Tibet-Cina - 1 Una grande poetessa e monaca buddhista ripercorre

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Tibet-Cina - 1 Una grande poetessa e monaca buddhista ripercorre
Tibet-Cina - 1
LA LEGGE DEL KARMA, LA NON-VIOLENZA, MA ANCHE LA DIFESA DEI
DIRITTI UMANI E DELLE TRADIZIONI RELIGIOSE
Una grande poetessa e monaca buddhista ripercorre le varie tappe e anche le
complesse motivazioni spiritual-esoteriche che hanno contrassegnato il dramma del
popolo tibetano dopo l’invasione del 1959. Un effetto di deriva è stato la diffusione in
Occidente del Buddhismo e la crescita di prestigio e di autorità del Dalai Lama. Che
dopo la sommossa di Lhasa dello scorso marzo ha lanciato un appello affinché la
comunità internazionale si adoperi verso le autorità cinesi perché cessino le
repressioni e l’opera di sradicamento della cultura lamaista.
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di Giulia Niccolai
Leggendo i libri tuttora disponibili della belga-francese Alexandra David-Neel e del tedesco Lama
Govinda, che viaggiarono e soggiornarono a lungo in Tibet tra la fine dell’Ottocento e i primi del
Novecento per studiare il Buddhismo Mahayana con dei grandi Lama tibetani, si ha la chiarissima
impressione che quei saggi Maestri (Lama vuol dire saggio), fossero molto cauti e quasi restii a
condividere la loro conoscenza con degli estranei, esemplari occidentali quasi unici che erano
riusciti a raggiungere l’allora quasi inaccessibile Tetto del mondo, con lo scopo di capire qualcosa
di quel Buddhismo tantrico di cui avevano sentito parlare e che li incuriosiva oltremodo.
In realtà i Lama finirono con l’insegnare, ma solo dopo aver sottoposto a determinate prove i loro
futuri discepoli, per poter avere la certezza che ne fossero degni, e che non avrebbero inquinato o
snaturato gli insegnamenti stessi, prendendoli alla leggera, tradendoli, o servendosi di essi per
raggiungere scopi mondani come il successo, il denaro o la fama.
La reticenza dei Lama in questo senso verrà poi sempre confermata dai racconti di viaggi di altri
studiosi che visitarono successivamente il paese delle nevi, come Giuseppe Tucci, durante gli anni
Trenta, Fosco Maraini (suo assistente già alle prime spedizioni), che pubblicò poi Segreto Tibet nel
1951, e Heinrich Harrer, austriaco che, come molti sanno dal suo libro e dal film che se ne fece,
Sette anni in Tibet, divenne l’insegnante d’inglese del Dalai Lama durante la Seconda guerra
mondiale.
A questo punto è indispensabile soffermarsi un attimo su alcuni punti fondamentali del
Buddhismo per poter poi analizzare certi aspetti della situazione tibetana attuale.
Il concetto dell’interdipendenza, detto anche della Vacuità dei fenomeni, cioè della loro nonesistenza inerente e dunque della loro dipendenza da altri fenomeni, è basilare nell’assoluto rigore
con cui viene considerato e trasmesso. Detto questo, si potrà anche capire la ragione per cui i Lama
fossero così poco propensi a trasmettere e divulgare le loro esoteriche esperienze basate sulla
veridicità degli insegnamenti del Buddha storico a persone non affidabili, perché così facendo,
avrebbero causato l’ indebolimento e lo snaturamento degli insegnamenti stessi.
La grande forza e l’aspetto prezioso degli insegnamenti dei Lama è tuttora questo: la loro
coerenza e non contraddittorietà e, da parte dei discepoli, la costante certezza che i Lama stiano
predicando ciò che effettivamente pensano, sentono e fanno. Proprio questa è la linfa che permette
di avere fiducia e di conseguenza, fede.
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Ma questo stesso concetto dell’interdipendenza risulta fondamentale anche mentre cerco di
spiegare certi aspetti dell’attuale situazione tibetana dopo l’inizio delle pericolose sommosse di
Lhasa ai primi di marzo.
Dopo che S. S. il Dalai Lama ricevette il Nobel per la pace nel dicembre 1989 (conferito per la
prima volta nella storia al rappresentante di una nazione asiatica), e dopo i numerosi articoli e
documentari che i media gli hanno dedicato, l’Occidente è perfettamente consapevole della politica
pacifista di non-violenza che il Dalai Lama (capo spirituale e politico del governo tibetano in
esilio), pratica con costante coerenza da 49 anni, da quando cioè fuggì dal Tibet invaso dai cinesi
nel 1959.
All’origine del pacifismo e della non-violenza non può che esserci il concetto
dell’interdipendenza di tutti gli esseri senzienti tra loro.
In altre parole, capendo l’interdipendenza si capirà la non-violenza.
La vera non-violenza deve comprendere l’amorevole gentilezza e la compassione, essendo la
compassione l’essenza dell’insegnamento buddhista.
La compassione è la non sopportazione della sofferenza altrui.
Dunque non si procurerà mai sofferenza ad altri.
Dalla radice della compassione nascerà il comportamento non-violento verso gli altri.
Non si tratta solo di non danneggiare gli altri.
Anche in questo caso esiste un rapporto di causa-effetto.
Ci si comporta in maniera non-violenta pensando all’interdipendenza di causa-effetto.
La legge di causa-effetto, detta anche legge del Karma, stabilisce che ogni azione negativa causerà
sofferenza, e ogni azione positiva: felicità. Siamo sempre noi a porre le cause per i successivi
effetti che subiremo.
In altre parole, il fatto che i tibetani abbiano perso la loro nazione quando vennero invasi dai
cinesi nel 1959, comporta una colpa dei tibetani, una causa che li abbia poi costretti a subire
quell’effetto. Storicamente questa colpa non potrebbe essere l’eccessivo attaccamento che i Maestri
avevano nei confronti del loro sapere esoterico, e la loro reticenza a condividerlo con altri? Essere
cittadini del Tetto del mondo non li rendeva troppo gelosi dei loro poteri, distanti e superiori agli
altri abitanti del globo? Secondo il Buddhismo, i paesi nei quali viene insegnato il Dharma (la
legge, gli insegnamenti del Buddha), sono chiamati “terre centrali” e sono “terre barbare” quelle che
ne restano prive. Il Buddhismo non fa discepoli, ma era forse giunto il momento che molte terre
barbare venissero esposte agli insegnamenti del Buddha? Perché il mondo stava cambiando molto
velocemente? A causa della globalizzazione?
Fatto sta che moltissimi Lama che fuggirono dal Tibet con il Dalai Lama o in tutti gli anni
successivi, andando inizialmente a stabilirsi in India e in Nepal, vennero poi contattati da giovani
occidentali (inizialmente, hippies americani ed europei) che si recarono in quei paesi e, divenuti
loro discepoli, li invitarono poi a stabilirsi nei propri. È così che molte terre barbare europee ed
americane, divennero terre centrali, grazie alla presenza di Lama tibetani stabilitisi in esse.
(Se ci scandalizza il termine “barbaro”, basti ricordare che quel periodo storico che nei libri di
testo italiani ha per titolo Le invasioni dei barbari, in Germania porta l’intestazione: Le migrazioni
dei popoli…).
Sappiamo come molti paesi occidentali siano legati alla Cina da contratti d’affari e come possano
venire ricattati da quella potente nazione qualora commettessero scorrettezze nei suoi confronti.
Una delle peggiori sconvenienze da parte dei paese occidentali, secondo la Cina, è l’accoglienza del
Dalai Lama da parte dei nostri governi. E infatti, questo problema si ripropone ogni volta che S.S.
visiti uno dei nostri paesi per dare insegnamenti a monaci, discepoli o semplici sostenitori.
Da quando esiste l’insegnamento del Buddhismo in Occidente, il Dalai Lama si sente partecipe
dei nostri destini, e karmicamente, quale capo religioso riconosciuto da molti, si aspetta anche un
riconoscimento da parte delle autorità nei suoi confronti.
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Qui di nuovo, a livello vastissimo (ma come con Alexandra Devid-Neel e Lama Govinda), si
ripropone l’urgenza di un segno che possa indicare la corretta “alta” motivazione di discepoli,
sostenitori e studiosi di Buddhismo, piuttosto che un loro secondo fine mondano e venale.
Una bellissima definizione buddhista della pazienza è: pensiero non turbato. Se pensiamo
all’infinito, paziente lavoro, durato quasi cinquant’anni, dall’inizio dell’esilio del Dalai Lama e
degli altri Lama, perché il mondo prenda coscienza dell’invasione cinese del Tibet e della
repressione politica e religiosa nei confronti dei suoi abitanti, possiamo considerare l’insurrezione
di Lhasa dello scorso 10 marzo come un inevitabile segno di protesta affinché “la leadership cinese
cessi di usare la forza e affronti il risentimento a lungo sopito del popolo tibetano attraverso il
dialogo”.
Nel 1987 il Dalai Lama aveva elaborato un Piano di pace in Cinque punti in cui chiedeva la
trasformazione del Tibet in una zona demilitarizzata, la fine della politica di trasferimento della
popolazione cinese, il rispetto dei diritti umani, la protezione dell’ecosistema tibetano e l’avvio di
serie trattative tra Pechino e Dharamsala.
Nessuno di questi punti è stato preso in considerazione dalle autorità cinesi che continuano a
inviare coloni in Tibet con l’intento di raggiungere una popolazione cinese più numerosa di quella
tibetana. Impediscono l’insegnamento del tibetano nelle scuole, e impediscono ai bambini di
studiare nei monasteri da piccoli. Possono farlo solo dopo aver terminato la scuola dell’obbligo.
Non rispettano i diritti umani e il grande timore è che la repressione e lo smembramento della
cultura, della religione e delle tradizioni tibetane proceda indisturbato senza che il resto del mondo
ne venga a conoscenza. Molti boschi e foreste sono stati distrutti per fare incetta di legname, e in
una zona desertica e centrale del paese sono state sotterrate le scorie nucleari di diverse nazioni per
le quali il governo cinese è stato lautamente pagato. Il grave pericolo è che col tempo questi rifiuti
altamente tossici possano inquinare le sorgenti dei grandi fiumi, dal Gange all’Indo allo Yangtze
Kiang (Fiume Azzurro) che nascono tutti dai monti himalaiani.
Ma l’inevitabile risentimento del popolo tibetano che nel marzo scorso ha iniziato a Lhasa il più
grande movimento di protesta degli ultimi vent’anni, porta con sé il grave pericolo che consiste nel
fatto che il Dalai Lama non sia più in grado di controllare una nuova generazione di tibetani
insofferenti del pacifismo e che ha già fondato la Tibetan Youth Congress (Tyc), la più militante fra
le organizzazioni politiche tibetane in esilio. Se ciò dovesse effettivamente accadere, il Dalai Lama
si è già dissociato da questo estremismo (che distruggerebbe tutti i suoi sforzi durati una
cinquantina d’anni), minacciando le sue dimissioni da capo politico della nazione tibetana in esilio
nel caso di una degnazione delle violenze. L’aspetto aggressivo e forse anche terroristico di tale
organizzazione potrebbe essere la causa di ulteriori violentissime repressioni in Tibet e
rappresenterebbe una vergognosa contraddizione nei confronti di tutti gli insegnamenti Buddhisti.
Come ha già raccontato in alcune occasioni Carlo Bultrini su diversi giornali italiani, simili
movimenti potrebbero anche nascondere dei provocatori o degli infiltrati cinesi che fomentano la
violenza, sovvenzionando ad esempio in Tibet i discepoli di Dorje Shugten (uno spirito negativo),
discepoli presenti in numero esiguo anche in India e in Occidente, ai quali il Dalai Lama chiede da
anni di disgiungersi da lui e di non venire ad ascoltare i suoi insegnamenti.
“Per favore, il mondo ci aiuti”, è stato l’appello del Dalai Lana il 30 marzo alla comunità
internazionale, in un momento forse decisivo per il futuro del popolo tibetano e comunque
drammatico e molto pericoloso come questo.
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