l’Accademia di Belle Arti che riguarda la concessione
a titolo gratuito all’Accademia di una porzione di spazi all’interno
dell’ex “caserma Rossani”. Si tratta di una superficie di quattromila
metri quadri, uno spazio di grande prestigio e importanza strategica,
situata nel cuore della città, vicinissimo alla stazione ferroviaria, una
location molto comoda per l’utenza studentesca.
Come intendete procedere? Chi verserà le risorse finanziarie
per realizzare questo ambizioso progetto?
Le somme saranno ripartite dal Ministero, dalla Regione e dalla
Provincia che già versa un fitto oneroso per la sede attuale che si
può convertire in somma da destinare all’attivazione di un mutuo per
le risorse necessarie. Naturalmente i tempi non saranno affatto brevi
per una completa e radicale ristrutturazione degli spazi assegnati.
Come tu sai anch’io sono pugliese, benchè emigrato a Milano
negli anni ’70 proprio per studiare all’Accademia di Brera, alla
Puglia sono legatissimo e per la Puglia sono sempre attivo e
disponibile ma da tantissimi anni parliamo di un Museo d’Arte
Contemporanea, pensi che potrebbe essere possibile costruire
un polo culturale in cui convivano l’accademia e un futuro
museo?
L’idea esiste, sempre nello spazio della ex caserma Rossani. In
quell’area si trovano edifici da tempo dismessi; la superficie totale
infatti è di ben ottanta mila metri quadri. In questi enormi spazi
potrebbe sorgere un polo culturale ben definito comprensivo del
museo d’arte contemporanea, dell’accademia di belle arti e anche di
svariate gallerie d’arte contemporanea. Trattandosi di opere onerose
mi auguro che Regione e Comune di Bari trovino un accordo che
possa regalare alla città ciò che si merita per una nuova fase della
sua storia.
Credi che le accademie abbiano i requisiti per confluire nelle
università oppure pensi che dovrebbero restare nell’AFAM?
Le accademie hanno tutti i requisiti per confluire nelle università
perché dotate dello stesso sistema simmetrico-formativo con in più
Scuole e laboratori. E’ risaputo che l’accademia è l’università dell’arte,
come è riconosciuta negli altri paesi europei, dove le accademie
sono a tutti gli effetti “facoltà di belle arti”. Non sto affermando nulla
di nuovo.
L’accademia possiede un suo patrimonio, piccolo o grande che
sia, di arte antica o contemporanea? Hai pensato di costituire
una collezione d’arte contemporanea dell’accademia?
Si, abbiamo alcune opere di artisti che hanno insegnato in accademia.
Il mio obiettivo è quello di reperire altre opere di artisti pugliesi e non,
e di costituire una buona collezione di arte contemporanea.
Cosa intendi fare per sintonizzare l’Accademia con le iniziative
artistiche che si svolgono a Bari?
L’accademia di Bari deve partecipare alle iniziative artistiche di
maggior rilievo che si svolgono a Bari. L’accademia è l’università
dell’arte e nessuno deve dimenticare o far finta di dimenticare che a
Bari c’è questa realtà attiva.
Qual’è il primo obiettivo che ti sei posto in questo mandato?
Il mio primo obiettivo è la nuova sede e un’accademia di alto profilo.
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Gli studenti si iscrivono a scultura
sia per la specificità storica della
nostra accademia e culturale del
territorio, sia per la qualità dei
laboratori dislocati in più parti della
città, bene attrezzati anche per la
lavorazione del marmo e la fusione
del bronzo.
Che cosa pensi dell’attuale situazione delle Accademie a livello
di volontà (?) politica a 12 anni dal varo della riforma-fantasma?
Credo che il nostro processo di riforma abbia battuto tutti i record
di durata nella storia della Repubblica italiana e non solo. I governi
succedutisi nell’arco di questo periodo non hanno mai preso nella
giusta considerazione il nostro settore, a parte il sottosegretario Dalla
Chiesa, ultimo governo Prodi, che qualcosa ha cercato di fare, ma
sappiamo tutti com’è finito. Considerando che già al suo apparire, nel
‘99, la riforma era a costo zero per lo Stato e che, negli ultimi anni i
tagli delle varie finanziarie hanno ridotto ad una miseria i contributi
statali… Che dire, la situazione è drammatica e rischia di peggiorare
ancor più. Quest’anno che inizia abbiamo fatto i salti mortali per
poter garantire agli studenti l’offerta formativa in essere, non so se
saremo in grado di garantirla anche per l’anno prossimo. L’attuale
fase politica-amministrativa-economica italiana è purtroppo quella
che tutti conosciamo. Certo è che l’attuale governo tecnico aveva
indotto qualche timido ottimismo circa la risoluzione, seppur a costo
zero, degli annosi problemi che ci affliggono.
Lucilla Meloni
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nuovi direttori
A cura di Elisabetta Longari
Quanti iscritti a Carrara? Di che nazionalità? Tutti attratti dalla
scultura?
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Abbiamo circa seicento iscritti, in prevalenza italiani, ma anche cinesi
e coreani, europei e sudamericani. Gli studenti si iscrivono a scultura
sia per la specificità storica della nostra accademia e culturale del
territorio, sia per la qualità dei laboratori dislocati in più parti della
città, bene attrezzati anche per la lavorazione del marmo e la fusione
del bronzo. Oltre all’interesse per la scultura, registriamo un’ottima
affluenza anche a Pittura, a Grafica, a Nuove Tecnologie dell’arte, al
Restauro.
Avete un dipartimento di multimedialità? Sai, tra gli stereotipi
c’è l’immagine di Carrara come luogo di cavatori, scultori alla
Michelangelo e scalpellini....
Ifatti gli stereotipi sono da evitare! Innanzitutto per l’Accademia di
Carrara sono passati, negli anni, artisti e designer come Bruno Munari,
Roberto Sambonet, Enzo Mari, Luciano Fabro e Getulio Alviani…..E
la stessa città di Carrara, con i suoi laboratori, vede la presenza di
artisti contemporanei, che qui realizzano i loro lavori in marmo, come
ad esempio Maurizio Cattelan o Jan Fabre. Tieni anche conto che
la Biennale di Scultura di Carrara, che vede l’Accademia coinvolta
nell’evento, è un’ulteriore occasione per verificare la molteplicità dei
linguaggi della scultura contemporanea, e come l’uso del marmo sia
ad essi trasversale.
E sebbene la lavorazione del marmo rappresenti l’eccellenza del
nostro territorio, questo fattore non limita, in senso didattico, lo
sviluppo di linguaggi e di ricerche di altro tipo, sia a livello della
scultura, che altrove. Infatti abbiamo un importante dipartimento
di arti multimediali, fra i primi nati in Italia, che addirittura
per alcuni anni ha avuto il maggior numero di iscritti, dove
lavorano tra i più importanti professionisti del settore. Abbiamo
l’area robotica, che ci permette di creare un’intersezione tra i
linguaggi della scultura e quelli delle nuove tecnologie dell’arte.
Dirigere un’Accademia per un teorico che significa?
Come sai per tua esperienza, noi siamo abituati a fare dei progetti
Anna Russo
Come concili la direzione con la tua attività scientifica e la
didattica? Insegni?
Non insegno perché non ho più il tempo per farlo, poiché la direzione
richiede molto lavoro e molto tempo dedicato ai rapporti istituzionali.
Un modo per conciliare la ricerca con questo tipo di impegno è quello
di promuovere in Accademia anche momenti di incontro e di dibattito
e un’attività espositiva.
Grazie a un pool di docenti, che la mia direzione ha ereditato da quella
precedente, con cui si è situata anche dal punto di vista progettuale in
linea di continuità, e grazie alla professionalità dei colleghi impegnati
nei vari progetti, abbiamo realizzato sia delle mostre, che un ciclo
di conferenze che ha portato in Accademia artisti, collezionisti,
critici d’arte, critici musicali: da Giorgio Maffei ad Antonio Presti, da
Concetto Pozzati a Gianni Dessì, da Giorgetto Giugiaro al Maestro
Giuseppe Bruno, al musicologo Gabriele Giacomello.
Stiamo procedendo al restauro, già avviato negli scorsi anni, della
nostra storica gipsoteca, e una sua parte importante è stata restituita
alla visibilità e quindi, alla collettività. Proprio sull’asse antico/
contemporaneo ci siamo mossi proponendo mostre che mettevano
in relazione I gessi di Canova, di Thorvaldsen, di Bartolini e della
scuola carrarese dell’Ottocento con artisti contemporanei, e abbiamo
coinvolto in questo progetto, prima Omar Galliani e poi Gianni Dessì.
Penso che tutto il sistema accademico debba confluire
nell’università conservando l’unicità e la specificità che
caratterizza i nostri saperi.
A cura di Gaetano Grillo
foto: Federico Losito
nuovi direttori
maestri
storici
16
(o di mostre, o editoriali, o di convegni) che presuppongono, sempre,
una forma di conoscenza applicata.
Il problema vero è che bisogna imparare a conciliare un progetto
con la sua possibilità di realizzazione. In questo momento economico
particolarmente difficile per il nostro Paese, e nello specifico anche
per le singole istituzioni pubbliche, ci si confronta con la quasi
impossibilità di “fare”, oltre l’ordinaria amministrazione. Ecco, allora io
credo che in un caso del genere bisogna tentare di mettere in campo
delle forme di resistenza, cercare delle soluzioni che consentano a
un’istituzione definita di alta formazione come l’Accademia, di non
scivolare nella rassegnazione, nell’appiattimento….
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Anna Russo, da poco eletta alla direzione dell’Accademia di Catanzaro, chi è Anna Russo? Traccia un profilo di te stessa!
Tracciare il proprio profilo è un pericoloso meccanismo, quasi sempre contraddittorio. Determinazione, disciplina, energia, entusiasmo
e passione sono gli strumenti quotidiani con i quali affronto la sfida
quotidiana del mio lavoro da Direttore.
L’Accademia di Catanzaro è al centro di un territorio molto vasto
che comprende tutto il grande bacino del mar Ionio e un entroterra assolutamente privo d’istituzioni di questo genere; potenzialmente un’area interessante. Una piccola accademia ma in
una cittadina particolarmente vivace dal punto di vista culturale
e sensibile all’arte. Città natale di Mimmo Rotella, di cui c’è l’omonima Fondazione e sede di iniziative artistiche sovente ambiziose e di sofisticati collezionisti d’arte come il notaio Rocco
Guglielmo. Diamo una svolta a questa accademia? In quale direzione?
Il mio progetto di svolta nasce da un necessario rinnovamento organizzativo e strutturale dell’Accademia che ci indichi un percorso
d’identità universitaria. Stiamo già elaborando nuovi bienni specialistici e tracciando collaborazioni con altre Accademie, Conservatori
e Centri di Produzione per facilitare la circuitazione della ricerca e la
conseguente crescita della nostra istituzione.
Tu sei un architetto, ci descrivi come è strutturata la sede, su
quale superficie, con quali punti di forza e con quali debolezze?
La nostra sede si sviluppa su una superficie di circa 1200 mq, organizzata su due piani in una struttura progettata per l’edilizia scolastica; la modularità degli spazi, che permette un’equilibrata organizzazione didattica ed un’intensa luminosità, sono i punti di forza della
struttura. La carenza di ampi spazi laboratoriali, di aggregazione ed
espositivi e il decentramento rispetto al centro storico sono i fattori di
debolezza che determinano la continua ricerca di una sede “stabile”.
Come architetto cosa faresti per migliorare l’impianto dell’edificio?
Mi piacerebbe realizzare una straordinaria controfacciata e poter
sventrare gli interni, eliminando percorsi anonimi ed estranianti
Come sognatrice invece, cosa vedresti?
Il sogno è quello di uno spazio nel tessuto storico della città per un
maggiore collegamento con la vita civile, sociale e culturale del terri-
torio. Ciò equivarrebbe ad un evidente riconoscimento etico dell’Accademia come unico e specifico ruolo nell’alta formazione artistica
degli studenti, che ancora credono che l’arte sia il punto più alto
dell’immagine del Paese. Da poco l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro ha vinto a Torino il Premio delle Arti per la sezione Decorazione,
una splendida occasione per rafforzare l’importanza e la vitalità delle
“piccole Accademie”.
Credi che le accademie abbiano i requisiti per confluire nelle
università oppure pensi che dovrebbero restare nell’AFAM?
Penso che tutto il sistema accademico debba confluire nell’università
conservando l’unicità e la specificità che caratterizza i nostri saperi.
Dagli anni del mio precariato sento parlare di riforme sempre disattese, temo che la politica prediliga i grandi eventi dell’arte, disconoscendo la formazione artistica che spesso risiede dietro ogni talento.
L’accademia possiede un suo patrimonio, piccolo o grande che
sia, di arte antica o contemporanea?
Purtroppo negli anni passati non si è pensato a costituire una pinacoteca, devo confessare che questo è un tema che ho tracciato nel mio
programma di candidatura per la direzione. Nella nostra accademia
si può costituire la traccia di un passaggio di alto profilo storico culturale dovuto alla docenza di artisti di grande prestigio in uno spazio
opportunamente organizzato, sono fiduciosa nella generosità dei
miei colleghi.
Cosa intendi fare per sintonizzare l’Accademia con le iniziative
artistiche che si svolgono a Catanzaro?
L’Accademia può diventare un patrimonio importante per il nostro
territorio trasformandola in promotrice di eventi e talenti, di recente
la nostra istituzione ha sostenuto un importate progetto per la promozione dell’arte contemporanea in partenariato con il Marca, un
prestigioso spazio museale della città. La divulgazione delle ricerche
e delle produzioni di allievi e docenti, da realizzarsi in stretto dialogo con Assessorati e Istituti di Cultura legati ai temi dell’Ambiente,
dell’Urbanistica, della Scienza, dell’Infanzia al fine di realizzare progetti comuni produrrà una maggiore integrazione con il territorio
17
Qual’è il primo obiettivo che ti sei posta in questo mandato?
Gli obiettivi sono tanti, quelli più immediati: riorganizzazione, visibilità
e protagonismo degli studenti. Venti allievi sono da poco andati all’estero per poter realizzare video d’arte e il primo testo di una collana
editoriale per pubblicazioni di saggi, cataloghi e tesi.
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nuovi direttori
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Si ragiona… di Scultura tra XIX e XX secolo
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Di Alfonso Panzetta
sulla scultura
maestri
storici
Le mostre
Le esposizioni dedicate alla scultura sono sempre in numero inferiore
rispetto a quelle sulla pittura, ma è un dato oggettivo che tali eventi
temporanei suscitino un reale e crescente interesse del pubblico.
Nell’ultimo anno sono state ben quattro le occasioni per operare
fruttuose incursioni nella scultura del XIX e XX secolo, due in Toscana
(regione che si conferma come l’avamposto degli studi sul periodo),
una in Veneto ed una, certamente spettacolare, in Emilia Romagna.
Quattro esposizioni che sollecitano riflessioni e confronti sul tema
del “taglio” scelto e sulla metodologia dell’allestimento della scultura.
Su quest’ultimo punto ci sarebbe molto da dire poiché l’elemento più
macroscopico che emerge è quello della difficoltà di uscire da “modelli”
pensati e collaudati per la pittura, che non possono funzionare per la
scultura se si è compreso correttamente il suo linguaggio specifico.
Ma andiamo in sequenza.
In ordine temporale la prima è la monografica dedicata a Lorenzo
Bartolini. Scultore del bello naturale allestita alle Gallerie
dell’Accademia a Firenze (31 maggio-6 novembre 2011), vien da
dire “finalmente” la mostra che tanto si attendeva sullo scultore più
importante dopo Canova. La scelta rigorosamente monografica
- malgrado qualche pezzo proveniente da collezione privata
sollecitasse perplessità sull’autografia - ha allestito una filza di lavori
eccelsi e sostenuti dalla contigua presenza della gipsoteca dello
scultore.
Anche l’allestimento era gradevole, un po’ angusto forse lo spazio, ma
il senso della scultura nell’ambiente era rispettato. Completamente
diversa è stata la mostra dedicata ad Adolfo Wildt ai Musei di San
Domenico a Forlì, Wildt. L’anima e le forme da Michelangelo a Klimt (28
gennaio-17 giugno 2012). Una mostra curiosa…un po’ monografica,
un po’ di periodo, un po’ di suggestioni dalla storia dell’arte di tutti i
tempi e di tutte le epoche, un po’ (ma poco!) di influenze dell’autore
sulla generazione più giovane. In realtà non si è capito cosa fosse.
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La cosa che è emersa in modo palese è la mancanza di coraggio
nell’allestire una mostra sul grande Wildt, magari con una sezione
sui wildtiani veri, e intendo Minerbi, Montegani, Viterbo, Galizi, Wildt
figlio ecc. oltre che Fontana e Melotti (questi inseriti un po’ a caso).
Di fatto non si è capita la necessità di movimentare opere
archeologiche, di Donatello, di Michelangelo…fino a Klimt, per dire
che lo scultore conosceva bene la storia dell’arte e ne faceva tesoro,
cosa per altro comune alla maggioranza degli artisti dell’epoca.
Tali confronti erano già ben approfonditi in un lucidissimo e ricchissimo
saggio di Paola Mola in catalogo, e allora perché inserire le opere?
Certamente ha fatto 90 la paura che la mostra non fosse visitata! E
allora ecco qualche nome altisonante per poter fare cassetta sicura;
una scelta molto dispendiosa, poco condivisibile, ma tipica delle
mostre “baraccone”.
Se a queste riflessioni si aggiungono poi quelle sull’allestimento - per
altro in bellissimi e vasti spazi – con le opere perlopiù addossate
alle pareti con l’impossibilità si godere della scultura in tutti i suoi
scorci, pena un sistema di sicurezza sensibilissimo e costantemente
in allarme, il giudizio finale non può che essere di rammarico per
l’occasione mancata di squadernare in ogni suo aspetto un genio
come Adolfo Wildt.
Di taglio invece iconografico-tematico è l’esposizione Canova e la
danza (30 marzo-30 giugno 2012) al Museo Canova a Possagno,
gradevole, corretta ed incentrata su uno dei temi cari allo scultore,
partendo dal restauro della «Danzatrice con i cembali» recentemente
concluso.
Le mostre sul “divino Canova” sono state molte negli ultimi anni ed
ora, ovviamente, si affronta la sua produzione seguendone i filoni
iconografici più suggestivi. Ancora diversa è la quarta mostra, Gemito
e la scultura a Napoli tra Otto e Novecento (11 marzo-27 maggio
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2012), organizzata a Montevarchi (Ar) da “Il Cassero per la Scultura Italiana dell’Ottocento
e del Novecento”. Fuori dalla logica dell’allestimento monografico, facendo perno sul ruolo
di Vincenzo Gemito, l’esposizione indagava le caratteristiche della scultura partenopea tra la
nascita del Realismo a metà degli anni Settanta dell’Ottocento e gli anni Quaranta del Novecento,
proponendo 70 bronzi (alcuni di grandi dimensioni) di 23 scultori diversi ed evidenziando il
Il Cassero per la Scultura Italiana
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singolare e innovativa attività didattica, giocosa e multimediale,
destinata ai visitatori più giovani a partire dalle scuole per l’infanzia, e
cicli di conversazioni di storia, tecnica e problematiche della scultura
organizzando - con il supporto della neonata “Associazione Amici de
Il Cassero per la Scultura” – uscite di approfondimento e visite alle
mostre allestite sul tema in Italia.
È un’attività di avvicinamento, fortemente dinamica e propositiva,
sorretta dalla curiosità e dalla richiesta di un pubblico sempre
numeroso e curioso di conoscere, che dimostra nei fatti quanto
non si ripeterà mai abbastanza come la critica ufficiale del
secondo Novecento abbia commesso e perpetrato per decenni il
più grossolano errore di valutazione dell’Ottocento italiano nel suo
complesso. Vent’anni fa era pura utopia pensare che la scultura del
XIX e XX secolo - arte maggiore e consorella della pittura in tutte
le epoche - potesse riottenere l’attenzione e la reale posizione che
gli spetta di diritto, ma in vent’anni è maturata una generazione di
giovani studiosi, certamente più attenti e curiosi, che ha sostenuto
la nascita di un luogo museale “dedicato”, officina di confronto e di
ricerca.
19
sulla scultura
Se il taglio ampio, ricognitivo e profondamente didattico, della prima
grande mostra Gemito e la scultura a Napoli tra Otto e Novecento
(11 marzo-27 maggio 2012), organizzata a Montevarchi (Ar) da “Il
Cassero per la Scultura Italiana dell’Ottocento e del Novecento”,
unitamente al suo allestimento come un grande collezione privata che,
eccezionalmente, veniva offerta alla visita pubblica e alla novità della
modalità tattile di fruizione delle opere, può apparire una singolare
“anomalia” rispetto allo standard delle esposizioni allestite negli ultimi
anni, questo è strettamente legato alla mission de “Il Cassero per
la Scultura Italiana dell’Ottocento e del Novecento”, neonato Museo
Civico di Montevarchi, da considerare non tanto e non solo un nuovo
spazio museale, ma un progetto originale e dinamico, unico nel suo
genere.
Un luogo dove imparare a guardare la scultura e un centro dove
scoprire, conoscere, documentare e comunicare la scultura italiana
degli ultimi due secoli. Oltre che una suggestiva e vasta collezione
permanente, “Il Cassero” è anche un fondamentale centro di
documentazione.
In locali accessibili agli esperti accoglie infatti un considerevole
numero di documenti originali, fotografie d’epoca e rassegne stampa,
cataloghi d’arte. Un cuore archivistico che si sta allargando grazie a
continue donazioni e acquisizioni e che, già oggi, è tra i più importanti
del Paese. Inaugurato nel maggio 2010 con tutti gli standard museali
previsti, ma dotato anche di una Webapp interattiva che permette
una visita arricchita da contenuti multimediali e di un percorso tattile
certificato tra i migliori d’Italia, in soli due anni di attività e grazie ai
suoi progetti innovativi ha ottenuto il decreto della Regione Toscana
con il riconoscimento di “museo di rilevanza regionale”, a seguito del
quale è stato selezionato per la giornata annuale di “EduMusei” e
chiamato a collaborare alla prima fiera internazionale Art & Tourism
alla Fortezza da Basso.
Ma la ricerca e la documentazione della plastica italiana, sviluppata
allestendo esposizioni d’ampio respiro, stabilendo rapporti con le
Università italiane e ponendosi come punto di riferimento per le
numerose Gipsoteche e Musei d’Artista presenti nella Regione
Toscana ed in Italia (avviando con esse progetti comuni per la
divulgazione e la conoscenza di collezioni poco note e visitate),
è solo una delle finalità primarie de “Il Cassero per la Scultura”. A
questa mission ben precisa e definita, il museo affianca anche una
carattere di internazionalità culturale di
un’area geografica che, nella mentalità dei
più, è considerata “scuola locale” piuttosto
che esempio della straordinaria qualità
della scultura italiana.
Una mostra coraggiosa e documentata,
che ha fatto riemergere dall’oblio
personalità di spicco internazionale nel loro
tempo e oggi raramente ricordate. Allestita
come una grande collezione privata che,
eccezionalmente, veniva offerta alla
visita pubblica, la mostra è stata premiata
con il successo del pubblico anche per
la particolare e inconsueta occasione
di poter toccare, accarezzare e capire i
grandi bronzi allestiti ripercorrendo il gesto
creatore dell’artista accompagnati dal
personale di servizio.
Una modalità di visita che per la scultura
dovrebbe essere la norma, non l’eccezione.
La singolarità del modo di fruire la scultura certamente inedito e scardinante nel nostro
tempo - si fonda sulla convinzione che
quest’arte sia possibile capirla con gli occhi
solo per il 40%, e sia necessario il tatto per
raggiungere il totale godimento dell’opera,
compresa la sua intrinseca sensualità.
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P.N.A. accademia
albertina di torino
maestri storici
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foto: Veronica Santià
ACADEMY PRIDE!
P.N.A. Il Premio Nazionale delle Arti ospitato quest’anno
dall’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino dal 10
novembre al 7 dicembre.
Dopo l’Accademia milanese di Brera e dopo quelle di Bologna, Napoli e Catania,
quest’anno è l’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino ad ospitare la Sezione
Arti Figurative, Digitali e Scenografiche del Premio Nazionale delle Arti edizione
2012.
di Gaetano Grillo
Una manifestazione nata nove anni fa per iniziativa di Giorgio Bruno
Civello, il Direttore generale del comparto AFAM (Alta Formazione Artistica e Musicale) del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca. E’ il dottor Civello che ha voluto dar vita a un Premio che
coinvolgesse tutte le Accademie di Belle Arti, insieme ai Conservatori
di Musica, agli ISIA (Istituti Superiori di Istruzione Artistica), all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica e all’Accademia Nazionale di
Danza, nel giusto intento di portare alla ribalta i migliori studenti dei
tanti prestigiosi Istituti di Alta Cultura italiani.
Mentre il merito che Torino sia stata scelta come sede di questa importante Sezione del Premio è di Nicola Maria Martino, attuale direttore-commissario dell’Accademia Albertina, ma anche e soprattutto
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artista, che ha portato avanti con successo la candidatura del capoluogo piemontese. E il coordinatore dell’edizione torinese del Premio,
l’artista Claudio Pieroni (docente di Pittura all’Albertina) ha voluto far
coincidere l’inaugurazione dell’Academy Pride con la fiera Artissima
e con quel mese di novembre che a Torino è tutto “ContemporaryArt”.
Così da sabato 10 novembre fino a venerdì 7 dicembre 2012 nella Pinacoteca annessa all’Accademia Albertina e nell’attiguo Salone
d’Onore, sono state esposte al pubblico una sessantina di opere provenienti da più di venti accademie di Belle Arti d’Italia. Dipinti, sculture, stampe, fotografie, ma anche video, installazioni e scenografie
selezionate da una Commissione di esperti presieduta dall’artista
Filippo di Sambuy. Tra tutti questi lavori, i vincitori delle sette ben
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foto: Veronica Santià
foto: Veronica Santià
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P.N.A. accademia albertina di torino
foto: Veronica Santià
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P.N.A. accademia
albertina di torino
maestri storici
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Scultura - Pasquale Gadaleta dell’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano
Pittura - Erik Saglia Accademia Albertina di Belle Arti di Torino
Arti elettroniche - Marco Rossi Accademia di Brera, Milano
Grafica - Irene Podgornik dell’Accademia di Belle Arti di Urbino
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distinte sezioni - Pittura, Scultura, Decorazione, Scenografia, Grafica
Fotografia e Arte elettronica – sono stati individuati da una Giuria
presieduta dall’artista torinese Ugo Nespolo e composta da Giovanni
Cordero, responsabile dell’Arte Contemporanea alla Soprintendenza
ai Beni Storici e Artistici del Piemonte, Riccardo Passoni, vicedirettore della Galleria d’Arte Moderna di Torino e Rosalba Garuzzo, collezionista e presidente dell’IGAV, Istituto Garuzzo per le Arti Visive
e Marisa Vescovo, critica d’arte e curatrice. La proclamazione dei
vincitori è avvenuta sabato 10 novembre, in occasione della cerimonia d’inaugurazione della mostra che si è svolto nella rinnovata Aula
di Scultura dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. A questo
Premio, già ribattezzato dagli studenti Academy Pride, hanno partecipato con slancio decine di aspiranti artisti delle migliori Accademie
di Belle Arti pubbliche e private d’Italia, proponendo lavori di notevole
interesse, tanto che tutti avrebbero meritato di essere in mostra, se
non fosse che c’era il limite oggettivo dello spazio espositivo. L’evento offre comunque una ricognizione sullo “stato dell’arte giovane
italiana” e fa ben sperare per il futuro. Il giorno dell’inaugurazione c’è
stato anche un intermezzo musicale eseguito da un ensemble di gio-
Decorazione - Fiorella Folino, Accademia di Catanzaro
vani sassofonisti del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino, segno
della amichevole collaborazione fra le due istituzioni.Va segnalato
anche che sabato 10 novembre è coinciso anche con la riapertura
della Pinacoteca Albertina (chiusa da sei mesi), dentro alla quale,
incastonate tra preziosi capolavori d’arte antica, sono state esposte
con un ottimo allestimento le opere pittoriche selezionate per il Premio. L’Accademia Albertina è stata anche presente ad Artissima nello
spazio istituzionale Musei in mostra.
L’occasione della felice esposizione all’interno della Pinacoteca
dell’Accademia Albertina, merita una riflessione sull’utilità che
le accademie ristabiliscano un rapporto fertile con il loro patrimonio che si rivela nuovamente come uno straordinario ausilio
alla didattica e alla tutela della memoria storica delle istituzioni.
La questione andrebbe naturalmente inquadrata in una nuova
visione che comprende certamente le opere acquisite nei secoli
ma anche le nuove acquisizioni del contemporaneo. Numerosi artisti di grande rilievo hanno insegnato e insegnano ancora
nelle accademie ma della loro opera non ne resta traccia. Le accademie dovrebbero recuperare, e sarebbero ancora in tempo
per farlo attraverso le donazioni degli eredi, opere di maestri
del novecento e degli artisti viventi per costituire il nuovo patrimonio del futuro. Sono consapevole dei problemi legati alla
conservazione e all’esposizione delle opere ma bisogna avviare questo processo al più presto, anche costituendo un fondo
chiuso momentanea in depositi. Le università invidiano il nostro
patrimonio artistico e noi invece lo valorizziamo poco e non lo
integriamo ormai da troppo tempo.
Gaetano Grillo
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Fotografia - Maria Valentina Rizza dell’Accademia di Belle Arti di Catania
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P.N.A. accademia albertina di torino
Scenografia - Giulia Bellè, Accademia di Massa Carrara
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Chiara Coccorese - La scelta di Maria, 2010, fotografia (pagina a sinistra)
NINa–NUOVA IMMAGINE NAPOLETANA
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LE MIGLIORI LEVE ARTISTICHE FORMATE NEGLI ULTIMI ANNI
DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI IN MOSTRA AL PAN.
accademia di napoli
Di Gaetano Centrone
Se il titolo dell’esposizione vuol essere anche manifesto e dichiarazione d’intenti, il connubio tra la città di Napoli e le arti visuali viene
ribadito, richiamato, addiritttura invocato, per una chiamata alle arti
che suona come l’ennesimo tentativo di rilancio di una città profonda.
Profonda nelle passioni, nel suo sfrenato modo di stare al mondo che
non conosce mezze misure. La profondità infatti rimane la cifra che
connota una città sempre sul punto di eruttare, e in quest’occasione
erutta sì, ma si tratta di una schiera di artisti che rimpolpa la lunga
tradizione cittadina con le pratiche artistiche. NINa, acronimo d’obbligo trattandosi di contemporanea, in questa città richiama felicemente
anche la sua natura di piccola creatura che sta per spiccare il volo,
ma qui davvero si respira arte ad ogni passo, con gallerie, critici,
artisti, appassionati, che coltivano e praticano tutto questo anche nei
tempi difficili che ci troviamo a vivere. E questi giovani artisti restituiscono un’immagine davvero nuova che quasi sempre stride con la
visione stereotipica di una città che del sole e della spensierata joie
de vivre ha fatto la sua cartolina nel mondo. Un’immaginario nuovo
restituito a livello cinematografico anche da pellicole come Polvere di
Napoli o L’uomo in più, dove il sole non vi fa capolino affatto. L’opera
d’arte che più di ogni altra probabilmente ha delineato l’ultima estetica di una città e le riflessioni psicologiche e antropologiche su tanta
parte del tessuto sociale è il film Reality di Matteo Garrone. Un’opera
la cui influenza aleggia anche qui, nelle meravigliose sale del PAN,
per questa collettiva della Nuova Immagine Napoletana. Una mostra
inaugurata mercoledì 21 novembre, con una affollatissima conferenza stampa che ha visto protagonisti il sindaco Luigi de Magistris, la
direttrice dell’Accademia Giovanna Cassese, il presidente dell’Accademia Sergio Sciarelli, l’assessore alla Cultura del Comune Antonella Di Nocera, i curatori Marco di Capua, Valerio Rivosecchi
e Francesca Romana Morelli, nonché molti degli artisti interessati.
Di particolare rilevanza è stata la presenza del sindaco, che è parso
sinceramente convinto nell’appoggiare iniziative culturali come questa che sono di rilancio per tutto il tessuto sociale e urbano, e sono
connotate anche da un forte legame con il territorio, in quanto indagi-
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ne delle leve artistiche che da questa città sono partite e che in ogni
caso qui hanno assunto formazione e istruzione. L’altra protagonista
è stata indubbiamente la direttrice Giovanna Cassese, nella molteplice veste di promotrice dell’iniziativa, di rappresentante dell’istituzione
Accademia e di curatrice della kermesse, come sottolineato anche
dalla presenza di due testi in catalogo, quello istituzionale e quello
critico, di cui riportiamo un brano: «In una fase così difficile dell’Italia e
di Napoli, NINa, con i suoi quarantaquattro artisti, scelti con assoluto
spirito di indipendenza, e già protagonisti sulla scena italiana o addirittura internazionale, è un’assoluta novità sia perchè le opere rappresentano realmente delle autentiche forze emergenti, nella molteplicità
dei linguaggi e nella varietà tecnica e stilistica, sia perchè dal punto
di vista del metodo ha una forte carica simbolica. Attraverso dipinti,
sculture, installazioni, performance, fotografie, video, NINa ripropone
il ruolo formativo e propositivo dell’Accademia di Belle Arti in una città
d’arte come Napoli, metropoli complessa e al tempo stesso tanto ricca, forse la più ricca della nazione, di creatività».
I tre curatori hanno sicuramente dovuto fare un grosso lavoro di selezione e individuazione delle personalità e delle rispettive opere più
indicate per tale evento, nonché per evidenziare quelle che sono le
specificità a livello formativo di un’Accademia dalla lunga e prestigiosa tradizione. Possiamo affermare senza tema di smentita che hanno condotto egregiamente il loro lavoro, rendendo la collettiva una
mostra con tutti i crismi, riuscendo ad evitare il rischio incombente
di farne diventare una mostra scolastica, come purtroppo tante se
ne vedono in giro. Una delle curatrici, Francesca Romana Morelli,
nel tuo testo critico di contributo al catalogo, «Stato di eruzione», fotografa lucidamente la situazione che si vive in città da parte degli
artisti: «Dopo un decennio in cui un ciclo dell’arte contemporanea
sembra ormai concluso, ma, quasi come un fuoco sotto la cenere,
un altro se ne sta già aprendo, quali sono state le strategie adottate
dai giovani artisti per proseguire nella strada prefissata? Va notato
in primo luogo che quanti sono nati dagli anni Settanta in poi sono
portatori di un nuovo modello di artista, avendo vissuto fatti storici che
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Assunta D'Urzo - il mare, 2012, stampa fotografica, 70x100 cm.
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accademia di napoli
Cristian Leperino - allestimento pittorico ambientale
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Mary Cinque - 011titled#08, 2011, acrilico e biro su tela, cm. 160 x 150
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hanno condotto a nuovi assetti geopolitici, un multiculturalismo che
permea il quotidiano, una tecnologia in continua trasformazione; ma
soprattutto un mondo in cui la caduta delle ideologie e di certi valori
si accompagna al tramonto definitivo di una visione antropocentrica
e armonica dell’universo, che affonda le radici lontano, addirittura nel
mondo rinascimentale».
Quello che colpisce scorrendo i curriculum degli artisti è la massiccia
serie di esperienze all’estero che molti di loro hanno maturato, ricollegandosi ad un più ampio discorso generazionale che prevede un
passaggio oltreconfine dettato da curiosità ed esigenze personali e
culturali così come da più impellenti necessità lavorative. Residenze,
borse di studio, mostre, esperienze professionali, queste leve artistiche condividono con i loro coetanei la spinta centrifuga che li ha
portati a vivere e sperimentare oltreconfine, in Germania, nel Regno
Unito, negli Stati Uniti e in altri paesi.
Impossibile per ovvi motivi ricordare qui i quarantaquattro protagonisti, ma vale la pena farlo per alcuni che non sono i migliori in quanto
tali – non è questa la sede per dare premi o riconoscimenti – ma sono
indicativi dei molteplici indirizzi e media utilizzati nelle loro ricerche.
Le fotografie digitali di Chiara Coccorese, illustratrice per lo scrittore
Jonathan Coe e l’editrice Feltrinelli, sono una miscela di riferimenti
alti, che possono essere mitici o religiosi, con una poetica del quotidiano che invece spazia dal rifiuto al kitsch con una gamma di colori
che ha decisamente scalvalcato i toni iperrealisti: la sua Madonna
del parto ci ricorda ancora una volta le atmosfere del già ricordato
film Reality, dove le immagini patinate di riviste e tv fanno tutt’uno
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con la miseria dei bassi. Alcuni tra i lavori più interessanti in mostra,
a nostro avviso, sono quelli realizzati da Gianluigi Maria Masucci,
come Silenzio. Ascolto, in cui ha dipinto con smalto su dibond rosso lucido una serie di piccoli segni di sapore orientale, che ad uno
sguardo più attento appaiono per quello che sono, ovvero una serie
di figure umane che l’artista ha catturato per strada nei loro movimenti. Il passaggio successivo è rappresentato dalla videoinstallazione
Shapes sequence, dove tali forme sono proiettate su tre pareti della
sala, con le forme che si alternano velocemente ricordando le esperienze gestuali e segniche. Figlio di questi tempi e delle pratiche che
sconfinano nel virtuale e in questi interstizi si ricavano la loro ragione d’essere è senza dubbio NeAL Peruffo, presente qui con A onE
project – lo perdoniamo per l’ennesimo anglismo – un’opera-azione
web partecipativa e work in progress in cui gioca con le possibilità
offerte dal software Google Earth, in cui lui e i fruitori possono collocare installazioni e opere-ambiente in posti in cui in realtà non esistono, se non a livello progettuale. Ci piace chiudere con quella che
viene definita l’opera conclusiva dai curatori, allestita nell’ultima sala,
la videoinstallazione Evoluzioni di Ciro Vitale, che è composta da
uno stretto corridoio realizzato con lamiere arrugginite, al cui fondo
viene proiettato un video, in cui l’artista ha fatto replicare agli abitanti
di quella periferia una scena topica di Le quattro giornate di Napoli in
cui la gente comune si opponeva e scacciava i tedeschi, lanciando
mobili e oggetti dai balconi. Il richiamo di un gesto collettivo spontaneo ed eroico, in cui il film di Nanni Loy e la storia si confondono per
creare una memoria condivisa. Ancora un film, ancora un atto di coraggio, ma questa volta la resistenza e il rilancio di una città passano
attraverso le arti.
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dOCUMENTA
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Lara Favaretto, Monumentary Monument IV, Hauptbanhof, 2012
Di Laura Lombardi
Nel dichiarare le sue intenzioni curatoriali prima dell’apertura della
13 edizione di dOCUMENTA, Carolyn Christov-Bakargiev (classe
1957) aveva insistito sulla volontà di improntare la mostra ad una
totale assenza di temi perché, nell’era digitale “viviamo in una
fase in cui i concetti, i temi e i contenuti sono prodotti e vengono
trasferiti ovunque nel mondo” ed è per questo necessario opporsi
a questa indiscriminata trasmissibilità: una sezione della mostra al
Fridericianum - una sede nella quale eravamo accolti dalle stanze
vuote, colme solo della brezza di I Need some meaning I can
memorise di Ryan Gander - era intitolata The brain (il cervello) e
presentava infatti elementi non trasmissibili come informazioni o
concetti, non espressione di un tema preciso, ma aggregati dall’idea
di “commitment”, di coinvolgimento: dalle bottiglie di Morandi,
evocazione del vivere appartato dall’impeto degli eventi traumatici
della storia, alle foto dei laghi cambogiani, belli ma nati dai crateri
lasciati dalle bombe, o agli autoscatti di Lee Miller nel bagno di
una casa borghese che è poi quella di Hitler, ed altri oggetti che
svelavano legami e rispondenze con quelli presenti in altre sedi della
mostra, come le statuette afgane antiche di 4mila anni oppure la
marionetta in ceramica usata da Weal Shawky per un episodio della
trilogia dedicata alla storia delle crociate esaminate dal punto di vista
arabo, allestito alla Neue Galerie. Eppure proprio questo da partito
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preso, unito alla rinuncia a qualsiasi strizzata d’occhio al glamour,
scaturiva un senso di unità, un fil rouge ben più resistente rispetto
a quello inutilmente cercato visitando altro tipo di mostre, dal titolo
ben definito (pensiamo alle ultime Biennali di Venezia ad esempio),
ma poi spesso vagamente connesso ai contenuti presentati. Più che
mai, in un momento così difficile dell’economia mondiale, di scelte
politiche dure, pesanti sul sociale, che spingono a rischiose opzioni
individualiste, a Kassel - la città distrutta dai bombardamenti degli
alleati della seconda guerra mondiale, dove dOCUMENTA è mostra
tradizionalmente incentrata sul rapporto arte/società - si respirava un
clima di aggregazione, di volontà di ritiro spirituale, di riflessione sulla
storia, di riparazione e di ricostruzione, con opere per la maggior
parte concepite proprio per questa edizione: emblematico in tal senso
era l’intervento di Theaster Gates, artista di Chicago, 12 Ballads for
Huguenot house, nella vecchia Casa degli Ugonotti in fuga a Kassel
nel 1685, completamente trasformata dai segni e dalle azioni di una
comune. Gates era uno dei pochi americani invitati, mentre alto era il
numero degli artisti arabi, provenienti dai paesi che hanno di recente
vissuto i traumi della guerra, tanto che una delle sedi decentrate di
dOCUMENTA era Kabul. Il senso di rilettura della storia alla luce
di fatti d’oggi ed una forma di speranza nella aggregazione tra gli
individui, erano espressi anche attraverso worshop e musica (con
mostre internazionali
“viviamo in una fase in cui i concetti, i temi e i contenuti sono
prodotti e vengono trasferiti ovunque nel mondo” ed è per questo
necessario opporsi a questa indiscriminata trasmissibilità.
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mostre internazionali
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le audioinstallazioni di Susan Hiller ad
esempio), e spesso il ruolo dell’artista si
configurava come impegno a costruire proprio in un momento così cruciale della
storia - qualcosa al di fuori della propria
arte, in altri settori della vita (come la
“activist art” degli AndAndAnd). Sull’idea
di riparazione e di riappropriazione
era fondato anche il progetto di Kader
Attia: The repair from Occident to extra
Occidental cultures metteva in scena in
eleganti bacheche da museo, inquietanti
analogie tra oggetti costruiti dalle
popolazioni del Nord Africa con residui
bellici, disposti in vecchie teche come
la collezione di un museo archeologico
o naturalistico, e posti a confronto con
sculture contemporanee in legno che
riproducevano l’effige di soldati sfigurati
nella guerra mondiale, come fossero
anch’essi oggetti rotti e riparati; il tutto
contornato e come riflesso in celebri
testi letterari imbullonati a scaffali
metallici, pagine di riviste d’arte con foto
di sculture greche mutile, idoli africani,
immagini tratte da riviste mediche
con stampe di operazioni o di cura
dei feriti. La politica, argomento pur
ineludibile, nell’intera mostra non era
trattata attraverso contenuti espliciti, e
comunque se ciò avveniva, questi eran
presto trasfigurati: così i calchi di parziali
elementi dell’aula bunker del processo
al gruppo di Autonomia Operaia, di
Rossella Biscotti alla Neue Galerie,
con il sottofondo delle voci registrate
dei protagonisti, diventavano purissimi
lacerti di un sogno perduto ed avevano
la potenza e la suggestione di rovine
classiche. Monumentale, sebbene in
tutt’altra maniera, anche l’installazione
di Lara Favaretto alla Hauptbanhof: un
accumulo di rottami e di oggetti di scarto
industriale con all’interno inserite forme
geometriche pure in cemento a sostituire
altrettanti elementi sottratti ed esposti
altrove in forma museale. Un insieme
che, pur rifuggendo ogni compromesso
estetico diventava sontuoso sia sotto
il sole sfolgorante che sotto le nuvole
più minacciose, e oscillava tra il senso
di permanenza e d’impermanenza, tra
un qualcosa di denso, di eloquente ed
il nulla. La volontà della curatrice di non
appesantire la mostra di un indirizzo
ideologico, più evidente in altre edizioni,
lasciava agli artisti più spazio per
concentrarsi su altri tipi di entità, le cose
e la materia. Così nel parco barocco di
Karlsaue, il progetto di Pierre Huygue,
Untitled, era un percorso da compiere
intorno a un mucchio di compost quindi dove materia eterogenea si è
accumulata e trasformata nel tempo
– per incontrare presenze inquietanti,
animate e inanimate: una scultura
con un alveare al posto della testa, un
cane (anzi due?) con la zampa dipinta,
frutti velenosi, piante di marijuana,
tutti elementi indominabili, perché
l’evoluzione della natura, la sessualità, le
piante, reazioni chimiche come le muffe,
fan parte di una contingenza della quale
Huygue vuol essere solo testimone.
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Interventi che resistono alla sedimentazione
di un discorso, come d’altronde, pur nella
diversità, quelli effimeri (e assolutamente
non documentabili) di Tino Seghal,
presente a Kassel con This variation. Più
cupamente connessi al tema della guerra
il bel video di Omer Fast, Continuity, e
quello di Clemens von Wedemeyer: Muster
(Rushes) esplorazione giocata su tre registri
- la musica, il corpo e il linguaggio - intorno
all’imprigionamento e alla liberazione, in uno
stesso luogo, il monastero di Breitenau, ma
in momenti diversi della storia. Artisti giovani
e quasi sconosciuti erano mescolati ad altri
assai noti (come non citare la grandezza
di Kenthridge), ma anche a nomi ormai
consacrati del Novecento: emblematica
la presenza delle opere di Fabio Mauri col
re-enacment, nei giorni dell’inaugurazione,
della performance Che cos’è la filosofia.
Heidegger e la questione tedesca. Concerto
da tavolo (1989).
Laura Lombardi
Rossella Biscotti, The trial, 2010-2012, Neue Gallerie
Nella pagina a sinistra, in basso: Theaster Gates, 12 Ballads for Huguenot House, 2012, Huguenot House
The brain, Fridericianum (in primo piano un’opera di Giuseppe Penone, Essere fiume, 1998 e sullo sfondo Nature morte di Giorgio Morandi e altro)
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mostre internazionali
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Dalla docenza alla Direzione: cosa motiva
un professore a dirigere l’Accademia?
Essere “Docente”, permette di svolgere una
missione particolare, forse la più completa per
chi opera creativamente con gli altri, poiché
si acquisisce continua conoscenza. Essere
“Direttore”, consente di produrre un’opera
d’arte immateriale. Nel caso dell’Accademia
di Roma abbiamo realizzata una Riforma che
solo 5 anni or sono sembrava impossibile.
Riforma significa dare una nuova forma
all’idea di sempre.
Secondo me, le idee nel tempo si
appesantiscono con sovrastrutture di ogni
tipo. Perciò, conviene utilizzare il metodo tagli
e cuci, un passo avanti e due indietro finché
si raggiunge l’originale punto di riferimento e,
una volta raggiunta l’essenza, si può dare di
nuovo forma all’idea di sempre.
Naturalmente, è un processo mentale, ma
non del tutto. Dunque, Direttore secondo me
significa non solo gestire o governare, ma
raccogliere gli input che provengono dagli
altri organi istituzionali, farne una sintesi e
promuoverne l’evoluzione.
Perciò penso che l’opera svolta sia meno
individuale e più di tipo collegiale. Il che
richiede una certa dose di responsabilità,
diventa una missione più complessa e ci si
gratifica quando si raggiunge l’obiettivo d’aver
fatto qualcosa per il bene comune.
accademia di roma
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Gerardo Lo Russo con il Presidente Cesare Romiti
Gerardo Lo Russo
e la sua esperienza di Direttore
dell’Accademia di Belle Arti di Roma
5 pezzi facili
di Barbara Tosi
Parafrasando il titolo di un film americano degli anni settanta egregio Direttore vorrei
farti cinque domande e comincerei dalla fine, ovvero, cosa c’è di facile nel dirigere un
Accademia?
- Well, that’s the easier way for learning English and the Divina Commedia!
Siccome c’è la necessità della continua ricerca di autocontrollo e di un po’ di relax mentale,
ho memorizzato facilmente un fumetto inglese e qualche canto dell’Inferno durante la guida in
auto ogni mattina. Due ore tutti i giorni per cinque anni, sono state un esercizio magnifico, per
affrontare con calma le cose della direzione! Ed ho imparato, l’inglese!
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È un’idea di come dovrebbe essere un’
Accademia? E quale è la tua?
Da studente pensavo che l’Accademia mi
avesse dovuto offrire i mezzi e gli strumenti
per imparare i trucchi del mestiere.
Poi, grazie all’Accademia ho capito che
era più importante cercare di esprimersi, a
prescindere dalla tecnica. Infine, insegnando,
ho registrato che dove il flusso dei saperi e
delle opinioni è maggiormente diversificato si
può trovare più facilmente la propria strada.
Nel bene e nel male!
Vedi, cercando nei testi antichi ho letto che
2300 anni fa, nell’Accademia di Alessandria
d’Egitto, gli scettici scrivevano che i loro
colleghi erano polemici, invidiosi, gelosi e
quant’altro. Nel dopoguerra Palma Bucarelli
visitando una mostra di un liceo a Cinecittà
sosteneva: “… questi, sì che sono dei
bravi artisti, non come quegli sciagurati
dell’Accademia!” Io la penso diversamente.
Dico che l’Accademia è ciò che è nel bene e
nel male.
Un po’ come il V° canto dell’Inferno: l’Amore,
la cosa più forte che c’è, guarda caso sta
all’Inferno! Così, l’Arte: la cosa più bella
che c’è sta in Accademia! Siccome sono
innamorato dell’Arte, dico che l’Accademia
è il laboratorio privilegiato per lo sviluppo
della conoscenza, poiché qui si manifestano
liberamente tutte le diversità di opinioni e di
sensibilità.
Anche innovative, per la crescita della
collettività. Faccio un esempio: abbiamo
realizzato “Accademia in Campo”, una sorta
di festival delle potenzialità didattiche ed
espressive che si praticano in Accademia:
mostre, performance, installazioni, video, e
conferenze.
Abbiamo ipotizzato che i saperi dell’arte
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se valorizzati nel modo dovuto possono
diventare una potente risorsa economica per
il nostro Paese. Basti l’esempio di Canova.
Duecento anni orsono incastonò nelle mura
del suo studio reperti di marmo antico trovati
nei prati. La gente guardava con un nuova
visione i pezzi di braccia, torsi, piedi e visi di
pregiato marmo statuario. Da quel momento
è nata la fruizione pubblica dei beni culturali,
oggi una risorsa di turismo privilegiato in uso
in tutto il mondo.
Noi sappiamo che i saperi dell’arte non sono
solo oggetti, sculture, pitture, ma anche
processi con i quali si operano progetti,
quindi: la didattica nelle accademie, nelle
università, nei conservatori.
L’Italia è piena di istituzioni del genere,
potrebbero divenire il nostro oro, petrolio
o banca. Perché non disporre delle nostre
istituzioni per ospitare tanti, tantissimi
studenti stranieri fino a far sviluppare una
sorta di Economia del Bello?
La tua esperienza in questi anni a Roma
in qualità di Direttore, sei al secondo
mandato, come la valuti.
Anche se mi porto dietro qualche peso di
troppo, debbo dire anche per mie colpe, non
riesco ad immaginare un percorso di vita più
dinamico e ricco di esperienze.
Perciò la valuto semplicemente straordinaria.
La augurerei a tutti quelli che desiderano
fare un viaggio intenso tra le anime umane.
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accademia di roma
Lo rifaresti? Quale consiglio daresti a chi
avesse l’oneroso proposito di candidarsi
alle prossime elezioni?
No! E’ giusto che si sperimentino altre
sfaccettature dell’idea di Accademia.
Sicuramente sarà un ulteriore arricchimento
di conoscenza.
Quando parlo di conoscenza non intendo
solo quella di tipo estetico, che comunque
si insegna, oppure le tecniche che si
acquisiscono, ma parlo dei saperi sottili
dell’arte.
Secondo me i cosiddetti saperi dell’arte
sono anche quelli che si espletano nel
comportamento di vita quotidiana: parlando,
confrontandosi ed ascoltando gli altri.
Anzi, le cose che ricordo con maggiore
emozione in Accademia, sia da studente,
che da docente e da direttore, sono quelle
pregnanti di straordinaria carica di vitalità
umana.
Le angosce ascoltate di chi cerca confuso
la propria strada, diventano prove d’amore
quando la si è trovata.
E naturalmente, per quelli che sanno, non
c’è bisogno di aggiungere altro. Un consiglio:
agire dando l’esempio.
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Conversazione con Paola Pezzi
ex studenti
di Elisabetta Longari
In occasione della mostra personale alla Galleria Fabbri arte contemporanea a Milano
a cura di Federico Sardella. Davanti ai suoi nuovi lavori in feltro, più organici e meno
oggettuali, vere e proprie strutture proliferanti che fioriscono come muffe e licheni in
punti inattesi sulla parete, e sembrano sbucarne fuori, invadendone la superficie in
modo discreto ma sostanziale, la domanda più immediata è:
Che cosa è contato di più nella tua formazione? La natura?
L’arte?
L’arte, certo, ma anche la natura, forse di più. Molti dicono “quanto
ricorda un nido quel lavoro!”, altri parlano degli anelli di crescita degli
alberi e di alveari o concrezioni coralline... Certo, poi c’è lo studio... Il
mio lavoro comunque si gioca su un filo molto sottile tra l’istintività e
il pensiero. C’è sempre un filo teso.
Certo la componente sensuale del tuo lavoro, soprattutto
attuale, è molto alta.
Infatti devo sempre eseguire i lavori io con le mie mani per restare in
stretto contatto con il materiale...
Sei stata una di quelle bambine che osservava le forme naturali
e che raccoglieva pietre e reperti di varia provenienza?
Il mio approccio all’arte me lo ricordo come atavico e naturale. Da
quando ero piccola... non mi sono difatti mai posta il problema di cosa
fare da grande, era scontato. Passavo davvero la più parte del mio
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tempo a disegnare e cancellare, disegnare e cancellare, disegnare
e cancellare...
Perché cancellavi?
Il foglio era il mio campo d’azione,cancellavo perché mi venivano
in mente altre idee e quindi dovevo modificare le precedenti.
Ma alllora non mi bastava la pittura, mi piaceva anche molto la
materia... il percorso da allora, e tuttora, è rappresentato dal mettere
progressivamente a fuoco “il mio fuoco”, capire e approfondire quello
che reputi che ti appartenga.
E tra i maestri che non hai conosciuto direttamente, degli artisti
che hanno fatto la storia dell’arte, a chi hai guardato? Chi senti
più vicino?
Mi piaceva molto Mario Merz. Ricordo di essere stata a Rimini a
vedere una sua grande mostra... e sentivo moltissimo la manualità
che aveva, ad esempio quando manipolava i pani di creta,quando
disegnava tutti quegli animali e l’infilzava con i tubi al neon, ma
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La scelta dei tuoi materiali, soprattutto dal 2000 in poi,
presuppone un’attitudine ludica nei confronti degli oggetti
prosaici a portata di mano: le matite, le passamanerie, il feltro...
Il tuo lavoro in questo senso mi ricorda Boetti. E banalmente il
fatto che Giorgio Colombo segua il tuo lavoro da tempo me ne
da una specie di conferma indiretta!
Prendevo gli oggetti del fare, i gessetti, le matite, i reperti del
quotidiano... in questi lavori c’è certamente anche uno spirito
boettiano... Poi i lavori con le mani...dove entra la figura,cioè la mano
che compie l’opera...i primi feltri invece nascono dopo un viaggio in
India, insieme alla “valanga di mani”, opere che mantengono questa
tensione interna forte...
Un senso cromatico acceso affianca una ricerca più ascetica sul
monocromo, due facce del tuo lavoro... entrambi affascinanti...
Vero, verissimo, come ti dicevo prima c’è sempre una tensione: in
questo caso, mi capita di esplodere nel colore e subito dopo di avere
bisogno di concentrarmi nel monocromo, per riequilibrare le forze in
campo. In questa fase infatti tolgo di mezzo gli apparati afferenti alla
sfera del pittorico per mettere a nudo la struttura delle forme. All’osso.
ci sono tanti altri, ad esempio Beuys, proprio anche per il suo
legame fortissimo con la natura, per come la viveva, la esponeva,
la rispettava, la concepiva come opere d’arte. E la pittura di Nicola
De Maria... anche se non c’è davvero nessuno che riconosco come
maestro, però da ognuno ho preso quello che mi interessava ai fini
del mio lavoro. La storia dell’arte, il susseguirsi delle grandi opere
che ci hanno preceduto sono sempre una grande fonte d’energia e
scoperta.
La tua prima mostra personale fu da Toselli tra il 1989 e il 1990,
non è così? Ricordo perfettamente i lavori esposti. Li senti
lontani e diversi oppure consanguinei con questi? M’interessa
la tua percezione se ti volgi al passato...
Ma, il mio “filo” l’ho certamente trovatio lì, nei lavori di quel periodo...
c’era già dentro tutto...nel 1987 è nata “la mia cosa”, che conteneva
un po’ la rielaborazione delle istanze più importanti che erano allora
nell’aria, l’arte povera, la land art....
Mi ricordo quelle bende che fasciavano la terra, e dalla terra
venivano ricoperte...
Se pensi che alla fine degli anni ottanta, senza galleria, senza
conoscere minimamente il mondo dell’arte, sono stata selezionata
al premio Premio Saatchi and Saatchi e ho fatto la prima mostra a
Londra...
E dunque come ti è arrivato quell’invito?
Non mi ricordo... Poi sono successe cose belle, cose brutte, come in
ogni storia.
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Anche se io le ricordo come forme più imbavagliate, isolate,
chiuse. Anche se usi ancora le bende come materiale è l’uso
diverso che ne fai, nel modo di occupare lo spazio. Le tue
sculture di allora mi ricordavano, per dimensione e forma,
delle teste, creavano una strana specie di effetto specchio con
lo spettatore. Era quasi un fronteggiarsi, uno a uno. Ed era
certamente interessante vedere questa scultura a parete, ma
era certamente un modo diverso di relazionarsi allo spazio. Là
c’erano forme chiuse, qui in espansione virtualmente infinita.
Erano anche più terrestri, più dure, più pesanti, ma avevano un
loro sapore atemporale per certi versi, contenevano l’elemento
tempo. Erano come dei reperti senza tempo né storia, né passato
né presente, erano come un grumo che irradiava ugualmente, le
si completava con l’immaginazione, come i miei lavori più recenti.
Irradiavano sulla parete coinvolgendo lo spazio attorno a loro.
Sì, ma in un altro modo, ribadisco, in queste ultime sculture
sento una specie di flusso, un’energia diversa, una circolarità
cosmica, che là invece risultava assente o bloccata in un nucleo
stretto e compatto nella sua chiusura enigmatica.
Certo il lavoro doveva trasformarsi e sbocciare. Dovevo liberarmi di
tante cose. Ma il lavoro è in perenne trasformazione e liberazione.
Alla casa degli artisti hai solamente esposto nel 1985 oppure
l’hai frequentata a lungo? Ora che è stata sgombrata dalla
giunta Moratti è un pezzo di memoria importante della pratica
dell’arte in questa città ma ormai reciso. Cosa ricordi? Come ne
parleresti a chi non l’ha mai conosciuta e vissuta?
No, sai, non l’ho mai frequentata. Ci ha chiamato Fabro a esporre
lì ma non ho mai partecipato alle attività, anche perché vigeva
un po’ una specie di regime integralista dell’arte in cui mi trovavo
abbastanza a disagio… (Sai, ad esempio per loro era inammissibile
fare un disegno in libertà!)
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ex studenti
Che ricordi hai di Brera, dell’Accademia?
Sai che a Brera non ci sono mai più tornata? Comunque l’esperienza
di studio a Milano per me ha rappresentato molto, soprattutto perché
venivo da una città di provincia, Brescia, e dopo aver fatto la Scuola
d’arte a Mantova, sono approdata in quella che a me parve allora una
metropoli... e qui, tra scambi di vedute con artisti, galleristi, addetti ai
lavori, critici... è stato uno choc tremendo, disorientante per via della
sensazione vertiginosa di uno spalancamento enorme di mondi e di
possibilità. Poi piano piano si chiariva la coscienza del mio posto
in tutto questo. Il primo anno è stato davvero di studio, anche delle
persone che avevo intorno come dei maestri. Avevo scelto a caso il
professore di Pittura, che in prima battuta era Terruso, ma poi, dal
secondo anno, quando è arrivato Luciano Fabro, anche io mi unii a
quel mare di studenti che si è trasferito in massa a frequentare il suo
corso. Tra i miei compagni ricordo in particolare Dimitrios Kozaris,
Liliana Moro e Mario Airò.Il mio professore di Storia dell’Arte era Zeno
Birolli e Flaminio Gualdoni. Dai miei maestri ho appreso appunto “la
strada maestra” dell’arte, e ho anche in parte dovuto difendere la mia
natura perché la tendenza del docente è sempre facilmente quella di
indirizzare automaticamente lo studente verso quella che è la propria
personale idea dell’arte.
Sono delle strutture primarie con forte capacità generativa,
sempre in espansione reale o soltanto potenziale, che poi è la
stessa cosa. Sono virtualmente enormi, infinite, come i cerchi
nell’acqua.
Sì, hanno una forza germinale, potrebbero sempre diventare altro.
Non c’è bisogno che le mie opere siano grandi, contengono una
capacità espansiva mentale... E nascono da un atteggiamento
contrario a quello di tanti miei coetanei, ovvero la mia ricerca è quella
di contenere lo spazio, giocandolo tutto dentro all’opera che però
condiziona, contamina profondamente lo spazio dell’ambiente, lo
trasforma, un po’ come le mie prime sculture.
Ma tu disegni le forme prima di farle, per studiarle e progettarle?
No, faccio dei collage, con diversi materiali, a posteriori, come dei
“ritratti di sculture”. Per il resto prendo appunti su quadernetti, fermo
ipotesi che si fanno formando, fermo le idee.
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Francesco Paolo Arbore
Essendo collezionista di opere d’arte ed inserendo spesso quadri e sculture all’interno dei nostri progetti e delle nostre realizzazioni, ho sempre
cercato di conoscere gli artisti ed avere un rapporto amichevole in modo da
far realizzare opere specifiche e personalizzate per i miei clienti.
Architetto Arbore ci racconta come è nata la sua passione per l’arte?
siti d’arte
Gli anni della mia formazione scolastica presso il Liceo artistico di
Bari sono stati decisivi per la conoscenza e poi la passione per l’arte.
Al termine delle superiori ero davanti ad un bivio: potevo scegliere
se frequentare l’Accademia di Belle Arti o la Facoltà di Architettura.
Ho scelto di diventare architetto, ma non ho mai abbandonato l’interesse verso l’arte di cui ho continuato a nutrirmi nel tempo: ho iniziato
a collezionare dalle grandi grafiche di artisti americani a opere grandi
quanto un francobollo ed ho sempre cercato di trasferire questa passione nel mio lavoro, creando un connubio tra arte e l’architettura.
Quando ha acquistato e ristrutturato questa casa quali obiettivi
si è posto?
Nel 1995 ho acquistato l’appartamento ed un vecchio frantoio a pianterreno che facevano parte dello stesso stabile. L’idea è stata quella
di trasformarli rispettivamente nella mia casa e nello studio professionale.
Trattandosi di un’architettura storica, l’approccio è stato quello del restauro conservativo che ha cercato di tutelare il più possibile i caratteri originari dell’architettura e di renderli sempre distinguibili anche
all’interno di un ambiente “contemporaneo”.
Il recupero funzionale degli spazi originari e la scelta di inserire materiali e colori neutri hanno agevolato l’inserimento degli arredi contemporanei e delle opere d’arte senza creare dissonanze fra loro e
l’architettura.
Lei opera in Puglia ma svolge il suo lavoro professionale in giro
per il mondo, ci può fare una sintetica carrellata delle sue maggiori realizzazioni?
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In quasi 35 anni di vita professionale, il mio studio ha gestito ed affrontato una grande varietà di situazioni progettuali, confrontandosi
di volta in volta con contesti geografici, culturali ed architettonici completamente diversi. L’approccio è sempre stato quello di un’architettura integrata con la storia locale, mai avulsa dal luogo in cui si trovava di cui cercava di interpretare e riproporre in chiave moderna gli
elementi caratterizzanti. Seguendo questa logica ci siamo confrontati
con la realtà americana di Los Angeles, New York, Palm Beach e
Miami e con il mondo arabo come il Qatar, dove la nostra professionalità si è inserita pregevolmente all’interno di un contesto completamente diverso. Numerosissime sono state anche le esperienze in
Italia ed in Puglia, in cui ci siamo confrontati con altre problematiche.
Molto spesso abbiamo operato in contesti dove l’architettura è fortemente legata alla storia e gli interventi effettuati sono stati di tipo
conservativo e di tutela dell’importanza storica del contesto. Anche
nelle esperienza delle nuove realizzazioni in contesti non storicizzati
come le zone di espansione residenziale e quelle industriali, l’approccio progettuale è stato mirato all’utilizzo di tecnologie e materiali
contemporanei, garantendo spazi ed architetture molto semplici ed
esasperatamente funzionali. Ogni progetto del mio studio è un lavoro
“sartoriale”, cucito addosso a ciascun luogo, architettura e committenza.
Negli ultimi anni abbiamo creato anche una società di general contractor per garantire la qualità dell’esecuzione oltre quella della progettazione.
Carla Accardi ha disegnato esclusivamente per lei la porta di
accesso alla sua abitazione, un simbolo importante dal quale si
capisce la sua attenzione a circondarsi di opere speciali e possibilmente pensate espressamente per un contesto specifico oppure per una persona specifica, è così? Adotta questo principio
anche nelle realizzazioni architettoniche per i suoi clienti?
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Essendo collezionista di opere d’arte ed inserendo spesso quadri e
sculture all’interno dei nostri progetti e delle nostre realizzazioni, ho
sempre cercato di conoscere gli artisti ed avere un rapporto amichevole in modo da far realizzare opere specifiche e personalizzate per
i miei clienti. La realizzazione della porta di accesso alla terrazza giardino della mia abitazione disegnata da Carla Accardi è la conferma di tale filosofia lavorativa. E’ stato un caro amico artista comune
che mi ha offerto la possibilità di farmi realizzare un disegno personalizzato con dedica da Carla Accardi.
La sua casa è permeata di luce e di opere d’arte di grandi dimensioni che respirano nello spazio, si capisce che lei cerca un dialogo fra l’architettura e l’arte, quest’ultima per lei è una maniera
per completare uno spazio architettonico in senso decorativo?
Non considerando l’opera d’arte come un complemento di arredo, ma
un elemento fondamentale e caratterizzante le mie architetture, valuto l’inserimento già dalle prime fasi progettuali in modo da esaltarne
il valore e facendo cogliere ai miei clienti l’importanza della scelta.
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All’ingresso della casa, scultura in ferro di Gaetano Grillo
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La porta in cristallo e alluminio disegnata da Carla Accardi.
Vista della camera da letto con letto “S.W. Bed” di P. Starck e alla parete grande quadro ovale di Gaetano Grillo.
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Giardino interno con porta di accessi disegnata da Carla Accardi, scultura di Michele Zaza, poltrone, divano e sgabelli di Tokujin Yoshioka.
Vista del soggiorno con divano “Royalton” di P.Starck, poltrona “Egg” di A. Jacobsen, a parete, trittico di G. Grillo e sculture di F. Menolascina.
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siti d’arte
Vista della veranda con tavoli “Thali” di Miki Astori e sedute “Lord Yo” di P. Starck, sullo sfondo scultura di Gianfranco Pardi
Ristrutturazione MeliorBanca, Piazza della Borsa, Milano. All’ingresso “Vaso polisemico” di G. Grillo e pannello in bronzo di A. Pomodo
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o Pardi
Alberto Garutti
didascalia / caption
RECINZIONE, 2012. Acciaio 3 moduli: 250 x 200 x 6 cm. cad. Courtesy Franco Soffiantino Contemporary Art Production
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un’azione contiene e richiama l’altra senza stabilire una rigorosa
sequenza causa-effetto, ma che ben si traduce nell’idea di arte
circolare messa in atto da Alberto Garutti.
Anna Comino
DIDASCALIE, 2012. stampa digitale su fogli di carta colorati, pile di fogli
43,5 x 64 cm. altezze variabili (particolare). Courtesy Massimo Minini.
una mostra
Il gioco di “scatole” che c’è alla base dell’opera di Alberto Garutti
prevede che tutti gli elementi coinvolti nel processo che siamo soliti
chiamare “Arte”, dimentichino le regole e siano disposti a mutare di
ruolo nel corso del tempo. La mostra didascalia / caption si basa
proprio su questa variazione di prospettiva che vede simultaneamente
coinvolti opera-artista-spettatore-luogo.
Il meccanismo che Garutti innesca ogni volta, parte dal semplice
presupposto che chi è osservatore oggi di una realtà nella quale
non è immerso fisicamente ma solo attraverso la contemplazione,
diventerà (forse) soggetto primario del lavoro successivo, quindi
esso stesso opera, e sarà esposto o posizionato per essere visibile
da un nuovo ciclo di potenziali visitatori-protagonisti-opera.
Alberto Garutti si riserva il compito della regia, cioè scegliere il posto
(prevalentemente un’architettura, ma anche un ambiente esterno),
coinvolgere coloro che usufruiscono di questo luogo, bloccarli nel
lavoro, e restituirli al pubblico, sia esso il frequentatore di mostre o
il comune cittadino che casualmente si imbatte nell’installazione. A
completare il procedimento si aggiunge la parola che, in forma di
didascalia o di targa (in molti casi, l’unica testimonianza tangibile
dell’avvenuta trasformazione di un oggetto, di un evento, di una
struttura, in opera d’arte), svela e integra il senso dell’operazione.
L’antologica al PAC di Milano raccoglie trent’anni di interventi più o
meno provocatori, ricostruendo l’attività dell’artista anche attraverso
una serie di progetti, alcuni dei quali mai realizzati, e una nutrita
documentazione fotografica e video relativa agli allestimenti pubblici.
Apre e, nello stesso tempo, chiude il percorso espositivo l’invasiva
opera inedita “In queste sale 28 microfoni registrano tutte le
parole che gli spettatori pronunceranno. Un libro a loro dedicato le
raccoglierà”. Personale dipendente e visitatore sono costantemente
sorvegliati e spiati in ogni loro manifestazione sonora o verbale.
La consapevolezza di essere sotto osservazione falsa le reazioni
e i commenti portando ad espressioni forzatamente trattenute,
volutamente plateali o al silenzio, ma solo in un tempo successivo
ne verrà data testimonianza a chi cercherà di ritrovarsi nella miriade
di frasi spezzate (e quindi nell’opera) o chi, completamente estraneo,
si limiterà ad osservare. E così si ritorna al gioco di scatole, in cui
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X l’Universo Invisibile
un percorso fra astronomia e arte
Milano – Ex Chiesa di San Carpoforo e
negozi della zona Brera
Merate – Villa Confalonieri e negozi del
centro storico
mostre
Settembre – Ottobre 2012
La luce ad alte energie e la sua capacità di svelare, attraverso satelliti
in orbita nello spazio, parti dell’universo invisibili all’occhio umano,
sono state il tema di X L’Universo Invisibile, un evento artistico
multidisciplinare che ha permesso di approfondire da molteplici punti
di vista, estetici, formali, semantici, etici, l’atteggiamento dell’uomo e
dei linguaggi artistici nei confronti dell’universo e delle sue componenti
più misteriose.
Il progetto, che ha voluto sottolineare il dialogo intenso fra arte e
astronomia contemporanea e che ha visto protagoniste due storiche
istituzioni della vita artistica e culturale lombarda, l’Accademia di
Belle Arti di Brera e l’INAF – Osservatorio Astronomico di Brera, si è
articolato in due proposte espositive e diverse iniziative culturali: a
Milano, dal 12 settembre al 2 ottobre 2012 presso l’ex-Chiesa di San
Carpoforo e nei negozi adiacenti della zona Brera e a Merate, dal 13
ottobre al 27 presso l’antica Villa Confalonieri e i negozi del centro
storico.
Un percorso fra cinquanta opere degli studenti dell’Accademia
di Belle Arti di Brera e oltre 20 tra modelli di satelliti, strumenti e
immagini astronomiche curato per la parte artistica da Alessandra
Angelini, docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera e per la parte
scientifica da Stefano Sandrelli e Monica Sperandio dell’INAF –
Osservatorio Astronomico di Brera. L’evento è stato organizzato in
occasione del 50° anniversario della nascita dell’astronomia X e del
250° anniversario della fondazione dell’Osservatorio Astronomico di
Brera, che oggi fa parte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.
“L’espressione artistica è spesso in grado di cogliere e ritrasmettere
emozionalmente l’aspetto non visibile e multiforme del reale” racconta
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Alessandra Angelini “ed è proprio sulla capacità di vedere l’invisibile
che accomuna scienza e arte che abbiamo desiderato esprimerci.
La ricerca scientifica ci propone continue e nuove conoscenze sulla
natura del cosmo che riguardano in definitiva la vita di tutti noi. L’arte
e la cultura hanno il compito fondamentale di accostare l’umanità
al dato scientifico e di stimolarne una visione critica e consapevole
attraverso la sensibilità poetica.
Possiamo definire X L’Universo Invisibile, non solo una mostra,
ma un momento di effettiva ricerca intorno a due fondamentali
aspetti del sapere, l’Arte e la Scienza. Per questo i nostri studenti,
come momento preparatorio alla loro produzione artistica, hanno
partecipato a una decina di incontri scientifici organizzati dall’INAFOsservatorio Astronomico di Brera allo scopo di conoscere e
approfondire, attraverso le parole degli scienziati, quali sono gli
strumenti più avanzati della moderna Astronomia.”
Alessandra Angelini
http://www.brera.inaf.it/UniversoInvisibile/
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Random/28
Urbino, Palazzo Ducale
Sale del Castellare
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Si è tenuta ad Urbino la mostra Random/28,
allestita nelle attigue Sale del Castellare, fino al
22 novembre.
In rigoroso ordine alfabetico, i ventotto giovani artisti in formazione
- Stefano Baldinelli, Güliz Baydemir, Giuseppe Bonito, Giorgia
Cegna, Gabriele Cesaretti, Maria Teresa Corbucci, Annalisa
D’Annibale, Corrada Di Pasquale, Carlo Esposito, Paolo Farci,
Laura Fonsa, Emanuele Gagnoni, Ilaria Gasparroni, Antonio
Malaspina, Davide Mancini Zanchi, Roberto Memoli, Miriam
Pascale, Jessica Pelucchini, Dario Picariello, Elisa Pietrelli,
Francesco Poletti, Elettra Quintini, Antonio Rastelli, Cecilia
Ripesi, Sonia Senese, Shio Takahashi, Nara Tomassini,
presentano lavori eterogenei, diversi per stile, contenuto, sensibilità
estetica. Sono introdotti da Angela Sanna, curatrice con Bruno Ceci
della mostra e del catalogo, il cui progetto grafico e il coordinamento
editoriale sono parimenti affidati a due studenti, Luca La Ferlita e
Caterina Lani.
Random/28 rilancia l’idea della vitalità ‘randomica’ quale sinonimo di
casualità prolifica nella creazione artistica contemporanea. Questo
termine che si è ormai diffuso a macchia d’olio scavalcando la propria
accezione informatico-scientifica, si è già imposto, sia linguisticamente
che semanticamente, non soltanto nell’ideazione di questa e di altre
iniziative culturali, ma anche nella definizione di numerosi campi tra
loro diversissimi, dai motori di ricerca ai siti web, dalla statistica alla
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accademia di urbino
Promossa dall’Accademia urbinate con il patrocinio della Regione
Marche, della Provincia di Pesaro e Urbino e della Città di Urbino
Assessorato alla Cultura, l’esposizione ha presentato opere di
28 studenti, numero indicato nel titolo Random, riproposto per
questa nuova raccolta, nella quale personalità di stintesi nell’ultimo
anno accademico espongono accanto ad altre già note, con il
coinvolgimento di tutte le scuole in cui si articola l’offerta formativa:
Decorazione, Grafica, Pittura, Scultura, Nuove Tecnologie dell’arte;
Scenografia espone collettivamente il progetto per Il signor Bruschino
di Rossini, scene e costumi realizzati in occasione del R.O.F. 2012.
matematica, dall’arte alla musica, arricchendosi di nuove valenze fino
a sostituirsi, in alcuni casi, al suo corrispettivo italiano, ‘casuale’. Nella
mostra, questa componente si riflette simbolicamente in un sistema
variegato, nel quale le idee e le opere concorrono a delineare un
percorso complesso, una mappa articolata, dove si incrociano opere
tridimensionali e pittoriche, video e installazioni, fotografie e lavori di
scena, soluzioni grafiche e collage.
Una metodologia rigorosa e allo stesso tempo duttile valorizza
l’eterogeneità, base della didattica e della pratica artistica
dell’Accademia, dove tradizione e innovazione convivono senza
forti contrapposizioni: un insieme di visioni multiformi e di memorie
confluiscono verso obiettivi comuni, nei quali emergono vocazioni dai
tratti fortemente caratterizzati che si trasformano in identità.
Mettere insieme nella stessa mostra opere molto diverse tra loro
può essere considerato alla stregua di un’operazione artistica, nel
senso che il curatore deve pensare e progettare in modo creativo.
Per questo, Random/28 può essere giudicata come un’opera in
quanto coordinata e curata con i mezzi propri dell’arte: in essa è
possibile scorgere chiari elementi di natura poetica situati all’interno
di una struttura dinamica che si relaziona con gli aspetti più classici
della pratica artistica. Tuttavia, se nel sistema dell’arte è necessaria
una linea espressiva che accomuni più artisti in modo che si rafforzi
l’importanza di un argomento o di un linguaggio, all’opposto, in una
comunità come l’Accademia, il rifiuto di ogni possibile univocità è
fondamentale, poiché esso coincide con la libertà di ricerca artistica
che deve essere sempre al centro dell’attività creativa di ogni giovane
artista. In questa seconda raccolta randomica non sono ordine e
disordine a essere opposti, ma è messa in discussione l’imposizione
di un ordine sul caos.
L’evento, maturato in un tempo della riflessione e nello spazio della
ricerca, è tanto più sorprendente perché dà voce a ventotto giovani
speranze, certamente alle prese con la vocazione ed il desiderio di
cercarsi e trovarsi nella difficile esperienza dei linguaggi dell’arte.
Non è casuale se da qualche tempo i linguaggi dell’arte hanno
ricominciato a parlare in un certo luogo, vale a dire nell’Accademia di
Belle Arti di Urbino, la cui storia non ci riporta ad anni lontanissimi, ma
che ha saputo conquistarsi una sua inconfondibile identità.
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CANTIERE DEL ‘900 – Opere dalle collezioni Intesa Sanpaolo
Di Gaetano Centrone
recensioni
maestri
storici
Nello scorso ottobre è stato aperto al pubblico Cantiere del ‘900, un imponente allestimento della collezione
Intesa Sanpaolo nella storica sede della Banca Commerciale in Piazza della Scala, con una raccolta di opere delle più influenti personalità dell’arte italiana del secondo Novecento. Abbiamo intervistato per l’occasione Andrea Massari, già docente di Diritto del Lavoro, e dal 2011 responsabile del patrimonio artistico Intesa
Sanpaolo e direttore delle Gallerie d’Italia.
Direttore, abbiamo visitato la collezione del Novecento di Intesa Sanpaolo e siamo rimasti letteralmente impressionati. Una
ricchezza esaustiva che raccoglie il meglio della nostra storia
dell’arte recente che forse nessuna istituzione museale può annoverare in Italia. Quanto è stata duro il vostro lavoro nel selezionare solo centocinquanta opere tra le oltre tremila che compongono la collezione? E con quali criteri ha proceduto, oltre
all’ovvio discorso dell’includere gli artisti dalla fama consolidata?
La doverosa premessa è che qualsiasi realizzazione di un percorso
museale sconta una lunga fase di preparazione, di studio, di catalogazione e approfondimento dei materiali. La creazione di un nuovo
museo o anche l’allestimento di una mostra temporanea ha un senso
in quanto la comunità scientifica possa identificarvi una operazione
di valorizzazione del patrimonio, un disegno educativo mirato alla
diffusione della conoscenza. Così abbiamo iniziato anni fa la complessa impresa di elaborazione del catalogo ragionato delle nostre
collezioni del ‘900 che, finalmente, a breve vedrà la luce. Attraverso questa preliminare e necessaria attività di studio, coordinata dal
prof. Francesco Tedeschi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano, abbiamo raggiunto una piena consapevolezza del valore,
anche storico, della nostra raccolta, delle sue caratteristiche, come
delle sue lacune, proprie del resto di qualsiasi operazione collezionistica condotta negli anni da attori differenti e con obiettivi non univoci. La selezione delle opere, la cui qualità ha trovato garanzia nella
curatela scientifica del prof. Tedeschi, è stata certamente laboriosa
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ma, una volta stabilita la rotta, forse più semplice del previsto. Nostro
obiettivo, per questo primo allestimento, era quello di offrire una sorta
di epitome dell’arte italiana del secondo novecento, nel cui ambito
potessero trovare spazio non solo i movimenti, le tendenze, i protagonisti maggiori dell’epoca, ma anche quelle figure, quelle testimonianze, magari sino ad ora considerate di contorno, che in realtà
hanno contribuito a identificare, ad arricchire, a completare una stagione importante della nostra produzione artistica. Il nostro intento è
stato quello di rivalutare un patrimonio spesso conosciuto solo per
la presenza di alcuni capolavori, ma che non aveva ancora ottenuto
adeguata considerazione nel suo insieme.
Ci è parso anche particolarmente felice il titolo dato all’esposizione, Cantiere del ‘900, che rende abbastanza bene l’idea dei
lavori in corso. Come è nato e a cosa si riferisce esattamente?
Al cantiere della collezione ancora da rifinire? O fa riferimento
alla storia delle idee, dando quella caratterizzazione transeunte
inevitabilmente legata all’arte di un determinato periodo storico.
Nelle sedi museali aperte in precedenza dalla nostra banca, non si
era mai posto il problema di denominare i diversi allestimenti di materiali, quantunque già si presentassero accostamenti inusuali come,
ad esempio, quelli delle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari, dove la
raccolta di icone russe è integrata dalla esposizione, in spazi distinti,
delle opere del ‘700 veneto. Nel caso delle Gallerie d’Italia di Piazza
della Scala, invece, si è pensato di distinguere da subito gli spazi
destinati in maniera stabile alla presentazione delle opere dell’Ot-
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tocento (i Palazzi Anguissola e Brentani) da quelli rielaborati nella
sede storica della Banca Commerciale Italiana in funzione dell’esposizione della collezione novecentesca e dell’allestimento di mostre
temporanee. Se il titolo individuato per il percorso dell’Ottocento s’inserisce nei canoni della tradizione (“Da Canova a Boccioni”), si è
invece voluto pensare a una titolazione dell’allestimento di Palazzo
Beltrami che, da un lato, evocasse l’immagine di un luogo in continua
evoluzione, un concetto di “non finito”, dove si sperimentano diversi
percorsi di indagine e si prospettano sempre nuovi progetti, dall’altro
implicasse la necessità di ulteriori ricerche sull’arte di un secolo in
gran parte ancora inesplorata. Cantiere del ‘900 ben rappresenta,
a nostro giudizio, entrambi gli aspetti, garantendo quella fisionomia
aperta e articolata che dovrà improntare i futuri allestimenti.
Come si configurerà lo spazio espositivo in futuro? Sarebbe
un peccato spostare anche una sola delle opere attualmente in
mostra. Ma come riuscirete a conciliare questo con l’altrettanto
valida necessità di mostrare al grande pubblico i lavori attualmente custoditi nel caveau? Saranno sempre mostre ad ingresso libero?
Quanto detto sopra credo abbia già chiarito il nostro intento di voler
condividere nel modo più completo e diffuso la nostra collezione e ciò
si renderà possibile sia attraverso la periodica variazione del percorso principale – pur nella salvaguardia del suo rigore scientifico – sia
tramite il contemporaneo allestimento di uno o più percorsi di approfondimento monografici su singoli autori, temi, movimenti, epoche.
Il caveau, mirabilmente reinterpretato dall’arch. De Lucchi, fungerà
da “stanza di compensazione” per consentirci di realizzare tali operazioni. Per quanto concerne, infine, la gratuità dell’ingresso, verrà
certamente mantenuta fino all’autunno del 2013, quando al riguardo
faremo nuove riflessioni, anche tenendo presente la posizione delle
principali istituzioni museali cittadine.
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SE...
Esauriente ma non dispersiva nella sua ricchezza, ben organizzata
ma non noiosa e, soprattutto, capace di andare al cuore della
questione: questa è la mostra di Grazia Varisco che, curata da
Giorgio Verzotti, è stata allestita negli spazi della Permanente.
Una rassegna che restituisce con chiarezza, pur rifuggendo ogni
schematica semplificazione, tutto il senso della ricerca dell’artista
milanese. Le sue prime opere, “nate quasi di nascosto nell’aula di
Funi a Brera” nel 1957 - lavori materici di ascendenza informale
che in questa occasione, finalmente, abbiamo potuto conoscere –
ci introducono ad un percorso esauriente, che si snoda per temi,
pur nel sostanziale rispetto dell’evoluzione cronologica del lavoro:
dalle Tavole magnetiche agli Schemi luminosi variabili, dai Reticoli
frangibili alle Extrapagine, fino alle opere più recenti, che si collocano
più risolutamente in una dimensione di aperta dialettica con lo spazio
circostante, quello spazio inteso come “campo attivo” di cui parla
Elisabetta Longari nel suo saggio in catalogo.
Nel compiere questo percorso, che ci obbliga alla partecipazione,
oltre ogni atteggiamento passivamente contemplativo, possiamo
cogliere il senso di una ricerca sempre attuale e affascinante; quel
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significato profondo che è, in qualche misura, racchiuso nel titolo
di questa mostra: Se... È la stessa Varisco a suggerire questa
chiave di lettura, spiegando come l’atteggiamento dubbioso, cioè
aperto e disponibile, è un abito della sua mente, un modo di vivere,
prima ancora che di essere artista. Un dubbio che non si traduce
nell’incertezza, nella sospensione intesa come inattività, o nella
passività; al contrario, che va inteso in senso costruttivo, come rifiuto
del dogmatismo della regola, dell’asfissiante torpore dell’abitudine. La
parola d’ordine diventa allora disponibilità: Varisco ci invita sempre,
seppur con apparente leggerezza, ad un atteggiamento aperto e
ci mette nella condizione di accogliere una serie, potenzialmente
infinita, di possibilità visive e percettive. L’artista, infatti, si riconosce
in quanto scriveva Belloli, quando sosteneva che è “un principio di
instabilità e di incertezza strutturale che permette a Grazia Varisco
di inverare il proposito platonico: ‘se vi offro delle probabilità non
chiedetemi di più’”.
recensioni
GRAZIA VARISCO Al Museo della Permanente di Milano
Cristina Casero
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Joseph Beuys, “Der Spiegel”, 1979
Joseph Beuys, “Salvatore Sic”, 1979, carta e feltro, cm 33,8 x 49.
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Per la prima volta in Marocco il lavoro
di uno degli artisti più emblematici
del XX secolo. Presso la storica
galleria Venise Cadre di Casablanca
sono esposte ben 150 opere di
Joseph Beuys, per la curatela di
Antonio d’Avossa
Beuys ici. La rivoluzione è qui
Angelomichele Risi, “Sic Beuys”, 1980 1 aprile, Napoli, fotografia.
recensioni
maestri
storici
di Melissa Provezza
Beuys ici è il significativo titolo di una mostra che presenta
per la prima volta in Marocco il lavoro di uno degli artisti più
emblematici del XX secolo. Presso la storica galleria Venise
Cadre di Casablanca sono esposte ben 150 opere di Joseph
Beuys, per la curatela di Antonio d’Avossa (esperto dell’opera
del Maestro e docente di storia dell’arte contemporanea
all’Accademia di belle arti di Brera).
“La rivoluzione siamo noi” insegnava Joseph Beuys (Krefeld
1921 - Düsseldorf 1986) guidato dall’idea di una rivoluzione
sociale innescata dal potere di trasformazione dell’arte.
Artista della reazione, con impegno politico, sociale ed
ecologico ha risposto ai traumi storici dei suoi anni (dalla
seconda guerra mondiale agli shock petroliferi, dalla crisi
economica alla Guerra Fredda…).
Ponendo al centro della sua ricerca l’uomo e la sua energia
creativa, ha rivendicato la democratizzazione dell’arte con
instancabile spirito di condivisione.
Le sue opere nascevano spesso da azioni reali, attraverso
l’utilizzo di vari media e travalicando le definizioni tradizionali
di genere. Beuys ha attraversato il territorio della scultura,
della performance e dell’arte concettuale, pur attribuendo
valore pregnante ai materiali di cui si è servito. Ha creato
un simbolismo ricco e potente intorno alla sua opera, che
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comprendeva la sua stessa vita e il suo essere uomo nella
società.
Nonostante sia spesso complesso esporre il suo lavoro – così
come riconosce lo stesso curatore della mostra – Beuys ici
è un’esposizione che ripercorre nella sua interezza l’attività
dell’artista tedesco e ne trasmette la portata universale.
Un allestimento museale sorprende il visitatore, tra multipli
e manifesti autografati, tra video e disegni originali: opere
realizzate dal 1969 al 1985, anni in cui l’artista era impegnato
nel partito dei Verdi in Germania. Come ben testimoniano i
lavori esposti, grande importanza aveva per Beuys l’utilizzo
del mezzo pubblicitario: veicolo privilegiato per la possibilità
di parlare alle masse dando forma visiva alle proprie idee.
Provenienti da diverse collezioni e rappresentativi di una
produzione molto ampia sono i multipli, che l’artista stesso
definiva vehicle art: “idee e memorie permanenti, punti di
riferimento, monumenti trasportabili”.
L’ampio respiro dell’esposizione e il taglio di carattere museale
sembrano rivelare l’intento culturale – non meramente
commerciale – della galleria Venise Cadre, la più antica del
Marocco. l titolo emblematico della mostra ci ricorda quanto la
lezione beuysiana continui tutt’oggi ad essere riferimento nella
ricerca sulla creazione.
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sando acqua sul volto di un “condannato”
messo a testa in giù, lo porta in brevissimo
tempo al limite dell’annegamento. Prassi che
nelle giuste dosi può essere anche un gioco
di erotismo estremo. Da qui l’ambiguità di
queste ragazze nude che sembrano morte,
ma potrebbero anche solo galleggiare appena sotto il pelo dell’acqua di una vasca o
piscina. L’opera però non finisce qui, perché
l’immagine è stampata su una grande tela
esposta inclinata sopra una enorme cornice
di legno bianco, che diventa essa stessa installazione ambientale, come una macchina
celibe alla Duchamp. Tanto più se aggirando quell’ostacolo scopriamo sul retro e sul recto della tela, strani disegni neri, figure ossessive, tracciate a
china, quasi inconsciamente, da Pieroni in
momenti di pausa, mentre è seduto al bar o
al ristorante. Strane creature informi, irte di
aculei, come cactus zoomorfi, che sembrano
incubi ancestrali resi visibili dalla mano che
scorre frenetica in un automatismo psichico,
libero e liberatorio. Inoltre, alle cornici Pieroni appende i più svariati oggetti, dai colatoi per la pasta a alle
stoviglie d’alluminio dismesse acquistate al
Balòn. Il mercato dei robivecchi di Torino,
nella città e nel quartiere dove questo artista
romano si è trasferito a vivere, lavorare e a
insegnare come docente di Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino (Istituto
di Alta Cultura dove attualmente ha anche il
ruolo di vicedirettore).
Alla Galleria Allegretti Contemporanea di
Torino una personale di Claudio Pieroni
WATERBOARDING
Questa ed altre analoghe immagini di nudi femminili sommersi dall’acqua in un gioco mortale e sensuale di Waterbording, sono le gigantografie stampate su tela che costituiscono
il nucleo centrale della mostra che la galleria Allegretti dedica all’artista romano Claudio
Pieroni, da sabato 10 novembre al 25 dicembre. Il titolo, Waterboarding, evoca senza giri di parole quella crudele pratica di tortura che ver-
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Tanto con i suoi migliori studenti dell’Accademia Albertina ha costituito un attivissimo sodalizio di lavoro denominato Gruppo Radici,
e insieme a loro sta lavorando ormai da un
anno all’interno del Carcere Minorile di Torino
Ferrante Aporti, perché è convinto che l›Arte
è “l›unico strumento che risparmia gli Uomini
dal destino”. recensioni
Il waterboarding, com’è normalmente descritto, prevede che la persona sia legata ad un’asse inclinata, con i piedi in alto e la testa in basso. Coloro che svolgono l’interrogatorio bloccano le braccia e le gambe alla persona in modo che non possa assolutamente muoversi, e
le coprono la faccia. In alcune descrizioni, la persona è imbavagliata e qualche tipo di tessuto ne copre il naso e la bocca; in altre, la faccia è avvolta nel cellophane. A questo punto,
colui che svolge l’interrogatorio a più riprese vuota dell’acqua sulla faccia della persona. A
seconda del tipo di preparazione, l’acqua può entrare effettivamente nelle vie aeree oppure
no; l’esperienza fisica di trovarsi sotto un’onda d’acqua sembra essere secondaria rispetto
all’effetto psicologico. La mente crede di stare per affogare. Una ragazza nuda s’intravede appena sott’acqua. Una immagine a colori, scura e sfocata, che però ci fa vedere con
chiarezza un bel corpo giovane e sensuale col segno chiaro sulla pelle lasciato dall’abbronzatura in corrispondenza degli slip. Come l’Ofelia protagonista dell’Amleto di Shakespeare,
così ben raffigurata dal pittore preraffaellita britannico John Everett Millais, la ragazza giace
immobile come morta appena sotto la superficie trasparente e vibrante dell’acqua. A chi gli chiede perché ha scelto di fermarsi a
Torino, lui, che dopo aver studiato all’Accademia di Belle Arti di Roma, ha girato il mondo
e ha lavorato e insegnato in tante altre Accademie d’Italia, risponde senza tentennamenti:
“perché Torino è la Capitale d’Italia dell’arte
contemporanea”. Poi ci ricorda di aver vissuto
a Torino già negli anni ottanta, frequentando
e diventando amico di artisti come Mario e
Marisa Merz. Pur senza essere, né tantomeno voler essere, un emulo o un epigono
del Poverismo, Pieroni ha elaborato una sua
ben precisa linea post-concettuale, in parte
ispirata al suo vissuto nomade, ma in parte
intellettualmente connotata dalla volontà di
far dialogare arte e scienza. Come ben constatiamo, ad esempio, in altri suoi lavori recenti costruiti utilizzando vecchi meccanismi
di orologio, cavalletti da fotografo e svariati
objets trouvee. Un po’ post-dadaista, un po’
neo-costruttivista, Pieroni è angosciato e affascinato da tutto ciò che è estremo e border
line. Ama gli artisti per eccesso come Leonardo, Caravaggio e Gino De Dominicis.
45
Guido Curto
Galleria Allegretti Contemporanea Via San
Francesco d’Assisi, 14
I, Torino
22/12/12 11:58
LUIGI ONTANI / AnderSennoSogno
Museo Hendrik Christian Andersen
La mostra AnderSennoSogno di Luigi Ontani, a cura di Luca Lo Pinto,
allestita negli spazi del museo Henrik Christian Andersen di Roma (21
novembre 2012 - 24 febbraio 2013), è concepita come un viaggio alla
scoperta delle opere meno note dell’artista, il quale, per l’occasione,
giunge a spingere l’immaginazione oltre ogni limite, mescolando melanconia e humor in un gioco che da solo è sufficiente ad illuminare
gessi, pitture e disegni conservate nelle sale. Sappiamo che Henrik
Christian Andersen (1872-1940) era un sognatore affascinato dalle
grandiose forme e dalle utopie, e che nonostante le ambizioni, le sue
ossessioni si annullavano nella resa di modeste opere di ispirazione
classica. Contestualmente, conosciamo la prolifera produzione di Luigi
Ontani (1943), svolta vagliando molteplici direzioni formali e di pensiero, che muovono dall’interesse per l’arte dei musei al mondo mitologico, dall’adesione apparentemente trash verso il ciarpame senza
importanza all’azione performativa dei tableaux vivants, fino alla assimilazione rielaborata di costumi delle civiltà extra-occidentali. Proprio
questa particolarità, porta a concentrarci sulla diversità dei linguaggi
dei due artisti, percepibili soprattutto al piano terra, nella gipsoteca
del museo, dove le statue di Andersen, nonostante il loro gigantismo
manierato, sembrano fare da sfondo alla mitografia voluttuosa delle
maschere musicali di Ontani. Si tratta di maschere prodotte a Bali negli ultimi quindici anni in un allestimento speciale, che disposte sulle
monumentali statue di Andersen, guidano il percorso nella direzione
del teatro e dello spettacolo, secondo un procedimento che unisce la
figurazione e l’espressione sonora. Il curatore della mostra, Luca Lo
Pinto, ha motivato questa scelta con la fascinazione e l’interesse manifestato da Luigi Ontani per le opere conservate nel museo. Di certo
per Ontani, guardare e abitare- seppure per breve- questi spazi- ha
significato ricostruire e svelare con assoluta libertà la propria immaginazione antropomorfa, fortemente mistica e narcisista. Tutto questo è
visibile soprattutto nel piano superiore del museo, dove si articola un
vero excursus della sua lunga e laboriosa attività artistica, a cominciare dalle opere giovanili poco note o inedite degli anni Sessanta e
Settanta fino alle più recenti, dove il suo corpo appare e scompare in
mille personaggi, stabilendo relazioni con mondi lontani ed altri vicinissimi, in cui la realtà si sovrappone e si fonde con la fantasia.
46
Rosanna Ruscio
recensioni
maestri
storici
Danilo Lisi / LA GEOMETRIA DEL DIVINO
Danilo Lisi
La geometria del divino
impaginato Academy n.14.indd 46
Danilo Lisi è uno di quegli architetti che ha impostato la ricerca degli
spazi nel rispetto delle forme semplici e assolute. Il gusto per le
composizioni geometrizzanti, di cui potremmo tracciare una storia
nell’architettura mondiale, ha sullo sfondo l’opposizione tra le grandi
misure e le minime porzioni: le zone d’ordine rigorose e le scansioni di piccoli volumi che puntellano interi piani e alleggeriscono le
superfici, secondo un procedimento logico-geometrico, direi quasi
metafisico. La forma circolare e quella elementare del cubo, con
la loro esatta sfaccettatura e la loro capacità di accogliere la luce,
costituiscono il modello di perfezione con cui cristallizzare il senso
del sacro, così come si può vedere nell’ultimo progetto realizzato
a Frosinone: la Chiesta di San Paolo Apostolo. In quest’opera, ogni
concetto si rivela duplice: da una parte l’esattezza razionale dei
volumi, e dall’altra, uno spazio gremito di particolari densi di significati, dalle finestrelle strette agli arredi dell’interno. Si può dire
che in quest’opera, ci si trova dinnanzi due percorsi divergenti che
corrispondono a due tipi diversi di conoscenza: una che si muove
nell’assolutezza di una razionalità rigorosa, di cui si riconosce il pregio nello sforzo di adeguarsi alle coordinate urbane del territorio,
l’altra che si muove nel tentativo di scorporare “quella totalità
esperibile” con segni minimi e incisivi: forme astratte, vettori di forza che più che disturbare, restituiscono una vitalità sensibile ad
ogni volume e ad ogni superficie. Proprio questa ricchezza d’intenti
ed attese, è secondo gli studiosi che hanno scritto nel catalogo
dedicato all’edificio, la caratteristica più interessante dell’operato di
Danilo Lisi: vedere l’architettura come un “sistema di sistemi”, in
cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e né condizionato.
Rosanna Ruscio
22/12/12 11:58
Vittorio Falletti
Maurizio Maggi
I musei
Massimo Melotti
impaginato Academy n.14.indd 47
Francesco Tedeschi
In copertina, scanzonata e molto pertinente, un’opera
di Grazia Varisco che consiste nell’installazione della
scritta “2000” che dal pavimento sale sulle pareti
occupandone un angolo con ritmo scattante verso l’altro.
Tedeschi ci regala ben dodici anni dopo il duemila, in
un altro anno anch’esso bisestile, il suo diario fatto
di brevi note che tutte hanno per sfondo riflessioni
a partire da qualcosa che ha strettamente a che fare
con l’arte e con la vita quotidiana dello scrivente. Come
gli sia nata l’idea affascinante e balzana, che per chi
conosce direttamente il prof. Tedeschi risulta davvero
assai balzana, è difficile dire. Roberto Pinto, durante la
presentazione del volume al DOCVA di Milano, si rifà
al bisogno di liberarazione dal carcere della filologia
imposta dagli studi storico-artistici in ambito accademico
universitario. Fermo restando che il motore di questo
volume è nascosto e resta tale, bisogna considerare le
modalità con cui se ne è venuta a formare la struttura.
Tedeschi si era imposto un’unica regola ferrea: scrivere
giorno per giorno, e dichiara di non avere mai “barato”.
Per il resto, tolto il vincolo della continuità temporale, gli
argomenti toccati presentano una gamma vastissima di
sapori, perché, non solo Tedeschi non affronta soltanto
il lavoro degli artisti visivi, pur essendo com’è ovvio
questi in maggioranza, ma dedica a volte la sua scrittura
rabdomantica anche a scrittori, registi e musicisti. Se
spesso è la data a fornire la scintilla - l’autore si ricorda che
quel determinato giorno ricorre il compleanno di un certo
artista- , a volte invece non è chiaro da dove scaturisca
la catena di pensieri, e ciò rende il mosaico ancora più
ricco e inatteso. Questo insieme di “confessioni” svelano
una notevole mobilità dell’attenzione del loro autore,
considerando le sue scelte tanto dal punto di vista
della varietà degli ambiti espressivi di ricerca e degli
approcci poetici quanto da quello dell’appartenenza
generazionale degli artisti. Anche se sono dichiarate le
personali antiche solidarietà, queste note superano la
dimensione meramente autobiografica mentre offrono lo
spaccato culturale di un’epoca da cui ci separa già più
di un decennio.
47
recensioni
Verrebbe da chiedersi come
mai fra tutte le istituzioni
culturali
i
musei
siano
oggi
quelle
maggiormente
al
centro
dell’attenzione.
Paradossalmente, dalla seconda
metà del secolo scorso, i musei
si sono talmente trasformati
che,
solo
apparentemente,
ricordano l’istituzione del secolo
dei lumi, empirica e positivista.
Oggi esaltati a opere d’arte
globali dalle archistar, visti come
possibili motori di sviluppo del
territorio, rivisitati con funzionalità
da centro culturale, snaturati in
un’ottica di spettacolarizzazione
alla stregua di parchi a tema, il
museo da istituzione polverosa e
immutabile, si sta trasformando
nel testimone dell’evoluzione
culturale e sociale del nostro
tempo. Una prima fase si è avuta
grazie al combinato disposto di
una società che sempre più ha accentuato le proprie caratteristiche consumistiche
con l’impatto delle nuove tecnologie. Da un lato si sono rese possibili nuove
modalità di fruizione del museo mentre dall’altro, a volte, si costituiva una deriva
della spettacolarizzazione con esiti spesso grotteschi. Ma le motivazioni che
hanno fatto sì che il museo abbia riconquistato il centro della scena culturale non si
possono limitare ad un’evoluzione di adattamento e di risposta a nuove esigenze.
La questione fondamentale è un’altra ed è costituita proprio dall’essenza stessa
del museo. Non si tratta semplicemente di una variazione di modalità espositiva
determinata dai nostri tempi, segnati dalla spettacolarizzazione, ma, ben più
profondamente, di un processo in atto che va a modificare la percezione dei beni
materiali che il museo racchiude.
Spesso coloro che prendono in considerazione i musei non tengono conto che
hanno a che fare con un soggetto che racchiude beni che costituiscono la basa
stessa della società. Beni che, perso il loro valore d’uso, acquisiscono un alto
valore simbolico e che, al di là della funzione espositiva, concorrono a rafforzare
non solo la memoria di una comunità ma a creare quell’immaginario collettivo,
quell’insieme di valori che, ordinati in una cosmologia, rappresentano l’identità
stessa di una società. Il cambiamento epocale in atto, determinato dalle nuove
tecnologie, verso una società globalizzata, e basato su un’alta componente
digitale sarà la grande sfida che il museo dovrà affrontare. Una sfida che, con il
passaggio dal materiale al virtuale, pone in discussione l’essenza stessa del bene
simbolico. Pertanto è quanto mai necessario comprendere la macchina museale,
una macchina complessa, non certo marginale, che influenza più di quanto
comunemente si crede lo sviluppo di una società. In “I musei”, edito da il Mulino,
Vittorio Falletti e Maurizio Maggi, l’uno docente e l’altro ricercatore, riescono a dare
una visione complessiva di come il museo si è nel tempo trasformato da luogo
essenzialmente espositivo a istituzione che affronta problematiche che vanno
dalla ricerca e conservazione all’esposizione e alla fruizione, alla formazione
e all’intrattenimento culturale. Oggi il museo, come sottolineano gli autori, è
divenuto una macchina culturale che rivendica un ruolo primario nella società e
che necessita di adeguate risorse, strutture e professionalità. Il volume, dopo aver
tracciato un profilo storico dell’istituzione, prende in considerazione la varietà dei
musei come realtà complesse. Si analizzano le principali forme organizzative, le
tendenze del marketing dei beni culturali, le nuove problematiche e opportunità
della museografia, la comunicazione culturale. Per gli autori i musei a fronte delle
profonde trasformazioni sociali, demografiche, tecnologiche e economiche, hanno
saputo rispondere al cambiamento in atto dimostrando di essere realtà vive e
funzionali. Oggi la sfida è con l’evoluzione sempre più globalizzata della società
e con la capacità comunicativa di internet. Se il mondo del virtuale permette una
conoscenza sempre più diffusa e possibilità ancora insondate, il museo ha ancora
molto da dire con la sua capacità di approfondimento e, soprattutto, come custode
e tramite di accesso al patrimonio simbolico collettivo, base e identità di ogni
gruppo sociale.
Elisabetta Longari
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MASSIMILIANO
PATRIARCA
La superficie che accoglie la pittura è uno spazio
in grado d’influenzare la fruizione di un’opera. La
stessa opera assume differenti sfumature in base
al contesto nella quale è situata. La mia ricerca
parte dall’analisi e dall’elaborazione di fondi ripetuti
in maniera seriale (pattern) come nelle carte da
parati, laddove le raffinate decorazioni damascate
e floreali diventano protagoniste tanto quanto il
piccolo frammento di pittura che accolgono. Nelle
primissime esperienze di questo lavoro applicavo
piccoli e preziosi dipinti sulle tavole decorate con
carta da parati. Nella fase successiva la carta di
fattura industriale viene sostituita dal paziente
lavoro di intaglio e successiva colorazione dei
segni incisi, aggiungendo una dimensione manuale
alla serialità del pattern. Nelle ultime ricerche la
decorazione e la pittura finiscono per compenerarsi
l’una nell’altra, creando una sinergia tra fondo e
soggetti dipinti.
Massimiliano Patriarca nasce a Como nel 1984.
Frequenta il Liceo Artistico Paritario G. Terragni e
l’Accademia di Belle Arti di Brera, diplomandosi nel
2009. Collabora come assistente nello studio di Nicola
Salvatore. Vive e lavora a Dizzasco (CO).
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